Categoria: Interviste

  • Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

    Gioffrè: «Lobby masso-bancarie e colletti bianchi creano così il buco nei conti della Sanità»

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    La metafora veicola una suggestione da scrittore, ma la sostanza restituisce il pragmatismo del managerSanto Gioffrè nella vita ha fatto e fa entrambe le cose. Dunque, se gli si chiede cosa pensi della creazione dell’Azienda Zero come cura per la sanità calabrese, risponde così: «Mi sembra un tentativo di prendersi la carne e lasciare le ossa alle Asp».

    La lobby masso-bancaria e la Sanità calabrese

    Lui un’Asp l’ha guidata. Nel 2015 è stato commissario straordinario dell’Azienda più inguaiata di Calabria, quella di Reggio, raccontando poi quell’esperienza in un libro-testimonianza sulla «grande truffa nella sanità calabrese» . Quanto il suo sguardo sul «sistema» sia disincantato lo si intuisce subito: «C’è, almeno dal 2005, una lobby masso-bancaria che in combutta con i colletti bianchi ha creato un meccanismo attraverso il quale si è reso impossibile conoscere o risalire alla vera contabilità delle Asp».

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Il nodo, secondo Santo Gioffrè, sta tutto lì: «Se non ricostruiscono il debito, portando a galla tutti gli interessi che ci sono dietro, possono inventarsi pure la luna». Dunque l’Azienda zero «in linea di principio potrebbe anche funzionare, ma in un contesto sano». In quello attuale, «se non sai se ciò che stai pagando è già stato pagato, come fai?». C’è poco da girarci attorno: «Bisogna accertare chi si è preso i soldi, quanti ne ha presi e come li ha presi. Un’operazione di questo tipo si vuole fare? Serve una volontà di ferro».

    Il debito mai quantificato

    Proprio in questi giorni Roberto Occhiuto si è mostrato sicuro: «Abbiamo messo su una procedura – ha annunciato su Facebook – per accertare il debito entro il 31 dicembre 2022». Se ne occuperanno dei «gruppi di lavoro» che, tra il Dipartimento regionale e le Aziende del servizio sanitario, dovrebbero avere il supporto della Guardia di finanza per provare a capire quanto sia grande il buco nei conti. E così riuscire dove hanno fallito, in 12 anni di commissariamento, fior di generali delle stesse Fiamme gialle e dei carabinieri.

    Fin dall’avvio del Piano di rientro (era la vigilia di Natale del 2009) sono stati macinati commissari e spesi miliardi senza cavare un ragno dal buco. Con l’aggravante che ci si è avvalsi di una società, la Kpmg Advisory, che doveva appunto dare una mano nella ricognizione e riconciliazione del debito pregresso. È finita malissimo. Carlo Guccione ha dichiarato in consiglio regionale che, dal 2008, questa società ha ricevuto compensi per 11 milioni di euro. Ma l’entità del debito ancora non la sappiamo.

    La Kpmg e quell’ufficio regionale

    La storiaccia calabrese della Kpmg si incrocia, a questo proposito, con quella di una sigla poco nota ai non addetti ai lavori, BDE, che significa Bad Debt Entity. «Si trattava di un ufficio creato in Regione nel 2010 con l’intento di ripianare i debiti delle Aziende sanitarie e ospedaliere», spiega il manager-scrittore. I soldi, circa 500 milioni di euro, arrivavano da un mutuo contratto dalla Regione. «I debiti si pagavano in base alla certificazione delle fatture effettuata da Kpmg. Dopo 4 anni (fine ottobre del 2014) le somme residue sono state date, con una specie di forfait, alle Aziende: “pagate voi”, dissero da Catanzaro. E le Aziende cominciarono a fare le transazioni in base alle tabelle fornite da Kpmg».

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    Una delle sedi dela Kpmg, colosso internazionale della revisione contabile

    Il meccanismo si inceppa

    In uno schema di transazione utilizzato spesso dalle Aziende si sostiene che grazie alla BDE ci sarebbe stata «una riduzione del livello di indebitamento verso gli istituti tesorieri e un decremento dei relativi interessi passivi sulle anticipazioni di cassa nel corso dell’esercizio 2015». Qualcosa però deve essersi poi inceppato visto che negli anni successivi sono emerse «varie difficoltà da parte delle Aziende Sanitarie nell’efficace utilizzo delle risorse ricevute per il pagamento del debito pregresso, dovute principalmente alla carenza di figure professionali e competenze tecnico specialistiche nello svolgimento delle attività amministrative per il perfezionamento con i debitori di transazioni e nella emissione dei mandati di pagamento, nonché a difficoltà connesse alla verifica delle partite debitorie già pagate in esecuzione di assegnazioni giudiziarie, al fine di evitare pagamenti multipli per medesime fatture».

    Le origini del bilancio orale secondo Santo Gioffrè

    Ecco, le fatture pagate due volte ai privati. È proprio ciò che si è puntualmente verificato – come di recente confermato dalla Corte dei conti – e che Gioffrè ha denunciato. Da anni va ripetendo, carte alla mano, cosa si celi dietro i «pignoramenti non regolarizzati» a cui «mai nessuno, dal governo a ogni istituzione che ne avrebbe il dovere, ha voluto mettere mano». Come funzionava il sistema? «Le aziende creditrici si rivolgevano al giudice, che ordinava il pignoramento presso terzi, cioè alla banca che svolgeva il servizio di Tesoreria per l’Azienda. L’istituto bancario però non trasmetteva all’Asp le minute delle fatture che pagava. È questa l’origine del famigerato “bilancio orale” che ha sconquassato tutto. L’Asp non negativizzava quel debito, che rimaneva sempre attivo, anche se i soldi se li erano presi».

    Dietro ci sarebbe la «lobby» che, grazie ai mancati controlli e a qualche complicità nelle stanze delle Asp, avrebbe provocato una lievitazione spropositata di pignoramenti non regolarizzati. Che quando Gioffrè si è insediato, a marzo del 2015, ammontavano a «circa 400 milioni di euro», ai quali va aggiunto il resto del contenzioso. «Quando ho capito il meccanismo mi sono messo in testa di ricostruire il bilancio, per farlo però avevo bisogno di venti persone che esaminassero ogni tipo di pagamento fatto. E lì mi hanno fermato».

    In nove anni 600 commissari ad acta

    Questo fa capire perché nessuno, dal 2013, sia riuscito ad approvare il bilancio dell’Asp di Reggio, dove in due anni si sono insediati «ben 600 commissari ad acta per il recupero crediti». Gioffrè legge incredulo la relazione in cui un suo predecessore parlava – era il 2014 – di «quasi 349 milioni corrispondenti a mandati di pagamento effettuati ma non ancora contabilmente imputati e regolarizzati». Vi si aggiungeva che «nel passaggio di consegne dal vecchio al nuovo tesoriere non sarebbero state fornite le carte e tutto ciò che veniva pagato non veniva inserito nel sistema di contabilità».

    Tutte fuori dal Piano di Rientro, Calabria esclusa

    Questa sarebbe l’origine di un disastro debitorio che, negli anni successivi, sarebbe arrivato a sfiorare, solo a Reggio, il miliardo di euro. Tutto a causa di una «complicità verticale» che ha reso «marcio» l’intero settore. La controprova? Semplice: «Su 10 Regioni entrate in Piano di rientro ormai oltre un decennio fa 9 ne sono uscite. La Calabria invece rimane in questa condizione e rischia di non uscirne mai. Perché il Piano di rientro ha a che fare con la finanza e l’economia. I calabresi sono numeri».

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto

    «Tutto ciò – conclude amaramente Gioffrè – ha prodotto un blocco delle assunzioni che ha fatto saltare due generazioni di professionisti e ha ridotto la capacità di dare risposte terapeutiche e di prevenzione. Con un aumento di mortalità pari al 4% rispetto alle regioni che non sono più in Piano di rientro. Non ci sono medici. C’è una sola università. Intanto paghiamo 330 milioni all’anno alle regioni del Nord per la mobilità passiva. Il sospetto che da Roma vogliano mantenerci in questa condizione sorge, eccome».

  • Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Con la cultura si mangia, ma la Regione non lo sa

    Nella Calabria delle aspiranti capitali deluse (Diamante e Capistrano), di quelle che ce l’hanno fatta ma si sono impelagate nelle polemiche (Vibo) e di quelle che sognano a occhi aperti facendo finta di non vedere la realtà (la Locride), la cultura resta una chimera. Per lo più se ne fa materiale da brochure o da programma elettorale, e a decretarne gli indirizzi sono spesso personaggi mitologici, metà direttori artistici e metà amministratori locali, in una promiscuità di rapporti e funzioni che prescinde quasi sempre dalle reali competenze.

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    La squadra fortissima di Primavera dei teatri: da sinistra Settimio Pisano, Dario De Luca e Saverio La Ruina

    Nell’attuale giunta regionale nessuno detiene la tradizionale delega perché se n’è scelta una più modernista («Attrattori culturali»). Il marketing però è un’altra cosa. E molto di ciò che si spaccia per arte e cultura è in verità commercio puro: nomi altisonanti usati per fare quantità, bandi discutibili e progetti di dubbia consistenza a drenare finanziamenti. Ma va anche sfatato il luogo comune della mancanza di risorse: i soldi, per la cultura in Calabria, ci sono. Lo conferma Settimio Pisano, che da anni si occupa di curatela nel campo del teatro e delle arti performative. È quello che si dice un addetto ai lavori (direttore generale e responsabile della programmazione internazionale del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, nel 2019 ha ricevuto il Premio UBU come “Miglior curatore/organizzatore”) e, per questo, gli abbiamo posto qualche domanda.

    Molto banalmente: in Calabria, con la cultura, si mangia?

    «Certo. Nel comparto lavorano migliaia di persone e intorno si genera un indotto importante. Bisognerebbe fare molto di più, non soltanto immettendo più denaro nel settore ma gestendolo meglio. Il punto non sono le risorse, ma come vengono impiegate».

    Che tipo di problemi riscontrano i lavoratori del settore nel rapporto con gli enti pubblici calabresi, in particolare con la Regione?

    «Bisogna prendere atto di una situazione evidente: la Regione Calabria non è in grado di gestire efficacemente il settore artistico-culturale e non potrà farlo finché non si doterà di specifiche competenze professionali. In oltre vent’anni di attività ho visto decine di assessori, dirigenti e funzionari. Molti sono stimati professionisti e si sono spesi con rigore e sensibilità per svolgere al meglio il proprio lavoro. Tuttavia i problemi permangono, anzi si aggravano col tempo».

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    La sede della Giunta e degli uffici regionali a Germaneto

    Perché?

    «La scarsa considerazione di cui gode il settore artistico e la conseguente trascuratezza gestionale, le pastoie burocratiche e l’incapacità della politica di governarle, sono questioni che hanno un peso determinante. Ma la faccenda è più complessa».

    Come sempre. Ma provi a spiegarlo…

    «C’è un problema strutturale. L’organizzazione della Regione e le sue competenze interne non sono adeguate costitutivamente a governare il settore. Serve un ente intermedio, sul modello delle Film Commission regionali, che abbia al suo interno le professionalità e le competenze adeguate. Una Calabria Live Commission, un’istituzione a partecipazione pubblica e privata in grado di produrre una visione corretta, tempi di programmazione certi, conoscenza specifica e sul campo delle varie discipline artistiche, un alfabeto comune con gli addetti ai lavori, regole impermeabili all’invasività della politica e ai cambi di amministrazione, avvisi pubblici redatti in base a obiettivi reali con adeguate azioni di monitoraggio e valutazione dei progetti.

    Gli operatori del settore artistico sono professionisti e meritano una governance all’altezza. Alla guida del settore servono profili professionali precisi: curatori, mediatori culturali in grado di coniugare sensibilità artistica e competenze manageriali, riconosciuti e attivi in ambito nazionale ma ancorati al territorio regionale. Soprattutto non servono artisti: gli artisti facciano gli artisti».

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Con Roberto Occhiuto alla Cittadella non è cambiato niente?

    «È un po’ presto per valutare l’operato della nuova Giunta. Certamente la cultura non è stata tra le priorità di questi primi mesi. Adesso però è urgente darsi una mossa. Ma sono certo che il presidente Occhiuto abbia la giusta sensibilità per affrontare e migliorare la situazione, del resto da consigliere regionale nel 2004 ha redatto e firmato la prima Legge regionale sul Teatro».

    Ma ci saranno anche delle lacune dall’altro lato, quello di chi “produce” arte, no?

    «La lacuna più grave è l’incapacità di produrre un’offerta artistica plurale e di alta qualità. A guardare i principali cartelloni è evidente un’omologazione su un tipo di offerta mainstream, commerciale, di puro intrattenimento. Offerta assolutamente legittima per la quale, al limite, si può discutere della reale necessità di sostegno con soldi pubblici. Ma è possibile che i calabresi restino esclusi da quanto accade nel panorama artistico contemporaneo nazionale e internazionale? In Europa il paesaggio artistico è in continua evoluzione, è in atto un ricambio generazionale che sta portando innovazione nei linguaggi, nei contenuti, nelle estetiche».

    Mentre qui a che punto siamo?

    «Beh… mi chiedo con quale orizzonte artistico, culturale, estetico stiamo crescendo i nostri figli. Gli stiamo offrendo le stesse possibilità di visione, di formazione del gusto, di riflessione sulle nuove forme d’arte e di cittadinanza, di partecipazione al dibattito culturale che hanno i loro coetanei italiani ed europei? La risposta è no. E non è semplicemente responsabilità di cattive politiche pubbliche, che pure sono determinanti. Il punto è la qualità di un’offerta che, nella maggioranza dei casi, è fortemente provinciale e sempre uguale a sé stessa. È un problema, ancora, di profili professionali non adeguati a produrre un rinnovamento nella proposta artistica. È un problema di mancato confronto col resto del mondo, di mancata conoscenza di quanto accade oltre i confini regionali nelle arti contemporanee. Vero, ci sono le eccezioni: esistono alcune realtà che spingono in direzioni nuove, ma sono poche e limitate a contesti dai quali fanno molta fatica ad uscire per raggiungere un pubblico più ampio».

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    Il TAU, Teatro auditorium dell’Unical

    Come si può sprovincializzare la cultura in Calabria?

    «Confronto, confronto e ancora confronto con quello che succede fuori da casa nostra. Visione, conoscenza, ibridazione: per i cittadini e per gli artisti. Per questi ultimi anche di più: gli artisti sono i primi a chiudersi nel loro studio o nel loro teatro e a ignorare quanto accade fuori. E questo è un problema serio per la Calabria, dove quasi tutti gli operatori del settore si definiscono artisti. Dal punto di vista politico, poi, è necessario rafforzare le poche esperienze che stanno dimostrando di aprirsi all’esterno e al nuovo, accompagnarle verso una crescita che le affranchi dalla condizione di isolamento e subalternità».

    Il rapporto tra politica e cultura, in Calabria, sembra ancora passare per altre dinamiche…

    «È necessaria un’inversione del paradigma secondo il quale la proposta “istituzionale” è quella mainstream, mentre il resto è sperimentazione per pochi eletti. La prima, pur legittima e gradevole, è tuttavia il passato, è un orizzonte limitato che ci impedisce di guardare oltre. “Il resto” è il presente e il futuro, è la strada per riavvicinarci al resto d’Italia e d’Europa, per contribuire alla crescita di una generazione di cittadini più consapevoli e critici in grado di desiderare, immaginare e infine costruire un futuro diverso. È necessaria una rottura, un ribaltamento di prospettiva, un cambio di passo deciso e improvviso. La comunità artistica calabrese deve farsene carico».

