Non sono stato al PalaMilonedove c’è tutta la fila di bare. Dovevo tornare a Cosenza e poi, lo ammetto, mi ha frenato una sorta di pudore. Forse sabato ci andrò. A Crotone ho partecipato ad un’assemblea affollata e costruttiva alla sede dell’Associazione Sabir. Due ragazzi superstiti della tragedia hanno ascoltato ciò che dicevamo. Due afghani che hanno perso due nipoti nel mare di Cutro.
Frenetica indifferenza
È una tragedia immane che in qualche modo si materializza nei racconti dal vivo di chi l’ha vissuta e di chi sulla spiaggia ha raccolto i corpi di tutte le età. In quei corpi straziati c’è tutta la disumanità di chi li ritiene “carichi residuali”, ma anche tutte le colpe della nostra frenetica indifferenza. Può essere frenetica l’indifferenza? Si, lo è.
Perché di quelle persone non sappiamo niente e niente vogliamo sapere. I mezzi per conoscere ciò che succede in Afghanistan li abbiamo. Internet ci informa di tutto. Ma soprassediamo. Potremmo sapere ma preferiamo non esporci a queste informazioni che potrebbero turbare la quiete delle nostre giornate. Ci interessa più la copertina di Vogue con un presidente in guerra in posa con la moglie.
Bare bianche
Le donne afghane non possono posare per nessuna copertina. Le donne afghane non hanno diritti, nemmeno uno. E vogliono scappare portandosi le proprie bambine per strapparle alla barbarie di una vita nascosta. Si tenta di andare via dalle guerre, dalla povertà, dall’oppressione della tirannia.
Ci sono bimbi siriani, in quelle bare. Sono nati in guerra e in guerra muoiono. O sotto le bombe o sotto l’acqua. Per un ministro della Repubblica Italiana quelle mamme e quei bimbi sono colpevoli di partire. Un modo elegante per sostenere che se la sono cercata.
Porterò dei peluche, fra tre giorni a Crotone. Li darò ad una bara bianca. Vittima della barbarie degli uomini e della mia frenetica indifferenza.
Proprio oggi a Roma è in programma un convegno dal titolo:”Per una primavera demografica. Quali politiche per la natalità”. Conclude i lavori Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia e la natalità. Dobbiamo far nascere più bambini autoctoni, bianchi, cattolici, italiani. Quelli che arrivano e muoiono con la bocca e gli occhi pieni di sabbia di mare non vanno bene. Sono neri. Musulmani forse. O neri e musulmani insieme. Prodotti difettosi, quindi. Da scartare facendoli morire, se riescono ad arrivare. Facendoli schiattare di fame, di guerra, di siccità – che noi colonizzatori abbiamo provocato – pur di tenerli lontani dal sacro suolo patrio.
Il relitto visto dall’alto a Cutro
Noi, campioni di fascismo
Noi che siamo morti sui bastimenti per le Americhe. Che siamo stati ispezionati come bestiame ad Ellis Island, e in molti casi rimandati indietro, difettosi pure noi. Noi che abbiamo esportato made in Italy insieme a mafia, camorra e ‘ndrangheta. E fascismo. Noi, italiani brava gente, che eravamo buoni fino a quando non abbiamo cominciato a seguire il pazzo tedesco. Prima non eravamo razzisti, ma proprio per niente. I gas in Etiopia non li abbiamo gettati noi italiani, non abbiamo preso le bambine nere per fare i nostri comodi. Al tempo l’espressione fake news non esisteva: le chiamavano bugie, ma di quello si trattava.
Il “carico residuale” di Cutro
Ora abbiamo la versione aggiornata, edulcorata, dell’aiutiamoli a casa loro. Annacquata fino a un certo punto, se ascoltiamo le parole di Piantedosi, ministro dell’Interno. Dalla sua bocca escono frasi quali “carico residuale”, espressione riferita a gente in carne e ossa, che spesso ricopriamo di lenzuoli bianchi sulle nostre belle spiagge meta di bagnanti gioiosi e di turisti. Che diventano bare incolonnate nei palasport dove poi torniamo a giocare, come se nulla fosse. Che diventano sigle. KR14f9: annegata a Cutro, in provincia di Crotone; n. 14; femmina; 9 anni. Rimproveri ai genitori che, guarda un po’, rischiano la vita dei loro figli per farli fuggire dall’Eden dell’Afganistan della donna retrocessa a oggetto senza voce in capitolo e senza istruzione; della Siria della guerra civile e del terremoto; del Kurdistan cui sempre noi abbiamo donato un presente e un futuro di sottomissione, tradendo più volte l’impegno assunto per la nascita di un loro Stato autonomo.
