Categoria: Opinioni

  • La vita non ha ieri e il domani è già qui

    La vita non ha ieri e il domani è già qui

    «Il Futuro è passato e noi non ce ne siamo nemmeno accorti», dice Vittorio Gassman nel 1974 in C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Un film tanto profetico quanto definitivo sulle “progressive sorti” dell’impegno politico e della visione della storia, del suo divenire, dei destini pubblici e privati di generazioni che volevano tutto e subito.

    cesare-luporini-progresso
    Cesare Luporini interviene al XV Congresso nazionale del Pci (Archivio fotografico del Pci, Fondazione Gramsci)

    Cesare Luporini, a proposito di progressive sorti, afferma che «Leopardi condanna la ragione come facoltà umana sviluppatasi e conquistata col progresso e genitrice di progresso, la ragione che è, nel senso illuministico della parola, filosofia. Questa ragione è facoltà di analisi, calcolo e riflessione. E secondo Leopardi, come riflessione essa arresta l’immediatezza dell’azione e le toglie il carattere eroico; come calcolo produce l’egoismo caratteristico del moderno uomo civile, in opposizione allo slancio, agli impulsi naturali, alle generose illusioni che guidavano i liberi cittadini antichi; come analisi essa scompone le cose (e i sentimenti) e per lei ciò che è grande diventa piccolo e le illusioni si rivelano per tali».

    Il futuro e l’inarrestabile progresso

    Il fluire del tempo, il futuro noi lo si concepiva in un sol modo: come positivo e inarrestabile progresso, certi, forse solo speranzosi o indottrinati, che le contraddizioni economiche e sociali che tale sviluppo avrebbe portato con sé avrebbero rinvenuto nella definizione di un nuovo uomo, di un nuovo sistema di relazioni e gerarchie la sintesi perfetta e lo sbocco del naturale esito delle cose.
    L’impegno, lo strumento, l’orizzonte, la meta, in una sarabanda che incrociava eventi ed esperienze, confronti e soliloqui, certezze e scazzottate: non come eravamo, ma come saremmo stati.

    Uno sguardo a misura d’uomo

    Quando insorse il dubbio, si incrinò la speranza, si abbassò la linea dello skyline? Ciascuno di noi ha un proprio datario, qualcuno anche quello generazionale: alcuni si incrociano, si sovrappongono, altri divergono. Per certo, quando i paradigmi dell’elaborazione, della fede, quella laica, si avvitano su se stessi e il labirinto delle tesi e delle premesse finisce di cozzare di volta in volta contro muri ciechi sempre più respingenti, qualcosa subentra, qualcosa cambia, in corrispondenza altresì di anagrafi e di aggiornamenti, dell’irrompere di nuove culture.
    Magari all’inizio impercettibilmente, poi piano piano in crescendo, si appalesa come sbocco naturale e ineludibile uno sguardo che definire maturo è scontato quanto inadeguato, consapevole altrettanto che maturo: non rassegnato, cioè, e né tantomeno liquidatorio, solo meno ideologico. Insomma, a misura d’uomo.

    L’incarnazione del potere

    Todo Modo di Elio Petri è del 1976. Ed è, ridotto all’osso, una rappresentazione algida del potere e degli uomini che lo incarnavano in quei decenni, dell’”imperativo categorico”, di scardinare quel sistema, di sconfiggere quegli uomini.
    C’è Sciascia, dietro, logicamente, e un uomo di cinema che il cinema lo concepiva come militanza e strumento di cambiamento e di proselitismo, poco importano i rischi di autoreferenzialità, in una sorta di circuito chiuso con spettatori e cultori autocompiacenti.

    todo-modo
    Mastroianni e Volontè in Todo Modo

    Lo presentammo esattamente cinque anni fa. Solo cinque anni fa, già cinque anni fa, accompagnandolo con una ricca discussione, Ugo Caruso, Alfonso Bombini, Franco Plastina e io in un luogo che non c’è più, almeno fisicamente, all’Acquario, a Cosenza.
    Avvertimmo l’esigenza di farlo, forse l’urgenza, e parlammo, davanti a un pubblico devo dire non particolarmente numeroso ma in tutta evidenza molto coinvolto, non solo di cinema.
    Volevamo capire.
    Se e in qual misura ci riuscimmo non so dire, per certo è una esperienza da riproporre, oggi, ovviamente aggiornata: materiale nuovo ce n’è in abbondanza.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

  • Capitale civico, il grande deficit della Calabria maleducata

    Capitale civico, il grande deficit della Calabria maleducata

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    C’è un ritardo in Calabria di cui nessuno parla e che sembra interessare poco tutti gli analisti e gli esperti di sviluppo. Parliamo del capitale civico.
    Un insieme di regole e comportamenti virtuosi, di prassi sociali non codificate, di rispetto implicito dell’altro qualsiasi esso sia, di eleganza sociale legata alla convivenza urbana e rurale. Qualcosa di diverso e, forse, di più importante della semplice e “banale” legalità. Sono regole e prassi che qualificano un territorio e spesso ne marcano la differenza in termini di vantaggio competitivo.

    L’educazione che non c’è

    La Calabria sembra, nella media, drammaticamente priva di questo capitale che spesso rende il nostro territorio non attrattivo.
    La spazzatura non conferita correttamente o lanciata dal finestrino dell’auto, il cameriere sgarbato nella famosa località turistica, il furbetto della fila o del parcheggio, l’arroganza di un medico o di un infermiere al pronto soccorso, i telefoni dei pubblici uffici che suonano a vuoto per ore, le strisce pedonali intese come ostacoli alla pole position di chissà quale Gran Premio… potremmo continuare all’ infinito.

    cosenza-bene-comune-difeso-da-pochi
    Rifiuti nel centro storico di Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    La quotidianità di noi calabresi, ammettiamolo, è caratterizzata da una assoluta mancanza di capitale civico con cui conviviamo quasi rassegnati. Eppure occorrerebbe partire proprio da progetti di rafforzamento di questo specifico capitale per disegnare una nuova stagione o filosofia di interventi. Non ci sono PNRR o POR capaci di incidere concretamente sul territorio se manca questo capitale. Ma in tutti i programmi di sviluppo non vi é traccia di questo enorme problema. A scuola, negli anni 70, si insegnava educazione civica, una sorta di alfabetizzazione giuridica sulla Costituzione della Repubblica italiana. Utile ma non sufficiente.

    Altro che legalità, serve il rating di capitale civico

    Occorrerebbe premiare i comportamenti virtuosi, usare i social come vetrine educative, puntare su rating di capitale civico negli esercizi commerciali, negli uffici pubblici, nella sanità, nelle prassi urbane.
    Non basta un rating di legalità, un certificato antimafia o un DURC a sintetizzare la qualità di un territorio o di un contesto produttivo se, poi, la media dei comportamenti sociali esprime miseria e inciviltà.

    Si può e si deve “vascolarizzare” il tessuto regionale di civismo, di intelligenza sociale, di educazione sentimentale verso gli altri.
    Credo sia questa la vera innovazione, la prima priorità del territorio regionale. Ridurre il gap di capitale civico che ci separa dalle altre regioni. Non solo più ricche o più sviluppate. Solo tristemente più civili.
    Inutile negarlo o autoassolverci: siamo civicamente arretrati.

  • La guerra santa del panino ghiegghio

    La guerra santa del panino ghiegghio

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Ci informa la stampa odierna di esasperate invettive, alcune forse anche mal riportate dai social, di non pochi cittadini e di qualche papas che hanno finito per insaporare le insulse polemiche sollevate per un diffamante… panino “ghiegghio”! Direi che siamo alle solite litanie, arrivando a trattare in maniera ridicola le cose serie e in maniera troppo seria le cose più ridicole.

