Categoria: Interviste

  • Animali misteriosi di Calabria, se il Cecita sembra Loch Ness

    Animali misteriosi di Calabria, se il Cecita sembra Loch Ness

    Lorenzo Rossi è un divulgatore scientifico. Romagnolo, studioso e ricercatore, è coordinatore e responsabile nel Museo di scienze naturali di Cesena. Il suo canale Youtube, CriptoZoo, è seguitissimo. In poco tempo ha richiamato più di 22mila follower che crescono con un ritmo di mille al mese. In esso racconta verità scientifiche sulle creature misteriose, gli animali forse estinti o forse no, che abiterebbero ancora in remote zone del pianeta. Così, per una forma di ribaltamento del ruolo, il grande esperto di mostri marini, yeti e big foot è divenuto il più temuto avversario di chi crede nella loro esistenza.

    Nei suoi video su Youtube, partendo dalla storia degli avvistamenti di questi “criptidi”, documenta e confuta in modo minuzioso il carattere solo fantastico di tanti presunti incontri ravvicinati. A Cosenza negli ultimi anni è venuto due volte per presentare i suoi libri. Ad accoglierlo e ascoltarlo si è radunato un nutrito pubblico composto da bambini, mattacchioni, docenti universitari, curiosi e appassionati di criptozoologia. Gli intrecci tra antropologia, storia, paleontologia, mitologia e scienze naturali rendono piacevole e interessante ogni suo racconto che così stimola lo studio e l’approfondimento interdisciplinare. Lorenzo ha con la Calabria un rapporto molto sentimentale.

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    Il criptozoologo Lorenzo Rossi
    In un suo viaggio in Sila, pochi anni fa, ha indagato sugli avvistamenti di una specie ritenuta estinta in quest’area geografica. Cosa ha scoperto?

    «Ero interessato a delle storie sulla presenza della lince. Mi era stato riferito che in una macelleria di San Giovanni in Fiore, fino a qualche decennio fa, era esposta una lince imbalsamata e che sarebbe stata abbattuta nella Sila greca. Ho trovato riscontro, ma nessuna prova. In macelleria mi hanno detto: “Sì, sì, avevamo questo reperto, ma purtroppo dopo la morte di nostro padre abbiamo buttato via molti degli oggetti che gli erano appartenuti, tra i quali anche quella lince impagliata”».

    Perché è attratto dalla Sila?

    «La Sila e le foreste casentinesi sono a mio avviso i luoghi più belli da un punto di vista dell’interesse naturalistico in Italia. Ed è molto affascinante non solo per la presenza del lupo, che è diventata iconica, ma anche per il ritorno della lontra in alcune zone».

    Ci sono state segnalazioni confermate?

    «Sì, la lontra è una specie in espansione ed è presente, per esempio, nel fiume Lese. Può arrivare anche a vivere in bacini artificiali».

    Anche nei tre laghi artificiali, Cecita, Arvo e Ampollino?

    «Sì, al Cecita è stata segnalata».

    È significativo, perché se l’aria della Sila è accreditata come la migliore d’Europa, purtroppo pare che l’acqua dei bacini artificiali sia molto contaminata.

    «Fino a poco tempo fa la lontra era un indicatore della qualità dell’acqua. Oggi invece si è notato che pur di sopravvivere riesce a insediarsi in luoghi che sono gli ultimi in cui ti aspetteresti di trovarla. Se finiscono gli spazi a lei congeniali, prova a vivere dove può. Non ho elementi conoscitivi sulla qualità dell’acqua in questi laghi. È tuttavia un buon segnale che la lontra ci sia. Anche se le condizioni del lago non sono ideali, è comunque migliore di altri contesti acquatici, se questo animale decide di abitarvi».

    Qualche anno fa, a proposito dei ricorrenti avvistamenti di una strana creatura sul Pollino, “lu scurzune ccu li ricchie” (il serpente con le orecchie), ha fornito una spiegazione molto attendibile e interessante. Potrebbe esporla?

    «Molte di queste storie riguardano tutto l’arco alpino e quello appenninico. Tanti avvistamenti di “serpente baffuto” o “serpe-gatto” possono nascere dalle osservazioni della lontra. È un animale che vive per la maggior parte del tempo in acqua. Se la osserviamo nell’atto di nuotare, col pelo liscio, lucido e nero, può sembrare un grosso serpente. Quando cammina a terra, si muove spostandosi a balzi. Un tratto che viene descritto a proposito di questi presunti strani serpenti con le orecchie e i baffi sarebbero i fischi. E sappiamo che la lontra li emette».

    Sul Pollino alcuni dicono che vivano lungo i fiumi e scavino le tane lungo le sponde. Sappiamo che anche la lontra si comporta così, quindi diventa abbastanza compatibile con gli avvistamenti. È normale che quando una figura entra nell’immaginario, sebbene la sua presunta esistenza si basi su qualcosa di reale, poi prende vita a sé».

    C’è anche chi ha ipotizzato che i serpenti, quando fanno la muta, possano avere delle scaglie sulla testa ed essere quindi scambiati per animali sconosciuti.

    Sì, ma la mia idea è che la base reale di questi avvistamenti sia la lontra».

    Tra i suoi studi recenti, uno dei più interessanti riguarda l’estinto lupo siciliano. Era simile ai lupi della Sila e del Pollino?

    Su questa popolazione l’ultimo studio sui genomi completi è ancora in corso e lo sta conducendo l’università di Copenhagen. Sembra che il lupo siciliano derivi dalla popolazione appenninica. Alla fine dell’era glaciale, il ponte di terra tra Calabria e Sicilia si interruppe ed è probabile che gli ultimi esemplari di questo lupo proveniente dalla Calabria siano rimasti isolati laggiù. Così, in questi 20mila anni, si sono differenziati anche visibilmente. Il lupo siciliano era più piccolo di quello appenninico e privo delle strisce nere sugli avambracci. Anche il suo colore risultava molto particolare».

    Come nasce l’interesse per il lupo siciliano?

    Tutta la nostra ricerca è iniziata perché per caso ci siamo imbattuti nei diari di un naturalista siciliano, il Minà Palumbo, che descriveva i lupi siciliani di un colore “lionato”, cioè quello del leone. I lupi dell’Appennino non hanno questo colore. Quindi siamo andati a cercare gli esemplari imbalsamanti nei vari musei italiani. Ce ne sono pochissimi. Uno al museo della Specola di Firenze, uno al museo di scienze naturali di Palermo, uno al museo di Termini Imerese e due al museo di Terrasini. Questi lupi sono gialli. Al museo della Specola hanno conservato anche il cartellino, scritto a suo tempo da un grande studioso delle scienze naturali italiane, Enrico Giglioli: “Esemplare mirabilissimo per la mancanza delle strisce negli avambracci e per il colore giallo chiaro”. Quindi già nell’800 aveva intuito queste differenze».

    Gli studi sul lupo a quale periodo risalgono?

    Non è mai stato studiato in Italia in modo approfondito, fino agli anni Sessanta, quando nell’Appennino iniziò a estinguersi. Nel frattempo, già dagli anni Trenta, il lupo siciliano si era estinto. Noi abbiamo descritto questa nuova sottospecie, denominandola Canis lupus cristaldii, in onore di un professore siciliano di anatomia comparata, Mauro Cristaldi. Adesso aspettiamo la conferma degli studi sul Dna, perché non tutti sono d’accordo sul fatto che si tratti di una sottospecie».

    Ogni tanto i cacciatori sostengono di aver avvistato delle linci tra i boschi dell’Aspromonte. È verosimile che ne esistano ancora in Calabria oppure questo animale qui si è estinto?

    Già affermare che “esistono ancora” sarebbe un passo grande. Il problema di base è se siano mai esistite in epoca storica. Da quel che sappiamo, empiricamente gli ultimi resti di lince risalgono all’età del bronzo. C’è però una sterminata bibliografia di naturalisti italiani e stranieri, che riportano resoconti, in Calabria, come in altre regioni attraversate dall’Appennino, sulla presenza di un animale che viene chiamato a volte “gattopardo”, altre “lupo cerviero”, “felipardo”, lonza”, descritto come una lince. Da qui nasce l’ipotesi affascinante sulla sopravvivenza di questa specie fino all’800 o addirittura all’inizio del ‘900. Una ricerca è stata effettuata anche dal già direttore del parco d’Abruzzo, Franco Tassi. Purtroppo sono state raccolte testimonianze, toponimi, riferimenti, ma mai una prova fisica concreta».

    L’ha cercata solo a San Giovanni in Fiore?

    No, sono stato anche in un bar nei pressi del lago Arvo, dove un carabiniere mi aveva rivelato d’aver visto un’altra lince imbalsamata».

    E c’era davvero?

    Ho trovato il bar e prima di entrare ho scattato una foto e l’ho mandata al carabiniere per verificare che fosse proprio quello. Lui mi ha risposto di sì. Allora sono entrato nel bar, ma si trattava di un gatto selvatico imbalsamato. Gli ho chiesto prima se il bar fosse quello, perché altrimenti avrebbe potuto dire che effettivamente era un gatto selvatico ma si trattava di un altro bar».

    Non si fidava del testimone?

    Certo che mi fidavo! Però so che i ricordi, a volte, cambiano nella nostra mente».

    Dopo il ritrovamento dei resti di Elephas antiquus sulle sponde del lago Cecita, lo studioso Domenico Canino ha ravvisato dei collegamenti con “l’elefante di Campana”, il megalite che a pochi chilometri dal lago sarebbe stato scolpito da una misteriosa civiltà, migliaia di anni fa. Lei non è d’accordo. Perché?

    Finché non sono d’accordo io, non è importante, però esiste un’intera comunità scientifica che ritiene l’elefante della Sila niente più e niente meno di una roccia erosa dalle condizioni atmosferiche. Non c’è una pubblicazione scientifica a sostenere che questa pietra sia stata scolpita da mano umana. Chi promuove una tesi contraria dovrebbe produrre una pubblicazione che indichi questa possibilità. Nutro grande rispetto nei confronti dell’architetto Canino. Io però questo elefante non ce lo vedo. La specie in questione si chiamava elefante “dalle zanne dritte”, ma ciò non significa che le avesse come quelle del monolite di Campana. E poi c’è un problema: quando sarebbe stato scolpito?».

    Però sulle rive del lago Cecita è stato scoperto il fossile di un elefante.

    Ma se nei pressi di Loch Ness io scopro resti di plesiosauro, non vuol dire che ci sia questa specie. Significa che 65 milioni di anni fa i plesiosauri ci furono, ma all’epoca il lago nemmeno esisteva. Non basta dire che se c’è il fossile di quell’animale, nei paraggi qualcuno lo abbia potuto scolpire, perché il fossile risale a un’era in cui non esisteva una civiltà capace di farlo. Dunque sicuramente non si può affermare che quell’animale sia servito da modello quando era vivo».

    Lorenzo Rossi e il monolite a forma di elefante a Campana
    Si potrebbe, piuttosto, ipotizzare che qualcuno lo abbia scolpito ispirandosi ai fossili?

    Sì, c’è però un problema: ricostruire con precisione un animale dai resti fossili non è stato mai facile, tantomeno lo fu nel passato remoto. Determinante è la data di estinzione. Canino sostiene che questo elefante si sarebbe estinto 12mila anni fa. In realtà, in Europa si estinse molto prima, da 50 a 34mila anni fa. Se un giorno scoprissimo che invece si è estinto poche migliaia di anni fa, cambierebbe tutto».

    Ci sono altre sculture simili nel resto del mondo?

    Mi vengono in mente, per esempio, quelle di Göbekli Tepe, in Turchia. Sono datate dai 9500 agli 8mila anni fa. Un elefante in Sila, che anticipi questa civiltà, non lo vedo probabile. Se si dimostra, sarebbe una scoperta incredibile. Però mi chiedo: una civiltà così avanzata avrebbe mai potuto lasciare tracce di questo tipo, senza che di essa rimanesse nient’altro?».

    Nel libro “Guida alla Calabria misteriosa”, lo scrittore Giulio Palange riporta le voci popolari sull’improbabile coccodrillo avvistato lungo le sponde del fiume Crati, in contrada Soverano a Bisignano, in provincia di Cosenza. Lei ha sempre confutato, dati alla mano, l’esistenza del cosiddetto mostro di Loch Ness in Scozia. Nel 2006, ha effettuato un sopralluogo in Mongolia settentrionale per studiare di persona le misteriose tracce sulla sabbia, lasciate da una creatura non identificata lungo le sponde del lago Hargyas Nuur. Rispetto a quest’ultimo caso, è più possibilista?

    Che tristezza! A due giorni di viaggio dal lago, fui costretto a tornare indietro, perché mi ammalai e stavo malissimo. È molto grande e pescoso. Potrebbe quindi ospitare grossi animali. Nessuno ha indagato ulteriormente queste tracce. Potrebbe trattarsi dei lastroni di ghiaccio che sospinti dal vento approdano a riva. Comunque, se dovessi cercare dei mostri nei laghi, è lì che andrei».

    Un paio di anni fa, ha curato la pubblicazione di un libro, non ancora tradotto in italiano, che raccoglie diversi saggi di scienziati e ricercatori sul rapporto tra umanità e resto del regno animale. Il tema è di grande attualità, in tempo di sindemia e zoonosi. Il libro era stato pensato prima del 2019?