  • Devetia e Cosenza: Offerti 12 milioni?  Forse li ha chiesti Guarascio, ora si riparte da zero

    Devetia e Cosenza: Offerti 12 milioni? Forse li ha chiesti Guarascio, ora si riparte da zero

    «La proposta è seria, il gruppo solido e presente nel mondo del calcio da anni, dove opera come fondo d’investimento. Le polemiche? Ne so poco, certo quando ho accettato il mandato della Devetia Limited ho chiarito le cose: se volete che sia io a gestire questa vicenda, devo gestirla a modo mio». Torna sotto i riflettori della cronaca l’interessamento di Oleg Patakarcishvili e del suo gruppo ucraino per le sorti del Cosenza.

    Usmanov scompare, resta Patakarcishvili

    Leopoldo Marchese, l’avvocato che ha inoltrato alla società di Guarascio una formale richiesta di trattativa d’acquisto, è il professionista a cui è stato commissionato l’incarico di portare avanti la trattativa. Una trattativa che, dal mese di dicembre, si rincorre tra voci impazzite, smentite sdegnate e video dal sapore demenziale. E mentre la giostra riparte – con la squadra impantanata nei bassifondi della classifica e pronta ad un nuovo ribaltone in panchina dopo l’esonero di Occhiuzzi – un po’ di quella nebbia che aveva sepolto l’intera vicenda comincia a diradarsi.

    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin
    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin. Il magnate uzbeko ha smentito ogni coinvolgimento nella trattativa per il Cosenza

    «Non so niente di Usmanov. Io ho accettato il mandato a trattare dal gruppo del signor Patakarcishvili che da quanto so non ha nulla a che fare con l’oligarca». Dal canto suo, il magnate uzbeko, raggiunto dalle voci che da mesi lo accostano alla società rossoblu, ha smentito ieri ogni interessamento «al club specificato o altro club in Italia», ridimensionando lo strano risiko di interessi internazionali che aveva circondato il primo tempo di questo strano film.

    Dodici milioni: offerti o richiesti?

    In campo ora, resta ufficialmente solo la Devetia, con la sua storia di acquisizioni societarie eccellenti e cessioni altrettanto rumorose. «È troppo presto per parlare di cifre – dice ancora l’avvocato Marchese – prima di tutto bisogna vedere le carte del club. Serve una due diligence prima di qualsiasi altra cosa: le persone che rappresento devono capire la situazione finanziaria reale della società, poi potremo sederci e parlare di cifre. Da quanto è a mia conoscenza, le voci riguardo ai 12 milioni circolate nei mesi scorsi, dovrebbero riferirsi a quanto richiesto dal Cosenza. Ma io non mi occupavo ancora della trattativa, ripartiamo da zero».

    Il circo

    La partenza di questa seconda fase della trattativa per l’acquisizione del Cosenza Calcio, sembra quindi avere rinunciato alle stranezze che ne hanno caratterizzato gli albori. Scomparsi i link “manomessi” che parlavano di improbabili processi in Ucraina a carico del presidente Guarascio e quelli dei precedenti rapporti economici tra lo stesso “re dei rifiuti” e la Devetia ai tempi dell’investimento sulla squadra brasiliana del Corinthians.

    Fernando Martinez Vela
    Fernando Martinez Vela, protagonisti di alcuni video in cui si millanta fin dal titolo la presenza di Alisher Usmanov nella trattativa per l’acquisto del Cosenza, gestita ora dall’avvocato Leopoldo marchese

    Tornato ai suoi incarichi sportivi nel gruppo Devetia, anche il “beckettiano” Fernando Vela, autore di una serie di compulsivi video su Youtube dove si districava tra surreali tutorial sul mondo del calcio e degli investimenti e non richiesti “consigli” (de)piliferi ai giornalisti. «Pensiamo a quelli come periodi bui – dice ancora l’avvocato – e poi lo sappiamo come sono fatti questi russi. Sono impulsivi, si accendono subito. Ora però sono io a gestire le cose e non ci saranno altri video né altre dichiarazioni azzardate».

    Cosenza, la palla passa da Devetia a Guarascio

    Compiuto quindi il primo passo ufficiale con l’invio della mail certificata con la dichiarazione d’interesse, la palla ora passa alla dirigenza rossoblu, chiamata a rispondere alle sollecitazioni arrivate dal fondo d’investimento ucraino. «Questo è un gruppo serio, con grosse disponibilità finanziarie. Hanno interessi in Calabria e hanno veramente intenzione di rilevare il Cosenza. Ma prima bisogna vedere le carte. Aspettiamo una risposta dalla dirigenza che ancora non è arrivata, anche se bisogna dire che è passato ancora pochissimo tempo. Poi cominceremo a guardarci attorno».

    Tifosi del Coseeza al San Vito-Marulla
    Tifosi del Cosenza al San Vito-Marulla prima che gli spalti si svuotassero

    Il Piano B

    La prima scelta resta quindi il Cosenza, ma non è l’unica: se Guarascio dovesse rispondere picche infatti, gli interessi del gruppo potrebbero indirizzarsi dal Cosenza verso un’altra realtà calcistica calabrese. La Vibonese sembra purtroppo destinata a tornare tra i semi-pro della Lega D. Quindi la rosa si restringerebbe alle altre “tre sorelle” del mondo della pedata regionale. «Il costo più alto? – chiosa Marchese – non sarebbe un ostacolo, il gruppo non ha problemi di denaro».

  • Viale Parco non potrà ritornare come prima (VIDEO)

    Viale Parco non potrà ritornare come prima (VIDEO)

    Non è passato giorno in cui il neosindaco Franz Caruso non abbia parlato dei debiti “insostenibili” («centinaia di milioni di euro») lasciati in Comune dal suo predecessore, Mario Occhiuto. Intervistato dal direttore de I Calabresi – Franco Pellegrini-, il primo cittadino afferma: «Non pensavo di dovere approvare un bilancio preventivo con un disavanzo già di 11 milioni di euro».

    Condannato a non riaprire Viale Parco

    Viale Parco non tornerà come prima. Franz Caruso lo fa capire espressamente: «Dobbiamo terminare il Parco del benessere». Poi continua: «Uno degli errori più grandi è stato distruggere l’opera più importante realizzata nella città dal Dopoguerra ad oggi».
    Ma ne esistono diverse versioni che sopravvivono. Quantomeno nei finanziamenti. La Regione Calabria, per esempio, continuerà ad inviare ogni anno 140mila euro fino al 2026 per la versione manciniana dell’infrastruttura, soldi impegnati nei giorni scorsi. Intanto il Rup è cambiato ancora una volta, dopo due anni di vacatio: adesso è Giuseppe Iiritano. E nelle prossime ore una riunione alla Cittadella potrebbe di nuovo cambiare le carte in tavola. Pare, infatti, che si possa riallargare lo spazio destinato alle auto in transito, ma solo nell’area delle ex ferrovie su cui ora sorge il Rialzo.

    Occhiutiani in Giunta

    Rispetto alla discontinuità sbandierata nei programma, Franz ha poi portato in Giunta quattro esponenti che militavano nella ex maggioranza di Occhiuto. Questione di criteri oggettivi, sottolinea il sindaco: «In Giunta siedono tutti i primi eletti delle liste che mi hanno sostenuto». Il Cencelli del penalista cosentino diventa: «Ho rispettato la volontà dell’elettorato».

    L’Atene delle Calabrie sognata da Caruso

    «Cosenza è stata un punto di riferimento sul piano culturale e politico per l’intera Calabria e anche per il Meridione». Parole che precedono le promesse: «Ridare vita alla Casa delle Culture, alla Biblioteca Nazionale, alla Biblioteca civica e soprattutto al teatro Rendano». Che torni, quest’ultimo, ad essere «teatro di tradizione e, quindi, di produzione».

    La Grande Cosenza arriva al Savuto

    Ma quale città unica, Caruso vuole ricostruire ridisegnare la geografia della Calabria Citra. Mette dentro tutto: Cosenza, Rende, Zumpano, Castrolibero, Montalto e pure la zona del Savuto.