    Turismo: gli Arbëreshë come la sardella?

    Secondo il comunicato emesso da un «lobbista» (così si autoqualifica) cui è stato incautamente affidata questa sballata campagna pubblicitaria, il panino “ghiegghio” viene addirittura contrabbandato come simbolo arbëresh. Andrebbe così ad aggiungersi agli altri 99 strabilianti MID (marcatori identitari distintivi) , in buona compagnia con le altre 2 minoranze linguistiche storiche regionali. Ma anche in bella compagnia con Pitagora, il bergamotto reggino, la cipolla rossa di Tropea, il pomodoro di Belmonte, la sardella di Crucoli, la nduja di Spilinga, ecc.
    Ad escogitare la lista sembra essere stato con immaginifica fantasia l’assessorato al Turismo della Regione Calabria, che l’ha presentata alla BIT di Milano, nel marzo 2022, per alimentare i flussi turistici nella nostra regione.

    orsomarso-mid-panino-ghiegghio
    L’ex assessore al Turismo, oggi senatore, Fausto Orsomarso presenta il suo progetto sui MID

    Gianluca Gallo e le minoranze

    Invece di assistere a queste regressive polemiche capaci solo di accelerare le battute delle tastiere, basterebbe forse più utilmente chiedere all’assessore regionale Gianluca Gallo, con delega alle Minoranze linguistiche, di provvedere, per rispetto per lo meno del ruolo istituzionale affidatogli nonché per un doveroso riguardo verso le minoranze di cui si deve occupare , di provvedere a cancellare subito le 3 comunità linguistiche minoritarie dall’elenco – questo sì, vergognoso! – dei 100 MID del turismo regionale.

    gianluca-gallo-faccia-angelo-anti-roberto-occhiuto-calabria-fi
    Gianluca Gallo

    Gli arbëreshë, gli occitani e i grecanici non sono dei folkloristici intrattenitori ad alta attrattività e(t)nogastronomica al servizio del turismo calabrese, ma cittadini italiani come gli altri, che aspettano purtroppo invano dopo 75 anni dalla promulgazione della Costituzione e a 25 anni quasi dalla approvazione della legge 482/99, che vengano garantiti loro i diritti a loro spettanti , a partire da quelli linguistici, al pari degli altri cittadini italiani, trattandosi di diritti di uguaglianza – e non certo di privilegi! – che la Costituzione repubblicana garantisce loro.

    Il panino ghiegghio e quello lëtir

    Questi diritti, come ben documenta il volume, edito nella collana “Albanistica” della nostra Fondazione, di Nicola Bavasso, La minoranze “tagliate” della Calabria: gli Arbëreshë. Perché è fallita la legge 482. Possibili strategie di uscita dall’impasse per le minoranze linguistiche interne (Lungro, 2021), sono purtroppo rimasti sulla carta, nell’indifferenza generale. Anche quella di chi ora si occupa e si preoccupa parossisticamente solo di come bisogna chiamare (o non chiamare!) i panini e non certo perché a livello nazionale, regionale e locale – per non parlare della latitanza della scuola pubblica e del servizio pubblico radiotelevisivo – non si applicano in Calabria le leggi che pure ci sono.

    Nel frattempo, in risposta alla proposta del panino “ghiegghio” lanciamo provocatoriamente una parallela e altrettanto ironica campagna per promuovere come arbëreshë un panino lëtir (traducibile in “italiota”).
    Per la stessa azienda proponente avrebbe sicuramente un impatto oltre che gastronomico anche social molto più efficace, oltre che più incisivo e divertente, vista la più vasta e maggioritaria platea di fruitori, senza evocare né “scomuniche” né crociate (preferisco le ottime “crocette di fichi” calabresi)!

    Italiani e arbëreshë

    Ma senza dimenticarci di pensare al nostro futuro, partendo dai seri e solidi progetti in itinere, come la proposta MOTI I MADH ora all’attenzione dell’ufficio UNESCO del Ministero della Cultura. Si è avviato un piano di cooperazione transnazionale con l’adesione del Ministero della Cultura albanese. Vede l’intera minoranza arbëreshe d’Italia rappresentata, con l’adesione da ben 53 comunità del nostro Meridione attraverso il coordinamento della Fondazione universitaria Papas Francesco Solano, perché la straordinaria cultura immateriale espressa nei secoli dagli Arbëreshë d’Italia abbia finalmente il riconoscimento dovuto attraverso l’iscrizione delle pratiche rituali italo-albanesi della primavera nel registro delle buone pratiche dell’UNESCO.

    cerzeto_arbereshe
    Vallje, danze arberëshë, a Cerzeto (CS)

    È ora di uscire dall’inverno delle polemiche inutili e dannose e di pensare alla primavera della nostra rinascita. Lasciamo ai creativi imprenditori del fast food regionale di offrirci, se vogliono, i panini con o senza ghiegghi oppure lëtinj: ma poi è davvero importante sapere come un fast-food lëtir vuole chiamare i suoi panini?
    Restiamo comunque sempre e comunque orgogliosamente italiani e arbëreshë! E nella storia, se qualcuno ne dubita, lo abbiamo anche concretamente dimostrato sul campo e non con le tastiere dei PC, dei tablet o degli smartphone!

    Francesco Altimari
    Presidente Fondazione Universitaria “F.Solano” – Docente Unical

  • La mia Cristina

    La mia Cristina

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Era un buco assurdo il garage dove abbiamo fatto nascere, come un figlio, il primo Quotidiano, all’inizio di Cosenza, poi della Calabria (oggi Quotidiano del Sud).
    Sulla porta del bagno minuscolo un collega spiritoso, mi pare che fosse Franco Ferrara – rientrato dal nord per partecipare alla nuova impresa, – aveva scritto “chiamate internazionali”. Io e Cristina siamo diventate amiche da subito, avevamo un’intesa profonda e la prova del nostro legame l’ha data il tempo. Non si è mai affievolito. Dal 1995 a poco fa e per sempre.

    Per gli altri

    Il nostro primo direttore è stato Pantaleone Sergi, all’epoca inviato speciale di Repubblica. Era inebriante fare un giornale ben curato, di personalità, di bella penna e agguerrito sulla cronaca. Il primo numero uscì con uno scoop della cronista Mara Martelli, che tramortì la concorrenza: il pentimento del boss Franco Pino. Insieme con i nostri collaboratori eravamo sguinzagliati in città, all’università, nelle caserme, nei teatri ed eravamo così entusiasti che non contavano le ore di lavoro, giorno e notte. Ogni volta che scrivevamo un pezzo su un fatto che ci coinvolgeva o ci turbava particolarmente, una strage familiare, storie di miseria e efferatezza, o anche il racconto di un luogo, o un pezzo culturale, era naturale leggerci a vicenda prima di pubblicare.

    Cristina aveva il mestiere dentro, aveva fatto un corso a Roma e possedeva il sacro fuoco. Imparò subito a concepire e disegnare le pagine, lavorando accanto a Lucia Serino -già giornalista professionista e con un bel background,- tanto da diventare in breve tempo un punto di riferimento. Ha scritto troppo poco rispetto a quanto avrebbe dovuto. Tutta protesa per gli altri, impegnata nella fattura quotidiana del giornale, un lavoro immane, finiva per avere poco tempo e lei non ci stava a scrivere due righe tanto per farlo. In ogni cosa metteva qualità e soprattutto nella scrittura sarebbe stato necessario farlo.