    Il titolo è “Problematic wildlife, volume 2”. Quando ci si occupa di ambiente, conservazione, rapporto tra fauna e animali, qualche previsione si può fare. Questa pandemia non è stata una sorpresa. Sapevamo che sarebbe arrivata dalla Cina. La gente comune non ascolta finché non è troppo tardi e poi è capace di negare persino l’evidenza. Siamo in ritardo atroce sulle pandemie, sul riscaldamento globale e su tante altre problematiche».

    Sta lavorando a un nuovo libro?

    Sì, racconterò i motivi storici che hanno spinto negli anni Ottanta alcuni studiosi ad effettuare ricerche su dinosauri ancora vivi in Africa. Può sembrare molto buffo. In realtà ci sono serie motivazioni storiche alla base di quelle ricerche. Mi piace parlare del rapporto tra la pseudoscienza e la scienza. Sarà un viaggio tra i dinosauri, quasi senza parlare di loro».

  • Isaia Sales: «La ‘ndrangheta? A lezione da potenti e massoni»

    Isaia Sales: «La ‘ndrangheta? A lezione da potenti e massoni»

    «In Italia il mondo criminale non si è mosso mai lontano dal mondo delle élite. Il suo successo sta soprattutto in questo aspetto: mai essere lontani e contrapposti alle élite. E, il mondo criminale, non ha mai avuto il monopolio dell’illegalità. In Italia l’illegalità è una cosa frequentata assiduamente dalle classi dirigenti, che hanno sempre pensato di poter ottenere dei risultati più al di fuori della legge che dentro la legge. Hanno ritenuto, cioè, che l’illegalità fosse un loro campo di appartenenza. E quando lo hanno dovuto, in qualche modo, dividere con altri hanno accettato questa condizione. Non hanno fatto neanche una battaglia per averne il monopolio».

    Isaia Sales continua ad essere tra i più attenti analisti dei fenomeni criminali nelle regioni meridionali. Dopo la laurea in Filosofia, ha iniziato la sua vita pubblica come collaboratore de l’Unità. È stato poi dirigente del PCI e, in seguito, dei DS, segnalandosi come uno dei politici più impegnati nella lotta alla camorra. A questo tema era dedicato il suo primo libro – La camorra, le camorre – nel 1988.

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    Isaia Sales, storico delle mafie

    Con lui analizziamo quali siano stati i rapporti delle mafie con le classi dirigenti, le massonerie, la società meridionale. E quali siano i mutamenti in corso e le ragioni che hanno reso ‘ndrangheta e camorra più pericolose di Cosa Nostra. Ne viene fuori un quadro dell’inquinamento civile e politico che sta alla base del potere criminale, ormai non più radicato solo nel Sud Italia ed avviato ad una crescente globalizzazione.

    Quali sono le origini della criminalità organizzata nel Mezzogiorno?

    «Penso che le mafie, così come le conosciamo, abbiano inizio nella prima parte dell’Ottocento, quando le sette segrete arrivano nel regno borbonico e negli altri stati pre-unitari dietro le truppe napoleoniche. È nelle carceri che si incontrano i delinquenti disorganizzati e gli aristocratici borghesi, organizzati, oppositori del sistema politico. Dalla disorganizzazione della criminalità e dall’organizzazione dell’opposizione politica nascono le mafie. La massoneria e la carboneria forniscono il modello organizzativo alle mafie».

    Come si inserisce la violenza in questo scenario?

    «Le mafie nobilitano la violenza allo stesso modo delle sette segrete. La violenza è necessaria in quella fase storica per abbattere i poteri assolutistici. Le mafie ne fanno un modello, prendendosi tutto l’armamentario della massoneria, compreso l’uso della violenza come strategia di potere o di contrapposizione al potere costituito.

    Questa operazione è impressionante per come avviene e per le similitudini che hanno le sette segrete con i primi statuti che noi conosciamo delle mafie, in maniera particolare della Camorra napoletana. È in questa ritualizzazione delle violenza che sta il segreto storico del successo delle mafie. Si può dire che tramite la massoneria l’onorabilità della violenza compie il suo tragitto: la violenza non è una cosa di cui vergognarsi, che ti isola o allontana, ma può avere tutti i presupposti dell’onore. Tra questi, l’obbedienza».

    Esistono radici sociali della criminalità meridionale?

    «Nell’Ottocento le “classi pericolose” avevano la stessa pervasività e pericolosità a Parigi, Londra, Napoli e Palermo. La differenza è che a Londra e Parigi la criminalità si organizzò attorno ai mendicanti, che non ritualizzarono la violenza. Lì ci fu una distanza netta tra le due classi. La storia delle mafie italiane e quella del Paese, invece, sono costellate da casi di intreccio tra classi dirigenti e classi pericolose».

    Perché l’omertà ha svolto da sempre una funzione centrale?

    «C’è stato anche un grande dibattito storico attorno al concetto di omertà, con una grandissima confusione operata in Sicilia. L’etnologo Pitrè la usò in un processo nei confronti di un personaggio importante dell’epoca, il parlamentare Palizzolo, accusato di essere il mandante del delitto Notarbartolo. Invitato a deporre in tribunale, alla domanda “cos’è la mafia?” rispose che era un comportamento e non un’organizzazione. “Mafioso è, in alcuni quartieri palermitani, essere di bell’aspetto”. E poi disse “vedete, la stessa parola omertà viene da “ominità”, viene dal considerarsi “uomo”. Uomo è colui che risolve le questioni di giustizia da solo, senza ricorrere alle autorità”.

    Ma Pitrè commise un errore gravissimo, perché omertà deriva da umiltà, che in napoletano diventa “umirtà”. E infatti la camorra si chiama bella società riformata o società dell’umirtà. Una delle regole delle società segrete è la totale obbedienza, ed è normale nelle società segrete richiedere l’obbedienza.
    Teniamo conto che nel concetto di onore che i mafiosi prendono dalle classi dirigenti c’è sia onore come guadagno senza fatica (che era tipico degli spagnoli), ovvero è onorato colui che può disporre di ricchezza senza averla prodotta con le sue mani, sia un’altra idea di onore: è onorato colui a cui si dà obbedienza, perché l’obbedienza è una forma, uno strumento dell’onore».

    I riti del giuramento della ‘ndrangheta assumono un’identità autonoma?

    «I riti di giuramento – e quelli della ‘ndrangheta meriterebbero libri e libri di approfondimenti – andrebbero studiati permanentemente dall’antropologia italiana. Attraverso essi si manifesta pienamente l’idea che l’obbedienza alla setta segreta è una delle massime espressioni dell’onorabilità. La camorra ha gli stessi riti di quella ottocentesca: nella camorra esiste la società maggiore e la società minore, cosa tipica della massoneria.

    Bruciare santini e immagini sacre fa parte dei rituali di affiliazione alla ‘ndrangheta

    Nella ‘ndrangheta, invece, nel giuramento esiste il dialogo, chi vuole aderire deve rispondere ad alcune domande interlocutorie: lo stesso meccanismo di domanda e risposta che si fa nella massoneria. Aggiungiamoci i caratteri mutualistici e solidaristici che hanno le mafie, anche essi copiati dalla massoneria. All’inizio, per esempio, la mafia siciliana si articolava in “fratellanze”. Si pagava una quota per entrare che serviva nei momenti di necessità: un welfare criminale per soccorrersi nelle difficoltà. Le relazioni sono fondamenti per aiutarsi, sia nella visione massonica che in quella mafiosa.

    Come si articola la struttura del potere criminale nel Mezzogiorno?

    «Le mafie, all’inizio, sono “scimmie” delle classi dirigenti, copiandone il modello di successo. Il percorso di questi due poteri non è lineare, perché inizialmente copiano il modello, ma le relazioni non sono permanenti perché le mafie incontrano le classi dirigenti anche al di fuori della massoneria. Non hanno bisogno di questo rapporto particolare, ma ne copiano il metodo: stare insieme, ritualizzare la violenza, stabilire relazioni privilegiate. È proprio questo aspetto che cambia radicalmente le mafie italiane rispetto al tradizionale crimine organizzato urbano, che pure esisteva in altre città europee.

    Man mano che le mafie hanno contezza di un potere, e con l’inizio di una prima repressione dello Stato italiano, gli incontri di classi dirigenti e classi pericolose hanno avuto necessità della segretezza. Nella storia della ‘ndrangheta tutto ciò è importantissimo, perché siamo di fronte ad un caso unico: una delle criminalità più trascurate e fuori dall’obiettivo della pubblica opinione che, in pochi decenni, diventa una delle più potenti al mondo».

    Attraverso quali meccanismi si è determinato il successo della ‘ndrangheta?

    «A proposito della lunga presenza della ‘ndrangheta, non dimentichiamoci che nel 1869 il primo scioglimento di consiglio comunale in Italia per infiltrazione della criminalità avviene a Reggio Calabria. Nei primi lavori della ferrovia tirrenica la ‘ndrangheta c’entra. Qual è la confusione? La ‘ndrangheta aveva un altro nome: Camorra reggina o Camorra calabrese. Essa aveva preso più delle altre mafie le modalità di giuramento della camorra napoletana. Ma il termine specifico di criminalità autoctona si scopre, forse, nel secondo dopoguerra, perché prima il nome con cui sarà conosciuta la ‘ndrangheta è camorra».

    Qual è il primo punto di svolta nella storia recente della ‘ndrangheta?

    «La ‘ndrangheta si troverà negli anni ‘60 al di fuori della storia italiana sia per ragioni geografiche che geoeconomiche, per problemi di scarsa accumulazione e scarse relazioni. La classe dirigente calabrese conta meno di quella napoletana o di quella siciliana nelle dinamiche dello Stato italiano. Quindi gli affari che si possono fare in Calabria non sono equiparabili a quelli che si possono fare nelle altre regioni.

    La ‘ndrangheta inventa una forma di accumulazione del denaro che non è consona alle altre mafie. Si tratta dei sequestri di persona, dettati dalla necessità di una rapidissima accumulazione di denaro che possa permettere di partecipare agli affari. Poi ci sono due opportunità che riportano la Calabria nel circuito nazionale: la costruzione della Salerno-Reggio Calabria (e poi il suo ammodernamento) e quella del quinto centro siderurgico, che non si utilizzerà mai dopo la sua costruzione».

    Come è stato costruito il sistema delle relazioni della ‘ndrangheta?

    «Vengono cambiate le vecchie tradizioni. Per uno ‘ndranghetista una doppia affiliazione è fuori dal proprio orizzonte: la doppia fedeltà è inconcepibile per i vecchi capi della ‘ndrangheta. De Stefano fa fuori contemporaneamente tre capi: Macrì, Nirta e Tripodo. Con questo gesto ha possibilità di rompere con il vecchio mondo e di aprire strade nuove. E per farlo deve mantenere il massimo della segretezza possibile.

    Paolo De Stefano, boss dell’omonima famiglia, ucciso nel 1985

    Nasce una struttura inusuale dentro la storia della mafia: una terza organizzazione, in bilico tra mafia e massoneria, che si chiamerà la Santa. Ha relazioni così delicate che neanche tutti gli aderenti alla ‘ndrangheta vi possono partecipare ed esserne perfino a conoscenza. Inizialmente saranno solo 33 coloro che ne potranno far parte, poi inizierà un’inflazione di queste presenze».

    Quali funzioni svolge la Santa?

    «Nella storia d’Italia, dove si intrecciano reti illegali, criminali, politiche, affaristiche, sono fondamentali gli “incroci”. Ecco, la Santa è uno di questi crocevia. È un’organizzazione di relazioni, perché il circuito delle influenze e delle conoscenze, in Italia, è più efficace del talento individuale. Le conoscenze e le relazioni stabiliscono un capitale che nessun merito personale può sostituire».

    C’è qualche legame con il concetto di clientela?

    «In qualche modo potremmo spiegare così anche il fenomeno della clientela. Ma saremmo fuori strada se la riducessimo soltanto a qualcosa di spregiativo e non a qualcosa di utile. Dobbiamo invece parlare di traffico di relazioni, di commercio di relazioni, di capitale di relazioni: una persona non potrà mai essere influente se non è in possesso di un circuito di relazioni. Oggi chiameremmo la clientela “traffico di influenze”.

    Questo consente alla massoneria come alla ‘ndrangheta di avere tre tipi di relazioni: con il mondo politico, con quello imprenditoriale, con la magistratura e gli avvocati. Quest’ultimo tipo è fondamentale per l’onore mafioso, che consiste nel fatto di non essere sottoposto all’ingiuria della legge. Tutti sanno che sono un criminale, ma nessuno mi può mettere in galera; e se mi mettono in galera, sono in grado di uscirne».

    L’impunità è una chiave di rafforzamento del potere criminale?

    «È proprio l’impunità il massimo dell’onore mafioso, perché tutti devono sapere chi sono, la violenza che posso esercitare, ma nessuno mi può prendere e mettere dentro. Ed è l’impunità il grande capitale che i mafiosi contrattano nelle relazioni, allo stesso livello dei rapporti politici o imprenditoriali che servono per fare affari.
    Questo è un perno fondamentale: la massoneria è in grado di offrire tutte e tre queste relazioni.