    L’eterna vicenda dell’Unical

    Caruso lavora per un maggiore «coinvolgimento e integrazione dell’Università della Calabria nel territorio cosentino». Perché crede che «il Campus non abbia sviluppato un rapporto simbiotico con la città capoluogo». Poi rincara la dose: «Arcavacata non è nemmeno l’università di Rende». Un Ateneo di gente che «vive quella città solo nei giorni della movida».
    Nel concreto Caruso dice di «aver già chiesto al rettore Nicola Leone di poter collaborare con l’università per i progetti del Pnrr».

    Una leghista per i 90 milioni del Cis

    I 90 milioni del Cis per il centro storico di Cosenza? Venerdì 21 arriva il sottosegretario per i Beni e le attività culturali, Lucia Borgonzoni. Seguirà il tavolo tecnico. Lo ha annunciato lo stesso sindaco.

    Ciclabili ma con giudizio

    La viabilità di Occhiuto ha danneggiato il commercio. È il pensiero di Franz e non solo. E se – come sostiene il primo cittadino – «Cosenza è la sua provincia, allora dobbiamo consentire alle persone di raggiungere la città». E gli amanti della bicicletta? La città sostenibile di Caruso non vuole diminuire le piste ciclabili. Piuttosto vuole aumentarle. Distruggendo parte delle vecchie però e senza quella proliferazione di circuiti per scalare, fittiziamente, le graduatorie delle città ecosostenibili.

    Un jolly da giocare sulle confluenze

    «ll Jolly abbattuto è stata opera importante di Occhiuto, ma non ho nessuna intenzione di proseguire nella costruzione del museo di Alarico». Franz dixit. E se proprio c’è da scegliere qualcuno che rappresenti lo spirito della città? C’è già il buon «Telesio». Sull’immobile pende un vincolo di destinazione. Franz Caruso vorrebbe rimodulare tutto e fare di quel posto un «grande parco verde che ricongiunga città vecchia e nuova».

    Cosenza verde

    Nella visione di Caruso dovrebbero essere eliminate «tutte quelle mattonelle cinesi di Piazza Bilotti per lasciare spazio al verde». Spostando il parco del benessere «lungo gli argini dei fiumi magari navigabili». Ecco il manifesto di Franz contro la cementificazione del verde in salsa Occhiuto. Per ora solo intenzioni.

  • «Commissari alla Sanità? Clientela calabrese gestita dal Ministero»

    «Commissari alla Sanità? Clientela calabrese gestita dal Ministero»

    «I piccoli ospedali chiusi non dovrebbero essere riaperti». Suonano paradossali le parole del presidente dell’Ordine dei medici di Cosenza, Eugenio Corcioni, intervistato dal direttore de I Calabresi, Franco Pellegrini. Strane, perché arrivano nei giorni in cui alcuni presidi sanitari soppressi, compreso quello di Cariati, tornano ad essere operativi per combattere il Covid. Il virus corre e morde.

    Pandemia e sistema sanitario

    La pandemia ha trovato in Calabria un sistema sanitario in condizioni già di per sé pietose. Per due ragioni, sostiene Corcioni. Innanzitutto «un’offerta incongrua e inappropriata con ospedaletti sparsi nella nostra difficile regione». Poi «40 anni di politica distruttiva nel settore».

    Generare voti e clientele

    La medicina territoriale non se la passa benissimo quasi ovunque in Italia. Comparto strategico dove c’è ancora oggi un «marcatissimo interesse per generare voti e clientele». Corcioni, dopo la legnata, suggerisce un percorso: «Ripartire dai concorsi». Su «scala nazionale come un tempo, con 7 prove scritte e orali».

    Il Pnrr non risolverà tutti i problemi

    Il Pnrr non basta. Serve chiedersi: «quale modello assistenziale si vuole costruire, quale personale utilizzare, come organizzare? Come fare i concorsi?». Di certo la posizione di Corcioni sull’edilizia sanitaria è chiara: «Ristrutturare i piccoli nosocomi conviene a chi fa i lavori». Al contrario, pensa sia necessario costruire, e in tutta fretta, il nuovo ospedale di Cosenza: «Da ubicare vicino all’Università della Calabria, in una zona strategica e raggiungibile, perché deve servire tutta la provincia, non una sola città». Boccia, quindi, le idee di chi vuole edificare la nuova Annunziata partendo dal vecchio sito (l’ex sindaco Mario Occhiuto). E al contempo mostra una forte contrarietà verso il progetto caro al centrosinistra cosentino “stregato” dal sito di Vaglio Lise.

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    Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini)

    Sanità privata, soldi pubblici

    «Non esiste la Sanità privata in Calabria, nemmeno in Italia». Corcioni precisa: «Salvo qualcosa in alcune città come Roma e Milano e per prestazioni fuori dai Lea (Livelli essenziali di assistenza)». In realtà è una «una gestione privata ma con soldi pubblici, tutta un’altra cosa». La solita regola del capitalismo italiano, dalle Pmi alle grandi imprese: abbeverarsi alle mammelle del settore pubblico.

    Privati e famelici

    Per Corcioni il problema della sanità privata è la gestione: «Non possiamo prendercela con chi esercita un suo diritto». Semmai «la responsabilità è del pubblico che ha il potere e il dovere di programmare, individuare e controllare».
    Ma se diventa orientabile e condizionabile, soprattutto in una regione come la nostra, favorisce le grandi famiglie della sanita cosiddetta privata. Che muovono un sacco di voti.

    La girandola dei commissari alla Sanità

    Nel variegato mondo dei commissari al Piano rientro sanitario in Calabria, Corcioni opera delle distinzioni: «Quelli non eletti dal popolo e quelli osteggiati dalla politica». Si riferisce a Scura. Che non ha avuto un rapporto proprio idilliaco con l’ex presidente della Regione, Mario Oliverio. Corcioni, si capisce, salva solo Scura.
    In generale i commissari sono persone «venute quaggiù per avere una piccolo budget in pensione e una piccola carica onorifica». Il presidente dell’Ordine dei medici di Cosenza definisce il loro operato «un disastro totale». La colpa «è di chi li ha inviati». Al fondo è sempre la politica a volere che non funzioni il sistema: «Con la gestione commissariale può fare quel che vuole». Uno «sport troppo facile prendersela con persone inadeguate al ruolo». Invece, nel grande capitolo della sanità commissariata Corcioni chiama in causa il ruolo del ministero della Sanità che «ha gestito la clientela cosentina e calabrese nelle poche cose che contavano».

    E adesso? Corcioni promuove i i primi passi del neo presidente della Regione e commissario alla sanità, Roberto Occhiuto. Perché? «Ha chiesto la redistribuzione dei soldi nella conferenza Stato-Regioni, qui si decide il budget». Senza soldi non si cantano messe, ma non si fa nemmeno buona sanità.

  • Alarico? Folklore che non funziona per fare business

    Alarico? Folklore che non funziona per fare business

    Il tentativo dell’amministrazione Occhiuto di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli un museo virtuale non ha funzionato, come ribadiscono anche alcune disavventure amministrative non proprio leggere. L’attuale sindaco Franz Caruso, ha dichiarato di preferire Telesio al re barbaro, mettendo probabilmente una pietra tombale su tutta la vicenda.

    In Alarico la storia universale si mescola a quella locale, com’è avvenuto a Cosenza, dove il re goto sarebbe morto di malaria e quindi, sarebbe stato sepolto nel letto del fiume Busento, deviato per l’occasione, come tramanda la bella poesia di August von Platen.
    Ma il dibattito, anche acceso, esploso sui social prova anche che Alarico continua a “fare immaginario”. Abbiamo chiesto al famoso storico del Medioevo, Franco Cardini, cosa ne pensa della questione Alarico.

    Quanto c’è di vero o di verosimile in questa leggenda?

    «Quanto ci sia di vero non è mai stato accertato. La verosimiglianza è valutabile in relazione a usanze funebri variamente attestate in ambito tanto celtogermanico quanto uraloaltaico (specie le sepolture equestri)».