    L’esempio della grazia

    È difficile parlare della collega Cristina Vercillo, perché innanzitutto ho perso una persona cara. Prima che la malattia la fiaccasse fino a non darle più la forza di parlare al telefono, facevamo chiacchierate lunghissime. Parlavamo di libri, dei fatti del giorno, di film, di alimentazione oncologica, di fastidiosi effetti collaterali, con la voglia di scambiarci opinioni e consigli su ogni singolo argomento, senza cambiare tono, senza scomporci. Anzi, alcuni fatti politici nazionali e internazionali riuscivamo ad indignarla assai, a farle vibrare le parole per poi tornare alla melodia vocale che la contraddistingueva, lei che prima di scegliere il giornalismo era stata pianista.

    Cristina era così. Curiosa, colta, aggiornata, dotata di spirito critico, di una visione pluriangolare delle cose, cauta, mite, coerente e disposta a sacrifici e rinunce inenarrabili pur di continuare ad essere quella che era. Parlare con lei è sempre stato come farlo con me stessa. L’unica accortezza era di non essere troppo brusca perché Cristina è l’esempio della grazia, ed è sempre ritornata in un carapace irraggiungibile dinanzi ad ogni forma di aggressività.

    Un mistero. Mantenere, da caporedattore centrale, gli equilibri di intere redazioni, che in alcune fasi sono come miniere, controllare ogni virgola del giornale, moltiplicare l’udito e lo sguardo, tamponare ogni intemperie e poi essere naturalmente una creatura delicata e sensibile. È stato duro il distacco da lei quando sono andata via dal Quotidiano, verso altre esperienze professionali. E quando sono tornata a prestare la mia collaborazione per la cura di rubriche e delle pagine culturali della Domenica, (chiamata dal direttore Ennio Simeone prima e dal direttore Matteo Cosenza e dal caporedattore Lucia Serino poi), la mia amica Cristina era felicissima.

    È stata lei ad accompagnarmi in Umbria quando mi sono sposata. Ammiravo il suo senso d’orientamento, il viaggio era un’altra cosa che aveva dentro, che amava. Io, lei, Gabriella d’Atri. Piano piano, chilometro dopo chilometro, a raccontarci, a ridere. Loro emozionate quanto me. Da quel momento in poi le noie, le delusioni, le sofferenze sul lavoro (che pur ci sono) sono diventati discorsi tra amiche più che tra colleghe. Sfoglio i vecchi album e sorrido, nelle poco foto in cui compare si copre il viso. È proprio lei, bella, una gran classe, sempre dietro le quinte.

    I suoi affetti

    Ci siamo sempre fidate ciecamente l’una dell’altra e oggi che leggo tante testimonianze sul suo eccezionale modo di essere, sulle eccelse qualità professionali, sono orgogliosa e penso a suo padre, il dottore Giuseppe Vercillo, a sua sorella Roberta, ai suoi amati nipoti Alessandro, GianMarco, Emanuela e a queste carezze dell’anima che gli sono giunte. Che possano portare loro un po’ di sollievo dinanzi a un dolore sconfinato! In ogni telefonata c’erano loro, i suoi affetti. Suo padre sempre accanto.

    La vita è beffarda. Quando ho combattuto io contro il mio alieno, Cristina c’era. Poi è toccato a lei. Ancora non posso crederci.
    I nostri alieni erano diventati amici come noi. Parlavamo di terapie, spirito di sopportazione, medicamenti con grande naturalezza. E la paura… sì, quella era onnipresente ma eravamo bravissime a lasciarla in un angolo e a confidarci un peccato di gola, alla faccia della dieta oncologica, o il desiderio di un viaggio, di una lettura, di tante cose che avremmo potuto fare…. No, non posso credere che Cristina non sia più su questa terra. Pensare alla sua forza nella sofferenza è un cortocircuito di ammirazione e dolore profondo.

    Anima bella

    Ho scritto queste righe perché so che a lei farebbe piacere leggerle, nonostante la sua proverbiale riservatezza, perché Cristina sa che arrivano da un sentimento vero e senza tempo, senza luogo. Durante la malattia era contenta di ricevere i messaggi affettuosi. Ascoltava tutti, leggeva tutti. Avrebbe apprezzato i saluti di tanti colleghi che sono piovuti sui social e sulle varie testate. Laura De Franco l’ha chiamata anima bella. E così è. Quando ho ricevuto, la sera di Santo Stefano, la notizia della sua morte dalla nostra amica Marienza, un angelo che le è stata accanto fino all’ultima fiammella, è stato come essere trafitta da una stalattite.
    In quel momento l’ho immaginata abbracciata a sua madre Flora. Strette strette.

  • Ospedale e facoltà di medicina: la Sanità del tutti contro tutti

    Ospedale e facoltà di medicina: la Sanità del tutti contro tutti

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    La Calabria dei campanili è sempre pronta alle battaglie fratricide. Accade così che l’annuncio della nascita di una nuova facoltà di medicina presso l’Unical, susciti le urla di sdegno dell’università di Catanzaro, che pure non vedrà sguarnita la sua offerta formativa. A guidare il campanilistico malcontento catanzarese sono i politici della città, in modo del tutto trasversale, dalla parlamentare Wanda Ferro a Nicola Fiorita, che prima di diventare sindaco insegnava proprio all’Unical, passando per gli altri due ex candidati a guidare Catanzaro: Valerio Donato e Antonello Talerico.

    unical
    L’Università della Calabria

    Le preoccupazioni catanzaresi sono del tutto evidenti: fin qui una sola facoltà di medicina non trovava concorrenti nel raccogliere iscritti, da domani invece ci sarà da sgomitare, ma forse nemmeno tanto, se i numeri che circolano sono esatti e raccontano di una significativa quantità di studenti calabresi che si iscrivono a facoltà di medicina fuori dalla regione.

    Una questione politica (e non solo)

    Del resto è difficile non valutare positivamente l’aver gettato il seme che potrebbe alleviare la tragedia in cui versa la sanità calabrese, visto che una facoltà di medicina apre a futuri scenari importanti in termini di miglioramento complessivo della qualità dei servizi. Basti pensare al collegamento tra la facoltà e il nuovo – e ancora ipotetico – ospedale di Cosenza, che diventando policlinico universitario, godrebbe di competenze di primo livello. Poiché la cronaca certe volte vuole diventare ironica, a portare a casa il risultato della nascita di una nuova facoltà di Medicina è stato un presidente cosentino della Regione, di cui ancora si rammentano le parole di plauso per la chiusura di 18 ospedali.

    ospedale-cosenza-giovane-mamma-salvata-medici-neurochirurgia
    L’ingresso del vecchio ospedale dell’Annunziata a Cosenza

    E qui nuovamente si apre l’altra partita, apparentemente campanilistica, ma in verità del tutto politica. Infatti l’annunciata apertura della nuova facoltà di Medicina all’Unical rimette in discussione la scelta dell’area dove edificare il nuovo ospedale. Nel meraviglioso mondo della teoria il Comune di Cosenza avrebbe indicato la zona di Vaglio Lise, mettendo da parte la zona di Contrada Muoio che invece piaceva all’ex sindaco della città. Tuttavia il crudele mondo della realtà frappone non pochi ostacoli alla sua realizzazione, basti pensare che quei terreni sono della Provincia, e ancora non è chiaro se li abbia già ceduti allo scopo.

    I cugini di Campagnano

    All’orizzonte spunta un nuovo motivo per mettere in discussione la scelta fatta dal consiglio comunale di Cosenza: che senso avrebbe edificare un nuovo e moderno ospedale lontano dalla facoltà di medicina? Ed ecco che il rigurgito del mai sopito campanilismo tra Rende e il capoluogo è già pronto a riaffiorare.

    La questione va assai oltre uno scontro tra campanili, perché con tutta evidenza la nascita di un nuovo ospedale comporterebbe la crescita tutt’attorno di servizi ed infrastrutture che porterebbero economie al territorio. Per Cosenza non si tratterebbe della perdita di un “pennacchio”, ma di opportunità materiali. D’altra parte non si è mai vista una facoltà di Medicina separata dal nosocomio.