Soccorritori portano a riva i corpi senza vita dei migranti a Steccato di Cutro
Il calo demografico dell’Italia
Ma noi non siamo cinici, non vogliamo focalizzare attenzione e ragionamenti, decisioni infine, sull’aspetto demografico e di conseguenza economico della questione. La nostra innata, tradizionale generosità e apertura al prossimo, specialmente in stato di difficoltà, non ci porta a considerare, se non il lato umanitario del fenomeno, la rilevanza dei dati Istat. Essi ci dicono che il 1° gennaio 2022 in Italia avevamo 58 milioni e 900 mila residenti, per il quinto anno sotto i 60 milioni. Che in un anno (2022 su 2021) abbiamo perso 253mila abitanti, e l’anno prima 405 mila. Dal 2009 il numero medio di figli per donna in età feconda è dell’1,25; dovrebbe essere del 2 per non produrre calo nella popolazione.
Ovviamente, ciò comporta anche un invecchiamento della popolazione: l’età media era 41,9 anni nel 2003, 45,9 nel 2021, 46,2 nel 2022. Nel 1950 bambini e ragazzi (0 – 19 anni) erano il 35,4 %, oggi il 17,5. Nello stesso periodo, le persone tra i 20 e i 30 anni sono passate dal 35 % al 21; quelle tra i 40 e i 59 anni dal 22 al 31, dai 60 ai 79 anni dal 23 al 31 %. Infine, gli Italiani ultra ottantenni erano l’1 % nel ’50, oggi sono il 7,5 %. Nel 2070, secondo l’Istat, gli Italiani saranno 12 milioni in meno: 47,2 milioni Tra essi, sempre più anziani e vecchi.
Un Sud senza figli e futuro
Ma è il Meridione che, da questo punto di vista, sta peggio. Secondo Neodemos, nel 1950 viveva in quest’area il 37,2% della popolazione italiana, nel 2022 il 33,6; nello stesso periodo, l’apporto del Mezzogiorno d’Italia al numero complessivo delle nascite è crollato dal 49,6 al 35,7%. Questo senza che vi sia stato, come per altre aree del Paese, un apporto derivante all’arrivo di stranieri. In un solo anno, dal 2020 al 2021, la popolazione in Calabria è diminuita di 5147 unità, e di 26991 nell’intero Meridione
Nel 2011 i residenti in Calabria erano più di due milioni, ma dal 2008, col numero delle nascite sempre inferiore a quello dei decessi, il saldo è in negativo, con una punta massima di – 7058 nel 2020. Il saldo negativo nascite-morti, associato al dato negativo legato all’emigrazione, ha comportato una perdita di 42.000 abitanti nella regione dal 2014 al 2021. In quest’ultimo anno, il numero di abitanti è diminuito rispetto all’anno precedente di 16.015 unità, date dalla somma di meno 9.939 – per differenza tra nascite e morti – e meno 6.076 per l’emigrazione. Questi i numeri. Che messi affianco al numero esorbitante di case disabitate, alle estese porzioni di territorio abbandonate, ad interi paesi svuotati o abitati solo da gente in età avanzata, alle coltivazioni bisognose di manodopera, suggerirebbero razionalmente un’inversione di rotta. Non per tornare umani, ma per non far morire la speranza, per non trasformare la nostra terra in un deserto.
Il coraggio dei disperati
Tuttavia, prevalgono la pancia, il complottismo, le teorie bislacche sulla sostituzione etnica, come se i luoghi di tutto il mondo non ne avessero viste innumerevoli in migliaia di anni. Niente e nessuno – muri, blocchi navali, respingimenti – potrà fermare chi è in cerca di un futuro migliore per sé e per i propri figli (come chi è arrivato senza vita a Cutro), chi fonda il coraggio di partire sulla disperazione nel restare. Nessun blocco nel mezzo dell’Atlantico avrebbe potuto arrestare l’esodo dell’ultimo scorcio dell’ottocento e del primo del novecento dall’Italia alle Americhe.
Imbarcazione che trasportava migranti arenata sulla spiaggia di Siderno
Si tratta di processi irreversibili, cui neanche il Governo della cattiveria può porre argine. Un percorso che va governato con lungimiranza, non con provvedimenti di polizia ma con senso di umanità e anche con pragmatismo, evitando di volgere lo sguardo dall’altra parte, ché tanto non serve a nulla. I governi, di destra e anche, sebbene in misura minore, di sinistra, del nostro e degli altri Paese dell’Occidente avanzato, devono occuparsene seriamente. Per evitare che uomini donne bambini si tramutino in sigle su lenzuoli bianchi, in cadaveri in fondo al mare come quelli di Cutro, in centinaia di bestie che rischiano di soffocare accatastate l’una sull’altra dentro stive di pochi metri quadri. Non c’è altro modo per salvare questi poveri esseri derelitti. Non c’è altro modo per salvare le nostre anime.
Per fare pazientemente la fila al funerale di un personaggio famoso per farsi un selfie con la vedova ancora più famosa e magari aver pure sorriso, si deve aver attraversato tutto il cavo teso tra l’umano e il disumano. E soprattutto non si deve aver mancato l’appuntamento nemmeno con una puntata di Uomini e donne e di C’è posta per te.