    Assieme ad Alarico e al suo cavallo sarebbe stato seppellito il tesoro razziato dai visigoti a Roma. Esiste davvero questo tesoro?

    «Sepolture principesche caratterizzate da ricchi e preziosi corredi sono attestate. Per quanto Alarico fosse cristiano ariano, è probabile che, dato il suo rango principesco, le antiche tradizioni folkloriche gote fossero in qualche modo rispettate. Quella del “tesoro” razziato a Roma e sepolto nell’alveo del Busento sembra avere tutti i caratteri della leggenda folklorica».

    A Cosenza si è tentato di trasformare Alarico in un brand e di dedicargli, addirittura, un museo virtuale. Queste operazioni “simboliche” possono avere un senso? E, se sì, quale?

    «Credo che, più che “simbolica”, l’iniziativa in questione dipenda in parte dalla prospettiva di costruirvi sopra un business e in parte dalla speranza che tutto ciò costituisca uno scoop. Ora, business e scoop hanno senza dubbio entrambi un senso e uno scopo nella società attuale. In questo caso, tuttavia, parliamo di un problema “simbolico”: simbolico di che? Simbolico a che scopo? L’Alarico-“barbaro” e l’Alarico-“eroe” sono entrambe dimensioni scarsamente spendibili oggi a livello mediatico, a meno d’introdurvi al riguardo criteri di “radicamento” e di “identità” oppure, al contrario, di cancel culture, che mi parrebbero entrambi sciocchi e inopportuni».

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    La gaffe sul tesoro di Alarico diventato di “Talarico” nel totem della Regione Calabria
    Veniamo al punto centrale: barbaro distruttore per molti, figura eroica per altri. A quale di questi schemi corrisponde Alarico?

    «Si tratta, appunto, di schemi valutativi: per giunta di carattere etico-retorico, soggetti ai cambiamenti di interpretazione delle vicende storiche e alle corrispondenti tavole di valori».

    Non parliamo di un problema storico, insomma. Il sacco visigotico dell’Urbe fu un evento traumatico, considerato da tanti come il colpo letale all’impero e alla civiltà romane. Tuttavia, Alarico è considerato quasi un papà della patria da tedeschi e spagnoli. Come mai questa ambivalenza?

    «Anche la valutazione da dare dell’evento del 410 deve essere spogliata da qualunque valore retorico o simbologico se si vuol darne una lettura storica. In realtà, ai primi del V secolo Roma aveva largamente perduto il suo carattere di centro politico e militare, mentre anche sul piano religioso il suo vescovo non aveva ancora la funzione che avrebbe avuto più tardi. Peraltro quella di Alarico fu più un’occupazione transitoria che un vero e proprio sistematico saccheggio (ben più grave sarebbe stato l’evento del 1527). La “paternità patria” di Alarico per tedeschi e spagnoli, a sua volta molto relativa, riguarda i secoli XVIII-XIX, quando questi valori venivano più densamente espressi».

    Sempre a proposito di mito: i nazisti subirono la fascinazione di Alarico. Al punto che Himmler inviò degli agenti in Calabria per trovare le tracce della leggenda. 

    «Tutto va naturalmente riferito alla mitologia politica filobarbarica e postromantica che alcuni ambienti del governo e delle organizzazioni culturali nazionalsocialiste favorivano, con una buona dose di medievalismo wagneriano. Come in altri casi (l’interesse per il buddhismo-induismo che condusse a spedizioni antropologiche tra India e Himalaya, e quello per il catarismo, che comportò indagini nell’area pirenaica di Montségur), l’interesse nazista per il germanesimo – e quindi la rivendicazione di tutto quel che apparisse “germanico” – non condusse a esiti specifici sotto il profilo scientifico: nulla di paragonabile, ad esempio, rispetto al rapporto tra fascismo e romanità in tutti i loro aspetti. Tuttavia, nell’àmbito dell’organizzazione di ricerche archeologico-antropologiche della società Ahnenerbe (“Eredità degli avi”), sostenuta con forza dagli alti comandi delle SS, alcuni studi furono seri e interessanti: basti al riguardo il nome del grande Franz Altheim, che vi collaborò».

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    La brochure del Comune di Cosenza destinata ai turisti con la contestatissima foto di Himmler
    Il tardo antico è un periodo storico suggestivo, carico di contraddizioni, come tutte le fasi di passaggio. È possibile esprimere un giudizio equilibrato sui capi barbari, più o meno romanizzati, che ne furono protagonisti?

    «Tutte le fasi storiche sono, per un verso, “di passaggio”; e, per un altro, sono “convenzionali”, appartengono cioè più ai dibattiti storiografici che non alle realtà storiche effettive. I “capi barbari” in contatto con l’impero romano vanno pertanto considerati anzitutto appunto nel loro rapporto con una realtà dinamica caratterizzata però da grande flessibilità (basta pensare all’intelligenza, all’apertura e alla sensibilità con la quale l’impero guardava ai culti religiosi: se e quando in tale àmbito vi furono scontri, ciò va fatto risalire al rigore inflessibile di alcuni di quei culti, non all’incomprensione o al fanatismo romani che in genere non c’erano).

    I capi barbari in contatto con l’impero furono molto spesso personaggi eccezionali, di grande intelligenza, in grado di mantenere la loro identità e di adattarla alle esigenze di un dialogo portatore di nuove sintesi. Casi come quelli di Ezio, di Stilicone, di Ataulfo, di Odoacre, di Teodorico, di Clodoveo, di Rotari, di Liutprando, sono per intelligenza, per lungimiranza, per cultura, la regola anziché l’eccezione. All’estremità di questo percorso c’è Carlomagno».

    Dovrebbe essere sfatata l’idea dei barbari come “distruttori”?

    «Dovrebbe senza dubbio: se tale idea esistesse o fosse mai esistita sul serio. In realtà, la “tesi” incolta e patriottarda dei “barbari germanici” quali distruttori dell’impero (che non a caso fa il paio con l’altra altrettanto ridicola e assurda, quella anticlericale del cristianesimo e dei cristiani come causa della decadenza e della caduta dell’impero romano) non è mai stata sostenuta sul serio da nessuno studioso valido, a parte qualche boutade spinta da esponenti dell’illuminismo più screditato e scadente: appartiene al sottobosco delle idee veicolate da dilettanti semicolti nell’ambito di una sottocultura-pseudocultura che è dura a morire proprio perché è troppo labile per uscire allo scoperto e confrontarsi in modo qualificato con la critica scientifica seria».

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    Particolare della statua di Alarico a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Perciò, non avendo mai prodotto nulla di serio e d’interessante, questa pseudocultura non è mai stata neppure degnata di una confutazione approfondita e sistematica. Ma, dal momento che non ha mai influito su nulla di scientificamente apprezzabile, riemerge di continuo a livelli di sostanziale ignoranza. Purtroppo la frana progressiva – e quindi la caduta a picco del tono culturale medio della società occidentale in genere, italiana in particolare, tipico degli ultimi decenni – ha finito col fornire un’autorevolezza specie mediatica del tutto fittizia e gratuita a solenni sciocchezze o addirittura a ridicole idiozie che hanno purtroppo libertà di diffondersi liberamente nei vari canali dei social. La falsa cultura acriticamente presa sul serio è una delle funzioni principali dell’analfabetizzazione della società in corso».

  • Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Delitto Losardo, quella pista poco battuta che porta in Tribunale

    Quando Rosina Gullo e Giannino Losardo si sposarono lui era tornato in Calabria da poco. Era la metà degli anni ’50 ed era riuscito farsi trasferire dalla Pretura piemontese a cui era stato assegnato al Tribunale di Paola. Era di Cetraro, dunque era tornato a casa. Ma probabilmente non sapeva cosa lo aspettava. Non solo dentro quegli uffici, ma anche fuori, sulla strada che lo vide cadere vittima, 33 anni dopo, di un agguato mafioso che fu ricondotto al clan del «re del pesce» Franco Muto. Giannino, all’epoca consigliere comunale del Pci e segretario capo della Procura paolana, venne ucciso la sera del 21 giugno 1980, 10 giorni dopo l’omicidio di Peppino Valarioti. Rosina è morta un paio di settimane fa. E non ha mai avuto giustizia per suo marito.

