Categoria: Opinioni

  • Alla ricerca del voto perduto

    Alla ricerca del voto perduto

    Quasi il 60% dei calabresi è rimasto indifferente al richiamo della partecipazione democratica, decidendo di non andare a votare e questo dato è la misura della sconfitta della politica, tutta intera, sia quella che sta brindando, che quella che si lecca le ferite.

    Roberto De Luca, docente di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dispes, ha ormai un approccio disincantato nei confronti della disaffezione dilagante verso il voto, di cui coglie le origini utili per proporre alcune interpretazioni.

    L’importanza di poter scegliere

    “La chiave per ridestare la partecipazione dei cittadini è il voto di preferenza – spiega il docente – nelle comunali e nelle regionali l’affluenza aumenta rispetto alle politiche”. La scelta del candidato restituisce importanza al voto, assume maggiore responsabilità, ci si sente meno alieni rispetto ai risultati. Preferenza dunque significa partecipazione, ma non facciamoci illusioni, perché il voto, pur avendo per tutti lo stesso valore, non ha la stessa qualità.

    Occhiuto e Tridico

    Il voto “ragionato”

    “Il voto maturato all’ultimo minuto, dopo aver valutato e pesato candidati e programmi – spiega ancora De Luca – è un voto di qualità, perché esprime una scelta ragionata”. Ma questo voto di qualità, che potremmo definire d’opinione, quanto pesa realmente sulla bilancia elettorale? Probabilmente assai poco, anche grazie alla significativa presenza nelle liste di quelli che De Luca chiama “grandi elettori”, cioè persone in grado di catalizzare enormi numeri di consensi sulla propria persona, portando in dote alla lista un importante spinta verso il successo, come è accaduto a Gianluca Gallo, assessore uscente e vero trionfatore con i suoi 30 mila voti, che lui non esita ad interpretare come il premio per quattro anni di duro lavoro.

    Gianluca Gallo recordman di consensi

    La qualità del voto e la qualità degli eletti

    Ci sono altre categorie di catalizzatori di voti, come per esempio i sindaci e in questo caso il voto è davvero d’opinione. “Quando accade che un sindaco si candidi, per esempio alle regionali, spesso raccoglie vasti consensi. Si tratta di voti che confermano la buona considerazione verso il lavoro svolto si amministratore, un consenso costruito sulla base di una valutazione concreta”, continua De Luca, per il quale in questi casi si può certamente parlare di “voto ragionato e per ciò stesso di qualità”. Da questo emerge con una certa evidenza he esiste una relazione tra qualità del voto e qualità dei destinatari del voto stesso, cioè tra qualità dell’elettorato e qualità degli eletti. “Se il voto maturato sulla scorta di una esperienza concreta di buon governo, o sulla valutazione di un programma, oppure sul giudizio espresso sulla credibilità dei candidati è certamente un voto di qualità, allora ugualmemte di qualità saranno gli eletti”, conclude il docente.

    L’astensionismo di chi rinuncia a far sentire la propria voce

    La crisi dei partiti e il nuovo consenso

    A questo punto vale la pena guardare alle dinamiche che costruiscono il nuovo consenso. “La crisi dei partiti e la fine del finanziamento pubblico, hanno fatto scomparire gli aparati, le strutture, le sezioni, da cui avevano origine forme di militanza che erano i mattoni del consenso, mentre oggi le sedi dei partiti, per esempio il Pd, sono solo luoghi di conflitto tra truppe diverse dello stesso partito”, fotografa lapidariamente De Luca, spiegando che quei luoghi di confronto e discussione, oggi sono solo spazi per riti e liturgie distanti dalle persone. E qui veniamo all’impotenza della siistra, perché è chiaro che un partito frammentato, litigioso e percepito come separato dal reale, non sia in grado di portare a sé la famosa società civile, che oggi è rappresentata dalle associaizoni del Terzo settore. Solo intercettando quell’universo si può davvero imaginare di vivificare la proposta politica.

    Wanda Ferro, emissaria in Calabria della Meloni, non è stata eletta.

    Sconfitte inattese

    Fin quando questo sforzo non sarà tentato, saremo sempre ostaggi di chi possiede e gestisce pacchetti piuttosto ampi di voti, senza dimenticare che contro questi satrapi nulla possono nemmeno potenti emissari romani. E’ il caso di Wanda Ferro, influente sottosegretaria del governo candidata alle regionali come diretta emanazione della Meloni. Doveva essere un trionfo, invece è stata una umiliante sconfitta. E comunque chi oggi muove voti come pedine, non deve peccare di Hybris, perché le recenti elezioni raccontano pure di declini precipitosi di chi in passato era stato tra i grandi rastrellatori di voti, come è accaduto per Enza Bruno Bossio e Franco Iacucci.

    La recente manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese (Foto di Francesco Arena)

    La moltitudine nelle piazze e le urne vuote

    Su queste elezioni più che sulle altre aleggia beffardo lo spettro di Pietro Nenni, anzi della sua frase riguardo le “piazze piene e le urne vuote”. Chi avesse immaginato che la straordinaria partecipazione alle manifestazioni a sostegno del popolo palestinese si sarebbe trasformata in consensi per la sinistra, ha scoperto di aver sbagliato alla grande. In realtà non era difficile immaginare che le cose sarebbero andare diversamente, visto che chi è sceso in piazza appartiene a quella “Moltitudine” non riconducibile a un recinto definito, spesso sospettosa verso le elezioni che considerate un rito stanco e comunque per nulla organica alla sinistra ufficiale. Dentro quella moltitudine c’è certamente una discreta quantità di persone che la loro scelta l’hanno portata fino alle urne e si tratta secondo De Luca “di quei giovani colti che avevo visto all’Unical e il cui voto ha qualla qualità che serve alla democrazia”.

  • Evviva le Minne

    Evviva le Minne

     

                                                                                                   di Paola Sammarro

    Questo doveva essere un articolo “ironico, divertente” e allo stesso tempo riflessivo, su quanto le tette (le minne, per noi calabresi) siano da sempre croce e delizia per gli uomini, capaci di trasformare qualsiasi maschio in un ebete bambinone pervertito. Solo che non mi viene nessun taglio ironico, non ho voglia di ripercorrere nessun mito antropologico e culturale sul seno femminile, e spiegare agli uomini perché è profondamente da stupidi osservare le “minne” delle femmine come se non ne avessero mai viste di altre in vita loro.

    Il caso Grillo e le “ragazzate”

    Solo a scriverlo mi sto profondamente annoiando e pure – a dire il vero – infastidendo. Perché mentre penso al taglio di questo articolo Ciro Grillo e tre suoi amici sono stati condannati in primo grado per violenza sessuale di gruppo a 8 anni, quasi altri 6 anni per convincere tribunali e opinione pubblica che non è stata proprio una “ragazzata consensuale” ma un vero e proprio stupro. E allora ogni volta dover trovare il giusto equilibrio tra serietà, leggerezza, informazione e rivendicazione dell’ovvio, diventa un impegno di una pesantezza che mi sono pure seccata di sostenere.

    Il seno femminile nel mondo dell’immaginario

    Mostrare le minne

    Ma davvero a quarant’anni devo rispondere a chi sostiene che se esci con una scollatura profonda è perché “vuoi che ti guardano le minne, sennò ti copri!”? No Machominchion (nome di fantasia, nda), metto una maglia scollata perché semplicemente ci sto più comoda, mi piace di più, magari mi piace pure osservare le mie minne allo specchio, ma resta che io non lo debba giustificare a nessuno e che tu non sia autorizzato a fissarle-toccarle-giudicarle, come se fossero un bene pubblico. Il corpo delle donne non è un oggetto, non è un mezzo sessuale non consensuale per esprimere la propria foga rozza e priva di desiderabilità, che è la vostra idea di approccio sessuale.

    La Madonna del Latte, opera del Borgognone, 1490 circa

    Santa o Puttana

    “Se metti in mostra il seno e perché vuoi che te lo guardino, che ti lamenti a fare? Fanno le puttane in vetrina sui social e poi si lamentano” Il neologismo Slut-shaming, termine inglese, indica l’atto di umiliare, colpevolizzare o denigrare una persona (soprattutto una donna) per il suo comportamento sessuale reale o percepito, spesso accusandola di essere “troppo disinibita”, “promiscua” o “immorale”.

    E questo atteggiamento non lo ritroviamo solo nelle espressioni di un “vecchio bavoso” seduto al bar squallido di periferia, ma in ogni adolescente, ragazzo, uomo, a cui continuiamo ad alimentare e normalizzare una cultura dello stupro, in cui la colpa viene spostata dalla persona che commette la violenza a quella che la subisce.