Si deve aver perso il senso del pudore, la misura del limite e perfino della morte. Si deve aver interiorizzato l’idea che lo spettacolo deve continuare, anzi che lo spettacolo sia la vita stessa, che gli attori siamo noi. E si deve essere, smarrito il senso del mostruoso, del tutto immersi nell’idea che si esiste se ci si mostra.
Il selfie funerario
«È la televisione, bellezza e non puoi farci niente», si potrebbe dire parafrasando Hutcheson – Bogart. In realtà le cose sono più complesse. Si tratta di una forma pervasiva ed efficace di egemonia culturale, non esattamente gramsciana. Essa si fonda sull’inconsapevolezza, sulla distrazione, sulla ricerca effimera di una manciata di secondi di celebrità da eternare con una foto sui social. Il selfie funerario celebra il connubio tra televisione e social: mi fotografo con l’incarnazione della Tv per poi spammare l’immagine su un canale condiviso.
Cattiva maestra televisione
Dietro questo gesto c’è il ripudio di ogni forma di riservatezza, di garbato rispetto. C’è il trionfo dell’ostentazione, dell’esporsi come forma vitalistica, come senso dell’esistenza. Chi dovesse pensare che oggi il controllo sociale passa attraverso i social dovrà ricredersi: la televisione non ha ancora ceduto il proprio dominio nel forgiare le menti e anzi ha compiuto per intero la sua missione, farci credere che quel accade lì dentro sia tutto vero, mentre è arte e finzione.
Selfie col vivo al capezzale del morto
Per questo sono stati in tanti ad aspettare il proprio turno, non per salutare una persona morta, ma per fotografarsi con una persona viva e lanciarsi nella caccia «dell’Amen della devozione digitale che è il like», come scrive Byung Chul Han.
Per consentire questo il mondo della televisione esce dagli schermi e si consegna al proprio popolo, si fa toccare – cosa inconcepibile in una monarchia vera, dove i re sono intangibili – si fa fotografare. Alla fine resta l’emozione del selfie che nel capitalismo emozionale è solo una delle merci da pagare con le condivisioni.
«Potete respingere, non rimandare indietro», scrive Erri De Luca in Sola andata. Respingere sì, anche far morire, ma indietro non è possibile perché si scappa da un inferno che nel calduccio delle nostre case, nell’opulenza della nostra società, non possiamo nemmeno immaginare. Si muore in mare a poca distanza dalle nostre coste, come avvenuto poche ore fa. E la notizia giunge nel mezzo del pranzo domenicale, magari appena rientrati da una bella messa, commentando com’è stato bravo il parroco nell’omelia.
Ma la morte a un passo non scuote più a sufficienza e la distrazione cui siamo precipitati consente a chi ci governa di dire che il problema sono le partenze. Meloni e Piantedosi hanno trovato la soluzione: restino a casa loro. È il mantra della destra da sempre, che ha trovato spazio nell’ipocrisia anche dei governi che di destra non volevano essere, ma che avevano ripudiato la solidarietà e messo in tasca gli affari con i governi tagliagole dei paesi da cui questa umanità sofferente prova a scappare.
Bufale e aridità
Non importa che la percentuale di migranti ospitati nel nostro Paese sia molto più bassa di quella presente nel resto d’Europa, né che spesso l’Italia sia soprattutto un luogo di transito. Quel che conta è costruire abilmente un racconto che accechi gli animi prima che gli occhi, consegnandoci un’orda pericolosa che spinge alla porta sbarrata della fortezza Italia per espugnarla, contaminarla di culture che sono diverse. Ed ecco la bufala dei presepi in pericolo, della cristianità da proteggere come in una rinnovata battaglia di Lepanto, del lavoro da tutelare. Mentre il crudele mondo della realtà ci sbatte in faccia storie didisgraziati schiantati dal lavoro nei campi del meridione d’Italia, tornati indietro ai tempi del caporalato, sfruttati per una manciata di euro. Morti di fatica, morti di freddo, morti bruciati per scampare al freddo.
Migranti morti a Crotone, vittime predestinate
I migranti sono le vittime predestinate di un meccanismo che colpisce solo gli ultimi. Sopra di loro ci sono gli scafisti, ma anche loro sono pesci piccolissimi in un mare dove girano squali famelici, intoccabili, anzi nemmeno nominabili, anzi forse con cui si fanno pure buoni affari. Una piramide criminale che sta dietro al fenomeno migratorio in cui nemmeno la ‘ndrangheta vuole entrare – come ha spiegato Anna Sergi su ICalabresi –pur se quei disgraziati vengono sbarcare e certe volte a morire proprio in Calabria.