    Sostegno a intermittenza

    Al suo funerale, il 16 dicembre scorso, a Fuscaldo non c’era molta gente. In prima fila il sindaco di Cetraro, Ermanno Cennamo. Quando facciamo il suo nome a Giulia Zanfino, giornalista freelance e autrice del docufilm Chi ha ucciso Giannino Losardo, lei racconta che prima delle elezioni Cennamo era molto disponibile nel metterla in contatto con le amministrazioni locali che avrebbero potuto patrocinare il suo lavoro d’inchiesta. Una volta eletto sindaco, però, è «scomparso». Solo dopo che Zanfino ha parlato di questo in un’intervista alla Tgr Rai lui ha dichiarato «la totale volontà della sua amministrazione di sostenere» il docufilm.

    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Giulia Zanfino con il ciack prima di una scena del suo docufilm
    Una pista da battere

    Losardo era uno strenuo oppositore della mafia e della malapolitica. Quando morì accorsero a Cetraro anche Enrico Berlinguer e Pio La Torre. La politica, la lotta al malaffare e all’ascesa criminale dei Muto – la cui pescheria al porto di Cetraro era il simbolo del suo potere sul territorio – sono state sempre le piste privilegiate per chi ha indagato sul delitto. Il processo è però finito in una bolla di sapone e, oggi, chi come Zanfino insegue tracce da anni si è convinto che un’altra pista è stata sottovalutata. Quella della corruzione nella Procura di Paola, un luogo in cui la rettitudine di un funzionario come Losardo non poteva che essere un ostacolo alla gestione disinvolta di questioni legate agli affari più redditizi sul Tirreno cosentino.

    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo
    Uno scatto sul set del docufilm sul delitto Losardo

    «Secondo me può essere la vera chiave per arrivare, prima o poi, alla verità», dice la regista, che confessa di aver scovato la trascrizione di un’intercettazione nella cassetta di sicurezza che Losardo aveva in Procura. Riguarda una telefonata «interessante», rispetto a questa pista, tra Muto e un noto avvocato.

    Insieme per la verità

    Il progetto – fotografia di Mauro Nigro, tra gli attori Giacinto Le Pera (Losardo) e Francesco Villari (Muto) – ha vinto un bando della Calabria Film Commission. Nato da un’idea di Francesco Saccomanno e prodotto dall’Associazione Culturale ConimieiOcchi (produzione esecutiva OpenFields), ha il patrocinio della Commissione parlamentare antimafia, oltre che il sostegno dei Comuni di Paola, Acri, Casali del Manco, fondazione Carical, Parco Nazionale della Sila, Proloco di Acri, Colavolpe, BCC Mediocrati.

    Il clima a Cetraro

    Zanfino ha intervistato i compagni di Losardo che hanno subìto, negli anni, minacce e soprusi. «Ancora oggi – racconta – a Cetraro c’è un clima di terrore». Ne ha avuto esperienza diretta assieme a Nigro a settembre del 2020: l’unica volta in cui si è esposta con la telecamera a Cetraro, è andata a un seggio elettorale vicino a casa di Muto. Ha chiesto a chi andava a votare se si ricordasse di Losardo ed è stata presa a male parole da una donna che le urlava contro che «Losardo lo dovevamo lasciare dov’era…».

    In un’altra occasione aveva chiesto a un’associazione locale di intercedere con un gruppo di pescatori, con la scusa di documentare le espressioni dialettali con cui conducevano le trattative per la vendita del pesce, affinché li filmasse. Ma anche in quel caso ha incontrato problemi.

    Il fascino del male

    Tra le interviste del docufilm c’è quella a Tommaso Cesareo, oggi assessore nella giunta Cennamo (il più votato alle elezioni del 2020) che non nasconde di aver frequentato in passato gli esponenti del clan. «Con loro – dice Cesareo – potevi permetterti di entrare ai night, nelle discoteche… rappresentavano il potere. E queste cose più che biasimarle io devo ammettere che mi affascinavano. Un errore madornale – aggiunge mostrandosi pentito – che io mi sono portato dietro per anni». Ma racconta anche che «tutta Cetraro era amica di Muto».

    Colpiscono le parole di Leonardo Rinella, pm nel processo che si celebrò a Bari, per «legittima suspicione», perché quando a Cosenza provavano a interrogare Muto in aula succedeva il finimondo. Nel processo erano coinvolti anche Cesareo, il padre Carlo e il fratello Giuseppe – mentre un altro fratello, Vincenzo, è il direttore sanitario accusato di fare tamponi ad amici, parenti e «pure ai gatti». Nello stesso procedimento pugliese finirono accusati l’allora procuratore capo di Paola Luigi Balsamo (omissione in atti d’ufficio) e il sostituto “anziano” Luigi Belvedere (interesse privato in atti d’ ufficio e falso). Per tutti – magistrati, mafiosi e presunti killer – alla fine arrivò l’assoluzione.

    Un processo da spostare

    «La fase istruttoria – racconta Rinella a Zanfino – la svolgemmo in Calabria. Colpiva l’inframittenza continua che il sostituto Belvedere aveva in tutti i processi, anche quelli che non lo riguardavano. Poi c’era la debolezza del procuratore capo. Una brutta Procura della Repubblica. C’era anche stato un altro caso, fuori dal processo Muto, di un magistrato, Fiordalisi, che era stato sottoposto a inchiesta disciplinare. Non avemmo una buona impressione e capimmo perché il processo difficilmente si sarebbe potuto celebrare con successo a Paola. Direte che neanche a Bari ha avuto successo… avete ragione. Ma, onestamente, non mi sento colpevole».

    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ernesto Orrico interpreta il sostituto procuratore Belvedere
    Ombre sul tribunale

    Il quadro emerge con chiarezza inquietante da una relazione disposta dal Ministero della Giustizia nel 1991. A scriverla, dopo una lunga inchiesta, fu il «magistrato ispettore» Francantonio Granero. Un lavoro meticoloso che restituisce una realtà giudiziaria in cui i veri «padroni» sarebbero stati l’allora presidente del Tribunale William Scalfari e i due sostituti, Belvedere e Fiordalisi. Del primo vengono ricostruite le attività da «imprenditore di fatto» in società, di cui faceva parte il figlio e in cui non mancavano nomi noti della politica e delle professioni, che costruivano complessi alberghieri con miliardi di finanziamenti pubblici.

    Nel dossier Granero si raccontano dispetti e ripicche tra pm e polizia giudiziaria, ma anche di magistrati con la passione per le auto sportive e gli assegni a vuoto (il figlio di Belvedere ne emise per oltre due miliardi in una vicenda a cui Granero collega il suicidio di un direttore di banca). E di imprenditori amici come Francesco Venturapadre della (per poco) candidata alle passate Regionali Antonietta – che metteva soldi suoi per coprire i debiti del magistrato. Lo stesso magistrato che, per dirne una, pretendeva di avere solo per sé, per andare al bar, un posto auto in piazza riservato alla polizia. Mentre il collega, per dirne un’altra, chiedeva un prestito da 20 milioni di lire a un perito – all’epoca impegnato nel processo sull’omicidio Scopelliti – che era indagato in un’inchiesta di cui lo stesso magistrato era titolare.

    Gli amici

    Per non parlare delle considerazioni sulla gestione delle procedure fallimentari, delle amministrazioni controllate e del giro di commissari giudiziari e consulenti. E per finire con l’avvocato Granata, presidente dell’Ordine e a lungo vicepretore onorario, che era intimo amico di Losardo e che ne raccolse le ultime parole. Quando Giannino era morente, secondo la ricostruzione del pm Rinella, Losardo «chiese solo ed esclusivamente di Granata». Il quale però secondo il magistrato «non lo volle rivelare, chiudendosi in silenzi assurdi» e sostenendo che Losardo avesse solo farfugliato qualcosa di irrilevante.