    Non dimentichiamo mai che nella storia del successo delle mafie in Italia c’è il fatto che la magistratura è stata fino in fondo parte degli interessi delle classi dirigenti. Solo con la scuola di massa si è rotta questa continuità e contiguità storica, permettendo l’ingresso in magistratura di altri ceti. Questo ha consentito un ricambio fondamentale ai fini della repressione del fenomeno. Tutto questo si verifica tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del Novecento. È l’impunità la chiave del successo dei mafiosi a garantirla era, in gran parte, la magistratura.

    Può fare un esempio a riguardo?

    Ricordo il discorso funebre del capo dei magistrati italiani, primo presidente della Corte D’Appello, Giuseppe Lo Schiavo, in onore di Calogero Vizzini. Già che il capo dei magistrati italiani tributi onori al capo della mafia è incredibile. Ma se lo si fa poi sulla rivista giuridica Processi, nel 1955, risulta tutto ancora più incredibile. Lo Schiavo era colui che aveva scritto Un giorno in Pretura, da cui Pietro Germi aveva tratto poi In nome della legge, uno dei film più ambigui sulla mafia, in cui si vede che il capomafia consegna l’assassino nelle mani del giovane pretore.

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    Donne di VIllalba al funerale di Calogero Vizzini

    In quell’occasione dice: “È morto il capo della mafia Calogero Vizzini, si è sempre detto che la mafia è contro lo stato, contro le istituzioni e contro i rappresentanti della legge; io posso affermare che mai la mafia è stata contro lo stato, contro le istituzioni e men che mai contro i rappresentanti della legge, anzi in diversi momenti storici ha aiutato la legge a venire a capo di delitti che altrimenti non avremmo scoperto”. Aggiunge inoltre: “Già si conosce il nome del suo successore, mi auguro che possa continuare sulla strada del suo predecessore“».

    La violenza, l’omertà e le relazioni sono le chiavi interpretative del modello criminale?

    «Il potere dei mafiosi in Italia non è dovuto in modo esclusivo alla loro violenza, ma al fatto che questa violenza è stata riconosciuta e legittimata da altri poteri ed esercitata senza concreta repressione. La storia delle mafie, quindi, è una storia di integrazione della violenza popolare dentro le strategie delle classi dirigenti. E in questa storia di integrazione bisogna andare a leggere e analizzare tutti i crocevia di queste relazioni.

    La massoneria, non tutta, ha rappresentato uno di questi. Se non analizziamo questi crocevia non potremo mai comprendere la storia dell’Italia. Se esistono dei luoghi in cui si organizzano le influenze, o si riescono ad aumentarle attraverso un potere occulto, prima o poi questo meccanismo non potrà che portare sulla scena del potere anche le mafie, che hanno uno straordinario bisogno di relazioni.

    La storia del rapporto massoneria-mafia è la sintesi dell’opacità del potere in Italia. L’opacità del potere ha permesso tante forme illegali e la mafia è una di queste, ma le classi dirigenti non hanno mai consentito ai criminali di essere gli unici monopolisti dell’illegalità. Anzi, l’hanno condivisa, l’hanno accettata, hanno stabilito delle modalità per servirsene, non l’hanno mai combattuta né al tempo stesso hanno accettato che i mafiosi fossero gli unici a utilizzarla. In questo atteggiamento c’è continuità nella storia italiana».

    Conta più sfuggire alla legge?

    «È stato affermato dalle classi dirigenti, fino ad una diffusione di massa, questo assunto: la legge dà potere quando la eserciti, ma dà più potere quando la raggiri. Ecco, da questo punto di vista penso che i mafiosi abbiano imparato dalle classi dirigenti. E le classi dirigenti hanno accettato la mafia come parte di quel mondo oscuro, opaco, con cui hanno costruito grandi architetture».

    Quali crocevia abbiamo conosciuto nei recenti decenni?

    «Nel mondo delle mafie si sono manifestate alcune novità dirompenti nel corso degli ultimi decenni. La prima ha che fare con il cambio di gerarchie nel mondo mafioso. Dalla seconda metà degli anni Novanta le ‘ndrine calabresi e le camorre napoletane (e casertane) hanno scalzato Cosa nostra siciliana dal ruolo di leader rivestito dal secondo dopoguerra fino alla cattura di Totò Riina.

    Il boss dei Corleonesi, Totò Riina

    E nessuna istituzione di contrasto alle mafie aveva mai avanzato una previsione del genere, nessuno studioso della materia aveva ritenuto possibile una scalata simile. Tutte le previsioni in materia si sono rivelate, dunque, sbagliate. La camorra la si dava per finita alla fine degli anni sessanta quando tutta l’attenzione era catturata dalla mafia siciliana, la ‘ndrangheta non era neanche conosciuta con il nome attuale e la si riteneva una criminalità assolutamente secondaria».

    Perché la mafia siciliana è stata maggiormente oggetto di studio e di analisi?

    «Fino a qualche decennio fa gli esperti non concedevano “dignità” di studio né alla ‘ndrangheta e né alla camorra. Non corrispondevano ai canoni della “mafiosità” modellati sulle caratteristiche di Cosa nostra. Le Commissioni parlamentari antimafia cominciarono ad occuparsi delle altre “consorelle” mafiose solo a partire dagli anni ’90 con una organica relazione sulla camorra del presidente Luciano Violante nel 1993. Mentre bisognerà aspettare il 2008 per una specifica relazione sulla ‘ndrangheta da parte del presidente Francesco Forgione.

    La prima Commissione parlamentare antimafia non si occupò affatto di camorra, né tantomeno di ‘ndrangheta. Riteneva che i fenomeni criminali di tipo mafioso coincidessero quasi esclusivamente con la mafia siciliana. Con difficoltà fu inserito il termine camorra nel testo che nel settembre 1982 introdusse il reato mafioso in base all’art. 416 bis del codice penale (dopo il delitto del generale dalla Chiesa, prefetto di Palermo);,
    Solo nel marzo 2010 la parola ‘ndrangheta viene espressamente introdotta nell’articolo 416 bis (Associazione di stampo mafioso). E solo nel 2016 la Cassazione ne ha riconosciuto l’unitarietà in una sentenza del 17 giugno. “La ’ndrangheta è una mafia cresciuta nel silenzio”, ha sintetizzato Nicola Gratteri».

    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
    Possibile che solo pochi si siano occupati di ‘ndrangheta? Perché?

    «Il primo ampio studio sull’argomento è del 1992, scritto da Enzo Ciconte: ‘Ndrangheta dall’Unità a oggi. Conteneva già tutti gli elementi di previsione della sua rapida ascesa tra le prime criminalità del mondo. Perché questa sottovalutazione della ndrangheta sia durata fino ai giorni nostri è questione storica, politica, culturale, non ancora risolta.

    Nel periodo 1970-1988, la ndrangheta ha effettuato ben 207 sequestri di persone, di cui 121 in Calabria e gli altri nel Nord dell’Italia, in particolare in Lombardia, accumulando risorse tali da consentirle di partecipare da protagonista ai lavori per la costruzione del quinto centro siderurgico a Gioia Tauro, poi a quelli dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. E, infine, di ritagliarsi un ruolo da protagonista nel traffico internazionale di stupefacenti. Eppure l’attenzione su di essa non superava qualche riferimento folcloristico sui rifugi dell’Aspromonte e qualche similitudine con il banditismo sardo. Era il periodo del terrorismo in Italia e le priorità repressive dello Stato erano concentrate su di esso».

    Insomma, la ‘ndrangheta operava in silenzio, ma si rafforzava…

    «Non è vero che fino a 30 anni fa la ndrangheta non rappresentasse un pericolo per la sicurezza nazionale. Né che fosse impossibile pronosticare il successo che poi ha avuto nel mondo criminale globale. Nelle migliori delle ipotesi si tratta di una imperdonabile leggerezza degli apparati di sicurezza del nostro Paese.

    Camorre e ndrangheta non erano affatto silenti quando, a partire dagli inizi degli anni ’70, la mafia siciliana occupa la scena criminale e monopolizza l’attenzione della pubblica opinione, della politica e degli apparati di sicurezza. Non erano in una fase di scarsa attività criminale, solo che su di esse – per ragioni varie – non c’era l’attenzione degli investigatori e degli apparati istituzionali dello Stato.

    Nessuna criminalità diventa da un giorno all’altro così potente, se non ha un lungo retroterra storico, un lungo «apprendimento», una lunga sedimentazione alle spalle. E le servono una lunga disattenzione o sottovalutazione degli ambienti istituzionali, delle forze di sicurezza e svariate “agevolazioni” da parte di chi doveva contrastarla e combatterla».

    L’Italia ha sottovalutato la pericolosità di ‘ndrangheta e camorra?

    «I fatti hanno capovolto il paradigma interpretativo delle mafie e la sottovalutazione da parte di studiosi e degli apparati di sicurezza italiani. La camorra, considerata una semplice forma di moderno banditismo urbano sembrava quella più fuori dai canoni mafiosi. Oggi invece è quella più in ebollizione per l’alta conflittualità interna e per le sue capacità di espansione nell’economia legale.

    La ‘ndrangheta, che sembrava più secondaria ed era praticamente semisconosciuta, era considerata una forma di ancestrale banditismo rurale. Poi ha letteralmente colonizzato, dal punto di vista criminale, il Centro-Nord. Tutte le previsioni in materia di evoluzione dei fenomeni mafiosi si sono dimostrate sbagliate. I servizi di intelligence non hanno fatto una bella figura: la sottovalutazione di camorra e ‘ndrangheta fa parte dei grandi limiti e compromissioni dei servizi di sicurezza italiani di quegli anni».

    In tempi di globalizzazione, come si sono comportate le mafie meridionali?

    «Innanzitutto si è determinato un processo di “nazionalizzazione” delle mafie, cioè la formazione di una presenza stabile e duratura delle organizzazioni mafiose nelle strutture economiche delle regioni del Centro- Nord che rappresentano il cuore pulsante dell’apparato industriale, produttivo e commerciale dell’Italia. Un esito del genere era considerato assolutamente impossibile dagli studiosi, dagli apparati di sicurezza, dalle forze politiche e dalla pubblica opinione rappresentata dalla stampa e dalle Tv.

    Questa novità si era già percepita negli anni ’50 e ’60 del Novecento con la presenza al soggiorno obbligato di boss delle varie mafie meridionali, con investimenti nella piazza finanziaria di Milano. Ma si era trattato di incursioni, presenze sporadiche, finalizzate a qualche obiettivo limitato e non a una presenza stabile e duratura come quella odierna. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a previsioni sbagliate. Nessuno aveva ipotizzato che le mafie potessero insediarsi nel cuore produttivo italiano».

    Come mai tutti hanno sbagliato previsioni?

    «Si riteneva che il Centro-Nord, e soprattutto le regioni più ricche, fossero un ambiente ostile, inadatto allo sviluppo delle mafie o non in grado di ospitare fenomeni così arcaici. Insomma si pensava che essendo le mafie fenomeni di arretratezza economica e di primitività civile, mai e poi mai avrebbero sfondato in realtà ricche e di avanzata civilizzazione.

    Quello che non si era capito e non si vuole capire (nonostante tutte le smentite) è che le mafie non hanno a che fare solo con la mentalità dei territori dove si sono sviluppate prima e dopo l’Unità d’Italia, ma possono espandersi e superare tranquillamente le colonne d’Ercole – o la linea delle palme, come la chiamava Sciascia – se si mette in moto una “affinità elettiva” con l’economia di altri luoghi e con gli interessi imprenditoriali di territori ad alto tasso civico e di benessere».

    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg
    Quanto hanno contato i contesti nel Mezzogiorno e nel Nord del nostro Paese?

    «Se nel Sud sono state le condizioni economiche, sociali e politiche a dettare le ragioni del successo delle mafie, ora sembra essere la struttura produttiva ed economica del Nord a presentarsi come ospitale e invitante per le mafie. Per capire il radicamento al Nord delle mafie oltre ogni previsione e aspettativa, bisogna interrogare l’economia di questa parte dell’Italia e i comportamenti delle sue classi dirigenti, quelle politiche e quelle imprenditoriali».

    Qual è il vettore principale della globalizzazione delle mafie?

    «È il traffico di droga ancora oggi a determinarla. Una spinta ancora più significativa perché non è causata dal fatto che in Italia, o in Paesi vicini, si produca droga. È questo il caso di un ruolo internazionale non dettato da ragioni geo-politiche, ma da ragioni commerciali. Cioè dalla capacità di entrare in un mercato dove non si possiede la materia prima, ma la si procura in relazioni con i produttori di altri continenti».

    Stanno cambiando – per effetto della nuova dimensione geografica dei mercati – le gerarchie nel mondo delle organizzazioni criminali?

    «Il cambiamento di gerarchie all’interno dell’universo mafioso ha avuto recentemente numerosi e ampi riscontri nelle relazioni degli organi di governo e del parlamento preposti al contrasto, negli atti della magistratura, nei dati sugli scioglimenti dei consigli comunali per infiltrazioni mafiose, nelle statistiche sui beni sequestrati e confiscati, nel numero di omicidi commessi negli ultimi 25 anni, e perfino nel numero complessivo dei pentiti.