Per ogni governo e per questo in corso ancor di più, è più facile pensare a improbabili blocchi navali, magari da realizzare fornendo noi stessi le navi a quei paesi canaglia i trafficanti di uomini operano. È più facile criminalizzare la solidarietà, consegnare all’opinione pubblica le Ong come complici dei trafficanti. Il difficile è rassegnarsi al fatto che le migrazioni sono un fenomeno sociale vecchio quanto il mondo: si è sempre tentato di andare via dai luoghi dove non si poteva più vivere, per una guerra, per la fame, per una dittatura. E oggi vengono da noi, perché ci piaccia o meno, da questa pare c’è il mondo ricco.
«In Italia non c’è nessuna deriva violenta, né alcun pericolo fascista», dice Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, dopo il pestaggio squadristico di Firenze e dopo la lettera della preside della scuola i cui studenti sono stati aggrediti. Poi aggiunge che se qualcuno non è d’accordo sarà «necessario prendere misure».
In un colpo solo il ministro fa una capriola e dice una cosa e il suo contrario. Prima rassicura, poi non resiste e tira fuori la faccia feroce. Una volta si sarebbe chiamata “politica del doppiopetto”, un atteggiamento apparentemente democratico ma che maschera tentazioni illiberali. Al di là dei fatti, che pure vanno ricordati, le cose appaiono parecchio complesse.
La lettera dopo la quale Valditara ipotizza di «prendere misure»
Il gruppo cui fanno parte i picchiatori trova posto in una sede di Fratelli d’Italia, che con molto ritardo e imbarazzo ha preso blandamente le distanze dagli squadristi che ospitano in casa propria. Del resto nel mese di novembre una delegazione di Azione giovani, cui fanno parte i picchiatori, fu ricevuta da Paola Frassinetti, sottosegretaria all’Istruzione. Tuttavia il cuore del problema pare un altro: c’è da sempre un convitato di pietra nella società italiana. Ed è il Fascismo, con i cui orrori non abbiamo mai fatto davvero i conti.
Fascismo, quello che Valditara non dice
Il fascismo nacque con un atto di codardia, Mussolini pronto a scappare in Svizzera nel caso l’armata Brancaleone che marciava su Roma fosse stata fermata. E si concluse con un atto di uguale viltà, con il Duce travestito da soldato tedesco per fuggire in Germania. In mezzo c’è l’orrore di un colonialismo straccione e genocida, per il quale nessuno ha mai pagato; la cancellazione dei diritti basilari di una società, la persecuzione degli oppositori, la chiusura di giornali, partiti, sindacati; la cancellazione di più di una intera generazione di giovani italiani, mandati a morire sul Don o in altri luoghi, per inseguire un sogno vanaglorioso; le leggi razziali e la complicità nella morte di migliaia di italiani di religione ebraica; e poi la ferocia dei repubblichini, il sadismo della banda Koch, le lunghe ombre eversive del dopoguerra, con tentazioni golpiste.
Mussolini e Hitler
Al posto di questi fatti è stata, con un certo successo, raccontata una storia diversa. Fatta di italiani brava gente, non cattivi come le SS, di cose buone che pure sono state fatte, come sistemi pensionistici che in realtà hanno avuto origine assai differente. Sulla leggenda della puntualità dei treni vale la pena di ricordare la battuta tagliente di Pessoa che diceva che «se vivi a Milano e fascisti ammazzano tuo padre a Roma, potrai arrivare certamente in orario per il suo funerale».
Il coraggio di fare i conti col passato
Ci siamo raccontati un sacco di bugie, perché fare i conti con la nostra storia è difficile, ci vuole coraggio e ci è mancato. La conseguenza è che i fascisti possono affermare che il fascismo non c’è. E lo fanno mentre mostrano il manganello e preparano l’olio di ricino. Vorrebbero che nelle scuole si insegnasse quel che dicono loro, che si leggessero i giornali che sono loro graditi, i libri e gli autori non ostili. Anzi meglio levarli proprio i giornali e i libri: portano sempre una loro intima pericolosità. Al pensiero critico preferiscono il pensiero obbediente.
E invece dobbiamo portare nelle aule i libri e i film e i giornali che insegnano la libertà. E dobbiamo raccontare il fascismo nel suo autentico orrore, anche per non tradire il lascito di Parri che implorava di «non stendere un comodo lenzuolo di oblio su questa pagina di vita italiana».
Alla fine, come sempre, si deve decidere da che parte stare. La scuola deve stare ogni giorno dalla parte della Costituzione, quella che dice che siamo antifascisti.
Una domanda, sinistra e fatale, si aggira fra le tante (troppe) perplessità generate dall’ondata testosteronica leghista in materia di autonomia differenziata: la politica industriale toccherà alle Regioni o manterrà un profilo nazionale?
Non sembri una domanda oziosa perché dalle diverse, possibili – e affatto semplici – risposte discenderanno conseguenze non proprio banali per i sistemi produttivi nazionali e regionali.
Ora, sebbene il testo del disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri, parli genericamente della possibilità offerta alle Regioni a statuto ordinario di godere di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in tutta una serie di settori tra cui anche alcuni attualmente di competenza esclusiva dello Stato”, il rischio che corre la politica industriale è altissimo.