    La violenza non è solo lo stupro

    La violenza – giusto per chiarire il concetto – non è solo lo stupro. Quando si parla di cultura dello stupro parliamo pure di quegli atteggiamenti che ci paiono “bonari” e che invece ci fanno cadere le “minne a terra” e sono: la molestia verbale di strada, che consiste in commenti sessuali non richiesti, fischi, apprezzamenti volgari o allusioni fatte da sconosciuti in luoghi pubblici — per esempio per strada, alla fermata dell’autobus, nei parchi, per una foto sui social.

    Insomma Giacominchio (altro nome di fantasia) smettila di invadere ogni spazio femminile. Lasciaci libere di avere le tette! Di mostrarle se vogliamo, di toccarcele, di coprirle, di non usare reggiseni. Smettila di fischiarci come a delle capre per strada, facendoci sentire osservate, insicure o costrette a modificare il nostro modo di fare per non farvi salire una “munta” ingiustificata (munta in calabrese è l’eccitazione sessuale).

    Approcci non richiesti, contatti fisici invadenti, sguardi insistenti, per queste minne e per come in generale ci vestiamo hanno rotto le scatole. E non sono per niente – cosa importante – eccitanti.

    La sessualizzazione delle minne

    L’erotizzazione dei seni non è naturale o inevitabile. Dipende da costruzioni sociali, da tutti i porno visti, dalle commedie di Pierino che vi hanno spacciato come film divertenti. Dipende dalla pessima educazione sessuale che avete ricevuto e che non siete stati capaci di decostruire. E dipende pure molto dalla religione, dal mito “sante o puttane” e anche dal fatto che gli uomini sono abituati ad invadere ogni spazio pubblico e privato delle donne, compreso ovviamente il loro corpo.

    Lo sa benissimo la società patriarcale e capitalista in cui viviamo, tant’è che vi sbatte in faccia le minne ovunque: seni usati per vendere di tutto, dai reggiseni ai profumi, alle automobili. In tv, nel cinema, nella pornografia, il topless è diventato addirittura un codice erotico potente, spesso più del nudo integrale. Il seno è uno dei principali oggetti di desiderio, ingrandito, messo in scena, modificato chirurgicamente.

    Il corpo come oggetto sessuale

    La colpa è dei capezzoli, solo femminili

    E poi il massimo della dissociazione cognitiva in cui tutti siamo immersi: i social media e la morale! Instagram e Facebook censurano capezzoli femminili, ma non maschili — creando una sessualizzazione basata su una differenza arbitraria e culturale, non anatomica. Il seno diventa così merce erotica, oggetto del desiderio maschile, e parte di un ecosistema visivo e capitalistico che ne sfrutta l’attrazione.

    E quindi, Graziello (nome di fantasia), veramente… ti rendi conto di quanto “si ciuatu”? (ciotia in calabrese vuol dire cretinaggine)

  • Charlie Kirk, se l’omicidio non è una livella

    Charlie Kirk, se l’omicidio non è una livella

    Charlie Kirk, l’estremista di destra ucciso in America qualche giorno fa, è stato commemorato nell’aula del parlamento italiano. A parte la domanda su cosa c’entri la vittima di un crimine commesso dall’altra parte del mondo con l’assemblea degli eletti in Italia, vale la pena ricordare che la richiesta è venuta da Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d’Italia cui piacerebbe andare in giro abbigliato da nazista delle Ss e purtroppo non c’è niente da ridere.

    Bignami nella sua divisa da nazista e in un selfie con Giorgia Meloni

    Fa parte, tutta questa pantomima, dell’accorta regia di strumentalizzazione che la destra meloniana e salviniana fa di un crimine che in nessun modo ci riguarda. Anzi, forse un poco sì, solo che a preoccuparsi dovrebbero essere i sostenitori di tutto quello che non piace a chi governa, vista la mole di parole d’odio che si sono ascoltate fin qui. Ma al netto della bizzarria di celebrare un morto che è diventato il simbolo dell’amore e della libertà, pur avendo in vita predicato nefandezze inenarrabili (nel link il suggestivo monologo di Stefano Massini che ne elenca alcune), vorrei raccontarvi una storia. Una storia, purtroppo, vera.

    Omicidio in USA: Charlie Kirk e Melissa Hortmann

    Nella notte del 14 giugno di quest’anno, un uomo bianco, vestito in modo da sembrare un poliziotto, con giubotto antiproiettili, entrò nella casa di Melissa Hortmann e la uccise. E dato che c’era ammazzò pure il marito. Melissa era una deputata del Partito democratico e il marito un rappresentante dello stesso partito. L’assassino ferì anche Joh Hoffman, pure lui un senatore democratico e la moglie. Le ragioni degli omicidi compiuti e di quelli mancati sono legate all’azione politica delle vittime, soprattutto di Melissa, impegnata attivamente nel contrastare le direttive anti migratorie di Trump.

    Melissa Hortman e il marito, rappresentati democratici uccisi in un attentato politico

    Quando l’omicida fu trovato, nella sua casa furono rinvenute cosette assai interessanti: una lista di circa settanta nomi di rappresentanti del Partito democratico da uccidere. Biglietti contro l’annunciata manifestazione pacifica contro Trump e parecchie munizioni.

    Non tutti i morti sono uguali

    In quella occasione non si ricorda alcuna smorfia di indignazione dei parlamentari di Fratelli d’Italia. Bignami doveva essere distratto. Anche la Meloni non si accorse di nulla. Eppure si trattava di un attentato che veniva dall’altra parte dell’oceano alla libertà di opinione e di parola e alla vita di rappresentati democraticamente eletti. Non ci furono proclami per la difesa della libertà democratica, contro l’incitazione all’odio. Né tanto meno l’aula di Montecitorio fu chiamata ad alcuna commemorazione.

    L’odio per l’avversario come pratica politica

    Tutto questo deve essere perché Trump non avvisò la Meloni. Oppure perché ci sono forse, nella gerarchia delle tragedie, morti di serie A e altre che possono essere dimenticate. Oppure, ancora, perché nel Dna di certe forze politiche, magari relegata e chiusa nella parte più recondita della loro natura, resta l’idea che l’eliminazione degli oppositori sia legittimata. Alla fine con Matteotti andò esattamente così.

  • L’ultima soluzione finale e la maledizione di Levi

    L’ultima soluzione finale e la maledizione di Levi

    Ve le ricordate le parole di Primo Levi? Sì che ve le ricordate, ce le hanno fatte imparare a scuola e sempre a scuola le leggiamo ogni anno, in occasione del Giorno della Memoria, quando ricordiamo i sei milioni di ebrei sterminati dai nazisti (in Italia con la complicità del regime fascista). Ve le ricordate vero? Quando Levi chiede retoricamente e con rassegnato dolore

    se questo è un uomo
    che lavora nel fango
    che non conosce pace
    che lotta per mezzo pane

    e alla fine con la forza della maledizione intima di non dimenticare, di non permettere che sembri che sia stato tutto normale, di lasciare intatto l’orrore. Conviene in questi giorni drammatici ricordarcele queste parole, perché quello che da mesi, da anni, sta accadendo in Palestina non è né diverso, né giusto, né normale, né perdonabile. E’ un genocidio, come pure l’Onu si è deciso a riconoscere e quindi ormai nessuna ipocrisia può negarlo. Si sta compiendo un crudele tentativo di cancellare un popolo. Una soluzione finale.

    Non vi viene in mente un passato lontano che però dimostra di non essere mai davvero passato? Non vi viene in mente la faccia passiva, disarmante, disgustosamente normale di un certo Eichmann, quello della Banalità del Male di Hanna Arendt? Era Eichmann ad avere il compito di realizzare la “soluzione finale”. Chissà che faccia hanno quelli che con gli occhi fissi su uno schermo prendono le coordinate di qualche povera casa con dentro una famiglia palestinese sulla quale fare cadere un missile da centinaia di migliaia di dollari. Sembra un war game, invece è carne e sangue di innocenti.

     

    Questa foto ha vinto l’edizione del World press photo del 2024, ribattezzata la Pietà di Gaza, raffigura il povero corpo di una bambina di cinque anni, uccisa da una bomba israeliana, tenuta in braccio dalla sorella.