    Ai suoi soccorritori, mentre lo portavano in ospedale, Giannino disse che erano stati «gli amici» e che «tutta Cetraro» sapeva chi gli aveva sparato. A distanza di oltre 40 anni gli assassini restano impuniti. Qualche magistrato ha fatto carriera e qualche altro è morto tra onori di Stato. E la sorveglianza speciale, misura che per un periodo è stata data a Franco Muto, la si vorrebbe imporre a chi lotta per difendere diritti e beni comuni.

  • L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    L’archeologa scomoda che blocca il cemento sui ruderi romani

    Gli epiteti che Giovanni Giamborino le riserva, parlando con altre persone, non sono riferibili. E guardando a cosa emerge da questa incredibile vicenda – raccontata da I Calabresi in altri due articoli – si capisce anche il perché. Lui è una delle figure chiave dell’inchiesta “Rinascita-Scott” perché è considerato un faccendiere del superboss Luigi Mancuso. Lei è un’archeologa oggi in pensione che, fino a quando e come ha potuto, ha tentato di impedirgli di ricoprire di cemento i resti di una villa e di una strada romana nel centro di Vibo Valentia. Il cemento della ‘ndrangheta, almeno secondo la Dda di Catanzaro, alla fine ha però avuto la meglio sulla gloriosa storia di cui la città che fu Hipponion e Monteleone fa vanto. E che è stata calpestata nell’indifferenza di quasi tutti. Non di Maria Teresa Iannelli, rivelatasi un osso duro anche per chi, grazie ad amici e «fratellini», era abituato a vedersi aprire ogni porta.

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    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana
    Il maggiore del Ros Francesco Manzone ha spiegato in Tribunale che lei rappresentava un problema «insormontabile» per Giamborino. Perché? Cosa ha pensato leggendo le cronache di quell’udienza?

    «Non ricordo di avere conosciuto il maggiore Manzone, ma, a giudicare da quello che ha dichiarato, credo che abbia compreso appieno la vicenda dell’edificio realizzato da Giamborino. In effetti, già nel 1987, quando da tempo ero l’archeologo responsabile di Vibo Valentia, la Soprintendenza Archeologica della Calabria era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori.

    Nello stesso anno, alla luce degli importanti resti rinvenuti, è stato emanato un decreto di vincolo archeologico che, per quello che ne so, è tuttora in vigore. Per anni, nonostante il vincolo, Giamborino, e prima di lui la madre, hanno chiesto ripetutamente l’autorizzazione a costruire ottenendo categorici dinieghi. Evidentemente la fermezza e il rigore delle risposte hanno determinato la giusta convinzione dell’impossibilità di ottenere quanto richiesto».

    Avrà letto anche le intercettazioni che testimoniano il tenore dei contatti tra Giamborino e due archeologi, Mariangela Preta e Fabrizio Sudano. Se lo sarebbe aspettato?

    «Conosco da tempo la dottoressa Preta che, per qualche tempo, ha partecipato ad alcune campagne di scavo da me dirette. Come ho fatto con altri giovani colleghi, ho dato anche a lei la possibilità di introdursi all’archeologia. Ma successivamente ho interrotto ogni rapporto perché è venuta meno la stima necessaria. Il dottor Sudano è stato mio collega di Soprintendenza solo per pochi anni a ridosso del mio pensionamento. Con lui ho instaurato pochi rapporti formali. In ogni caso quanto ho appreso dall’articolo mi lascia profondamente sconcertata».

    L’incontro tra Giamborino, Sudano e Famiglietti monitorato dai militari del Ros
    In che modo aveva provato a fermare i lavori che Giamborino stava facendo su quelle antiche vestigia? Perché non ci è riuscita?

    «Fin dall’inizio dei lavori di sbancamento che hanno portato alla luce importanti reperti, la Soprintendenza era intervenuta con vari provvedimenti di sospensione dei lavori, che, però, il Comune ha ritardato a notificare, nonostante le mie sollecitazioni, consentendo così il parziale sbancamento dell’area. La presenza del vincolo e i dinieghi a costruire hanno, per molti anni, salvaguardato l’area.

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    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    E poi cosa è successo?

    Nel 2015 il Soprintendente pro tempore mi ha informata della sua intenzione di concedere l’autorizzazione. Più volte le ho illustrato, anche con note interne, la notevole importanza archeologica di quell’area nell’ambito della città greco-romana, tant’è che l’autorizzazione è stata subordinata allo scavo delle pareti non ancora sbancate.

    Infine, il rinvenimento delle monumentali arcate medievali e del tratto di strada romana realizzata con grossi basoli, mi aveva fatto ben sperare in un ulteriore diniego a costruire. So che le attività di scavo sono proseguite anche dopo il mio pensionamento avvenuto il 1 maggio 2015. Quanto al non essere riuscita a fermare la realizzazione del fabbricato, mi sembra evidente che il mio parere di semplice funzionario sia stato superato a livello gerarchico».

    Che valore storico poteva avere quel sito ricoperto dal cemento?

    «Per farne comprendere la valenza storico archeologica basta dire che nella realtà urbana di Vibo, dove lo strato medievale si sovrappone a quello romano e questo a quello greco, dopo anni di ricerche a cominciare dall’Orsi (1921) fino ai nostri giorni, non si era mai trovato un asse viario di età romana che consentisse di conoscere, anche se parzialmente, l’impianto urbano romano».

    In quegli anni sentiva la pressione di Giamborino e degli ambienti (politica, massoneria, burocrazia) da cui secondo gli inquirenti avrebbe tratto vantaggi?

    «Le pressioni dei vari ambienti sono state fortissime e costanti in tutto il periodo in cui sono stata responsabile di Vibo Valentia. Ma la mia personale risposta, sostenuta dal Soprintendente che più a lungo ha diretto l’Ufficio (dottoressa Elena Lattanzi), è stata sempre molto risoluta e convinta. Affermando la prevalenza dell’interesse dello Stato e la priorità della tutela».

    Lei ha passato anni ad eseguire scavi e a dirigere diversi musei calabresi. A Vibo ha trovato un ambiente diverso rispetto alle sue altre esperienze?

    «Purtroppo la situazione descritta per Vibo si riproponeva, talvolta anche con maggiore esasperazione, anche nelle altre località e sedi museali di cui sono stata responsabile (vedi Rosarno)».

    3/fine

  • «Una Calabria che cresce? I miracoli non esistono, basta sapere cosa fare»

    «Una Calabria che cresce? I miracoli non esistono, basta sapere cosa fare»

    L’ultimo Rapporto Svimez, ripreso un po’ frettolosamente dai media e subito strumentalizzato a livello politico, fotografa con precisione il cosiddetto “rimbalzo”, cioè la crescita italiana dopo la fase dura della pandemia. Il tutto nell’ottica particolare del Mezzogiorno, di cui esce un’immagine problematica, in cui sofferenze e speranze si mescolano in un intreccio fisso. A voler tentare una sintesi delle cinquecento e passa pagine del rapporto si può affermare che nell’Italia che ha ripreso a crescere il Sud arranca un po’, con la classica situazione a macchia di leopardo. E la Calabria appare ferma.

    Lo ribadiscono alcuni indicatori, in particolare l’agricoltura (meno 10% di occupati nel settore, che pure da noi pesa il 4% del Pil, il doppio rispetto al resto del Paese) e l’informatica, gravata da una forte persistenza del digital divide.
    Eppure, come tutte le situazioni croniche, le possibilità di miglioramento non mancano. Anzi. Più che le “lacrime e sangue”, ci aspettano gli sforzi, che potrebbero essere efficaci grazie all’iniezione di fondi del Pnrr.
    Lo spiega Amedeo Lepore, professore ordinario di Storia economica presso l’Università Vanvitelli di Napoli, docente di Economia presso la Luiss e membro del cda di Svimez, per cui ha curato la parte relativa alla bioeconomia del Rapporto 2021.