L’attuale Consiglio dei Ministri in riunione
Autonomia differenziata: la lista (leghista) dei desideri
Se guardiamo le 23 materie potenzialmente oggetto di autonomia comprendiamo subito che quasi tutti gli strumenti, tradizionali, di politica industriale sono compresi nella famigerata lista delle 23 aree oggetto del desiderio leghista.
Solo per citarne alcune: innovazione, trasporto, ricerca scientifica e tecnologica, porti e infrastrutture, governo del territorio, comunicazione, credito regionale, energia, istruzione, salute. Praticamente tutto. Troppo.
Ricchi e poveri? Non solo
Il rischio è quello di creare un sistema infernale di dialetti regionali su materie che richiederebbero al contrario linguaggi unitari e, soprattutto, dimensioni da ottimizzare su scale territoriali sempre più larghe.
Non si tratta solo di ricchi e poveri, di LEP perequati o di spesa storica e fabbisogni standard. La questione, sulla politica industriale, è ancora più sottile e pericolosa perché impatta sul modello di governo di tutte le filiere produttive.
L’attuale frontiera tecnologica, digitale e sostenibile, mira infatti all’integrazione tra filiere puntando sulla cosiddetta intelligenza artificiale generativa. Un sistema integrato di soluzioni produttive che vedono impianti istruiti (attraverso ilmachine learning) ad eseguire operazioni anche in remoto e soprattutto ad impatto ambientale potenzialmente neutro.
Occhio ai furbetti
Le domande sono quasi scontate:
Chi governerà e con quali priorità la politica industriale derivata dall’intelligenza artificiale?
Quali LEP fungeranno da indicatori della perequazione tecnologica in materia digitale tra le Regioni? Assisteremo ad alleanze strategiche tra regioni produttive a maggiore specializzazione e intensità tecnologica?
Queste alleanze possono alterare i meccanismi di ripartizione fiscale delle risorse su scala nazionale? Corriamo il rischio di creare nuovi centri e nuove periferie geopolitiche?
Corriamo il rischio di trasformare il Paese in macro aree con tentazioni ultra autonomiste e miraggi di alleanze extra nazionali giustificate, o peggio ancora, mascherate da specializzazioni produttive e numeri su PIL mozzafiato?
Sono solo domande certo. La veemenza leghista sui tempi non promette niente di buono. Occorre serenità, tempo, riflessione politica e analisi rigorosa sugli scenari potenziali. Magari per evitare che i soliti furbetti approfittino dell’autonomia differenziata per fare della politica industriale una questione “loro”. Tutta loro. Solo loro.
«La mafia nasce con la questione meridionale che ne è presupposto inscindibile. Non esiste frattura tra vecchia mafia romantica dai nomi misteriosi e romanzeschi che ha solo qualche ambizione di protesta sociale, e nuova mafia delinquenziale aggiornata ai modi del profitto e della rendita dell’economia capitalistica. La mafia ha sempre avuto necessità di surrogarsi ai governi ed alla classe dirigente con responsabilità nella gestione del potere e c’è continuità tra passato e presente, connivenza non interrotta tra mafia e Stato, uomini del Parlamento e del governo, magistratura, polizia e carabinieri. In questi anni abbiamo parlato di ministri, di mammasantissima, di senatori, di picciotti, di onorevoli incappucciati, abbiamo fatto nomi e cognomi ma le nostre interrogazioni sono sempre rimaste senza risposta».
I recenti fatti di cronaca segnati dalla cattura di Messina Denaro, con i relativi effetti collaterali, mi hanno sollecitato una rilettura di questo breve testo. È nella relazione presentata del deputato socialista Salvatore Frasca alla conferenza promossa dal Consiglio regionale della Calabria tra il 10 ed il 12 aprile del 1976. E mi suggerisce l’attualità di un tema mai fuori moda.
Ripensare ad una serie di letture più o meno recenti mi ha fatto riaffiorare alla mente la figura di Costantino Belluscio, che conobbi ad Altomonte nel lontano 1997. Il ricordo di quell’incontro mi ha spinto a riprendere in mano alcuni testi che non leggevo da tempo analizzando un profilo su cui mi sono soffermato a lungo negli anni. Tento di capire quale fosse la verità, alla ricerca di un perché a tanta divisione di pensiero.
Don Stilo: icona del male o parafulmine?
Mi accorgo di come, ancora oggi, parlare di Don Giovanni Stilo significhi scoperchiare un vaso di Pandora che molti hanno preferito interrare, impegnati in un grottesco tentativo di ricostruzione della verginità perduta. Anche a distanza di tanti anni, la figura di Don Stilo rimane tra quelle più discusse in questa parte di Calabria dove Locride e Area grecanica si toccano in una contiguità territoriale che si sostanzia specie attraverso la via di una montagna che incarna stereotipi e contraddizioni. Il mondo di Don Stilo è un microcosmo dai contorni quasi mai netti, dove il mare guarda l’entroterra da vicino ma sempre con distacco. C’è un’aura ionica di fascino e mistero che avvolge questa terra brulla, arsa e scoscesa dove la roverella e la macchia mediterranea in un continuum indefinito cedono il passo alla ghiaia delle fiumare, alle scogliere, alle argille colorate ed alla sabbia finissima.