    Vittime e carnefici

    Qual è la differenza, vi prego ditemela, tra i boia di uno qualunque dei campi di sterminio nazisti e il ministro israeliano Ben Gviv che fa affiggere davanti alle porte delle celle in cui sono rinchiusi i prigionieri palestinesi, le foto delle loro case distrutte dalle bombe? Dove la differenza tra il rastrellamento del ghetto di Roma del 43 e gli arresti indiscriminati di bambini e adolescenti a Gaza?

    Nell’ipocrisia istituzionalizzata c’è chi inorridisce per il paragone tra un ministro di Netanyahu e un gerarca nazista, oppure pone mille distinguo tra un ufficiale dell’ Idf che ordina di sparare su bambini inermi e quei soldati tedeschi che noi abbiamo visto solo nei film. Eppure certe immagini raccontano un orrore non dissimile, fatto da corpi di bambini sfiniti dalla fame, smembrati dalle bombe, donne e uomini deportati, spogliati di tutto, umiliati, colpiti da raffiche mentre fanno una disperata fila per il cibo.

    Durante l’occupazione israeliana a Gaza sono innumerevoli i bambini morti per denutrizione

    La nuova Soluzione finale

    Appare evidente quale sia l’obiettivo ultimo del massacro perpetrato oggi: una soluzione finale praticata da chi ha scordato il suo passato di vittima nel corso della storia e oggi indossa con consumata abilità l’abito del carnefice potente e spietato. Lo scopo dell’eliminazione fisica di un popolo è stato svelato, con il candore dell’arroganza priva di alcuna forma di pudore, dal ministro delle Finanze del governo israeliano Smotrich, per il quale Gaza è una miniera d’oro sul piano immobiliare e che ha annunciato che “il business plan” della ricostruzione miliardaria è già sulla scrivania di Trump per l’approvazione.

    Una delle imagini generate dall’AI riguardo il futuro immaginato per Gaza

    Costruiranno una città da cui trarre enormi profitti, ma le cui fondamenta saranno posate sul sangue e la sofferenza di innocenti. Non ho conosciuto Primo Levi, non posso sapere cosa avrebbe detto o scritto oggi, davanti allo sterminio di migliaia di palestinesi, civili, donne, bambini. Ho invece conosciuto Settimia Spizzichino, sopravvissuta per coraggio e “tigna”, come avrebbe detto lei stessa, agli orrori di Auschwitz. Posso forse immaginare cosa avrebbe detto contro l’orrore di adesso, lei che visitava le scuole d’Italia per raccontare la mostruosità che aveva vissuto, non diversa da quella inflitta oggi a un altro popolo.

    I pochissimi osservatori presenti a Gaza raccontano che mancando i sudari, i corpi vengono avvolti in teli di plastica

    Le parole di Primo Levi

    Vale la pena di ricordare una intervista di Gad Lerner a Levi, uscita sul Fatto Quotidiano e poi recentemente ripresa da altre testate, fatta a ridosso del massacro commesso dalle Falangi libanesi protette dall’esercito israeliano contro i civili indifesi dei campi profughi di Sabra e Shatila. Le parole di Levi furono durissime contro il falco Ariel Sharon, allora capo del governo di Gerusalemme. Del resto, sono numerosi e importanti gli intellettuali di cultura ebraica a essersi con forza scagliati contro i massacri indiscriminati e contro l’ormai innegabile tentativo di una conquista di territorio che passa attraverso l’eliminazione di un popolo. Né dentro Israele manca una opposizione sempre più forte contro il governo di Netanyahu

    E’ difficile calcolare quanti civili, soprattutto bambini, siano stati uccisi negli attacchi israeliani

    La maledizione incombente

    Oggi per le anime candide che inventano distinguo, che considerano oltraggioso avanzare l’ipotesi di un confronto tra il destino che toccò agli ebrei in Europa negli anni del nazismo e  del fascismo con quanto sta accadendo da tempo immemore in Medio oriente sulla pelle dei palestinesi, cade l’ultimo patetico velo delle parole, quello per cui il termine “genocidio” non si poteva usare.  Ebbene queste persone si rassegnino: è un genocidio.

    Per tutti quelli che lo hanno negato, il consiglio è di rileggere Levi. Quelli che per tutto questo tempo si sono nascosti dietro l’ipocrisia, che hanno fatto finta di non sapere, gli ignavi e i complici avvezzi al silenzio. Gli uomini e donne di Stato e le persone comuni che hanno scelto di fare finta di nulla, come i moltissimi che quando il fumo usciva dai camini dei lager si girarono dall’altra parte. Rileggete quelle parole e più di tutto l’intimazione finale: “Scolpitele nel vostro cuore, Ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.” Questa maledizione è per voi.

     

  • La Calabria che muore di turismo e “vita lenta”

    La Calabria che muore di turismo e “vita lenta”

    «Affittasi spritz o gin tonic per selfie.
    1 €»

    Siamo a Chianalea, villaggio marinaro della cittadina di Scilla, perla di uno dei tratti più affascinanti della Calabria. Perlomeno finora. Accanto all’ingresso di un bar campeggia questa scritta. Forse passa inosservata alle migliaia di turisti che ogni giorno d’estate sfilano per la stradina di Chianalea, stretta fra il mare e la roccia, sempre più sgombra di residenti – stranieri nella loro terra – e più ingombra di baretti e negozi di souvenir. Forse però no. Perché se quel cartello – perfetta sintesi del consumismo ego-edonistico che distingue il nostro secolo – si trova lì, in bilico su una colonnina di mattoni, una ragione ci sarà.

    Parola d’ordine: Turismo

    È l’estate l’ultima speranza della Calabria, terra abusata e abbandonata, vilipesa e “perduta”, per riprendere la tanto criticata espressione di Corrado Augias di qualche tempo fa, periferia d’Europa che nelle ultime stagioni ha scelto il turismo come asso vincente per ribaltare l’esito di una partita forse davvero già scritta.
    Lo slogan lanciato dagli apostoli dello sviluppo economico – da prassi disinteressati al progresso sociale – è chiaro e unanime: è sul turismo che bisogna puntare. Senza remora alcuna, senza più tergiversare.

    E così che internet, radio, giornali e telegiornali ci inondano di articoli e servizi dai toni sensazionalistici che celebrano il boom turistico della Calabria e le sue meraviglie da scoprire. Un bombardamento mai visto prima, esercitato con una coralità inedita, tirannica. E pazienza se poi i visitatori in realtà sono dei transitatori diretti soltanto ai tre o quattro paesini della costa convertiti sempre di più in luna park per gli stupri di gruppo, socialmente accettati, dei turisti verso il patrimonio ambientale e sociale della nostra fragile regione; pazienza se accanto alle bellezze permangano orrori che ancora facciamo fatica a nominare.

    Corrado Augias racconta pagine della nostra Storia - Teatro di Roma
    Corrado Augias

    “Nemici del popolo”

    La narrazione è quella e non ammette rettifiche o dubbi. Pena, essere bollati come disfattisti e nemici del popolo che “non vogliono il bene della Calabria”.
    È un profluvio di discorsi fascisticamente omologati, conformi al canone imposto dal totalitarismo del pensiero dominante capitalistico, copiati da altre civiltà credute superiori per quel non sanabile senso di inferiorità che noi calabresi ci portiamo dentro. Proclami retorici, parziali, acritici e tornacontistici, e che perciò restano in superficie, giustificati attraverso la solita filastrocca del “bisogna fare vedere le cose belle”. Ché noi quaggiù siamo sempre pronti a parlare solo degli aspetti negativi della nostra terra, giusto?

    In fuga

    Il turismo riuscirà a risollevare la regione dal suo sottosviluppo economico, dal suo isolamento culturale e dalla sua regressione morale? La carta del turismo si rivelerà davvero la panacea di tutti i mali della Calabria come molti credono? A partire magari dallo spopolamento, principale causa e conseguenza della crisi della “penisola della Penisola”?
    Di recente l’Istat ha fotografato una volta ancora che la fuga dei calabresi dalla regione e il suo conseguente invecchiamento non cessano, stimando un progressivo declino demografico almeno fino al 2050. Nello specifico, il fenomeno migratorio riguarda il 5,5% della popolazione stanziale in Calabria, più del doppio rispetto alla media dell’intera Italia che si attesta al 2,3%.

    Le ragioni della emigrazione e dello spopolamento della Calabria problema che interessa il 75% dei comuni calabresi, 306 su 404 totali – sono note a tutti, anche a chi suole ficcare la testa sotto la sabbia per negare la realtà. Si abbandona la regione per mancanza di opportunità di lavoro, si fugge a causa della mobilità interna disastrosa, perché i , si va via perché il diritto essenziale della salute è tutt’altro che garantito.