    La matrioska dei campanilismi

    A ben guardare, quindi, la nascita di Medicina all’Unical riapre i giochi e pone prepotentemente Arcavacata in cima alle possibilità di scelta: un luogo baricentrico nella già concreta idea di area urbana, rapidamente raggiungibile perché servita dall’autostrada, senza contare che i terreni su cui l’ospedale sorgerebbe potrebbero essere quelli già in possesso dell’università. Tutte ragioni che razionalmente dovrebbero spazzare via altre ipotesi.

    Il campanilismo è come una matrioska: c’è quello tra Cosenza e Catanzaro e più dentro quello tra Cosenza e Rende e più dentro ancora quello tra i politici che devono decidere.
    Ma ci sarà tempo per le barricate e le grida, perché intanto il nuovo ospedale è solo una bella intenzione. E, come dice il proverbio ebraico, «mentre gli uomini progettano, Dio ride».

  • I tanti volti del Qatargate: mele marce, lobbies e moralismo

    I tanti volti del Qatargate: mele marce, lobbies e moralismo

    A leggere alcuni commenti sembrerebbe che ci sia stato un colpevole deficit di omesso controllo a determinare gli episodi che sono sfociati nel Qatargate.
    La Questione Morale, così come definita da Berlinguer nell’intervista a Scalfari di qualche decennio fa, funge da sfondo ed è diffusamente evocata, con un sottaciuto sconfinamento nel giustizialismo che tutti vorrebbero espungere ma di volta in volta fa capolino.

    Berlinguer - Scalfari-qatargate
    Enrico Berlinguer con Eugenio Scalfari

    Dalla questione morale a quella moralistica

    Quando il mondo era diviso fra buoni e cattivi, ed era inequivocabile cosa si intendesse per gli uni e per gli altri, risultava facile schierarsi, troppo facile e nei fatti inconcludente da un punto di vista politico, con evidenti venature di moralismo e di (presunta) superiorità, stante l’inerzia, l’indifferenza, ideologici e istituzionali, che conseguivano a siffatte posizioni.
    Da Berlinguer ai giorni nostri molta acqua è passata sotto i ponti. E a poco a poco la questione da morale è stata derubricata in moralistica rivalutando così la mano libera e la (presunta) superiorità, se non alterità, della politica di fronte di ogni altra categoria.

    Etica e politica, destra e sinistra

    Senza risalire a Machiavelli e a Lincoln basterà ricordare Popper, che attribuiva alla politica un solo obbligo e un unico corrispondente limite, quello di osare, osare cambiare e ricercare sempre nuovi orizzonti, nuovi paradigmi. Per il bene comune, s’intende. Per quanto riguarda valori, capisaldi, tratti fondativi etici cui rifarsi l’orizzonte invece rimaneva, e rimane, indistinto.

    karl-popper-orig
    Il filosofo Karl Popper

    D’altro canto, quando gli scandali scoppiano a destra la risposta è una generale alzata di spalle, a significare: È il loro mondo, cosa c’è da aspettarsi di diverso. Per l’altra parte dello schieramento è diverso: se pure, ormai da tempo, non sono più isolati i casi che coinvolgono esponenti, pure importanti, della sinistra nelle sue varie declinazioni, la notizia fa sempre rumore, è considerata con scherno e derisione, fra lo sgomento dei militanti e qualche distinguo imbarazzato.

    Così che immediato è il rimando esplicito – non già alla definizione di destra e di sinistra e di come nel tempo entrambe abbiano conservato e mutato caratteri distintivi e finanche fondativi – per un verso al dibattito sugli appuntamenti congressuali del Pd e per un altro alla selezione delle classi e più specificamente dei gruppi dirigenti, di partiti e nella società in generale.
    Tutt’e due i versi sono ovviamente connessi fra di loro ma forse conviene tratteggiarli distintamente per abbozzare poi una sintesi.

    bonaccini-schlein
    Nella corsa alla segreteria del Pd si prospetta un derby emiliano tra il governatore Stefano Bonaccini e la sua ormai ex vice Elly Schlein

    Niente più filtri

    Chi seleziona e a quali fini un insieme di rappresentanti apicali all’interno di una comunità, attraverso quali meccanismi e avvalendosi di quali strumenti di controllo? Si corre il rischio d’incorrere in passatismo ma d’altronde così è: è che i filtri un tempo erano più d’uno e variavano da corrispondenza fra profili personali e identità collettive, capacità dei singoli rispetto agli obiettivi di media scadenza, istituti di vigilanza e intervento. Con tante eccezioni, per carità… , accomodamenti e ipocrisie ma nella sostanza è difficile non riconoscersi in quel sistema, che il sistema s’era dato.
    Anche qui, come in tante altre cose, il tempo ha fatto tabula rasa: si procede per appartenenze a cordate e lobbies, a difesa di postazioni di potere e controllo, molto in odore di resilienza se non di conservazione, al netto, s’intende degli interessi personali, quelli pecuniari, che spesso appaiono addirittura prevalenti.

    Molto rumore per nulla

    Nella discussione, a volte fin troppo chiassosa senza per questo essere convincente, che si sta sviluppando sul Pd che nel 2022 si dice si dovrà dare un’anima, un volto, una missione, qualcuno ha preso posizione sui sacchi di soldi scoperti a Bruxelles. Prendendo le distanze, irato, allarmato, c’è chi ha scoperto la mela mercia nel cesto generalmente buono: non si ravvisano, nel contempo, riflessioni né su chi ce li ha mandati lì, quelli, e per fare cosa; né, ed è ancora più grave, cenni su come certe cose pure un tempo si facevano quasi come se fosse una regola non scritta, parte di una realtà parallela e nascosta, e invece così non era. D’altro canto le mele marce non nascono da sole, marce.

    andrea-cozzolino-quatargate
    Andrea Cozzolino, europarlamentare sospeso dal Pd dopo lo scandalo Qatargate

    La storia è andata e va avanti

    Il Congresso, per finire: qualora dovesse prevalere la posizione di richiamo a una certa sinistra che Togliatti stesso, oggi, definirebbe (ancora!) carica di aporie, vorrà dire che la storia nulla ha insegnato, e questo si sapeva abbondantemente. Ma, c’è di più, significherà rintanarsi dentro una gabbia di parole d’ordine improntate a riflessi condizionati di categorie che con la politica hanno poco da spartire, anzi per dir meglio: con una certa politica.
    Mentre la storia va avanti, e chi sa chi la scriverà: la politica sempre più dovrà fare i conti con meno ideologie e più laicismo, le sue (presunte) capacità cibernetiche lasciarle ai tempi che furono. Solo ci vorrebbe qualche punto etico cui ancorarsi.

    Massimo Veltri
    Professore ordinario all’Unical ed ex senatore della Repubblica

     

  • Ponti: la Calabria marginale tra oblio, paura e utopie

    Ponti: la Calabria marginale tra oblio, paura e utopie

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    Se dovessi pensare a un’immagine della Calabria da trasmettere come metafora della realtà socio-politica del nostro tempo opterei per quella dei suoi ponti. Tre nello specifico, anzi due ponti e un viadotto. Tre ponti di cui uno dimenticato e sconosciuto, un altro che ogni tanto rimbalza sulle pagine della cronaca e l’ultimo famosissimo ma anche futuristico, quindi inesistente. Ponti specchio di come questa regione è amministrata, ma allo stesso tempo di quanto stia poco a cuore ai suoi abitanti, sempre più lontani da una presa di coscienza oggettiva di quello che è il bene comune. Gente sempre più impegnata a perorare interessi privati, intenta a coltivare orticelli secondo quella logica del familismo amorale che, di fatto, ha determinato la marginalità della Calabria.