Corrado Stajano
Tornando agli scritti di Belluscio e Stajano, noto, oggi più che in passato, come siano complementari nonostante l’uno sia contraltare dell’altro per filosofia di pensiero e chiavi di lettura. Complementari perché nella loro dicotomia trovi il senso di una terra controversa come poche.
Il primo, Belluscio, mosso nel giudizio da un personale rapporto di amicizia e forse anche dalla convinzione che un solo uomo non possa essere portatore di tutte le storture della società, possa invece più facilmente essere parafulmine, agnello sacrificale più o meno consapevole.
L’altro, Stajano sembra invece catalizzare l’attenzione sulla figura del sacerdote di Africo che diventa icona del male. Nel suo Africo (Einaudi, 1979) non si limita a parlare di un prete padrone che suggerisce la via del trasferimento dalla montagna al mare. Va ben oltre Stajano. Lo eleva ad anello di congiunzione tra ndrangheta, chiesa, malaffare, politica e pezzi deviati delle istituzioni.
Tanta carne al fuoco
Certo, è vero, è assai chiacchierato il prete di Africo. La sua figura è accostata per quasi mezzo secolo alla massoneria, alla politica, alla magistratura, ai servizi segreti deviati, alle pagine più scure di una Calabria – in generale, e di una Locride più in particolare – che proprio negli anni di Don Stilo cambiano pelle attrezzandosi in vista dei grandi business miliardari. L’abigeato fa spazio alla droga, alla speculazione edilizia ed ai sequestri di persona. Facile intuire come la carne al fuoco, quando si parla, di lui sia talmente tanta che ci sarebbe da discutere per giorni, senza peraltro riuscire mai a mettere tutti d’accordo. Ecco perché ritengo che la “questione Don Stilo” necessiti di una giusta riflessione.
Costantino Belluscio
«Mai, dico mai, ho fatto parte del coro di aguzzini, più o meno ispirati, che hanno invaso la strada della libertà precludendone, anche solo con le parole, la disponibilità ai diretti interessati. Sempre, sottolineo sempre, ho creduto nella presunzione di innocenza, mai mi ha appassionato lo sport, purtroppo molto praticato, della colpevolezza decisa a tavolino e trasmessa a mezzo stampa».
Questo breve frammento è tratto dal lavoro di Belluscio Il Vangelo secondo Don Stilo(Klipper, 2009). Belluscio, giornalista con una lunga esperienza da parlamentare dal ‘72 all’87, si è spento nella sua casa romana l’11 febbraio del 2010, neanche due mesi dopo la pubblicazione del lavoro su Don Stilo, quello cui teneva tanto.
Don Stilo e il trasferimento dall’Aspromonte al mare
Anche di Belluscio si sussurrò tanto. Si disse ad esempio della sua appartenenza alla P2, quasi a suggerire un legame occulto che avrebbe mosso la strenua difesa del prete.
Ma rileggere le poche righe che ho riproposto tra virgolette è stato come riaccendere la luce su una storia lunga e travagliata, una di quelle a tinte fosche tipiche di un Paese dove le linee di confine sono assai sfumate e spesso facilmente confondibili. Storie tutte italiane cui la Calabria non si sottrae affatto, mettendoci anzi un marchio di fabbrica quasi a volerle rendere originali e riconoscibili nel bailamme del bel Paese.
Il Vangelo secondo Don Stilo è un titolo che Belluscio aveva voluto fortemente per il suo valore simbolico, per ricordare la figura del sacerdote di Africo protagonista deltrasferimento di quella comunità dall’Aspromonte al mare nel 1951. Il volume, giunto a trent’anni esatti da quello di Stajano, suona quasi come un estremo tentativo di ristabilire un giusto equilibro in un frangente storico dove le analogie si sprecano.
Un copione che si ripete, ma da rileggere
Rivisitando in chiave attuale l’essenza dell’uomo e del prete Giovanni Stilo – non solo attraverso le letture, ma anche e soprattutto attraverso i racconti di chi lo ha conosciuto con sentimenti opposti – ad essere sincero non trovo differenze in un copione che si ripete puntualeogni qualvolta si parla di personaggi che nel bene e nel male hanno segnato un’epoca.
Sulla sua figura si è detto di tutto, quasi come se sotto il crocefisso avessero trovato spazio anche tante altre cose, dai grembiuli della massoneria, alle pistole della ‘ndrangheta, dai servizi deviati alle agende della politica nazionale. Insomma, più che un prete, un catalizzatore di interessi oscuri, un deus ex machina di disegni complessi, capace di intrattenere rapporti tanto con i vertici di Cosa Nostra, quanto con i salotti buoni della politica romana.