    La carta sbagliata del turismo

    Al fine di invertire la rotta, la Calabria non è certo la prima terra in difficoltà dell’Europa di frontiera a puntare tutte le fiches sul turismo. E non sarà sicuramente l’ultima: messaggio chiaro lo lanciano le compagnie aeree a basso costo che ogni giorno annunciano nuovi itinerari per collegare, turisticamente, i punti più estremi del Vecchio Continente. Giungendo a questa decisione coi suoi tempi, la Calabria si ritroverebbe quindi addosso una indubbia colpa: rifiutarsi di vedere che i territori che nel recente passato hanno puntato troppo sull’industria del turismo si trovano già in difficoltà, perché non riescono a contenere lo straripamento o la flessione del settore, a gestire il sovraccarico turistico – il cosiddetto overtourism – o, per converso, una eventuale sorte negativa del numero magico su cui hanno concentrato tutte le risorse.

    Autentica come i social

    Fra luglio e agosto, momento della massima, relativa pressione turistica, i paesi della Calabria cambiano pelle. Di colpo vengono vestiti a festa per mostrarsi al turista desideroso di trovare quello che si aspetta, ovvero quello che gli hanno raccontato. I paesi si trasformano in oggetti culturali da servire in pasto ai voraci e insaziabili clic di malcapitati turisti a caccia di “esperienze autentiche”, osservatori esterni sorpresi dall’esotismo – pur artificiale, allestito per l’occasione – che si dispiega, contorce e libra dinanzi loro.

    ambulante-turismo-calabria
    Un venditore ambulante sulla costa calabrese

    Ecco un contadino che zappa la terra, dei ragazzini che calciano il pallone in una piazzetta assolata, un capannello di signore in abiti poveri che sfornano il pane, una vecchina che rammenda un calzino.
    Scaglie di vita indigena, frammenti di quotidianità che senza rispetto vengono profanati e messi alla berlina – per scopi commerciali e di immagine – sulle reti sociali dalla pletora di nocivi influencer e content creator, per poi essere cinicamente ghettizzati sotto il marchio di “vita lenta”.

    Gli adoratori

    Di estate in estate si moltiplicano le greggi degli adoratori della “vita lenta” – che poi sarebbe la quotidianità della civiltà contadina in progressiva estinzione dal secondo dopoguerra.
    “Vita lenta”, certo. Quel che importa è che sia quella degli altri, ché i suddetti adoratori non ci vivrebbero neppure un giorno coi problemi cronici e autentici – loro sì – del Mezzogiorno: le strade dissestate, l’acqua pubblica che oggi c’è e domani chissà, le connessioni internet a singhiozzo, i disservizi che sono la regola quasi dovunque, in specie nelle aree interne. Difficoltà sistemiche e strutturali con cui i residenti convivono da sempre, trasformate dai clic di massa in folclore da mostrare ed enfatizzare. “Restare è un’arte” scrive l’antropologo e pensatore Vito Teti, restare è “un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali”. Insomma, vivere al Sud non è affatto per tutti.

    W la vita lenta (degli altri, però)!

    Eppure, la “vita lenta” piace assai proprio a chi non potrebbe mai rinunciare all’efficienza generale dei luoghi di residenza – l’Altitalia e l’Europa centrosettentrionale –, ai ritmi della città, agli stimoli della metropoli, all’affidabilità dei trasporti pubblici “di su”, al benessere diffuso, al lavoro performante, alla serenità derivante dallo stipendio sicuro e da una posizione sociale riconosciuta – fattori che, sovente, al Sud rappresentano vere e proprie chimere.

    “Vita lenta” guardata, fotografata, mostrata, consumata ed espulsa, a debita distanza, dal di là della gabbia, non sia mai che qualche indigeno esca dal ruolo imposto di “soggetto da fotografare”, si avvicini e ci chieda di barattare la sua “vita lenta”, lentissima, improduttiva, all’apparenza immobile, con la nostra reale quotidianità fatta di giornate frenetiche e produttive, di call una tira l’altra, di reperibilità assoluta, di onnipresenza sociale e virtuale, di aperitivi in centro, di weekend fuori porta, di tavoli prenotati al secondo turno nella pizzeria gourmet più à la page del momento.

    L’economia del folclore

    I problemi reali trasfigurati in esotismo – o neo-esotismo – dalle lenti distorte dei turisti si affiancano alle messe in scena simulate, confezionate per imbambolare il “forestiero” e rafforzare il carico di triti stereotipi che si porta dietro, dargli quel che si aspetta di vedere.
    “Abbelliti” per il turista, i paesi ne escono invece snaturati, sempre più imbruttiti e piegati al cattivo gusto dei vacanzieri o degli ex residenti che, chissà per quale perverso ordine di idee, desiderano sempre trovare tutto come lo si è lasciato al momento della fuga. I paesi si strappano così dalle mani di chi ci vive – da chi li vive –, si addomesticano come bestie selvagge e si rendono buoni per il mercato estero, esportabili un po’ come le ricette dei tanto celebrati amari calabresi, aggiustate per piacere al palato degli stranieri.

    Rodolphe Christin

    Paesi mercificati, tenuti in vita soltanto per il divertimento del turista, il suo passaggio e, chiaramente, la sua spesa, ché è pure superfluo aggiungere che codesti teatrini sono spesso allestiti per ragioni di marketing e per fini economici.
    “Interi aspetti della realtà sono ormai costruiti o tenuti in vita per il beneficio principale di un turista che non farà altro che passare e spendere” scrive il sociologo francese Rodolphe Christin nel suo Manuale dell’antiturismo.

    Più da perdere o da guadagnare?

    La turistificazione incentiva il meccanismo di semplificazione delle complessità di terre contraddittorie e plurali come la Calabria. E c’è più da perdere che da guadagnare, con le alterità tipiche che vengono sradicate, così come le tradizioni, le consuetudini di vicinato, i legami financo; col pericolo che ogni peculiarità e diversità autoctona venga pian piano soppressa, scartata “a beneficio di messe in scena protette, in cui il turista circola incanalato in itinerari, […] entro spazi resi propizi all’esecuzione di attività programmate, spesso commerciali”, nota sempre Christin.

    Il rischio concreto è quello di vedere cancellato il conio antropologico dei luoghi, assediati prima e intossicati poi da un turismo sempre più di passaggio, mordi e fuggi, consumistico, che occupa gli spazi senza animarli.
    Siamo seriamente convinti che stravolgendo l’aspetto e il ritmo dei paesi, uniformandoli a un standard unico, si possano salvare comunità abbandonate a se stesse, martoriate da decenni di soprusi e saccheggi, dissanguate e umiliate nella completa indifferenza dei governi centrali e locali?

    Piatti da consumare

    La domanda è rivolta a tutti coloro che contribuiscono a questo genocidio culturale in itinere, ai diversi attori che traggono profitto dall’industria del turismo: albergatori, gestori di bar, lidi e bed & breakfast, operatori turistici, influencer, organizzatori di eventi. Tutti assieme, accumunati dal cinismo e dalla pressoché assoluta carenza di etica e senso di responsabilità, bramosi soltanto di denaro, apparecchiano il piatto da consumare – verbo centrale del nostro tempo, secondo lo spartito del capitalismo cui la nostra società occidentale afferisce – anche attraverso l’organizzazione di centinaia di pacchiani e inutili manifestazioni, eventi e festival, pure loro del tutto appiattiti a modelli dominanti, ridotti a un conteggio onanistico di presenze, realizzati spesso senza alcuna attinenza territoriale e culturale: feste della birra – in quella che per i greci era l’Enotria… –, revival anni ’80 e ’90, sagre della ’nduja e del tartufo, scopiazzati qua e là e trapiantati con brutalità squadrista in ogni angolo della regione durante la “bella stagione”.

    Arriverà l’emergenza overtourism in Calabria?

    Fortunatamente – e ce lo confermano i dati Istat – in Calabria restiamo comunque lontanissimi dal parlare di fenomeno overtourism – o iperturismo –, ché come una rondine non fa primavera, anche una giornata di sovraffollamento eccezionale non certifica un fatto.
    È però evidente che alcuni segnali ci siano e che sia ferrea la volontà, soprattutto politica, di turistificare la Calabria, di “smeraldizzarla” tutta, dalla Costa dei Cedri a quella dei Gelsomini. Pertanto, è fondamentale parlare fin d’ora dei rischi della turistificazione forzata dei territori.