    Il Ministero dell’interno, in un recente studio, ha stimato le entrate economiche della camorra in 3.750 milioni di euro e quelle della ‘ndrangheta in 3.491, mentre Cosa nostra si attesta a 1.874 milioni di euro e la criminalità pugliese a 1,124. Camorra e ‘ndrangheta, dunque, cumulano ben il 67% di tutti i ricavi mafiosi. La Calabria risulta essere la regione italiana con la più elevata densità di reati in rapporto alla popolazione, Napoli invece ha il primato per omicidi ogni centomila abitanti (tra le città a presenza mafiosa) e il record assoluto nel numero di clan e di affiliati.

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    Se si analizzano le ordinanze di custodia cautelare dal 1992 al 31 dicembre del 2020 per il reato di 416 bis, si può verificare come la camorra tocchi la cifra di 3.219 arrestati (il numero più alto in assoluto) la ‘ndrangheta quella di 2,800 (il numero più alto in rapporto alla popolazione) Cosa nostra 2.193, mentre la criminalità mafiosa pugliese arriva a 811. Dei 759 reclusi al 41 bis, cioè al carcere speciale per i mafiosi, 266 sono camorristi, 210 ‘ndranghetisti e 203 appartenenti a Cosa nostra: i calabresi e i campani superano il 60% del totale.

    Se poi si prendono in considerazione i delitti commessi dal 1983 al 2018, si può notare come la camorra abbia commesso 3,026 omicidi (ben il 45,4% di tutti gli omicidi di mafia) Cosa nostra 1.701 (il 25, 5%) e la ‘ndrangheta 1.320 (il 19,85). Quest’ultimo dato, se rapportato alla popolazione, è di gran lunga il più alto».

    Quali dialetti si parlano oggi nel mondo criminale?

    «Sempre più il napoletano e il calabrese, non il siciliano. Questo cambiamento è stato in qualche modo registrato anche dall’industria culturale, in particolare da quella cinematografica. Dal 2006 al 2018 su 61 film prodotti sul tema delle mafie, ben il 50% di essi ha riguardato la camorra. E per segnalare le perifericità del tema ndrangheta nella opinione pubblica italiana, va ricordato che su 337 film girati dal 1948 al 2018, solo 16 hanno avuto come argomento la ‘ndrangheta, cioè il 4%, come ricorda Marcello Ravveduto nel libro Lo spettacolo della mafia».

    Come sta cambiando la struttura della ‘ndrangheta a seguito del suo processo di globalizzazione?

    «Così come la mafia siciliana ha assunto un ruolo centrale grazie al rapporto con Cosa Nostra americana che l’ha proiettata nel corso del Novecento tra le protagoniste del crimine mondiale, anche la ‘ndrangheta deve oggi il proprio ruolo nazionale e internazionale alla proiezione globale che le è stata fornita dai legami vasti con le ‘ndrine presenti fuori dai territori calabresi. Ancora una volta sono le relazioni internazionali a decidere del successo di una mafia rispetto a un’altra. Caso a parte è quello delle bande di camorra napoletana».

    E la camorra come si sta ristrutturando?

    «L’ascesa della ‘ndrangheta tra le principali criminalità del mondo va considerata come un successo di una colonizzazione avvenuta a ridosso delle aree storiche di emigrazione dei calabresi. Per la camorra, invece, il processo di “nazionalizzazione” e “internazionalizzazione” non sembra legato alla riproduzione di un proprio modello tra gli emigrati napoletani o campani in Italia e nel mondo.

    I calabresi riproducono all’estero o nel Nord dell’Italia il modello delle ‘ndrine. La camorra non esporta un suo modello organizzativo né un modello di vita, ma solo criminali in affari che si stanziano nei posti strategici della produzione e delle rotte del narcotraffico o in ogni luogo dove è possibile fare investimenti, smerciare prodotti contraffatti, senza seguire necessariamente le rotte dell’emigrazione napoletana e campana. La camorra, dunque, esporta camorristi, la ‘ndrangheta trapianta un suo modello criminale fuori dalla sua zona di origine».

    Cosa nostra assume oggi una posizione defilata?

    «Il ridimensionamento internazionale di Cosa nostra (ridimensionamento, si badi, non sconfitta) è stato confermato nel 2014 quando un’indagine della Procura di Reggio Calabria ha dimostrato che Cosa nostra americana, per un cinquantennio principale partner della mafia siciliana, preferiva avere rapporti con la ‘ndrangheta piuttosto che con la sua consorella sicula. E un’altra indagine ha accertato che la mafia siciliana è costretta a comprare la droga dalla ‘ndrangheta perché non è più in grado di approvvigionarsi da sola sui mercati di produzione».

    Possiamo definire una gerarchia criminale tra le tre grandi strutture meridionali?

    «Nel cambio di gerarchia all’interno della criminalità italiana hanno operato più fattori. Ma quello essenziale riguarda la perdita da parte di Cosa nostra del controllo del mercato delle sostanze stupefacenti. In particolare, quello dell’eroina. Questa caduta di ruolo comincia a manifestarsi a metà degli anni ’90 con l’aumento esponenziale della domanda di cocaina. Al contempo, a causa dell’alto numero di morti e del conseguente allarme della pubblica opinione, si registra la flessione di quella di eroina, droga in cui si era specializzata Cosa nostra grazie ai rapporti storici con la mafia negli USA.

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    Sempre in quel periodo, l’azione dello Stato si fa più dura in Sicilia dopo l’uccisione dei magistrati Falcone e Borsellino. È in questo momento storico che camorristi e ‘ndranghetisti vanno ad occupare il vuoto lasciato da Cosa nostra. Si propongono come interlocutori privilegiati di numerosi gruppi criminali internazionali, a partire dai narcotrafficanti del Sud America, area produttrice di tutta la cocaina del globo. Se la ‘ndrangheta godrà nel mondo criminale del prestigio di chi paga sulla parola e rispetta i patti grazie alle grandi disponibilità economiche e alla drastica punizione di chi sgarra, la camorra riesce a “democratizzare” il consumo della cocaina, mettendo a disposizione vaste aree di spaccio controllate militarmente, prezzi bassi, facilità di approvvigionamento e rifornimento di altre piazze di smercio in Italia».

  • Vermorel, l’eremita 2.0 nel cuore della Locride

    Vermorel, l’eremita 2.0 nel cuore della Locride

    Il cammino dell’eremita francese Frédéric Vermorel si ferma non lontano dall’ansa del fiume Allaro, a Caulonia, nel cuore della Locride. Ha scelto la solitudine di Sant’Ilarione, lasciandosi a valle la Statale 106 Jonica.

    Gli eremiti se ne stanno in disparte; un’esperienza spirituale e religiosa non per forza cristiana. Anche se per noi calabresi il più famoso resta San Francesco di Paola.

    Le piogge hanno rovinato le strade, rendendo ancora più difficoltoso il tratto che si insinua nell’entroterra. Frederic non sta con le mani in mano. Controlla lo stato della fiumara. Scorre a pochi metri dalla sua dimora.

    Cosa t’ha portato qui in Calabria?

    «Nel 1979 ho incontrato in Francia Gianni Novello, il riferimento della comunità Santa Maria delle Grazie di Rossano calabro. Sapeva che sarei andato in Sicilia e mi ha invitato a visitare la comunità. L’accoglienza che la Calabria, in particolare la comunità Rossano, mi aveva riservato ha segnato profondamente il mio spirito, sentivo di non poter ripagare il debito, dovevo molto a questa umanità. Il primo modo di sdebitarmi fu di mettere a disposizione l’altro materasso che c’era in casa mia a Parigi a chiunque passasse e decisi di non chiudere più la porta di casa, l’ho lasciata sempre aperta ed è ancora così. Sono tornato molte volte qui nel sud perché l’ho sempre percepito come un luogo metafisico e non solo un luogo geografico. Alla fine ho deciso di vivere a Rossano dove sono rimasto dodici anni».

    Cosa aveva di speciale la comunità di Rossano?

    «Quello che mi piaceva molto della comunità era la capacità di coniugare il territorio con l’universale. C’era un motto che andava per la maggiore negli anni ’70: “pensare globalmente e agire localmente” e Santa Maria delle Grazie lo ha vissuto in modo incisivo. Avevamo le antenne aperte sul mondo intero, ricevevamo visite da don Tonino Bello, Helder Camara, Arturo Paoli e Carlo Carretto. Venivano da tutto il mondo a visitare la comunità perché organizzavamo molti convegni religiosi e avevamo il teatro degli oppressi. Alcuni di noi lavoravano come insegnanti o in ospedale, io facevo parte di una cooperativa che si occupava di disagio sociale, vivevamo con intensità anche le relazioni di vicinato».

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    L’eremita Frédéric Vermorel sulle sponde dell’Allaro
    Un’idea in sé rivoluzionaria

    «Il nostro monachesimo era ripensato in chiave contemporanea.  Appoggiavamo apertamente i movimenti di liberazione in America latina e questo ci attirò molte critiche. Eravamo facilmente etichettati come quinta colonna dell’internazionale comunista. Ma le nostre erano opinioni frutto di una riflessione sincera e anche chi nel clero non era sulle nostre posizioni col tempo ha imparato ad apprezzare il nostro percorso.  Nel ‘96 ho lasciato la comunità per dissidi interni che mi hanno molto ferito».

    Lasciando la Calabria ti sei trovato meglio?

    «In Brasile il dolore dei poveri mi è entrato nelle vene e non mi è più uscito. Ho ritrovato fiducia in me stesso, decidendo di tornare ad un’esperienza che avevo fatto durante il servizio civile, quella dell’Arche di Jean Vanier. Quelli che hanno un handicap mentale hanno un rapporto più immediato con le persone e con le cose. Sono guaritori feriti, come Gesù ti aiutano a guardare le tue ferite e non lasciarti prendere dal panico».

    Poi hai appreso della terribile notizia degli abusi sessuali

    «Ho avuto modo di instaurare un bel rapporto con Jean Vanier. Mi ha aiutato a rimettermi in piedi senza nessuna relazione di dipendenza, gli sono molto grato e per me è stato uno choc pesante scoprire degli scandali che lo hanno riguardato (Gli abusi sessuali del fondatore dell’Arca, Jean Vanier – Il Post). Fu proprio lui a ripropormi di riprendere gli studi teologici che avevo abbandonato, così mi ritrovai a Bruxelles a studiare dai Gesuiti, anche se sentivo che la mia vocazione era ancora quella della comunità di Santa Maria delle Grazie».

    A Bruxelles cosa facevi?

    «Gli studi mi hanno permesso di sistematizzare una cultura che possedevo già, che dovetti confrontare con posizioni da me distanti. Nel contempo avevo avviato una missione che coinvolgeva i funzionari della comunità europea e per guadagnare qualche soldo insegnavo anche nelle scuole della buona borghesia della città, ma nel frattempo sognavo di confrontarmi con i giovani della Sila greca o con bambini del Goias in Brasile, mondi diversi ma tutti belli».

    Insomma, hai avuto una sorta di nostalgia?

    «Fu nel monastero di Marango che ricevetti per la prima volta il suggerimento di tornare in Calabria, di confrontarmi con Giancarlo Maria Bregantini (allora vescovo di Locri) e sembrava quasi un sogno, a quarantacinque anni mi rimettevo in gioco senza sapere nulla di cosa mi potesse aspettare. La sintonia con il vescovo mi ha permesso di individuare questo luogo di cui mi sono innamorato a prima vista. L’eremo ha forgiato il mio stile di vita monastico. Un’altra Calabria rispetto a quella lasciata a Rossano, dalla lingua alla cultura».

    L’eremo di Sant’Ilarione a Caulonia
    Il tuo stile di vita ora qual è?

    «Qui apprezzo il tempo di solitudine che bilancio a tempi di accoglienza. La porta è sempre aperta come a Parigi. Nelle ultime feste di Natale eravamo qui provenienti da cinque Paesi diversi, con quattro religioni diverse più una ragazza non credente. Alterno tempi di preghiera con quelli della comunicazione col mondo, invio periodicamente una mail agli amici in cui unisco una riflessione di fede con quella sociopolitica».

    La strada che conduce all’eremo di Sant’Ilarione dove adesso vive il francese Fréderic Vermorel
    Ti  piace tanto questa terra?

    «La mia amarezza per questa terra viene solo dalla classe dirigente, il deficit non è non solo o propriamente etico, ma questa classe dirigente è incapace di sognare, il territorio calabrese potrebbe vivere dodici mesi l’anno di turismo e invece ci si accontenta di due mesi fatti male, la Statale 106 è rimasta interrotta per cinque anni a causa del ponte rovinato sull’Allaro».

    Tommaso Scicchitano

  • Dalle Serre alle stelle, se al Cern si parla calabrese

    Dalle Serre alle stelle, se al Cern si parla calabrese

    C’è una scuola, in un paese dell’entroterra calabrese, in cui un preside custodisce gelosamente un tubo fotomoltiplicatore e un piccolo, ma raro, prototipo di calorimetro elettromagnetico formato da strati di piombo ed elettrodi in rame con forma a fisarmonica, il tutto immerso in argon liquido. Quei pezzi provengono dall’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra e a portarli all’istituto “Einaudi” di Serra San Bruno è stata Teresa Barillari, scienziata di caratura internazionale che proprio da quel paese di 7mila abitanti sulle montagne del Vibonese, e proprio da quel liceo, è partita per approdare prima all’Unical, entrando nel team di Antonino Zichichi ai tempi della tesi di laurea, per poi diventare Group Leader al Max-Planck Institute for Physics di Monaco e Deputy Team Leader nell’esperimento ATLAS dell’acceleratore di particelle più grande e potente del mondo.