Africo vecchia ai tempi dell’alluvione
Oggi di Don Stilo, di Belluscio, di Stajano non si parla quasi più. Gli anni sembrano avere cancellato con le persone anche i ricordi. Ma certe figure meriterebbero invece un’opera di rivisitazione critica ed asettica da estendere ai ragazzi delle scuole della Locride e più in generale della regione, anche e soprattutto perché l’analisi attenta di uomini e fatti restituisce in modo plastico i contorni dello scenario storico sullo sfondo.
Il tempo che passa ha il pregio di offrire un’occasione di analisi più distaccata ed imparziale sul passato. E spiega di conseguenza anche molto del presente di questa terra, mutata nei volti e in larga parte anche nello spirito della sua gente, rimasta per contro quasi identica nel fascino del suo paesaggio.
Neanche il tempo di capire cosa fosse e a cosa potesse servire il Metaverso che dall’angolo sbuca ChatGPT. Praticamente una soluzione di intelligenza artificiale, creata dalla californiana OpenAI, capace di risolvere equazioni, comporre poesie, elaborare testi, addirittura superare, come già sperimentato, test di ammissione alle Graduate School. Basta fargli una domanda on line e lei/lui (dipende dalla fluidità di software) in pochi istanti elabora risposte.
Secondo Christian Terwiesch, docente della prestigiosa Wharton Business School della Pennsylvania, «ChatGPT è in grado di surclassare alcuni dei suoi migliori studenti all’esame sul corso di operation management, nel Master in Business Administration».
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ChatGPT e l’analfabetismo funzionale
C’è da restare affascinati. Certo il sistema ha dei limiti, nel senso che genera testo incrociando la conoscenza che incontra nei miliardi di documenti presenti in rete. Non ha senso critico, non è capace di correggersi o di sviluppare idee nuove. Per il momento, ancora, non lo fa. Di sicuro con questa chatbox vanno in soffitta, da subito, compiti a casa, prove concorsuali, esami di stato e persino, forse, le lettere d’amore.
Fare i conti con l’intelligenza artificiale sarà la vera sfida educativa ed economica dei prossimi anni. Rischiamo di vedere intere generazioni condannate precocemente ad una sorta di subdolo analfabetismo funzionale. Non è proprio un caso se, già da tempo ormai, organismi internazionali del calibro del World Economic Forum, avvertono che già «dal 2025, addirittura il 50% di tutti i lavoratori avrà bisogno di reskilling (ristrutturazione delle competenze) e il 40% delle competenze base degli attuali lavoratori cambierà».
Niente paura né facili entusiasmi
Intelligenza artificiale, Internet dei Sensi e, da poco, Metaverso e ChatGPT, appaiono disegnare traiettorie tecnologiche destinate a rivoluzionare i processi produttivi, i modelli di consumo e la socialità.
Si tratterà, come al solito, di governare l’innovazione senza arretrare spaventati dinanzi alle nuove opportunità. E anche, diciamocelo pure, di non esaltarci anzitempo rispetto ai miracoli promessi/minacciati dall’intelligenza artificiale.
Delle due l’una: o si condanna la società all’analfabetismo tecnologico funzionale o si cambia il modello sociale di produzione. Immaginare, oggi, carriere lavorative e contributive di 40 anni prima di andare in pensione è, praticamente, fumettistico. In quarant’anni, con l’attuale velocità di trasformazione, si succedono almeno quattro generazioni tecnologiche.
L’Università della Calabria e l’intelligenza artificiale
In tutto ciò la bistrattata Calabria appare meno fragile e ultima, come da consolidato copione. L’Università della Calabria vanta infatti competenze e professionalità che la pongono ai primi posti nelle graduatorie mondiali dell’intelligenza artificiale. Roberto Occhiuto conosce bene questo primato e sembra sinceramente intenzionato a farne un vantaggio competitivo per le sue politiche di sviluppo. La recente istituzione del corso di laurea in Medicina e Tecnologie Digitali ne è la prima importante testimonianza.
L’Università della Calabria
Ma i campi sono praticamente infiniti. Metaverso e promozione turistica, intelligenza artificiale nell’agricoltura di precisione, ChatGPT nell’assistenza sociale e tantissimi ancora.
Paradossalmente, o quasi, la Calabria potrebbe diventare la regione leader nel Mediterraneo per lo sviluppo e l’implementazione di nuove catene di valore economico e sociale supportate da soluzioni di intelligenza artificiale. Vogliamo provarci?
Provate ad immaginare di essere un insegnantein un paesino della Locride, o della Sibaritide, magari una maestra in una scuola elementare che assieme alla caserma dei Carabinieri è il solo presidio dello Stato in un luogo di povertà educativa, sociale, materiale e dove i nomi di certe famiglie nemmeno si pensano e la parola ‘ndrangheta non viene pronunciata. Provate a pensarvi tutti i giorni su un qualche trenino che sembra uscito da un film ambientato nel Far west per arrivare in un’aula dove c’è ancora la vecchia lavagna con i gessetti e avere lo scopo di guidare per mano quei bambini verso una opportunità diversa.