    Una lettrice solitaria sulla spiaggia di Zambrone

    Il turismo condiziona la qualità della vita dei residenti – destinati a essere sempre di meno, lo abbiamo visto – e lo fa in maniera positiva soltanto in minima parte, con il guadagno immediato di oggi, ma particolarmente in maniera negativa, nel medio-lungo periodo, con l’inquinamento ambientale prodotto dalla eccessiva e insostenibile pressione turistica a cui segue l’aumento del traffico, dei rifiuti, delle criticità legate alla insufficienza idrica, l’inasprimento dei rincari sulle tasche dei locali e, infine, delle inevitabili tensioni sociali fra residenti resistenti (in diminuzione) e visitatori (in crescita) – a queste condizioni è impossibile creare un sano rapporto fra le due parti, condicio sine qua non per concepire un buon turismo.

    Ecco, forse sarebbe ora di considerare i residenti non come mere comparse di un set cinematografico messo a punto per altri, ma di coinvolgerli nell’elaborazione dei piani turistici, affinché le attività turistiche comincino a essere integrate a quelle locali.

    La scelta del turismo in Calabria

    Se non accompagnato da una consapevole e attenta politica di prevenzione, il tanto angelicato turismo, il menzionatissimo “volano di sviluppo” buono per condonare decenni di empietà e negligenze, crollerà spiaccicato a terra. Le rovine giaceranno, sparse un po’ ovunque, come le assi di legno dei lidi già belli e smontati con la prima pioggia di settembre, mentre il balneare di turno reciterà la parte dell’impresario in deficit e qualche politicuccio di paese racconterà al microfono dell’amico blogger la favoletta della destagionalizzazione.

    Il turismo non salverà la Calabria. Più verosimilmente, se non compreso e regolato secondo la vocazione naturale della regione e dei suoi abitanti – applicando il sacro principio della medietas, il senso della misura –, ne accelererà il processo di disintegrazione dell’identità.
    Una terra che questa volta non sarà più violata dai capoccioni di Roma, ma finirà tradita e straziata dai suoi stessi figli. Svenduta, regalata per quattro soldi, anzi, per un euro. Il prezzo di uno spritz per selfie a Chianalea.

  • Perché non basta dire “io non l’avrei fatto”

    Perché non basta dire “io non l’avrei fatto”

                                                                                                      di Paola Sammarro

    Gli uomini, la mascolinità, i maschi, non hanno più niente di nuovo da raccontarci. Nessuna scoperta verso sé e verso gli altri, neanche l’ombra di una nuova consapevolezza e costruzione identitaria. Non c’è traccia di emancipazione sociale e culturale, stanno lì “attaccati alle poltrone del privilegio” come i peggiori politici provinciali, ignoranti, grezzi, urlando l’unico slogan che hanno imparato come risposta agli ultimi avvenimenti sociali a cui sono stati chiamati per dare una risposta: “non tutti gli uomini – not all men”

    Del gruppo social “Mia Moglie” ne abbiamo sentito parlare parecchio in questi giorni, oltre 30mila iscritti, per la stragrande maggioranza uomini, condividevano foto intime delle mogli, o presunte tali, a loro insaputa. Quello di cui non abbiamo discusso abbastanza è che quanto accaduto fa parte della cultura dello stupro, e che a gli uomini, in quanto collettività, non interessa gestirlo come fenomeno sociale e come violenza di genere.

    Rape Culture – Cultura dello stupro, cos’è?

    “Cultura dello stupro” è un’espressione utilizzata dagli studi di genere e dai femminismi, per descrivere una “cultura” nella quale gli abusi di genere sono molto diffusi

    e normalizzati, incoraggiati anche gli atteggiamenti e le pratiche che pretendono di avere il controllo sulla sessualità femminile. L’espressione “cultura dello stupro” è quindi molto ampia: non fa esclusivo riferimento allo stupro ma a una serie di pratiche e comportamenti molto diffusi come l’utilizzo di un linguaggio misogino, l’oggettivazione costante del corpo delle donne, la divulgazione di materiale intimo senza il consenso dell’altra parte coinvolta, il cosiddetto “slut shaming“, cioè la stigmatizzazione dei comportamenti e dei desideri sessuali femminili che si discostano dalle aspettative di genere tradizionali, e la colpevolizzazione della vittima quando subisce una violenza, lo spostamento cioè su di lei della responsabilità o di parte della responsabilità di quel che è accaduto.

    Quindi, cosa c’entra il gruppo “Mia Moglie” con la cultura dello stupro?

    Migliaia di uomini ogni giorno diffondono sui social immagini non consensuali di donne sconosciute, compagne, amiche. Telegram ne è pieno ad esempio. Si tratta di un fenomeno diffuso, trattato ancora come una goliardia e come un ulteriore monito per le donne “fate attenzione!” (tanto è sempre un problema delle donne, sono loro a doversi difendere, mica gli uomini a decostruire pratiche violente misogine).

    La violenza sessuale e il non-consenso vengono normalizzati, anzi il non chiedere il consenso è parte del gioco, diventa eccitazione, amplia l’impulso sessuale, l’idea che si possa possedere una donna contro la sua volontà diventa parte del gioco erotico, e i corpi delle donne diventano merce da esporre, commentare, giudicare, scambiare.

    Il gruppo, prima della chiusura, aveva raggiunto i 30 mila iscritti

    La violenza di genere la fanno gli uomini

    Ora, è bene ribadire un concetto fondamentale: la violenza di genere è un fatto sistemico che riguarda soprattutto gli uomini. Sono gli uomini che agiscono violenza verso le donne. E non stiamo parlando di una disputa da “Bar Centrale in qualsiasi paesello nazionale” su cui si discute se sono più violenti gli uomini o le donne, perché non esiste una violenza femminile uguale e speculare alla violenza maschile, le azioni violente che le donne agiscono verso gli uomini, non fanno un sistema culturale fondato su relazioni di potere. Le donne non dominano sistematicamente gli uomini nella società, nelle dinamiche lavorative, in quelle politiche, non fondano teocrazie.

    Perché allora agli uomini non interessa diventare parte attiva di un processo di cambiamento. Gli uomini che in questi giorni sono stati interpellati in merito alla vicenda del gruppo social, hanno dichiarato di non sentirsi responsabili della violenza di genere e hanno sminuito o ridicolizzato a suon di battute la notizia sul gruppo “Mia Moglie”.

    “Io non l’avrei fatto”

    “Non tutti gli uomini sono così, io non l’avrei mai fatto!”. Lo slogan “not all men” divenuto celeberrimo tra gli uomini che hanno la priorità sociale di autoassolversi da colpe e responsabilità, ha radici nel movimento Men’s Right Activists, ed esprime il rifiuto di riconoscere nel patriarcato una parte importante del problema. Nessuna discussione e presa di posizione maschile, con una visione politica e sociale. L’importante quindi è negare che la violenza sulle donne sia un fenomeno sistemico, strutturale, la “strategia interiorizzata e bonaria” è portare il tutto su un piano personale, non certo collettivo. Lo slogan “Not All Men” e il relativo approccio alle questioni di genere, sono nati nella prima metà degli anni 2000 come slogan tra i sostenitori del Men’s Right Movement (MRM) cioè attivisti che lottano per i diritti degli uomini. Chi fa parte del movimento per i diritti degli uomini, si concentra su questioni sociali e sulle politiche adottate dal proprio Stato, volte (a detta di chi fa parte dl movimento), a discriminare gli uomini.

    Gli argomenti del Movimento includono il diritto alla famiglia (come la custodia dei figli, gli alimenti e la distribuzione della proprietà coniugale), la riproduzione, i suicidi, la violenza domestica contro gli uomini, la circoncisione, l’istruzione, gli ammortizzatori sociali e le politiche sanitarie. Il Movimento è nato negli anni Settanta e molti studiosi ritengono che si sia sviluppato in reazione al femminismo.

    Nel 2018, Southern Poverty Law Center ha classificato alcuni gruppi al Movimento per i diritti degli uomini come parte di un’ideologia di odio sotto l’egida della supremazia maschile. La domanda oggi è: può la mascolinità emanciparsi dal proprio Io e diventare un discorso collettivo e di messa in discussione del patriarcato?