    Ponti del diavolo: la Calabria in buona compagnia

    I ponti sono strutture pensate dall’uomo per aprire nuove vie di comunicazione, superando ostacoli che s’interpongono alla continuità della viabilità. Opere d’ingegneria che, in Italia come nel resto del mondo, segnano anche mete turistiche. Perché, oltre la funzione pratica, i ponti parlano di storia, dell’evoluzione di una società. I ponti uniscono lembi di terra distanti geograficamente e avvicinano strutture sociali diverse.

    ponte-diavolo-civita-calabria
    Tra i ponti più famosi in Calabria c’è quello del Diavolo a Civita (CS)

    Nel resto d’Italia i ponti storici più famosi, solo per citarne alcuni, sono quello di Rialto a Venezia, Ponte Vecchio a Firenze, Ponte Sant’Angelo a Roma. Nel Cosentino abbiamo il Ponte di Annibale a Scigliano, monumento nazionale di epoca romana (II sec. A.C.), il suggestivo Ponte di Tavolaria a Marzi, edificato intorno al 1592, e il famoso Ponte del Diavolo a Civita che, secondo una recente documentazione, può essere datato intorno al 1840.
    In realtà ogni regione che si rispetti sembra debba avere un suo ponte del diavolo, dal Friuli al Veneto, passando per Piemonte, Toscana, Emilia, Lazio. Ognuna rivendica una leggenda che mette in relazione la capacità del demonio di costruire laddove per gli uomini è impossibile.

    Griffe e fiducia cieca 

    Poi ci sono gli altri ponti, quelli che gli automobilisti percorrono ogni giorno. Per citarne qualcuno ricordiamo il Viadotto Italia che attraversa i comuni di Laino Borgo e Laino Castello, il Viadotto Sfalassà sull’autostrada nei pressi di Bagnara Calabra, il Viadotto Fausto Bisantis, detto anche Ponte Morandi a Catanzaro. Spesso ne ignoriamo lo stato di salute e non possiamo fare altro che fidarci del fatto che siano aperti alla viabilità.

    calatrava-cimolai-vuole-altri-20-milioni-ponte-cosenza
    Il ponte di Calatrava a Cosenza

    In Calabria possiamo anche vantarci di avere un ponte griffato dal famoso architetto Santiago Calatrava. Lo hanno inaugurato nel 2018 in pompa magna con effetti speciali da far venire in mente Rutger Hauer in Blade Runner e la sua  «Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste neanche immaginarvi». Resta solo da capire la funzione di un ponte che in realtà più che a unire è riuscito a dividere una città intera, ma questa è un’altra storia.

    Tre ponti simbolo della Calabria

    Torniamo invece ai tre ponti simbolo della nostra realtà territoriale. E spostiamo, quindi, l’attenzione sul Ponte della Cona, costruito sul finire del 1700 nel comune di San Giovanni in Fiore, sul Viadotto del Cannavino, realizzato negli anni ‘70 del secolo scorso sulla SS 107 Silana Crotonese nei pressi del comune di Celico alle porte di Cosenza, e sul tanto discusso Ponte sullo Stretto, il cui primo progetto risale al 1969. Quest’ultimo, per il momento, riesce solo a unire nelle polemiche il dissenso e l’approvazione, il buonsenso e la sconsideratezza.

    I tre ponti in questione sono l’immagine del passato, del presente e del futuro. Il passato è abbandonato a se stesso, immerso nel degrado di un luogo che ha perso ogni contatto con il centro abitato e difficilmente raggiungibile. Il presente vive una situazione di precarietà e di pericolo che non fa ben sperare sulle sorti della sua stessa stabilità, e quindi sulla sicurezza di chi lo attraversa. Il futuro è incerto. E, soprattutto, appare come il luogo ideale per chi, da sempre, è alla ricerca di certi consensi personali o elettorali.
    Benvenuti in Calabria, dunque, dove il passato è stato dimenticato, il presente vacilla e il futuro è illusorio e fuorviante. L’immagine di questa terra è quella di una cultura dimenticata, di una società governata da un’imperante negligenza e di un avvenire costruito da accurate e ben orchestrate narrazioni utopistiche.

    Registi in fuga dalla Storia

    Il Ponte della Cona è una struttura a due arcate, con le volte a pietra incastrate fra loro e tenute insieme da uno strato di malta a base di calce. Anticamente era l’unico accesso al centro di San Giovanni in Fiore. Sul ponte transitarono anche i Fratelli Bandiera dopo la cattura in località Stragola, distante poco più di dieci chilometri dal centro abitato.
    Si giunge al ponte dopo aver percorso una ripida discesa e sembra quasi di fare un salto indietro nel tempo di almeno duecento anni. Una fitta vegetazione di betulacee, nello specifico ontani, costeggia il sottostante corso del fiume Neto. Insieme agli alberi anche i rifiuti si estendono lungo il fiume. E il ponte subisce i segni del tempo, tanto che da oltre un decennio c’è un divieto di transito per i mezzi e i pedoni.

    Ponte-Cona
    Il Ponte della Cona nei pressi di San Giovanni in Fiore

    Ma chi se ne importa, il sito è ormai relegato ai margini della città e per essere sicuri non ci sono indicazioni che suggeriscano come raggiungerlo. Almeno così si può essere certi del fatto che nessuno chiederà nulla su alcuni sversamenti sospetti provenienti da condotte non canalizzate che confluiscono direttamente nel fiume. Di questo non potrà dare conto neanche il registro dei tumori perché in Calabria c’è ma è come se non esistesse.
    Qualche mese fa un regista ha fatto un sopralluogo in zona: voleva girare alcune scene di un film, ma poi è scappato a gambe levate spostando il lavoro della troupe verso l’Italia centrale. Altre regioni avrebbero trasformato quest’antico manufatto in una meta turistica, creando un indotto economico. L’idea di costruire un’industria culturale non è cosa che pare appartenere ai calabresi: meglio piangersi addosso o emigrare.

    ponti-calabria-cona
    Rifiuti abbandonati ai piedi del Ponte della Cona

    L’eterno rattoppo

    Il Viadotto del Cannavino è nato sotto una cattiva stella: due operai nel 1972, durante la costruzione, persero la vita a causa di un cedimento del ponte. Da allora il viadotto non è mai stato sicuro, presenta un’accentuata deflessione che preoccupa. Fiumi di denaro pubblico continuano a essere spesi per incessanti manutenzioni che, con molta probabilità, non riusciranno mai a rendere sicura la struttura. All’orizzonte si prospetta, addirittura, l’ipotesi di un abbattimento e un rifacimento. Chiusure totali o parziali e aperture temporanee non fanno altro che peggiorare la già difficile situazione viaria di una regione sempre più dissestata e violata da politiche territoriali inconcludenti e incompetenti.
    Diciamo pure che per il momento il Cannavino barcolla ma fortunatamente non molla.