    Fa la spola tra Ginevra e Monaco di Baviera ma torna spesso in Calabria. Le abbiamo rivolto qualche domanda per provare a capire qualcosa in più del suo lavoro, della ricerca scientifica, dei risvolti che lo studio della fisica può avere nella vita di tutti i giorni. Partendo dal Nobel assegnato di recente al fisico Giorgio Parisi, premiato, tra gli altri, assieme a Klaus Hasselmann che proviene proprio dal Max-Planck, istituto che ha oggi in “bacheca” 36 dei prestigiosi premi assegnati a Stoccolma.

    Parisi ha detto di essersi occupato del caos, la scoperta per cui è stato premiato riguarda i sistemi complessi. Di cosa si tratta, in termini comprensibili anche ai non addetti ai lavori?

    «Rispondo citando l’esempio fatto da lui stesso: “La prima volta che proviamo a mettere i bagagli dentro la macchina non c’entrano tutti. Poi proviamo ad ottimizzarne la disposizione, tolgo questo qui, metto quello lì… facendo un po’ di manovre alla fine c’entrano tutti. Il giorno dopo riprovo e non mi ricordo come avevo fatto, poi magari viene un’altra persona e trova una soluzione diversa su come disporre le valigie in macchina. Ecco, le due soluzioni sono differenti” ma hanno lo stesso risultato.

    I sistemi complessi e le loro soluzioni hanno lo stesso comportamento e diversità di soluzioni da caso a caso. La complessità di un sistema deriva da quello che viene chiamato disordine. Si può pensare a un tavolo da biliardo. Quando si tira la prima palla, si può ipotizzare dove potrebbe andare, ma tutti i tiri successivi al primo saranno difficili da intuire. Parisi ha scritto una formula matematica che riusciva a prevedere in qualche modo il comportamento dei sistemi complessi. Ci sono voluti circa 20 anni prima che i matematici riuscissero a provare che quella formula fosse corretta. Io ammiro Parisi per la personalità semplice, per la sua passione e per la capacità di spiegare in parole semplici cose difficili».

    Cosa succede in quell’enorme cilindro costruito sul confine franco-svizzero a cento metri sottoterra?

    «In generale due “pacchetti” di particelle (ogni pacchetto è composto da circa 100 miliardi di protoni) sono accelerati in versi opposti nel Large Hadron Collider (LHC). I due pacchetti di protoni sono fatti scontrare l’uno contro l’altro nel punto centrale di grossi rivelatori del LHC, come per esempio il rivelatore ATLAS, dove lavoro io, o come l’altro rivelatore, CMS. I prodotti delle collisioni protone-protone vengono osservati da ATLAS/CMS e si spera che da queste interazioni si possano scoprire nuove particelle o altre scoperte. Nel 2012 con i rivelatori ATLAS e CMS abbiamo scoperto il bosone di Higgs».

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    L’esperimento ATLAS del Cern di Ginevra
    Quali possono essere le conseguenze pratiche dello studio della fisica? Quanto ha a che fare, per esempio, con la salute o con la scienza climatica?

    «Parisi a una domanda analoga ha risposto che la scienza pura da sempre, in un modo o in un altro, porta risultati pratici alla società. Al Cern di Ginevra e in Italia noi abbiamo avuto colleghi durante la pandemia che hanno usato la loro esperienza e la loro conoscenza scientifica per costruire respiratori che poi sono stati usati negli ospedali. Il Cern ha fatto usare il proprio centro di calcolo e i propri computer ai medici che a livello mondiale volevano analizzare in modo veloce i dati raccolti in questi mesi di per capire come i loro studi procedessero.

    La ricerca di Parisi sui sistemi complessi viene applicata anche alla scienza climatica. Come si può leggere qui “il legame delle ricerche di Parisi con quelle sul clima riguardano la natura stessa di quest’ultimo, ossia quella di sistema complesso. Il suo studio infatti prevede una caratterizzazione di diversi sottosistemi climatici, come ad esempio l’atmosfera, l’oceano, la biosfera, su molte scale temporali”».

    Meno di 60 donne hanno vinto il Nobel, nella fisica 4 donne e 212 uomini. In Germania le presenze femminili nelle facoltà scientifiche sono sotto il 15%, peggio che in Italia dove sono al 37% (da segnalare che Catanzaro è tra le 12 università italiane in cui ci sono più studentesse che studenti).
    C’è un problema di genere, una questione femminile, nel mondo della scienza? È stato difficile da un paesino dell’entroterra del Sud arrivare dov’è ora?

    «Sì, c’è un problema di uguaglianza. Credo che in Italia la situazione delle scienziate sia migliore che in Germania. Credo che la discriminazione di genere anche a livello scientifico sia ancorata a una cultura chiusa, che rinchiude le persone in ruoli sociali imprigionando le menti. In tutto il mondo adesso si cerca di sopperire a questo gap di genere. Ci vorranno anni per cambiare questo stato di cose, ma cambierà.

    Marie-Curie
    Marie Curie, una delle sole quattro donne ad ottenere il Premio Nobel per la Fisica. Se ne aggiudicò anche uno per la Chimica

    Io sono cresciuta con due fratelli che mi hanno sempre spinta a cercare la mia indipendenza. I miei genitori non hanno mai ostacolato i miei sogni e la mia passione per lo studio e la fisica. Loro non si sono opposti quando decisi di trasferirmi da giovane e da sola fuori dall’Italia. Il mio unico e solo interesse, la mia grande passione è stato studiare fisica, la fisica delle particelle elementari, il resto devo dire non l’ho proprio visto, il resto era ed è per me solo bla bla bla. Devo dire che in Germania per la prima volta in vita mia ho sentito forte la discriminazione per essere una donna e una madre che si occupa di scienza. Ma ho camminato per la mia strada seguendo le mie idee e la mia passione, lasciandomi tutto il resto alle spalle».

    Molti scienziati italiani protestano contro i tagli alla ricerca, Parisi stesso ha detto che l’Italia non è un Paese per ricercatori.

    «Io credo che un Paese che non investe nella ricerca pura in generale è, o diventerà, un Paese povero. Il covid ci ha insegnato che gli scienziati esperti del settore, in Italia e nel resto del mondo, hanno aiutato i governanti e l’umanità intera a uscire da una situazione drammatica. Cosa avrebbe fatto l’Italia senza questi scienziati? Secondo me se una nazione dà fondi alla ricerca alla fine questo investimento porta benessere e prestigio alla nazione stessa. Investire nella ricerca rispecchia il benessere del Paese stesso».

    Grazie alla scienza usciremo dalla pandemia? Cosa direbbe agli scettici?

    «Sì, la scienza ci aiuterà a uscirne. Si basa su numeri, fatti, evidenze. Bisogna guardare ai numeri, per esempio ai dati sui contagi che avevamo un anno fa in Italia e a quelli di oggi. Il vaccino ha fatto quello che doveva fare. Meno persone hanno il covid in Italia e nel resto del mondo rispetto a un anno fa. Tutto questo grazie alle persone che per anni hanno passato le loro notti a studiare e testare questo vaccino e i vaccini in generale. Attualmente in Italia c’è più gente vaccinata che in Germania. Il numero di contagiati e morti in Germania attualmente è circa almeno tre volte in più che in Italia. Bisogna credere nella scienza».

  • L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    L’Università della Calabria fatica a guardare oltre se stessa

    Tra qualche mese saranno passati cinquanta anni dalla decisione di istituire l’Unical,  l’Università della Calabria. Mezzo secolo è un tempo più che congruo per fare il punto sulle modalità con le quali si è determinato il rapporto tra territorio e cultura accademica. Ne parliamo con Alessandro Bianchi, ministro dei Trasporti nel secondo governo Prodi e, dal 1999 al 2006, rettore dell’Università Mediterranea, istituzione con una storia di ormai quaranta anni.

    Era il 1972, e qualcuno fece una scommessa: Beniamino Andreatta e Paolo Sylos-Labini crearono, ad Arcavacata di Rende (ai confini di Cosenza), l’Università della Calabria, che nel 2019 ha conquistato il secondo posto, dopo Perugia, nella graduatoria stilata dal Censis dei grandi atenei statali italiani (da 20 mila a 40 mila iscritti). La valutazione ha riguardato i servizi, le strutture, le borse di studio offerte agli studenti, la comunicazione e l’internalizzazione.

    Da allora le università calabresi si sono ritagliate isole d’eccellenza nelle discipline del futuro, come l’Intelligenza Artificiale, ma non sono riuscite, almeno sinora, a generare una ricaduta positiva sul territorio. Nella società contemporanea, che è sempre poi guidata dalla conoscenza e dai saperi, i legami tra società locale ed istituzioni universitarie sarebbero preziosi per innescare processi di sviluppo: nell’economia per promuovere imprenditorialità ed innovazione, nella società per orientare la discussione culturale e la consapevolezza dei cittadini. Cerchiamo di capire perché non si è saldata la cultura accademica prodotta dalle Università con il territorio calabrese. L’opinione di Alessandro Bianchi è preziosa per la sua esperienza diretta alla direzione della Università Mediterranea.

    Attraverso quali strumenti le Università calabresi hanno interagito con i diversi stakeholders del territorio (politica, industria, società civile, associazioni)?

    «In generale direi che l’interazione è stata molto marginale sia con il mondo produttivo che con la società civile, e le ricadute sul funzionamento delle Università di modesta consistenza. Un caso a parte quanto riguarda il versante della politica, ma solo perché le interazioni sono state indispensabili con le amministrazioni locali, in particolare quelle comunali, perché legate alla realizzazione delle nuove sedi che per tutte e tre le Università hanno comportato lavori complessi e di lunga durata.

    Un rapporto che poco a che fare con quello che dovrebbe essere un legame strutturale tra Università e Territorio che, a mio parere, non si è mai costruito per una duplice responsabilità: delle Università, che hanno teso a rinchiudersi nei loro confini culturali e disciplinari; e della Regione, che non ha mai considerato l’Università un interlocutore a tutto campo, un soggetto con il quale condividere le scelte di politica economica, sociale e territoriale».

    Quali sono i punti di forza e di debolezza che l’Unical ha espresso nel corso della sua decennale esperienza?

    «L’esperienza è stata molto più che decennale soprattutto per UNICAL e Università Mediterranea che nascono nei primi anni Settanta. Per UNICAL il punto di forza è sempre stato quello contrassegnato dal suo stesso atto di nascita: un’apposita legge istitutiva, il requisito statutario della residenzialità, una sede appositamente costruita, finanziamenti cospicui per le diverse attività, un corpo docente fondativo di alta qualità. Poi su questa solida condizione di partenza ha saputo costruito una ricerca e una didattica di alto livello, come viene riconosciuto ormai da molti anni a livello nazionale.

    Il punto di maggiore debolezza è stato nell’atteggiamento di distacco tenuto nei confronti delle altre realtà universitarie che nel tempo sono nate, quasi che queste nascite rappresentassero un delitto di lesa maestà. Questa è una delle ragioni principali della mancata costruzione di un sistema universitario regionale.

    E quelli della Mediterranea?

    La Mediterranea ha vissuto una vicenda completamente diversa, molto controversa fin dalla nascita (la legge istitutiva della UNICAL diceva che doveva essere l’unica Università in Calabria): è stata avviata come semplice Istituto Universitario di Architettura ed ha avuto per lungo tempo sedi molto precarie e scarsi finanziamenti. Tuttavia ha saputo emergere progressivamente grazie all’azione esercitata da tre rettori che si sono susseguiti dai primi anni Settanta fino a metà degli anni Duemila.

    Antonio Quistelli, che anche grazie al supporto di una personalità insigne come Ludovico Quaroni, ha saputo attrarre a Reggio Calabria una moltitudine di docenti di grande prestigio soprattutto nelle aree scientifiche dell’architettura, della storia e dell’urbanistica, che per molti anni hanno fatto acquisire una posizione di primo piano alla Facoltà di Architettura. Rosario Pietropaolo che ha svolto un lavoro analogo per la Facoltà di Ingegneria e che ha saputo portare a compimento, superando difficoltà di ogni genere, la realizzazione della nuova sede universitaria.

    Il sottoscritto, che si è giovato del solido retroterra costruito dai suoi predecessori per proiettare l’Università in una dimensione nazionale e internazionale giocando sul rapporto con l’area mediterranea (a cominciare dalla denominazione Mediterranea da me introdotta). È stata una scelta vincente, testimoniata dalla rete di relazioni con molte delle principali università della Riva Sud oltre che della Spagna e della Francia, e dalla continua presenza nelle sue iniziative scientifiche e culturali di personalità del calibro di Asor Rosa, Umberto Eco, Gustavo Zagrebelski, Gil Aluja, Francesco Rosi, Bernardo Secchi, per citare quelli di maggiore spicco. Non a caso il punto di debolezza della Mediterranea è stato l’aver abbandonato quella dimensione e quella tensione culturale, il che l’ha riportata nel ristretto di una dimensione locale».