                                                     

     

  • Emigrare per non morire

    Emigrare per non morire

    di Giuseppina Pellegrino

    Sociologa della comunicazione Dispes Unical

    Nel furore dei ritorni d’agosto che muovono fiumane da nord a sud, in una stagione estiva turistica che si vorrebbe allungare a primavera e autunno ma si riduce alle solite due settimane a cavallo di Ferragosto, restano sullo sfondo ma continuano silenziose altre correnti di mobilità al contrario, quelle della migrazione sanitaria che da sempre e da troppo tempo portano i e le calabresi a cercare diagnosi, cure e speranza a nord di Roma. Perché, talvolta, capita che andare nella capitale non sia sufficiente a migliorare la situazione di tante e tanti che si ritrovano in una ingarbugliata matassa diagnostica e clinica, intrappolati in liste d’attesa, caos organizzativo, insufficiente attenzione e comunicazione, e non ultime, come nel mio caso, arroganza e mancanza di umiltà dei medici.

    Una migrazione molto costosa

    Tra i vari tipi di mobilità che la società contemporanea intreccia e promuove, in modo sempre più ineludibile e costitutivo, come John Urry aveva ben visto con la sua analisi delle mobilità multiple e plurime, la migrazione sanitaria assume profili particolarmente rilevanti nel caso della Regione Calabria e dei cittadini e delle cittadine calabresi. Secondo la Fondazione Gimbe, la spesa sostenuta nel 2022 per la mobilità sanitaria si attesta a 304,8 milioni di euro (+52,4 milioni rispetto al 2021). I crediti ammontano a 31.342.997 milioni di euro (la Calabria è in 20ª posizione) mentre siamo quinti in Italia per i debiti ( 336.128.699 milioni di euro). 

    Il costo umano ed economico della migrazione sanitaria è enorme

    La battaglia (quasi perduta) tra sanità pubblica e privata

    Questo perdurante stato di minorità della sanità pubblica calabrese, con il concomitante proliferare del privato che attira sempre più professionisti (non solo i neo formati ma anche quelli chiamati ad hoc dall’estero), disegna una carenza di diritti e un vulnus nella cittadinanza, ed è alla base di una mobilità coercitiva e obbligata, diseguale ed iniqua, in cui chi ha risorse personali (ed economiche, culturali, simboliche) ha più probabilità di riuscire nell’impresa di salvarsi la pelle e sopravvivere, specie di fronte a una malattia grave che può cambiare radicalmente la vita.

    La diagnosi sbagliata e i medici privi di dubbi

    Quando nel 2013 mi venne prospettato il sospetto di un linfoma non-Hodgkin (immediatamente intuito da un medico dell’Annunziata) non volli fermarmi qui, puntando ad un luogo di cura dove si facessero molte, moltissime diagnosi di questo tipo, nel timore neppure tanto inconscio di una diagnosi che non fosse corretta. Umanissima paura o percezione extra sensoriale, la diagnosi sbagliata me la ritrovai, dopo due anni di cure durissime ed inutili e due recidive a cadenza semestrale, in un Istituto nazionale tumori considerato di prima classe. Due anni di trasferimento quasi permanente, protocolli multipli, partite a scacchi con la morte, ma soprattutto medici incapaci di dubitare delle loro diagnosi e strategie terapeutiche. Persino di fronte ad una nuova diagnosi, sollecitata dalla mia buona stella e anche dalla familiarità, per forma mentis, interessi di ricerca e curiosità, con il linguaggio e le pratiche della scienza e della tecnologia (o, per dirla con Bruno Latour, della tecnoscienza), quei medici non hanno mai dubitato delle loro ipotesi.

    Ambienti sanitari ancora poco sensibili all’innovazione che viene dalle tecnoscienze per la salute

    La malattia diventa campo di ricerca

    Della mia storia ho fatto un tema di ricerca e di studio da molti anni, con una biografia di migrazione sanitaria che oltre alla medicalizzazione pluriennale, porta nella mia routine spostamenti periodici e iterativi da sud a nord, da un po’ di tempo per fortuna meno frequenti. Non che non siano presenti, nella mia biografia e storia clinica, episodi di buona, anzi ottima sanità calabrese (sempre presa per i capelli dopo una mancata diagnosi vicino casa). Ma di fronte alla sollecitazione di un primario che mi invitava a trovare un riferimento locale in caso di emergenza, come è stato per una gravissima polmonite da Covid nel 2023, mi sono sentita smarrita e scettica.

    La mia è una storia talmente complessa, che solo raccontarla richiede tempo, pazienza, raccapezzarsi tra decine di eventi critici, ospedalizzazioni e recidive multiple, e soprattutto un atto di fiducia e affidamento che già ricostruire nella mia fuga dal centro verso nord è stato doloroso e non scontato.

    Il successo nelle cure c’è dove si fa ricerca

    Uno dei leit motiv della mia storia di migrante sanitaria su scala nazionale e, in un episodio specifico, anche locale, è che la probabilità di successo delle cure è più alta laddove c’è ricerca prima e insieme alla cura, con la presenza delle infrastrutture del caso; ma anche dove c’è più ascolto, empatia e capacità di accogliere il/la paziente e le sue domande, dubbi, perché no intuizioni. Mi considero, e sono (stata) una paziente disobbediente, impaziente, non ingenua, per tante ragioni e anche contingenze, e questo ha fatto una differenza fondamentale, la differenza tra vita e morte.

    Una sanità aziendalizzata è inevitabilmente disumana

    Una sanità aziendalizzata che impone tempi e metodi ai medici della sanità pubblica, in uno scellerato scimmiottamento del capitalismo più becero e di una ricerca di qualità ed efficienza che sacrificano tutto ad una performance impossibile ed improponibile, non può dirsi né umana né efficace rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di cura e di autentico servizio.

    La sanità calabrese destinata ai privati

    La sanità privata in Calabria rappresenta una sconfitta

    Tanti medici fuggono dalla costante disorganizzazione e insostenibile pressione dei ritmi di un sistema in cui il paziente è un file, un numero, una pallina di un flipper impazzito in cui i medici stessi sono intrappolati. Il sistema privato come rifugio, dovunque e a fortiori in Calabria, è una sconfitta per chi deve curarsi e chi è chiamato a curare, per chi crede nei diritti civili e sociali, per chi continua a doversi spostare verso istituti privati magari convenzionati che hanno instaurato un circolo virtuoso di ricerca e cura, per chi come me vorrebbe anche provare a interloquire in loco con strutture e medici che si spera possano presto rafforzarsi, ma che ad oggi non appaiono interlocutori possibili rispetto a una storia lunga e densa di ferite, la cui narrazione  aspira ad essere fonte di senso e testimonianza.

  • Psicologo a scuola: una goccia nel mare (agitato)

    Psicologo a scuola: una goccia nel mare (agitato)

    di Paola Sammarro, fondatrice e Ceo del “Centro ostetrico Io Calabria”

    La bella notizia è che a partire dal 2025, prenderà il via il progetto pilota “Discutiamone a scuola” o meglio conosciuto come “arriva lo psicologo a scuola, la Calabria prima Regione italiana ad avere lo psicologo tra i banchi scolastici”. Sviluppato d’intesa con l’ufficio scolastico regionale e con l’ordine regionale degli psicologi della Calabria, il progetto prevede un finanziamento di nove milioni di euro con un importo annuale di tre milioni di euro e l’occupazione per ciascun psicologo impiegato Asp, di 36 ore settimanali.  Il totale delle scuole coinvolte è di 285 (quindi copre tutta la Calabria o alcune zone saranno come sempre più marginalizzate?)

     Come la Regione Calabria intende prendersi carico della salute mentale dei più giovani? 

    Intanto, prima di iniziare a riflettere su questo argomento è bene mettere subito a fuoco alcuni aspetti: Si tratta di un progetto utilissimo, per i ragazzi, per le famiglie, per gli educatori, utile a far conoscere la figura sanitaria dello psicologo (e meno conosciuta di quello che sembra) e abbattere lo stigma e il pregiudizio verso le problematiche psicologiche (di cui non conosciamo niente) e la derisione di chi sceglie di farsi aiutare e curare. Tuttavia non pare un progetto strutturato e non serve né a colmare il vuoto sanitario che riguarda la neuropsichiatria infantile, né offre una reale presa in carico a lungo termine.

    Nelle cure mancano strutture e continuità terapeutica

    Problematiche che esigono continuità

    Sottolineo questi due aspetti perché è importante tenere in considerazione che non tutte le problematiche psicologiche, in questo caso adolescenziali, possono essere risolte con qualche colloquio scolastico, poi interrotte durante le festività e soprattutto –cosa da non dimenticare in una Regione come la Calabria – rimandate ed elaborate (senza ulteriore sostegno) in famiglia.