    Così lontane, così vicine

    E per finire la ciliegina sulla torta: un fantascientifico ponte che possa collegare in maniera diversa, più moderna – almeno così dicono – la Calabria alla Sicilia. Non bastano i pareri di esperti che, in tutti i modi, cercano di dimostrare i rischi di un’opera tanto dispendiosa quanto tecnicamente pericolosa. Senza scendere in tecnicismi da addetti ai lavori, a noi comuni mortali basta solo dire che l’economia calabrese per ripartire non ha bisogno dell’apertura di utopistici cantieri attorno ai quali potrebbero concentrarsi ulteriori interessi di malaffare. Si avverte, invece, il bisogno di una politica dignitosa in grado di dare un minimo di normalità a questa terra.

    ponti-calabria-stretto-messina
    Una delle ipotesi progettuali per il mai realizzato ponte sullo Stretto

    Non abbiamo bisogno di avvicinarci alla Sicilia, anche perché non siamo mai stati lontani. C’è, però, la necessità di collegare i piccoli centri alle città, di avere la certezza che le strade interne non siano il luogo dove fare la conta dei “caduti”. Servirebbe avere finalmente la tranquillità di sapere che un’ambulanza potrà raggiungere un ospedale nel minor tempo possibile. Non abbiamo bisogno di dimostrare al mondo di essere capaci di avviare opere faraoniche se non abbiamo prima strade, ferrovie e aeroporti sicuri e funzionanti.

    I ponti che servono alla Calabria

    Si avverte il bisogno di valorizzare il nostro patrimonio storico, naturale e artistico, compreso il Ponte della Cona, perché è anche su questo che dovrebbe basarsi la nostra economia. I calabresi hanno la necessità di percorrere il Viadotto del Cannavino senza doverlo fare col fiato sospeso.
    La Calabria ha bisogno di un unico grande ponte capace di congiungere la dignità politica con la bellezza di un territorio in balia di brame personali. Un ponte che faccia transitare le persone sulla strada della consapevolezza e dell’autocritica, perché tutto ciò che noi abbiamo è il frutto delle nostre singole scelte. Ogni calabrese è responsabile della costruzione di tutti i ponti di collegamento tra il personale e il politico.
    Solo questa consapevolezza potrà ristabilire condizioni di autodeterminazione, libertà e dignità personale e collettiva.

  • La città delle donne? Qui in Calabria non c’è, ma si può fare

    La città delle donne? Qui in Calabria non c’è, ma si può fare

    «Stai attenta. Fatti riaccompagnare, se fate tardi. Quella strada è pericolosa se sei da sola, soprattutto la sera. Allunga il passo e non rispondere».
    Questi sono alcuni dei moniti che le ragazze iniziano a sentirsi ripetere appena sono abbastanza grandi da poter uscire e sperimentare gli spazi urbani senza la supervisione dei propri genitori o di altri adulti. Quando passeggiamo da sole, soprattutto in alcuni quartieri e soprattutto dopo il calar del sole, mettiamo in atto un meccanismo di autodifesa automatico che dovrebbe tutelarci dalle molestie in strada. Che siano verbali o fisiche, dal catcalling ai palpeggiamenti nei mezzi pubblici finanche allo stupro, le molestie rappresentano un rischio costante alla base di un’ansia generalizzata e spesso normalizzata che circonda le donne di ogni età.

    Queste premesse sono utili per capire la sorpresa quando, a distanza di un mese dal mio trasferimento da Cosenza a Vienna, dissi a un’amica di sentirmi estremamente sicura nella nuova città. Avevo dimenticato di mettere in valigia quelle preoccupazioni o in questa città c’è qualcosa di diverso? Parlando con altre donne che vivono qui ho scoperto trattarsi di una sensazione abbastanza diffusa. È un caso o, al contrario, è il risultato di un progetto ben preciso? Le risposte sono due: gender mainstreaming e femminismo urbano.

    Gender mainstreaming e femminismo urbano

    Per gender mainstreaming intendiamo un approccio strategico gender-oriented alla definizione, alla scrittura, all’attuazione e alla valutazione delle politiche pubbliche. L’obiettivo è quello di combattere le diseguaglianze di genere in ogni ambito della società, a partire dalle norme che regolano la società stessa.
    Ma il femminismo urbano, invece? Prima di rispondere facciamo un passo indietro e chiediamoci cosa sono le città. Un insieme di edifici e strade? La riflessione sulle città inizia con i processi di urbanizzazione durante la rivoluzione industriali.

    I primi sociologi, per esempio, iniziarono a riflettere sugli effetti dell’urbanizzazione sulle persone e sulle loro relazioni sociali. Già nell’Ottocento era chiaro che negli spazi urbani i mattoni non sono solo mattoni. Oltre agli aspetti quantitativi che le definiscono, come le dimensioni e la densità della popolazione, le città sono costituite dalla stratificazione sociale di gruppi con caratteristiche diverse e tra i quali esistono forme di disuguaglianza. Il femminismo urbano, come si può prevedibilmente intuire dal nome, ha come focus principale le diseguaglianze tra uomini e donne.

    Le città e i pericoli per le donne

    La geografa Leslie Kern, nel saggio La città femminista. La lotta per lo spazio in un mondo disegnato da uomini, mostra come le città contribuiscano a plasmare i rapporti sociali. L’ansia e la paura per gli approcci sessuali non richiesti e le molestie di cui parlavamo prima, ne sono un esempio. Kern spiega come le città siano percepite e fatte percepire come luoghi pericolosi per le donne.

    leslie-kern-citta-donne
    Leslie Kern

    «Molestie e approcci sessuali non richiesti nutrono questa paura: le donne si sentono costantemente sessualizzate, oggettivate e a disagio», ma questa paura è proiettata all’esterno e non verso la casa o la famiglia. «Al contrario la violenza domestica, gli abusi su minori e altri crimini ‘privati’ molto più diffusi ricevono decisamente meno attenzione». «Il lavoro qualitativo femminista sulla paura delle donne nelle città rivela quelli che sembrano problemi contraddittori e insormontabili: le donne hanno paura negli spazi chiusi e aperti, nei luoghi affollati e in quelli deserti; sui mezzi di trasporto e mentre vanno a piedi; sole sotto una luce intensa o invisibili nel buio».

    Sicurezza non è solo controllo

    Che fare? Una risposta semplice potrebbe essere il ricorso a un approccio securitario ma, come evidenzia la stessa Kem, «l’aumento della sorveglianza statale e aziendale, la polizia militarizzata e la privatizzazione dello spazio pubblico, hanno la stessa probabilità di diminuire la sicurezza per gli altri», laddove con altri ci riferiamo ad altri gruppi sociali marginalizzati come i migranti o gli appartenenti a gruppi etnici minoritari.

    unical
    L’Università della Calabria

    Nei miei anni da studentessa all’Università della Calabria, per esempio, ricordo nitidamente le richieste di alcune associazioni studentesche come RDU di aumentare la videosorveglianza e la vigilanza per garantire più sicurezza. Era questa la risposta ai casi di molestie o aggressioni ai danni delle studentesse dell’ateneo. Si sollevarono discussioni in merito, ma la domanda di fondo restava una: si possono garantire spazi più sicuri per le donne senza ricorrere a svolte securitarie?

    Bisogni differenti

    Vienna, in questo senso, mi ha dimostrato che gender mainstreaming e urbanismo femminista possono lavorare assieme per creare una città vivibile e inclusiva. Tutto ebbe inizio nei primi anni Novanta con l’idea di disegnare una città che funzionasse tanto bene per gli uomini quanto per le donne. La prima domanda essenziale fu: quanto diversi sono i bisogni degli uomini e quelli delle donne in città? Nel 1991 Vienna condusse un primo studio per valutare come variasse l’uso di mezzi di trasporto in base al genere e ne emerse che gli uomini quotidianamente si spostano soprattutto in bici e in auto mentre le donne prediligono i mezzi di trasporto pubblico e due terzi dei pedoni sono donne.

    Nello stesso anno Eva Kail e Jutta Kleedorfer, due urbaniste, organizzarono una mostra fotografica chiamata Wem Gehört Der Öffentliche Raum? Frauenalltag in Der Stadt (Chi possiede lo spazio pubblico? Vita quotidiana di una donna in città), in cui veniva documentata la quotidianità di varie residenti appartenenti a classi sociali diverse. Per esempio, si passava dalla vita di una giovane studentessa a quella di una signora anziana passando per una migrante turca casalinga. Ciò che ne emerse era l’esigenza per tutte di vivere spazi più sicuri e in cui fosse più facile muoversi.