    Perché le forze della cultura non sono state in grado di far maturare un capitale di legalità indispensabile per la modernizzazione della Calabria?

    «Credo che le ragioni vadano trovate nel fatto che le forze della cultura esterne all’Università, pur potendo annoverare punte prestigiose, sono poche e molto fragili, mentre quelle presenti all’interno delle Università hanno preferito rimanere chiuse nei loro fortilizi al riparo dalla pervasività del mondo illegale che ha continuato ad essere dominante nella società calabrese.

    La dimostrazione che un diverso comportamento avrebbe potuto cambiare le cose è rappresentato dal fenomeno Progetto Calabrie, una associazione nata dalla convergenza di un pugno di docenti dell’Unical e della Mediterranea, che puntò ad assumere la guida della Regione con una proposta innovativa sulla quale raccolse consensi vasti e diffusi. Ma la politica ufficiale avvertì il pericolo e oppose una resistenza intransigente, sicché il progetto naufragò».

    Quali sono le azioni che devono essere poste in campo per rivitalizzare il patrimonio culturale delle Università calabresi in rapporto con il territorio?

    «A questa domanda non so rispondere perché per farlo bisogna essere all’interno e al governo delle strutture universitarie per fare scelte comunque non facili anche perché il cosiddetto territorio non mostra grande attenzione per le Università. Certamente non lo mostra la Regione; in misura maggiore lo fanno singoli Comuni, ma sempre con rapporti episodici e di scarsa consistenza».

    Avrebbe senso costruire una rete delle Università meridionali per rilanciare un pensiero e una cultura meridionalista?

    «Avrebbe certamente un senso ma direi di più, direi che è una necessità stringente anzitutto per equilibrare i rapporti con le Università del Centro-Nord, oggi totalmente sbilanciati a favore di queste ultime. Da lì si potrebbe partire per affermare un pensiero e una cultura meridionalista.
    Ma sul punto sono del tutto pessimista perché non vedo un solo segnale in quella direzione, mentre ne vedo molti in quella opposta della difesa dei propri localistici interessi».

    Cosa potrebbero fare le Università calabresi per sostenere gli sforzi del PNRR?

    «Nella situazione attuale assolutamente nulla. Si sarebbero dovute fare avanti già da molto tempo, ora i giochi sono in fase avanzata e non ci sono spazi per azioni significative. Né, bisogna dirlo, qualcuno dal centro ha chiesto un qualche coinvolgimento delle Università calabresi. Possiamo solo auspicare un loro coinvolgimento nella fase attuativa dei progetti, ma anche questo dipende dai comportamenti che assumerà la Regione».

    Quanto ha pesato e pesa il deficit infrastrutturale anche per lo sviluppo della cultura e delle Università in Calabria?

    «Ha pesato moltissimo nel periodo a partire dal dopoguerra e fino alla prima metà degli anni Duemila, durante il quale la carenza di infrastrutture e dei connessi servizi ha reso difficoltosa la mobilità verso l’esterno e all’interno dell’intero territorio calabrese, che per questo aspetto ha rappresentato un caso estremo anche rispetto al resto del Mezzogiorno. Di questo le Università hanno certamente risentito in modo negativo. Negli anni più vicini la situazione è in qualche misura migliorata (penso al completamento della infinita Salerno-Reggio Calabria) ma le carenze restano enormi.

    Che dire dei cinquanta anni trascorsi senza dare soluzione adeguate al porto di Gioia Tauro? O al collegamento ferroviario Lamezia-Catanzaro? O all’aeroporto di Crotone? O all’attraversamento (non al Ponte) dello Stretto? O alle autostrade del mare? O, più di recente, alle reti di connessione telematica? Il punto è che una attenzione e una progettualità per il territorio calabrese non esiste a livello centrale a motivo della prevalenza della questione settentrionale, né a livello regionale per la inadeguatezza della classe politica».

  • Da Pertini a Bearzot, Vincenzo Grenci e le sue pipe mundial

    Da Pertini a Bearzot, Vincenzo Grenci e le sue pipe mundial

    Le mani toccano il legno, lo girano tra le dita, il pollice passa piano sulle righe e le linee, quasi a decidere cosa farne. Quelle mani sono del maestro Vincenzo Grenci e conoscono la perduta arte della lentezza. Oggi la moda consegna ai fumatori strumenti tecnologici che al pari a uno smartphone hanno bisogno di ricarica, design avveniristico, materiali che li fanno somigliare di più a un accessorio per il pc portatile che a una sigaretta, un sigaro o una pipa.

    Brognaturo, piccolo centro delle Serre vibonesi, ha già i tratti dell’inverno, «questa notte abbiamo avuto appena sei gradi». Vincenzo passa le sue giornate nella sua bottega artigiana che odora di legno. Di tanto in tanto Enrico, ara gialloblù, urla richiamando l’attenzione. Non vuole più stare sul suo trespolo e desidera salire sulle spalle del suo proprietario.

    Dalla medicina alla stampa su ceramica

    «Sono sempre stato legato a questo paese, ma me ne sono andato per studiare medicina a Padova. Mio fratello è diventato medico, ma io non ero interessato allo studio. Mi sono dedicato alla fotografia, che negli anni Settanta era molto redditizia. Col tempo mi sono specializzato nella stampa su ceramica, sono tornato in Calabria proprio aprendone un laboratorio: era il primo in tutto il meridione».

    La storia della sua arte comincia lontano, in America. «Prima di me, mio padre, Domenico, aveva iniziato questa attività negli USA negli anni Cinquanta. Aveva fatto la fortuna di una rivendita di pipe perché i passanti erano attratti da lui che faceva questo lavoro, così aveva portato questa attività qui a Brognaturo. E io quando sono tornato mi occupavo in parte delle ceramiche e in parte del laboratorio delle pipe».

    Vent’anni di attesa

    Grenci racconta quanto tempo occorra prima che una sua creazione sia pronta, lo stesso impiegato da suo padre a metà del secolo scorso. «Oggi non è cambiato nulla di quel lavoro. Scelgo ancora personalmente le radiche di erica, le faccio bollire per ventidue ore in modo da estrarre tutto il tannino, infine le lascio stagionare per almeno vent’anni, mentre l’intaglio e le rifiniture finali sono solo una giornata di lavoro. Vedi queste pipe sulla finestra, intagliandole è emerso qualche difetto, ma non le butto, ormai fanno parte di questo laboratorio».

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    Le pipe difettose che Grenci conserva ancora nella sua bottega (foto Tommaso Scicchitano)
    Pertini, Lama, Bearzot

    La passione per la fotografia però è rimasta. Così come i ricordi di tanti clienti illustri passati dalla sua bottega. «Ma non ho mica smesso di scattare foto. Ne ho anche una con Pertini, c’è anche mio padre, io stesso l’ho scattata; il presidente aveva ricevuto in dono da alcuni senatori calabresi le nostre pipe, le aveva molto apprezzate e quando è venuto a Catanzaro ha chiesto di salutarci. Riconosceva un bouquet di aromi che le nostre pipe sprigionavano tanto da farne un vanto davanti a intervistatori inglesi che gli chiesero un confronto con le loro. Non solo lui amava le nostre pipe, tra i nostri clienti abbiamo avuto Luciano Lama ed Enzo Bearzot». Con orgoglio mostra il video messaggio di un cliente su whatsapp: aveva comprato da lui una pipa da trecento euro, ora non poteva più tornare a quelle ben più famose.

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    Sandro Pertini ed Enzo Bearzot confrontano le loro pipe
    Un segno di pace

    «Chi fuma sigarette non può capire, si fuma lentamente per assaporare e per odorare. Fumare la pipa è come prendersi cura di un sentimento. Devi curare la pipa e lo scopo è rilassarsi, nulla a che fare con il fumare nervoso delle sigarette. È così importante che gli indiani d’America ne fanno un segno di pace: se fumiamo insieme la stessa pipa tra noi c’è armonia».

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    Vincenzo Grenci mostra alcune delle sue creazioni (foto Tommaso Scicchitano)
    Di padre in figlia

    Ha qualche suggerimento per un giovane che vuole fare l’artigiano in Calabria?
    «Di lasciar perdere, è il periodo sbagliato. La situazione economica causata dalla pandemia è molto limitante, senza parlare di cosa comporti oggi aprire una partita Iva».
    A chi lascerà la sua bottega se ancora oggi raccoglie le radici che verranno intagliate fra vent’anni?
    «Mia figlia studia economia e commercio, conosce tutte le fasi della lavorazione e saprà coniugare le abilità artigiane con quello che ha studiato».
    Quindi un suggerimento c’è: restare innestati nella tradizione e volare sulle ali dell’innovazione.

    Tommaso Scicchitano

  • «Saranno pure mogli o amanti, la destra elegge più donne»

    «Saranno pure mogli o amanti, la destra elegge più donne»

    È la prima volta che i calabresi eleggono sei donne in consiglio regionale. Amalia Bruni entra in qualità di candidato presidente della coalizione di centrosinistra, la più votata dopo quella di Roberto Occhiuto.
    Giuseppe Giudiceandrea, consigliere regionale con Mario Oliverio, esce fuori dai cardini del politicamente corretto: «Saranno pure mogli, amanti, fidanzate, ma il centrodestra ha 6 donne nella massima assise politica regionale». In realtà sbaglia i conteggi, perché sono cinque quelle di maggioranza. E il centrosinistra? «Soffre di misoginia politica».

    Talarico e Conia, i consoli perdenti di De Magistris

    A elezioni finite, Giuseppe Giudiceandrea, ha deciso di togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Nel corso della video-intervista con ICalabresi.it – che in basso troverete integralmente -, Giudiceandrea definisce «fallace» l’operato di Mimmo Talarico e Michele Conia, sindaco di Cinquefrondi. Le liste di DemA e dell’intera coalizione le hanno approntate loro. E Talarico ha mancato la sua elezione, pur essendo il più votato a Rende. Piccoli veleni nel fronte de Magistris erano già emersi prima. Adesso assumono forma e sostanza.

    Un film già iniziato con la mancata candidatura di Giudiceandrea. L’escluso ha rintracciato la causa in un suo eccesso di voti. Cosa mai vista, sentita, immaginata nel panorama politico forse dei 5 continenti.

     

    Non si vince con le riserve indiane

    Sarà pure bello presentarsi con tutti perfetti sconosciuti. Alla fine i risultati deludono un po’ le grandi aspettative della vigilia elettorale. Giuseppe Giudiceandrea fa degli esempi concreti: l’esclusione da DemA del genero di Santo Gioffré, Antonio Billari, che nelle scorse regionali aveva raccolto 8mila preferenze.
    Due parole pure sull’ex governatore Mario Oliverio: sbagliato allontanarlo dalla coalizione di De Magistris, non mi pare che abbia candidato delinquenti nelle sue liste.

    Ossessionato dal Pd pur essendone uscito

    Enrico Letta ha favorito la restaurazione in Calabria, Iacucci e Bevacqua rappresentano il vecchio. Sono due considerazioni di Giudiceandrea. Parla spesso del Pd come se fosse ancora il suo partito. Eppure ne era uscito anche in maniera polemica. Dopo avere sperato nel rinnovamento – mancato – di “piazza grande” dell’ex segretario Nicola Zingaretti.

    Ma in cuor suo, il figlio della sindaca comunista Rita Pisano – immortalata da Picasso in un famoso bozzetto e interpretata da Rocio Munoz Morales (già nel cast del corto di Muccino) in una docu-serie prodotta dalla CalabriaFilmCommission – continua ad avere un rapporto di amore e odio con i democrat. Al punto di suggerire a Luigi de Magistris di uscire fuori dal recinto e aprire un dialogo persino con il Pd. Un dialogo fra sordi, forse è possibile. Nulla più.

  • Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Carmine Abate: «L’Arbëria è un miracolo di resistenza»

    Una nazione in un’altra nazione, un luogo dove il popolo albanese arrivato quasi seicento anni fa si è integrato con quello calabrese che abitava già lì, mescolandosi ma preservando cultura, lingua e valori della terra d’origine. È l’Arbëria e ha accolto la più grande minoranza culturale e linguistica d’Italia, che proprio in Calabria ha trovato la sua terra d’adozione con decine di paesini, specie nel cosentino, popolati dagli arbëreshë, eredi del condottiero Giorgio Castriota Scanderbeg e delle sue truppe che attraversarono il mare per sfuggire agli ottomani.

    La lingua del cuore e quella del pane

    «Un miracolo di resistenza» secondo Carmine Abate, lo scrittore arbëresh nativo di Carfizzi (KR) che dai tempi de Il ballo tondo (1991, ora Oscar Mondadori e in uscita negli Usa) ai giorni nostri ha fatto conoscere al grande pubblico questo mondo in cui per comunicare si usano due lingue: quella del cuore, gjuha e zemrës, ereditata dai propri antenati e quella del pane, gjuha e bukës, l’italiano che imparano a scuola tutti i bambini, siano essi albanofoni o litìri (latini).