    In Calabria manca una rete di sostegno a chi ha una problematica psicologica e spesso anche psichiatrica, che va gestista e monitorata in equipe multidisciplinare sanitaria: con psicologo e psichiatra quando la situazione è gestibile a casa, ma quando la situazione è più complessa, servono a supporto servizi sociali, Asp, asl e comunità terapeutiche. Ecco che il progetto pilota “Discutiamone a scuola” diventa una goccia nel mare (agitato).

    La Calabria ha il più alto tasso di disagio giovanile

    La Calabria ha il più alto tasso di disagio giovanile

    Il disagio giovanile in Calabria si manifesta con la percentuale più alta d’Italia per cyberbullismo (14,5%), un’elevata incidenza di uso problematico di social network (13,5%) e videogiochi (24%) e la depressione che si attesta a 43,2 per 10mila abitanti tra le ragazze e 25,4 per 10mila tra i ragazzi (tra i più alti d’Italia).  La depressione ad esempio non ci cura con la “buona volontà di mamma e papà” e non passa di punto in bianco, serve un approccio multidisciplinare. Ciò significa coinvolgere diversi professionisti sanitari e non  che possano intervenire sia sul piano individuale sia su quello familiare, con l’ausilio non solo di attività e laboratori di gruppo, ma anche di centri diurni e strutture psichiatriche ed educative residenziali. Che in Calabria sono assenti o a carico della famiglia.

    Mancano un progetto pilota e un punto di primo soccorso

    Quello che non si dice è che le famiglie di chi ha una problematica inerente alla salute mentale è abbandonata a se stessa. Soprattutto in una Regione dove non esistono strutture psichiatriche per bambini e adolescenti, dove ragazzi e ragazze vengono trasferiti lontano, fuori regione, strappati alla propria famiglia, sradicati dal proprio contesto. Se va bene. Perché altrimenti restano nel buio e in solitudine. 

    Le comunità terapeutiche in tutta Italia sono sempre poche, con liste d’attese lunghissime e con dei costi che non sempre la Regione Calabria riesce a sostenere e/o a mantenere nel tempo. Perché ricordiamolo nuovamente: queste problematiche mutano, si evolvono, sono a tratti feroci, altre volte più mansuete. Ma stanno lì spesso anche per anni. E quindi le persone coinvolte, che non hanno mezzi propri per rivolgersi ai privati, restano – fuori dalla scuola – senza cure adeguate.

    In Calabria non ci sono posti di neuropsichiatria infantile

    In Calabria non c’è neuropsichiatria infantile

    In tutta la Calabria ancora non c’è un reparto di neuropsichiatria infantile che sia realmente funzionante con il pronto soccorso, che sappia trattare tempestivamente un tentato suicidio, autolesionismo, disturbo del comportamento alimentare. Problematiche che andrebbero immediatamente prese in carico dal pronto soccorso di psichiatria infantile e successivamente gestite in reparto. Invece in Calabria se finisci al pronto soccorso per una delle problematiche elencate, se va bene, dopo un primo intervento di rianimazione, una lavanda gastrica, giaci per un po’ in pediatria e “poi vediamo”.

    Dati allarmanti riguardo la diffusione del disagio tra i giovanissimi

    I disturbi mentali diffusissimi tra bambini e adolescenti

    I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dell’Unicef ci dicono che almeno il 10% dei bambini e il 20% degli adolescenti presentano un disturbo mentale, numeri che si sono amplificati durante la pandemia. Purtroppo molte regioni non sono attrezzate per affrontarle, in tutta Italia, ci sono solo poco meno di 400 posti letto dedicati alla neuropsichiatria infantile e ci sono regioni, tra cui la Calabria, dove non ci sono posti letto (Con il Decreto Commissariale 202 del 16 aprile 2025, l’Azienda Ospedaliera Universitaria (AOU) “Dulbecco” di Catanzaro ha dato il via all’attivazione di 10 posti letto nella Sezione di Neuropsichiatria Infantile e dell’Adolescenza, ma al momento non risulta ancora attiva), questo significa che ragazzi che tendono al suicidio o hanno disturbi del comportamento, devono trasferirsi per poter ottenere le cure adeguate e… non possono andare a scuola.

  • Piantedosi, il respingitore respinto

    Piantedosi, il respingitore respinto

    Ah quanto sono ingrati questi libici. Li trattiamo con tutti i favori, gli proponiamo affari, gli diamo navi da guerra per pattugliare il Mediterraneo e fermare i barconi dei migranti e poi loro ci prendono a schiaffi. Per non parlare della celerità e della premura con cui gli abbiamo restituito con un volo di Stato quell’ Osama Najeem Elmasri, inseguito da un mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità, torturatore nei lager libici e accolto a casa sua come un eroe. In cambio di tutto ciò che fanno gli amici libici? Ci rimandano indietro con sdegno un ministro e non uno qualunque, ma forse quello più importante: Piantedosi

    Rimandato indietro come un qualunque clandestino

    Respinto come un qualunque migrante clandestino, uno di quelli verso cui si è sempre mostrato un discreto grado di disumanità. Piantedosi, arcigno ministro dell’Interno, non ha fatto in tempo ad abituarsi allo sbalzo termico dell’aria condizionata del suo aereo di Stato rispetto al caldo libico, che è stato rimandato indietro come persona “indesiderabile”. Non c’è chi non veda quanta impietosa ironia ci sia dentro un fatto come questo. Non solo sul piano della semantica, perché la parola “indesiderabile” è carica di significato in un Paese come il nostro che della caccia al migrante ha fatto la cifra rappresentativa di una linea di governo, ma pure perché l’aver “rimandato casa sua” il ministro italiano è uno schiaffo al governo intero.

    Gli affari tra Italia e Libia

    Giusto per spiegare un poco: nell’Ottobre del 2024 Giorgia Meloni annunciava di aver fatto quattro viaggi diplomatici di cui ben tre erano stati in Libia. Un modo per spiegare che quel Paese era un partner speciale. Speciale di sicuro, ma non da andarne fieri. Quattro viaggi per stringere accordi commerciali, promettere la costruzione di una autostrada, investimenti per circa 13 miliardi di dollari in tre anni, comprese cinque navi per la Guardia costiera libica con cui impedire ai disperati di partire. Insomma i cannoni che sparano su chi prova ad attraversare il Mediterraneo dentro bagnarole sono nostri.

    L’Italia ha fornito altre cinque motovedette alla Libia

    La liberazione di un carnefice

    Il capolavoro del governo Meloni per mostrare quanto siamo amici dei libici giunge quando Elmasri viene arrestato in Italia. Dovremmo consegnarlo ai giudici dell’Aja, che vorrebbero processarlo per una serie di cosette assai raccapriccianti, ma a noi serve che torni a casa, perché comanda il carcere di Mitiga, dove sono rinchiusi quelli che dal resto dell’Africa giungono sulle sponde del mare per tentare sottrarsi a guerre e miserie. Insomma il personaggio controlla il collo di bottiglia della migrazione clandestina verso l’Italia, quindi ecco trovato un cavillo deboluccio ma utile per restituirlo subito al suo ruolo.

    Elmasri accolto in Libia come un eroe

    Dopo tutto questo qualcuno si aspettava che Piantedosi venisse trattato alla stregua di un migrante clandestino? Lui pronto a scendere dal suo aereo di Stato indossando il suo sobrio abito da sartoria, mica una maglietta stracciata, lui bianco come un giglio, non certo nero e col volto disfatto da un viaggio drammatico, lui che durante il viaggio è stato sicuramente idratato da fresche bevande e non ha dovuto condividere qualche bottiglia di acqua stantia con altre quaranta persone. Eppure, malgrado queste differenze, Piantedosi ha dovuto subire l’oltraggio del respingimento, praticato da chi è stato foraggiato e sostenuto proprio dal governo di cui è parte. Per un attimo ce lo siamo immaginato dritto sulla scaletta dell’aereo gonfiare il petto e dire stentoreo «Potete respingere, non riportare indietro». Ma questo è il frammento di una poesia di Erri De Luca e racconta dei veri indesiderabili.