    Città su misura (anche) delle donne

    Nel 1999 fu condotto un nuovo studio per capire come e perché i residenti viennesi attraversassero la città. La routine maschile era abbastanza semplice, gli uomini si spostavano prevalentemente tra casa e lavoro. Gli spostamenti delle donne, al contrario, erano vari e coinvolgevano l’accompagnare e il riprendere i figli da scuola, le spese per negozi e supermercati, le visite mediche per la famiglia e le visite familiari agli anziani. Si è così iniziato a lavorare seriamente sull’accessibilità, la sicurezza e la facilità di movimento. Per esempio, hanno migliorato l’illuminazione stradale in modo che sia più sicuro camminare di notte, ampliato più di un chilometro di marciapiede e introdotto semafori a misura di pedone. In Italia, in Calabria – e a Cosenza in particolare – non mi sembra siano stati condotti studi tanto mirati, ma possiamo riflettere su alcune informazioni.

    autostazione-cosenza-quartiere-multietnico-due-passi-centro
    L’attesa del proprio bus all’autostazione di Cosenza

    Per esempio, è facile intuire che le routine di spostamento di una donna viennese e di una donna cosentina siano più o meno simili: sulle donne grava maggiormente il lavoro invisibile ed il lavoro di cura, quindi, saranno le donne a spostarsi per accompagnare i figli a scuola, a fare sport e saranno soprattutto le donne ad occuparsi delle spese e delle altre attività connesse al lavoro di cura. Eppure, è possibile a Cosenza muoversi agevolmente solo attraverso i mezzi pubblici? Dalla mia esperienza personale, di donna sprovvista di un’automobile, posso dire di no. E quali sono le condizioni dei marciapiedi? Una persona che porta un passeggino riesce a muoversi tranquillamente in città?

    Aspern, un quartiere al femminile

    Ma non si tratta solo di interventi di illuminazione o di sicurezza pubblica. Si è condotto uno studio sui visitatori dei cimiteri, in cui è emerso che sono in maggioranza donne anziane. Per adattare i cimiteri alle loro esigenze si è iniziato a lavorare si è iniziato a lavorare ad una segnaletica ben visibile, all’installazione di servizi igienici sicuri e all’aumento delle panchine.
    Nel 2015, invece, le giovani ragazze di una scuola vicino a Reumannplatz sono state invitate a raccontare che tipo di spazio urbano avrebbero voluto attorno. Dal confronto con le ragazze si è deciso di costruire uno spazio per spettacoli all’aperto e di ridisegnare un’area giochi non molto distante per renderla più accessibile e sicura.

    aspern-citta-donne
    Il quartiere Aspern

    Tra i progetti in via di realizzazione c’è il quartiere Aspern, i cui lavori dovrebbero concludersi nel 2028 e che dovrebbe ospitare 20.000 persone e 20.000 lavoratori giornalieri. Il quartiere è costruito attorno al lago Alte Donau e metà dell’area è stata dedicata alla costruzione di spazi pubblici. L’intero quartiere è stato pensato per rispondere ai bisogni delle famiglie e delle donne. Come gesto simbolico tutte le strade, le piazze e gli spazi pubblici sono stati intitolati a delle donne, da Hannah-Arendt-Platz a Ada-Lovelace-Straße.

    Toponomastica? Roba da uomini

    Certo, i nomi delle strade sono solo un simbolo, ma la toponomastica incide sui volti della città i nomi di persone si pensa siano state importanti e, tristemente, in genere si pensa solo a uomini. E la toponomastica cosentina? Su oltre 500 strade intitolate a uomini, meno di 50 portano il nome di donne e quasi la metà sono sante, madonne o donne di chiesa. Ma oltre alla simbologia dei nomi, quanti spazi pubblici in città sono sicuri per le donne o sono dedicati ai bisogni delle famiglie? Oltre al Parco Piero Romeo, realizzato dalla Terra di Piero, non trovo altri spazi in cui porterei un bambino o una bambina a giocare nello spazio urbano.

    parco-romeo-cosenza
    Il parco Piero Romeo a Cosenza

    Oltre agli interventi di urbanistica, c’è di più. Una parte del progetto femminista viennese, infatti, riguarda anche la sensibilizzazione. È stata lanciata una campagna chiamata “Vienna la vede diversamente” per sensibilizzare e informare il personale amministrativo, che lavora presso il comune, e i cittadini sulla posta in gioco del gender mainstreaming.

    Per esempio, i cartelli che indicano i fasciatoi raffigurano uomini intenti a cambiare il pannolino ai bambini, mentre nei cartelli stradali in cui si avverte che ci sono lavoro in corso sono state mostrate donne lavorare nel settore dell’edilizia. Inoltre, in diversi centri per bambini si è scelto di adottare un’educazione attenta alle questioni di genere. Ciò consiste nell’evitare stereotipi di genere nel gioco o rivedendo materiale scolastico e canzoni per evitare cliché sessisti.

    Non c’è solo il centro

    vienna-stephansplatz-citta-donne
    Vienna, l’arcobaleno su Stephansplatz

    La forma che si decide di dare ad una città incide fortemente sulla qualità della vita di chi la abita, ma le città non sono solo vetrine di cui mostrare fieramente il solo centro. Le attività che hanno interessato Vienna, protagonista di oltre 60 progetti dedicati alla città, non hanno riguardato solo Stephansplatz e i luoghi più frequentati dai turisti. Il quartiere Aspern, per esempio, si trova nel ventiduesimo distretto ed è ben distante dal centro. I progetti di cui Vienna è stata protagonista hanno messo al centro i bisogni delle cittadine e dei cittadini e non solo l’immagine riflessa da mostrare a chi passa qui non più di una settimana.

    Francesca Pignataro

  • Stretto di Messina: una marea di energia contro la crisi

    Stretto di Messina: una marea di energia contro la crisi

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

     

    L’attuale crisi energetica legata alle tensioni tra Europa e Russia ha palesato i limiti del sistema energetico europeo e italiano, e accelerato la necessità di trovare fonti alternative per non dipendere solamente da quelle fossili. A rendere la situazione più incombente, recenti studi prevedono che per il 2050 l’Italia avrà bisogno annualmente di più del doppio dell’energia elettrica richiesta oggi per un valore stimato di circa 700TWh rispetto ai 300TWh odierni. Avere un piano energetico nazionale capace di affrontare e rispondere a questa sfida è quindi una priorità.

    I rischi con eolico e solare

    Negli ultimi anni, la proliferazione sul territorio nazionale di campi eolici e solari, non sempre realizzati rispettando l’ambiente e le normative, hanno contribuito a sostenere la domanda di energia, ma da soli non saranno sufficienti a soddisfarla nel lungo periodo. In questo contesto, come recentemente illustrato da Geppino De Rose sulle colonne di questo giornale, la Calabria produce più energia di quella necessaria alla sua autonomia energetica. Se non si vuole continuare ad installare campi solari ed eolici a spese di aree destinate all’agricoltura (soprattutto al Sud) con il rischio di stravolgere equilibri sociali e economici delle comunità locali, solitamente rappresentati da territori che già soffrono di mancanza di lavoro e spopolamento, compito del Governo è quello di sostenere la ricerca di fonti alternative e di processi che possano aiutare ad aumentare la produzione energetica e ridurre l’impatto climatico limitando le ricadute ambientali e sociali degli stessi.

    eolico-crotone
    Pale eoliche nel Crotonese

    L’energia dalle maree

    Bisogna quindi sostenere finanziariamente e promuovere delle politiche di transizione energetica che spazino su vari campi per massimizzare le potenzialità del nostro territorio.
    Un sistema per produrre energia verde, usato in altre nazioni (es. Canada, Cina, Francia, Galles, Giappone e Scozia) e che sta riscontrando negli ultimi anni un aumento dell’interesse da parte dei governi, ma poco investigato in Italia, è l’energia tidale legata ai flussi di marea.
    Le maree sono lo spostamento di larghi volumi di acqua legati all’attrazione gravitazionale prodotti dalla Luna e dal Sole. Processo che produce due alte maree e due basse maree ogni giorno. Questo significa che in aree caratterizzate da forti flussi di marea, possiamo trasformare parte di questa energia usando turbine sottomarine che girano al passare dell’acqua, simili alle pale eoliche a cui siamo ormai abituati, generando elettricità.