    «Sono entrambe importanti, ma la prima è più radicata in noi. Gli arbëreshë non si sono chiusi a riccio cercando di difendersi da un mondo che voleva annullare la loro identità, si sono aperti all’esterno fin dall’inizio. È come se avessimo paura di perderci perdendo la nostra lingua e per questo – in modo più o meno consapevole – cerchiamo di resistere all’omologazione. La più alta forma d’integrazione è aprirsi agli altri restando se stessi. Lo facciamo da mezzo millennio, è la nostra forza».

    Ed è proprio dalle parole che partiamo con Carmine Abate alla scoperta dell’Arbëria, perché sono la chiave per comprenderne i valori tramandati nei canti rapsodici: la besa, che è il rispetto della parola data, o la mikpritia, l’ospitalità. «Da noi è davvero sacra, tant’è che si dice: all’ospite bisogna fargli onore, nder, offrendogli pane, sale e cuore. A San Demetrio Corone, la commemorazione dei defunti avviene tra febbraio e marzo ed è un rito antico che termina in un banchetto sulle tombe».

    Sapori che si fondono

    Diversi i piatti tipici: «A Carfizzi si prepara furisishku, una zuppa di fiori di zucca, zucchine, patate, fagiolini, pane e olio. Ma le pietanze tradizionali per eccellenza sono shtrydhëlat, un gomitolo di pasta filata fatta in casa, condita con fagioli bianchi, olio aglio e peperoncino e dromësat, che sembra un risotto ma è fatto da grumi di farina cotti nel sugo di carne. Altre portate sono simili a quelle calabresi, è normale che ci sia stata una mescolanza nel tempo; a Lungro, addirittura, si beve il mate, una tradizione importata dagli arbëreshë emigrati in Argentina. Io però per assaggiare la nostra cucina consiglio di andare a Firmo e a Civita. Quando erano piccoli portavo i miei figli alle gole del Raganello, un posto incantevole, e poi risalivamo in paese per mangiare in uno dei ristoranti tipici».

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    Il ponte del diavolo a Civita si affaccia sulle gole del Raganello
    Donne e uguaglianza

    Civita, da anni nell’elenco dei borghi più belli d’Italia, con le sue case Kodra dalle facciate antropomorfe e i loro buffi comignoli è anche il posto migliore per gustarsi, nel cuore del Parco nazionale del Pollino, uno spettacolo arbëresh «assolutamente da vedere»: le vallje. «Sono le danze tradizionali di Pashkët, la Pasqua, e le donne arrivano da molti paesi dell’Arbëria per ballare indossando le cohe, costumi tipici che cambiano da paese a paese usati nelle occasioni più importanti. Abiti bellissimi, cuciti con fili d’oro e stoffe preziose. Un tempo venivano dati in dote a tutte le ragazze, c’era una sorta di uguaglianza nel paese».

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    «A Carfizzi – prosegue Carmine Abate – ne abbiamo ancora pochi, ma a Vaccarizzo, Santa Sofia d’Epiro e Frascineto ci sono dei musei in cui è possibile ammirarli in tutta la loro bellezza e varietà. I più belli una volta venivano considerati quelli di Caraffa, un paesino arbëresh del Catanzarese. Le cohe rappresentano un legame tra la donna e la sua patria d’origine e purtroppo quelle più antiche si sono quasi tutte perse per via di un’altra tradizione: già quando ero bambino erano sempre meno le zonje, le signore, che uscivano col vestito tradizionale perché quando morivano venivano sepolte con l’abito di gala indossato al matrimonio».

    Preti con moglie e figli

    Le cerimonie religiose in Arbëria, d’altra parte, si discostano di molto da quelle del resto d’Italia. «Il rito bizantino purtroppo si è perso in diversi paesi – tra cui il mio, alla fine del ‘600 – perché i vescovi costringevano gli arbëreshë ad abbracciare quello latino. Specie in provincia di Cosenza, però, si è mantenuto il rito di una volta. Le chiese dipendono dal Papa, ma vi si pratica ancora la liturgia greco-bizantina con la messa celebrata in arbëresh e i preti possono sposarsi e avere figli. Questi magnifici papàs sono figure di rilievo ed è soprattutto grazie a loro che in passato, oltre alle tradizioni, si sono mantenute vive la lingua e la cultura. Proprio per salvaguardare queste ricchezze abbiamo chiesto all’Unesco il riconoscimento della cultura immateriale degli albanesi d’Italia come patrimonio dell’umanità».

    Mosaici e oro

    La differenza tra le due forme di cristianesimo balza agli occhi entrando nei luoghi di culto. «Le chiese sono dei veri e propri capolavori artistici con i loro mosaici favolosi. A Lungro c’è la bellissima cattedrale di San Nicola di Mira, sede dell’eparchia, con i mosaici realizzati dall’artista albanese Josif Droboniku. E ad Acquaformosa incanta la chiesa di San Giovanni Battista con le pareti ricoperte da tasselli d’oro. Bisogna visitare anche quella millenaria di Sant’Adriano e il collegio, dove si sono formate generazioni di arbëreshë e non solo, a San Demetrio Corone».

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    La chiesa di San Giovanni Battista ad Acquaformosa

    O, se si passa di lì in estate, andare al Festival della canzone arbëreshe: «Anno dopo anno spinge i nostri musicisti a scrivere e cantare in arbëresh. Vi è anche un importante recupero dei canti tradizionali, alcuni famosi anche in Albania, e dei valori che ci accomunano. Ma davvero tutti i paesi arbëreshë meritano di essere visitati, da Cerzeto a Spezzano Albanese, da Vena di Maida a San Giorgio, per citare gli ultimi in cui sono stato».

    I luoghi del cuore

    Il percorso del cuore però, per uno che come Carmine Abate è profeta in patria – Carfizzi gli ha intitolato un parco letterario dove trovare, oltre alle opere di Abate in numerose traduzioni, molte informazioni sulla cultura arbëreshe – e non solo, non poteva che passare dai luoghi dell’infanzia. «Ne parlo nei miei libri: parte proprio dalla casa in cui sono nato, nel Palacco, e attraverso il parco conduce alla Montagnella, un luogo simbolo equidistante da San Nicola dell’Alto, Carfizzi e Pallagorio, dove da più di cent’anni questi tre paesi arbëreshë del Crotonese festeggiano il Primo Maggio. Poi dalla Montagnella si può attraversare l’omonimo parco e scendere alla cascata del Giglietto; da lì si segue una fiumara ai cui bordi si trovano i ruderi di antichi mulini in cui ho ambientato il romanzo Il bacio del pane».

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    Primo maggio alla Montagnella
    Mare nostro

    Proseguendo lungo la strada si arriva a Cirò Marina, un luogo speciale per Carmine Abate. «Lì da bambino vidi mia nonna baciare la riva del mare: su quella spiaggia, secondo lei erano sbarcati i nostri antenati, un gesto di grande valore simbolico che mi ha segnato. Quasi tutti i paesi arbëreshë sorgono, come il mio, su colline affacciate sulla costa. E io immagino i profughi albanesi che, arrivati dopo un lungo viaggio tra la piazza e l’attuale Largo Scanderbeg, hanno visto il mare e si sono voluti fermare lì, ripopolando il mio paese. Il mare per gli arbëreshë è una via di fuga, ma soprattutto la via da cui sono venuti. Lo Jonio per noi è deti jon, che vuol dire mare nostro: il mare nostrum degli antichi noi ce l’abbiamo pure nella lingua del cuore».

    Carmine Abate, scrittore arbëresh tradotto in tutto il mondo, ha messo l’incontro tra culture al centro della sua opera e del suo stile. È autore di romanzi e racconti di successo. Tra i suoi libri più noti: La moto di Scanderbeg, Tra due mari, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande, Gli anni veloci, Vivere per addizione e altri viaggi, La collina del vento (Premio Campiello 2012), Il ballo tondo, Le stagioni di Hora, Il bacio del pane, La felicità dell’attesa, Le rughe del sorriso.

  • Daniele Lavia, il campione scoperto dal prof cosentino

    Daniele Lavia, il campione scoperto dal prof cosentino

    Se Daniele Lavia oggi è uno degli atleti di punta della nazionale italiana di volley, gran parte del merito è di Giacomo Bozzo, uno dei suoi primi allenatori. No, non siamo noi a dirlo, ma lo stesso schiacciatore rossanese, protagonista assoluto del titolo europeo portato a casa domenica scorsa dalla squadra di Ferdinando (detto Fefè) De Giorgi dopo la finale contro la Slovenia.

    Giacomo Bozzo è originario di Donnici, contrada di Cosenza, ma vive a Vicenza, città nella quale oltre a portare avanti la sua passione per lo sport (dopo aver fatto salire in A3 la Volley Castellana di Monteggio Maggiore, oggi di quella stessa squadra è direttore tecnico e allenatore dell’Under 17), insegna matematica e fisica al Liceo Scientifico “Quadri”. Tutto questo dopo aver lavorato come ricercatore all’Università di Verona.

    Insomma, una sorta di docente prestato alla pallavolo, o viceversa. Prima di arrivare in Veneto, però, ha vissuto a lungo nella sua Calabria. Una breve carriera da giocatore (pare fosse un discreto alzatore) nella Pallavolo Cosenza e nella compagine del suo paese, fino alla decisione, già nel 1998, a soli 22 anni, di iniziare la carriera di allenatore, partendo dall’Under 17 della Volley Donnici per raggiungere in breve tempo le categorie più importanti. Sempre alternando libri (titoli di studio e dottorati) e palazzetto con lo stesso impegno.

    «Tutto questo – ci dice – alla lunga ha pagato. Nel mio percorso sportivo, ho incontrato persone che hanno creduto in me e che mi hanno chiesto di occuparmi della selezione provinciale, per poi passare a quella regionale. Da lì ho maturato una serie di esperienze che mi hanno portato, due anni fa, a far parte dello staff tecnico della nazionale Under 19 campione del mondo».

    Senza dimenticare la parentesi Rossano, giunta un po’ per caso…

    «Era il 2010 – spiega Bozzo – ed eravamo lì con la selezione regionale per il Trofeo delle Regioni dove abbiamo raggiunto il miglior risultato di sempre per la Calabria. In quel gruppo, classe ‘94, c’era già un Lavia, ma non Daniele, bensì il fratello Antonio, anche lui un grandissimo giocatore, per tanto tempo nel giro della nazionale. Alla fine del torneo i dirigenti della Pallavolo Rossano, con in testa Pino Campana, mi chiesero se mi andava di iniziare un nuovo percorso con loro. Io accettai, anche perché da quelle parti c’è da sempre una grossa tradizione pallavolistica».

    È in quel momento che nella sua vita entra Daniele Lavia?

    «Sì, Daniele nel 2010 aveva 11 anni e io per quasi quattro anni l’ho allenato seguendo passo dopo passo i suoi incredibili progressi. Non dimenticherò mai la prima riunione tecnica. Avevo appena conosciuto il gruppo e parlando subito di Daniele con i componenti del mio staff Luigi Zangaro e Antonio Godino ho detto loro che avevamo in casa un talento più unico che raro e se non fossimo riusciti a farlo arrivare in nazionale, avremmo dovuto tutti strappare il tesserino di allenatore. L’unico nostro compito era quello di non fare danni, al resto ci avrebbe pensato Daniele. E infatti così è stato».

    Insomma, una scommessa vinta…

    «Certo, anche se ammetto che in quel momento pensavo più che altro all’obiettivo delle nazionali juniores. Soltanto qualche anno dopo ho capito che quel ragazzo avrebbe potuto raggiungere risultati ancora più grandi. Ha fatto due ottimi anni a Corigliano, ma probabilmente è stato il passaggio alla Materdomini Volley di Castellana Grotte a farlo maturare ulteriormente. Perché quando alleni un atleta del genere in Calabria, il problema è sempre lo stesso: non bastano le tue capacità per far emergere tutto il talento che possiede, ma è determinante anche il contesto in cui lo fai lavorare. Purtroppo, da questo punto di vista, pur facendo tanti sforzi, la nostra terra qualche limite strutturale e di competitività a livello giovanile lo ha. Ora che ci penso, mi viene in mente un altro aneddoto su Daniele».

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    Daniele Lavia mostra il premio di miglior giocatore Under 15 dopo le finali regionali di volley
    Quale?

    «Credo fosse il 2015, lui era appena passato al Corigliano Volley, mentre io ero da poco rientrato da un viaggio in Spagna. Non lo vedevo da tempo e mi disse, senza dare troppo importanza alla cosa, che era stato convocato con una nazionale Under 17 per un torneo internazionale che si sarebbe svolto a Cinquefrondi. Lo andai a vedere, senza aspettarmi chissà che cosa. Quella è stata la prima volta che l’ho visto con addosso la maglia dell’Italia e mi è venuta la pelle d’oca. Ma l’emozione più grande è stato scoprire che lui, di quella formazione, non era un semplice giocatore. Era il capitano e il leader assoluto. In quel contesto nessuno era più forte di lui. Ammetto di essermi commosso. Lì ho realizzato definitivamente che era andato oltre le mie più rosee aspettative e che la cosa ci era sfuggita un po’ di mano, in positivo naturalmente. Quando un atleta calabrese raggiunge vette così alte, tendiamo quasi a non crederci, per i motivi che ho spiegato prima».