     

  • Aree Interne, la verità del Piano Strategico

    Aree Interne, la verità del Piano Strategico

    L’analisi effettuata nel Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne potrà non piacere, potrà essere cruda e forse anche crudele in alcune considerazioni, ma fotografa una realtà basata su dati e numeri forniti da Istat, Censis e CNEL. Una realtà – e questa è la premessa – che è stata sottovalutata per decenni e sicuramente dal 2022 quando, durante una riunione del Cipess, è stata presentato l’aggiornamento della classificazione degli enti locali che raccontava di un aumento complessivo dei Comuni periferici e ultra-periferici: +7,9%. La faciloneria con cui alcuni hanno titolato che il piano del governo fosse di abbandonare le aree interne è stato un ruggito ideologico che, ahimè, prescinde dall’analisi della complessità dei contesti e dei processi in cui versano quelle aree. Aree che rispecchiano non solo una tendenza italiana all’emigrazione prima dalle ultra-periferie verso i centri e poi dai centri all’estero, ma soprattutto una condizione di denatalità di cui abbiamo il primato in Europa.

    La popolazione complessiva e specificatamente quella calabrese, sta invecchiando

    Il futuro che ci attende è vecchio

    Invecchiamo come sistema-paese, non siamo nelle condizioni di garantire un efficace e strutturale ricambio generazionale, siamo poco attrattivi perfino per noi stessi. Questo accade al Nord, al Centro e al Sud (con maggiore intensità, viste le storiche ed endemiche disparità di cui questo disgraziato Paese soffre). Solo che lì – qui – la crisi è più forte perché ci sono meno lavoro, infrastrutture e servizi e la morfologia territoriale dominata dalla dorsale appenninica acuisce isolamento e difficoltà di progettazione e realizzazione di assi di comunicazione che, spesso, non hanno i numeri – la massa critica – per ritenersi sostenibili in termini di costi di realizzazione e conseguente impatto sociale.

    Il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne, prendendo spunto dagli errori del primo ciclo sperimentale della SNAI relativo al settennato 2014-2020, ne sottolinea i risultati metodologici (partenariato multi-livello e multi-attoriale, processi di co-progettazione integrata per ambiti settoriali e ridisegno dei percorsi di sviluppo locale), ne approfitta per intervenire laddove fondi, processi e procedure non hanno funzionato o lo hanno fatto poco e male e illustra come per il ciclo 2021-2027 gli strumenti di pianificazione, attuazione e governance siano stati migliorati di pari passo con un aumento dei fondi dedicati.

    La minaccia del deserto demografico

    Contro l’ineluttabilità del destino

    È vero poi che nel Piano si parla di una casistica dedicata a un «accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile», laddove si riscontri «un percorso di cronicizzato declino e invecchiamento in modo da renderlo socialmente dignitoso per chi ancora vi abita», ma – aggiunge Alessandro Rosina, il demografo dell’Università Cattolica che ha curato i dati inseriti nel Piano – «ogni Comune deve poter valutare in quale di queste quattro tipologie si colloca». (Per le tipologie si veda alle pag.. 44 e 45 del Piano, ndr.). E che, in ogni caso, «nessun Comune ha di fronte un destino ineluttabile in relazione alle coordinate geografiche in cui si trova, ma sono molti i Comuni che rischiano un percorso di marginalizzazione irreversibile per le dinamiche demografiche che li caratterizzano». Un po’ diverso dall’affermare che il Governo voglia lasciare per strada i 1.904 Comuni delle 124 aree di progetto, oltre 4 milioni di abitanti che vanno da Nord a Sud e che rappresentano una parte importante, se non cruciale, dell’Italia.

    Il destino delle aree marginali

    Chiarito questo punto bisogna però raccontare l’altro pezzo di verità: il come sia stata effettuata la programmazione e l’attuazione degli interventi, come (e se) siano stati spesi i fondi disponibili, quale sia stata la qualità di quella spesa e quale sia il modello alla base. Calcolo sommario: tra le risorse dei cicli 14-20 e 21–27, senza considerare gli incrementi dei fondi solo parzialmente dedicati alle aree interne, si arriva a oltre 1,1 miliardi di euro, cui vanno aggiunti ulteriori 600 mila euro a valere sulla missione 5 del PNRR dedicata al Potenziamento servizi e infrastrutture sociali di Comunità e strutture sanitarie di prossimità.

    Si è programmato bene? Si è attuato bene? Si è speso bene? Per le diverse mansioni che ricopro e per i rapporti che intrattengo ho avuto modo di parlare con diversi amministratori locali. Ad esempio, a Cardeto, comune periferico del Reggino, sono stati impiegati 2 milioni di euro per realizzare un asilo nido per un paesino che non ha neonato.

    Dalla Regione altri 36 milioni

    Qualche mese fa l’inserimento di altre tre aree SNAI calabresi nel ciclo di programmazione 21-27, ha portato la Regione a decretare un cofinanziamento di 36 milioni di euro da aggiungersi alle risorse nazionali destinate ai comuni del Versante Tirrenico Aspromonte, dell’Alto Jonio Cosentino e dell’Alto Tirreno Cosentino Pollino.  Questo mentre Maria Foti, sindaca di Montebello Jonico, e nuova referente per la SNAI grecanica, raccontava lo scorso ottobre come quella strategia, dotata di 28 milioni di euro per il periodo 14-20, gestiti in gran parte dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria, proseguisse a passo di lumaca e come l’attuazione dei suoi interventi si attestasse attorno al 4% a fronte di un 30% complessivo di realizzazione dell’intera strategia, mentre la Regione chiedeva che le obbligazioni giuridicamente vincolanti venissero presentate entro lo scorso 31 dicembre.

    Aree interne a rischio di scomparsa

    La Sintesi dello stato di attuazione Aree SNAI 2021-2027 redatta dal Settore “Strategie Aree interne, comuni in via di spopolamento, minoranze linguistiche” del Dipartimento Agricoltura di Regione Calabria, evidenziava un gap di programmazione e attuazione di 2 anni che rischiava di mandare i fondi a revoca, quando sarebbe invece dovuto già partire l’accordo di programma per il biennio  2025 – 2027: «Delle quattro Aree finanziate sul territorio regionale nel precedente periodo di programmazione, tre hanno firmato l’APQ solo nel 2022. Il riconoscimento di Aree interne e il finanziamento a livello nazionale di queste Aree è avvenuto, infatti, solo a fine 2019, e il successivo ritardo nel compimento delle fasi di progettazione e definizione procedurale, a livello locale, hanno dilatato i tempi della programmazione territoriale»

    La denatalità segna gran parte della aree interne

    Denatalità e disinteresse delle istituzioni sono i due nemici

    Ma, volendo pure mettere da parte i tecnicismi, non si può procedere ad alcun ragionamento senza considerare due dimensioni: il disinteresse dei governi e delle Regioni nel programmare e attuare politiche di mitigazione delle crisi e di sviluppo locale per aree considerate appendici da dimenticare, con un destino segnato; e la tendenza, oggi divenuta drammatica realtà, alla denatalità. E qui arriviamo al punto: perché senza nuovi nati, senza giovani, non c’è vita, non ci sono prospettive di crescita, non ci sono strade, servizi o prospettive di invecchiamento attivo che tengano.

    Ripensare presto il modello di intervento

    Il modello allora va ripensato dalla base: le aree interne non sono luoghi da turismo esperienziale, trattorie, amenità naturalistiche o residenze di artista. Sono luoghi reali, con opportunità concrete,  che vanno ricalibrate. Sono i luoghi dell’allevamento, dell’agricoltura 5.0 e quelli delle risorse primarie. Sono i posti dove la qualità di vita può essere migliore, dove il paradigma digitale, ancora agli albori, può fare una differenza che noi nemmeno ancora immaginiamo. Ma sono soprattutto i luoghi che hanno bisogno di figli, di uomini, donne, ragazze, ragazzi in grado di attivare processi di produzione e promuovere strategia di vita  sostenibili e lungimiranti. Strade e servizi arrivano appresso, ma arrivano meglio quando viene messa una visione concreta di futuro.

    Precacore di Samo

    Un processo lungo e per nulla scontato, ma necessario

    Il processo è lungo e complesso e la sua riuscita non è scontata. Bisogna però cominciare a lavorare affinché si creino le condizioni per vivere, rimanere e prolificare. E noi possiamo contare su un formidabile alleato: gli immigrati. Sono loro che fanno figli, che non temono la fatica, il lavoro nei campi o con gli animali. Portarli nelle aree interne, dove è più facile interagire e riconoscersi, promuovere progetti di imprenditorialità legati all’agricoltura, all’allevamento, alla zootecnia, può dare una nuova chance di vita a loro, a noi e ai territori. A patto che a questo si aggiunga la consapevolezza che siamo di fronte a una sfida epocale che come tale va trattata. Con idee e risorse capaci di programmare e agire a 360 gradi. Perché che manchino strade e servizi è sotto gli occhi di tutti, ma bisogna porre le condizioni e le necessità affinché siano realizzati.