Valditara e gli stipendi a scuola: Nord vs Sud
Quanto dovrebbe guadagnare quella maestra? Quale dovrebbe essere lo stipendio di quell’insegnante? Certo, nella Calabria profonda il costo della vita è significativamente più basso che a Milano o a Reggio Emilia, ma nemmeno il lavoro è uguale: è più difficile.
La scuola in certi paesini calabresi è un fortino assediato e qualcuno deve andare a raccontarglielo al ministro Valditara che invece vorrebbe fare la differenza, in sottrazione, tra i docenti del Sud e quelli del Nord.
Il ministro ha poi parzialmente rettificato, praticando un vecchio esercizio caro alla destra, quello di buttare il sasso e poi dire che si è equivocato. In realtà, a ben guardare la rettifica non smentisce l’idea di nuove gabbie salariali. Nell’interpretazione che ha fornito il ministro, il contratto nazionale – bontà sua – non si toccherebbe, ma le risorse per pagare meglio i prof del Nord potrebbero giungere dai privati, oppure dalle amministrazioni pubbliche, notoriamente più ricche di quelle meridionali.
Insomma, la disuguaglianza retributiva, scacciata dalla porta, rientrerebbe dalla finestra lasciata apposta spalancata.
Se questa è autonomia differenziata
Si tratta, a ben guardare, di una delle forme dell’Autonomia differenziata, applicata di traverso alla scuola pubblica, da sempre luogo di conquista per la destra. E mentre si dibatte su quanto sia ingiusto, oppure opportuno, praticare la proposta del ministro, si eludeil tema centrale: qual è il valore del lavoro di un prof? Quanto “costa” (per usare un concetto caro alla destra liberista) la trasmissione dei saperi? Quanto costa la riproduzione dei valori di democrazia, uguaglianza, libertà, soprattutto in quei contesti dove essi sono minacciati ogni giorno? Insomma, quanti soldi dovremmo dare a quella maestra che ogni giorno racconta ai suoi scolari, in un’aula della Calabria profonda, che davanti ai problemi «uscirne da soli è egoismo, farlo assieme è politica», cioè partecipazione e democrazia?
Ci sono temi che non sono di destra o di sinistra, perché sono bisogni e diritti garantiti dalla Costituzione. Per esempio, la Sanità. Ci sono temi che non dovrebbero entrare nel maledetto spoils system, perché quello che i cittadini si aspettano dalla politica è che metta la persona giusta al posto giusto, e non il più fedele. Ci sono temi universali che toccano la pelle delle persone, che non dovrebbero mai essere oggetto di una contesa personale di coalizione, di corrente, di vicinato. Per esempio, le Pari Opportunità.
Pari opportunità: il caso De Blasio
E invece stavolta è successo, alla Regione Calabria, un grottesco incidente: Daniela De Blasio, nominata alla presidenza della Commissione, si è dimessa dopo 24 ore. Fattore scatenante, un comunicato di Fratelli d’Italia che rivendicava la carica. Motivo ufficiale e diplomatico, l’impegno della manager reggina – un lungo curriculum sui temi di genere, incarichi di rilievo nazionale, lo Sportello Donna – accanto alla vicepresidente Giuseppina Princi.
La sede del Consiglio regionale della Calabria
Un incidente di percorso per una Giunta che sta lavorando molto sul piano dell’immagine, sua e della Calabria. Ma questa vicenda è un case-history sul quale forse è il caso di fare un ragionamento. Sono vicende così che allontanano i cittadini dalla politica. Dove domina il gusto del parlare, dei comunicati ermetici e comprensibili solo agli addetti ai lavori.
Le poltrone di Fratelli d’Italia
Capita che il presidente del Consiglio regionale, il leghista Mancuso, faccia i complimenti a De Blasio per la nomina alle Pari opportunità, e che poi arrivi in tempo reale il comunicato polemico di Fratelli d’Italia. Che testualmente scrive: «Non siamo attaccati alle poltrone, però non possiamo rimanere impassibili». Tralasciando l’uso del termine “poltrona” e cioè il contrario di una concezione della politica al servizio del cittadino: anche in termini di comunicazione, sembra che la pari opportunità sia quella di dividersi le cariche, quindi l’uso di quel termine è un autogol.
De Blasio e Mancuso
Io da cittadino avrei voluto sapere e capire perché la dottoressa De Blasio non va bene, e quali sono le idee dei partiti in un comparto così sensibile, dove la disoccupazione femminile è sopra il 30 per cento, a livelli peggiori rispetto a dieci anni fa. De Blasio ha preso 10 voti su 11 in Commissione, quindi una nomina bipartisan, assenti solo i due consiglieri di FdI. Una scelta con una sua logica e con un certo consenso.
Invece, tanto tempo perduto, e una sfiducia nel Palazzo che cresce.
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