    Da quel 2015 la sua carriera in nazionale è stata inarrestabile…

    «Non ne è uscito più e io ho seguito tutto il suo percorso da lontano. Al mondiale juniores del 2019 è stato premiato come migliore schiacciatore della competizione. Un piccolo grande campione».

     

    Pochi giorni dopo la vittoria con l’Italia agli Europei, Daniele ha dichiarato che lei è stato l’allenatore più significativo della sua carriera…

    «Un pazzo (ride, ndr). Sicuramente è stata una bella soddisfazione, ma io quello che dico sempre a Daniele, e non lo faccio per falsa modestia, è che il campione è lui. Io ho avuto la fortuna di allenare tanti giocatori bravi e di farli emergere per quanto era possibile, ma il talento di Daniele è evidente e non ha eguali. Lo riconosci subito, già da bambino era una forza della natura. Ancora oggi, durante i corsi di aggiornamento per allenatori a cui partecipo, utilizzo dei video di dieci anni fa con Daniele in azione e già lì ti rendi conto di quanto fosse forte, elegante, bello da vedere. Un paio di giorni fa gli ho scritto questo in un messaggio: tu sei il talento, io ho avuto la fortuna di trovarmi al posto giusto nel momento giusto. Sì, è vero, avevo vinto tanto a livello giovanile fino a quel momento, ma giocatori come Daniele Lavia ti capitano una sola volta nella vita. Se ti va bene».

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    Daniele Lavia – primo da destra e già il più alto della sua squadra – alle finali provinciali Under 14
    Qual è la dote migliore del Daniele atleta?

    «Daniele è forte soprattutto mentalmente. È un campione dentro, nonostante la giovane età. Non molla mai, è costante e severo negli allenamenti e si carica la squadra sulle spalle, senza paura delle responsabilità. È abituato fin da piccolo ad essere determinante nei momenti decisivi. Ricordo che gli dicevo sempre che spettava a lui colmare le lacune dei suoi compagni di squadra. Poi, se dobbiamo entrare ancora di più nello specifico, dico che oltre a essere un formidabile schiacciatore, ma questo lo sanno tutti, è anche un grandissimo ricettore. Lui e Michieletto sono straordinari sia in attacco che in ricezione, difficilmente se ne trovano così in giro. Nella pallavolo moderna avere a disposizione giocatori così completi è una grande opportunità, e hanno ancora ampi margini di miglioramento».

    Come lo giudica come persona?

    «È un ragazzo per bene. Va comunque detto che il mondo della pallavolo, specie a livello giovanile, è sano, pulito, permette a tutti di crescere al meglio. I giovani hanno a che fare continuamente con persone intelligenti che studiano e dedicano tanto tempo allo sport e all’evoluzione nel tempo degli atleti. Daniele è sempre stato un ragazzo con la testa sulle spalle, bravissimo a scuola, prendeva sempre volti alti, e l’ultimo ad andarsene dal palazzetto quando c’erano gli allenamenti. Un esempio per tutti».

    Cosa ha provato dopo l’ultimo punto nella finale dell’Europeo?

    «Una gioia indescrivibile. Anche perché Daniele secondo me è stato il protagonista assoluto della partita, in questo Europeo ha fatto un salto di qualità impressionante. Per come la squadra aveva iniziato a giocare, in maniera contratta, penso che senza di lui l’Italia difficilmente sarebbe riuscita a giocarsi la gara fino alla fine con la Slovenia. È stato un punto di riferimento, capace di mandare in difficoltà avversari di grande valore ed esperienza. Ha fatto delle giocate di una difficoltà unica. Anche al servizio, ha tirati fuori alcuni colpi da fuoriclasse. Fare dei punti simili a 21 anni in una finale europea, significa che hai delle doti tecniche da fenomeno assoluto».

    E ora, secondo lei, cosa dobbiamo aspettarci?

    «Daniele ha nelle corde ancora una crescita mostruosa. Anche la scelta che ha fatto per il futuro mi piace molto. La decisione coraggiosa di lasciare una società fortissima come Modena per passare alla Trentino Volley a mio avviso dimostra quanto lui gestisca in maniera intelligente la sua carriera. Perché sì, da un lato abbandona una corazzata in grado di vincere tutto, ma dall’altro, a Trento, avrà più possibilità di completarsi definitivamente. E poi giocherà insieme a due titolarissimi della nuova Italia come Michieletto e Pinali. Ci sarà da divertirsi».

  • Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Terme Luigiane: «Per riaprire serviranno anni, altro che 2022»

    Il pasticciaccio che ha portato alla chiusura delle Terme Luigiane continua a tenere banco. Nei giorni scorsi avevamo intervistato il sindaco di Acquappesa, Francesco Tripicchio, che per replicare alle accuse subite in questi mesi era andato all’attacco di Sateca. La sua versione, però, è diametralmente opposta a quella dell’azienda che ha gestito il compendio termale dal 1936 all’anno scorso. I vertici di Sateca parlano di «opera di disinformazione» da parte dell’amministratore comunale. E smentiscono categoricamente che le proteste di questi mesi siano «una montatura costruita ad arte dai gestori storici» come reputa Tripicchio. Così, per offrire ai lettori un’informazione più ampia possibile, dopo i lavoratori, gli utenti e il sindaco abbiamo sentito anche gli imprenditori affinché potessero dire la loro su quello che sta accadendo.

    I Comuni vi hanno fatto un’offerta affinché le attività nel 2021 proseguissero, perché l’avete rifiutata?

    «La società è stata costretta a rifiutare perché l’accettazione era condizionata dalla seguente formula vessatoria e quindi inaccettabile: “resta inteso che tale proposta è subordinata al ritiro di tutti i contenziosi in atto, nessuno escluso”. E il canone che ci chiedevano era assolutamente fuori mercato in termini economici».

    Eppure secondo Tripicchio le cifre non si discostano da quelle che si pagano altrove. Se in posti come Fiuggi o Chianciano l’acqua costa di più, perché Sateca dovrebbe spendere meno per l’acqua delle Terme Luigiane?

    «Non sappiamo se il sindaco Tripicchio dica certe cose per manifesta incompetenza o malafede. Ma a smentire le sue affermazioni c’è il rapporto del Dipartimento del Tesoro secondo il quale la totalità delle terme del Lazio (compreso Fiuggi) pagano annualmente canoni per 179.000 Euro e quelle della Toscana (compreso Chianciano) 106.000 Euro».

    Quelle però sono le concessioni, la vostra è una subconcessione. Tripicchio spiega che il calcolo del vostro eventuale canone futuro è figlio di un accordo del 2006 tra Stato e Regioni. Perché dovreste continuare a pagare molto meno?

    «In realtà il sindaco fa riferimento ad un documento di indirizzo delle Regioni in materia di acque minerali, cosa molto diversa. È per questo che Fiuggi, distribuendo bottiglie in tutto il mondo, paga un milione di canone. I conti tornano. Forse il sindaco pensa di rimediare al dissesto del suo Comune rifacendosi sulla Sateca? Una pubblica amministrazione non può sparare cifre a vanvera, dovrebbe fare riferimento al mercato. Non a quello delle acque da imbottigliamento, però».

    Per il sindaco sono solo 44 i vostri dipendenti, altri parlano di 250 lavoratori: quanti sono in realtà?

    «Tripicchio purtroppo non sa leggere i bilanci e neanche i certificati camerali. Nella nota integrativa allegata al nostro bilancio del 2019 (ultimo anno pre-covid) si indica un numero medio annuo (quindi riferito a 365 giorni) di 100 lavoratori, per i quali la Sateca spa ha speso 2.122.000 Euro. Se fossero stati solo 44 dipendenti, avremmo pagato uno stipendio medio a dipendente di 48.227 euro. Purtroppo non possiamo permettercelo».

    Voi contestate ai Comuni di non aver pubblicato un bando, loro replicano che la procedura adottata sia equivalente secondo il Codice degli appalti. Come se ne esce?

    «Riteniamo la manifestazione d’interesse non valida e abbiamo presentato ricorso. Purtroppo il Tar ha rimandato a ottobre la sentenza, prevista all’inizio di luglio, su richiesta dei due Comuni e della Regione, che sembra non abbiano fretta di chiarire le cose. Tripicchio fa, inoltre, riferimento all’art.79 del Codice degli Appalti, che però non riguarda minimamente l’argomento in questione. Dopo mesi che chiediamo qualche riferimento normativo alle assurde azioni dei due sindaci, Tripicchio ci fornisce un articolo di legge che non c’entra nulla».

    La subconcessione a vostro favore, comunque, è scaduta da 5 anni. Per quale motivo avrebbero dovuto farvi continuare come se niente fosse?

    «Non esiste al mondo che si sbatta fuori in maniera illegale, come siamo certi verrà dimostrato dalla magistratura, e con la forza il subconcessionario di un servizio pubblico prima dell’insediamento di chi prenderà il suo posto. Vale per tutti i servizi di pubblica utilità, soprattutto per quelli sanitari. Il tutto gridando al rispetto della legge senza mai dire a quale legge si faccia riferimento».

    Su una cosa con Tripicchio potreste essere d’accordo, però: il sindaco trova strano che, oltre a voi, a rispondere all’invito dei Comuni siano state solo ditte campane. Che idea vi siete fatti a riguardo?

    Il fatto che alla manifestazione d’interesse abbiano partecipato solo aziende di Castel Volturno, Casalnuovo di Napoli, Casoria etc. , tutte operanti nel settore edile, con capitali sociali modestissimi e senza alcuna esperienza termale e che, secondo il sindaco, questa sia una “strategia”, perché poi con l’avvalimento potranno subentrare altri soggetti, secondo noi è molto preoccupante. E anche delle amministrazioni comunali responsabili dovrebbero preoccuparsi. Perché un’azienda seria e fatta da persone perbene non partecipa direttamente ad una manifestazione d’interesse ma manda avanti delle “teste di ponte”? Questo atteggiamento di Tripicchio non fa altro che alimentare le preoccupazioni e le voci su imprenditori chiacchierati e interessati.

    Il parrocco di Guardia ci ha raccontato di aver ricevuto minacce per essersi schierato dalla parte dei vostri dipendenti. Cosa avete da dire a riguardo?

    «L’affermazione del sindaco “Al parroco porterò sostegno se davvero è stato minacciato” lascia molte perplessità sulle qualità umane di Tripicchio, non pensiamo che tale affermazione meriti alcun commento».

    Tripicchio però è certo che le Terme riapriranno già nel 2022, con o senza Sateca. Quante probabilità ci sono che vada davvero così secondo voi?

    «Noi della Sateca siamo cresciuti a “pane e zolfo”. Sappiamo benissimo cosa vuol dire avviare uno stabilimento da zero, visto che i sindaci prima di appropriarsene coattivamente ci avevano espressamente richiesto che fosse totalmente sgombro. Ad essere ottimisti, la ristrutturazione – siamo in zona soggetta a vincoli ambientali – e tutta la parte burocratica (autorizzazione sanitaria, accreditamento, budget, autorizzazioni di VVF, certificazioni varie…) necessitano di anni. Anche con lo scandaloso, perché passa il principio che chi distrugge viene premiato, contributo economico promesso ai due sindaci da Orsomarso l’apertura l’anno prossimo è assolutamente impossibile».

    A che pro allora un annuncio di quel genere?

    «Ci auguriamo che il proclama di Tripicchio non vada ad inserirsi nella campagna elettorale di Rocchetti (il sindaco di Guardia Piemontese, il comune che insieme ad Acquappesa gestirà le acque termali fino al 2036, nda) e Orsomarso e che non inizi una campagna di promesse ed impegni sulle terme che nessuno potrà certamente mantenere. Chiediamoci se una Giunta regionale che dovrebbe svolgere solo l’attività ordinaria in attesa delle elezioni possa, invece, promettere finanziamenti, posti di lavoro e contributi a destra e a manca».

    Possibile che gli errori siano tutti della pubblica amministrazione?

    «Il ritardo accumulato dal 2016 ad oggi nel fare il bando è esclusivamente da attribuire ai due Comuni. Non sono stati in grado per anni di presentare la documentazione richiesta dalla Regione, nonostante questa si fosse dichiarata disponibile ad aiutarli. Tripicchio e Rocchetti, anche grazie all’immobilismo della proprietaria delle acque, la Regione, hanno distrutto una realtà imprenditoriale, assolutamente non perfetta, ma che con il suo lavoro teneva in piedi l’economia della zona e consentiva a centinaia e centinaia di lavoratori una vita dignitosa e a migliaia di curandi il benessere. Parliamo di una realtà imprenditoriale mai sfiorata da alcuna collusione con la criminalità, incentrata sul totale rispetto della normativa e dei contratti di lavoro. Di questa distruzione dovranno rispondere sia in sede civile che penale».

    Ma perché dovrebbero accanirsi contro di voi come sembrate pensare?

    «Siamo amareggiati, in Calabria le cose vanno sempre al rovescio: chi distrugge in maniera gratuita aziende e posti di lavoro ha il coraggio di ricandidarsi e chi fa chiudere le Terme Luigiane facendo perdere centinaia di posti di lavoro viene addirittura premiato, proprio dall’assessore al lavoro Orsomarso, con un milione di euro di finanziamento. È iniziata la campagna elettorale, non c’è altro da dire».