    Vantaggi e svantaggi

    Contrariamente alle incertezze legate alla presenza di vento e sole necessari per far funzionare pale eoliche e pannelli solari, il vantaggio delle maree risiede nella previsione della loro forza e capacità di produrre energia basata sull’osservazione della rotazione della Terra e della Luna, permettendo di prevedere la produzione elettrica con un anticipo di giorni, settimane e perfino anni permettendo una pianificazione di medio-lungo periodo.
    Ad oggi però, il principale limite dell’energia tidale è legato ai costi di produzione generalmente più alti rispetto all’eolico e al solare dovuti ai maggiori costi e rischi nel dover lavorare in un ambiente marino rispetto alla superfice. Esiste inoltre un problema ambientale legato alla possibile collisione di animali con le pale delle turbine o l’impatto delle stesse sulla circolazione delle acque, importante per la produzione dei nutrienti in ambienti marini.

    Scelte mirate per rispettare l’ambiente

    Sebbene studi scientifici indichino che questi problemi siano minori rispetto ai rischi legati ai cambiamenti climatici cui stiamo andando incontro che ci spingono ad investigare soluzioni alternative a quelle fossili, la scelta dei siti dove collocare le turbine richiede un accurato studio geologico, marino e ambientale per comprendere al meglio le caratteristiche geologiche dei siti, la circolazione delle acque ed evitare un impatto nell’equilibrio di ecosistemi marini. Questo significa che l’energia tidale non sarà in grado di sostituire le fonti energetiche correnti ma, in aree caratterizzate da forti correnti di marea, può sicuramente giocare la sua parte con potenzialità di crescita future.

    turbina-energia-scozia
    La maxi turbina finanziata dal governo scozzese

    Recentemente, è stata prodotta la più potente turbina tidale al mondo grazie ad un finanziamento pubblico da parte del governo scozzese di circa 4 milioni di euro. Turbina che sarà installata nelle Isole Orcadi (arcipelago a nord delle coste scozzesi) per la produzione di energia elettrica destinato ad uso civile e industriale. Questo significa che ci sono margini di miglioramento per aumentare l’efficienza delle turbine, ridurre i costi e massimizzare l’energia prodotta dalle maree.

    Lo Stretto di Messina come le Isole Orcadi

    Guardando ai nostri mari, l’area mediterranea è caratterizzata da escursioni di marea (differenza tra alta e bassa marea) di pochi centimetri, non comparabile con altre aree come il Mare del Nord dove si registrano variazioni dell’ordine metrico. Ma, in particolari contesti come lo Stretto di Messina, si possono creare le condizioni per correnti forti abbastanza da creare energia. La presenza nello Stretto di Messina di pericolosi vortici e forti e repentine correnti con direzioni che cambiano durante il giorno è un fenomeno ben conosciuto dai marinai e che ha ispirato il mito di Scilla e Cariddi come custodi dei due lati dello Stretto.

    Questi processi sono legati alle forti condizioni mareali possibili grazie alla ridotta ampiezza dello Stretto di Messina che misura solo circa 3 km ed ha una profondità minima di circa 70 metri. In queste condizioni, si osserva l’amplificazione delle maree che coinvolge una larga massa di acqua il cui flusso è regolato da inversioni semi-giornaliere delle fasi di marea tra il lato Tirrenico a nord e quello Ionico a sud dello Stretto.

    stretto-messina
    Credit: Longhitano et al., 2020

    La fase di alta marea su di un lato coincide con la fase di bassa marea dall’altro che provoca una differenza nel livello del mare creando forti correnti. In particolare, nello Stretto di Messina si registrano correnti superiori ai 2 metri al secondo capaci di produrre 125 GW/h all’anno di energia elettrica, sufficiente per soddisfare la richiesta energetica di città come Reggio Calabria o Messina.
    Le Bocche di Bonifacio tra Sardegna e Corsica e altre simili configurazioni morfologiche simili a ‘stretti’ presenti nei mari italiani capaci di amplificare e accelerare i flussi di marea potrebbero rappresentare altri possibili siti da investigare.

    Investire nella Ricerca

    Ci aspettano sfide importanti e tempi bui (sia metaforicamente che letteralmente legati alla probabile riduzione di energia elettrica disponibile) che richiedono decisioni tempestive, lungimiranza e investimenti nella Ricerca. In Italia abbiamo ricercatori eccellenti pronti ad offrire soluzioni e risposte alle domande correnti. Ricercatori che spesso si ritrovano a lavorare con limitati mezzi e risorse ma che, nonostante continui tagli ai fondi alla ricerca, continuano a produrre risultati eccellenti. Hanno solo bisogno di una classe dirigente capace di guardare al futuro che inizi ad investire nella ricerca, così come avviene in altre nazioni per ridurre la dipendenza energetica da partner stranieri e invertire la corrente tendenza.

     

     

  • Non lasciamo nell’oblio i nostri campioni

    Non lasciamo nell’oblio i nostri campioni

    «Di tutti gli sport, l’unico che ami veramente è la boxe», diceva Jack London. Non sappiamo se Giovanni Parisi, boxeur calabrese la cui storia è raccontata sul nostro giornale, conoscesse l’autore di Zanna bianca o avesse mai letto le sue cronache pugilistiche scritte per il New York Herald. È assai probabile, però, che ne condividesse l’opinione.

    Il Rocky di Calabria

    Parisi ha un destino comune ai moltissimi calabresi scappati da qui: gloria altrove, oblio nella sua terra. Dopo una carriera paragonabile per luce a quella di Benvenuti e Oliva, Parisi muore in un incidente e la città che lo aveva visto arrivare da migrante con la famiglia in cerca di una sorte migliore, ne ricorda ancora la bravura, il coraggio e la tenacia sul ring. A Voghera gli hanno intitolato uno stadio e come il Rocky Balboa cinematografico, anche una statua, per la verità più suggestiva di quella del film.

    Philadelphia-rocky-Balboa
    Philadelphia, la statua di Rocky Balboa in cima alla scalinata che percorreva per allenarsi nel film

    Un appello per la sindaca Limardo

    A Vibo, invece, non saranno in tanti a ricordarsi le sue prodezze sportive e solo due anni fa in consiglio comunale è stata avanzata la proposta di dare il nome del pugile a una strada cittadina. L’idea, però, ci risulta sia rimasta a dormire in qualche cassetto, quasi a voler prolungare la condanna all’indifferenza che la sua città ha riservato all’atleta. Sarebbe il caso di riscattare questo torto, sarebbe giusto che la sindaca di Vibo, Maria Limardo, desse il nome di Parisi a uno spazio significativo della città. Perché la Calabria è un posto strano: si inorgoglisce per record piuttosto improbabili, mentre è pronta a dimenticare chi, con la forza di un gladiatore e la velocità di Flash, sui ring del mondo ha portato la faccia piena di pugni di un terrone.