    Iniziamo dall’informatica, in cui il digital divide e l’analfabetismo tecnologico sembrano inchiodare il Sud rispetto al resto del Paese. La Calabria, addirittura, mostra una situazione contraddittoria: è la regione in cui sono stati effettuati massicci investimenti. E tuttavia, il numero di persone che non accedono ai servizi digitali resta elevato…

    «A dire il vero, la contraddizione non è solo calabrese e meridionale. La pandemia ha senz’altro stimolato l’uso dei sistemi informatici, in misura nettamente maggiore che in passato. Tuttavia, si segnala un forte rallentamento proprio nel settore digitale, a partire dalla contrazione degli acquisti».

    In pratica, le persone sono andate di più su internet ma hanno acquistato meno device. È così?

    «In maniera grossolana, sì. Il calo non è da poco: meno 16% al Sud».

    Eppure il Sud ha molta fibra e la Calabria è una delle zone più cablate in Europa.

    «Il problema non riguarda tanto le infrastrutture, che erano centrali fino a qualche anno fa. Il gap dipende dalla differente geografia economica, determinata da strutture industriali molto diverse. Il maggiore investitore nell’informatica risulta la pubblica amministrazione, che ha speso complessivamente il 35% in più».

    E i privati?

    «Le aziende di grandi dimensioni hanno speso l’1% in più. Il problema vero riguarda le piccole imprese, che hanno speso il 5% in meno. Va da sé che il Nord, in cui la presenza di grandi imprese è nettamente maggiore risulti il maggior investitore e fruitore di mezzi e servizi informatici».

    Ma questo trend si può modificare?

    «Senz’altro: il dato su cui abbiamo ragionato non è assoluto, ma è suscettibile di una certa evoluzione, dovuta alla crescita delle piccole e medie imprese e delle startup. In questo caso, la divisione tradizionale Nord-Sud cede il passo a una situazione a macchia di leopardo: la prima regione per nuove startup è senz’altro la Lombardia. Ma le altre quattro sono meridionali: nell’ordine, Lazio, Campania e Calabria».

    Ma resta ancora molto da fare.

    «L’aspetto positivo è che molte imprese ed enti stanno facendo sforzi notevoli e c’è da dire che anche le Università, soprattutto al Sud, sono in prima linea nel processo di informatizzazione».

    Tuttavia, le pubbliche amministrazioni calabresi sono al palo per quel che riguarda l’informatizzazione dei servizi.

    «La bassa informatizzazione è la punta d’iceberg di un problema generale che coinvolge tutte le pa e che al Sud e in Calabria pesa di più: il ricambio generazionale. L’indice di ricambio, a causa dei tagli e del blocco del turnover è di 1. E ciò genera un forte gap culturale, che si esprime con due elementi: l’età media alta dei dipendenti pubblici e il livello non elevato dell’istruzione. La quantità dei dipendenti comunali muniti di laurea supera raramente il 30%. Nel Mezzogiorno questa situazione pesa di più, perché gli enti locali sono in crisi finanziaria cronica e quindi il ricambio risulta più rallentato che altrove».

    E come se ne esce?

    «Di sicuro con un soccorso delle amministrazioni centrali. Ma anche i Comuni devono fare la loro parte. Anzi, la maggior parte dello sforzo grava sugli enti territoriali, che devono elaborare piani di risanamento seri e rifare da capo le proprie piante organiche».

    Anche in agricoltura i dati del Rapporto 2021 sono particolari: da un lato, alcune regioni, Basilicata e Campania, sono in crescita occupazionale, la Calabria arretra in maniera forte.

    «L’agricoltura è un settore su cui il Pnrr investe molto, perché sta tornando al centro del sistema produttivo grazie all’innovazione tecnologica. Penso, in particolare, all’agroindustria e all’agrifood, che in alcune zone sono in netta crescita, ad esempio in Puglia. Anche in Calabria vi sono realtà positive che lasciano ben sperare».

    Lei, in particolare, insiste sulle potenzialità della bioeconomia.

    «È un’intuizione importante ma non nuova. Il primo che tentò di connettere l’agricoltura alla chimica fu Raul Gardini, che anticipò, appunto, i processi di bioeconomia circolare. Oggi la crescita delle tecnologie rende applicabili questi processi su scale enormi, con un evidente beneficio potenziale per il Sud».

    Come?

    «Attraverso la combinazione dell’uso di fonti energetiche rinnovabili, di cui il Sud è ricchissimo, procedure hi tech (si pensi all’uso dei sensori per l’irrigazione di precisione) e la produzione di materiali biodegradabili per uso industriale. In pratica, si metterebbero assieme gli elementi base dell’economia circolare, basata sul riutilizzo virtuoso più che sul semplice consumo, e della green economy. Questo mix consente di ottenere una forte innovazione e comporta un salto di qualità».

    In che modo può incidere il Pnrr in questa crescita?

    «Diciamo subito che al Sud spettano 82 miliardi, più il 50% degli investimenti su base regionale. Che non è davvero poco. Al riguardo, sorge spontaneo il paragone con la vecchia Cassa del Mezzogiorno, che stimolò importanti investimenti e contribuì a ridurre la forbice tra le due parti del Paese. Anche in questo caso, occorre un intervento straordinario che crei le precondizioni per questo salto, indispensabile non solo per la Calabria e per il Mezzogiorno, ma per tutto il sistema Paese».

    In pratica, è un modo di dire che se cresce il Sud cresce il Paese?

    «Sì. Il Centronord è saturo di investimenti ed è al massimo della produttività. Se il Sud riesce ad avere una crescita apprezzabile sui volani di cui abbiamo parlato, stimolerà a sua volta una crescita di tutto il sistema, con benefici enormi».

    Anche lo smart working può contribuire attraverso la delocalizzazione del lavoro?

    «Sì, ma non nella misura in cui si crede comunemente. Innanzitutto, ci sono attività che possono essere svolte solo in determinati posti. Poi, non tutte le attività intellettuali (quelle a cui si prestano meglio le modalità smart) possono funzionare in telelavoro».

    Resta il grosso nodo, che più dei divari economici, continua a dividere il Paese: le infrastrutture.

    «In questi casi occorre sviluppare non solo le infrastrutture longitudinali, ma è necessario incidere anche sulla latitudine. Soprattutto per quel che riguarda il Mezzogiorno, la direttrice est-ovest è altrettanto importante di quella nord-sud, perché può mettere in contatto, ad esempio, realtà produttive importanti e far comunicare tra loro i porti».

    Che comunicano piuttosto poco, come Gioia Tauro, ad esempio…

    «Nel Pnrr sono previsti 600 milioni per le Zes e per infrastrutturare le aree portuali. Al riguardo, è significativo l’investimento fatto in Irpinia, per collegare con efficacia l’area industriale agli sbocchi adriatici attraverso la Puglia. Anche la Calabria può entrare benissimo in questo sistema. I miracoli non esistono, ma si può fare tanto per crescere. Basta volerlo e saperlo fare».

  • C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    C’era una volta un ospedale a Cariati, Roger Waters e Ken Loach: «Riaprite»

    Smascherare chi ha devastato la sanità pubblica in Calabria, garantire a tutte e tutti il diritto alla salute. Era una delle ultime volontà di Gino Strada, medico senza confini e fondatore di Emergency. E vuole farlo anche C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia. Il lungometraggio propone, tra le tante, anche le voci del regista britannico Ken Loach e del cofondatore dei Pink Floyd, Roger Waters, che incorniciano gli abissi della sanità calabrese in una tragedia dalle dimensioni globali. La negazione delle più elementari prestazioni sanitarie nella nostra periferica terra è inserita nel più vasto fenomeno della privatizzazione predatoria, imposta dal neoliberismo in tutto il pianeta.

    Dopo il successo del film PIIGS, che nel 2017 ha ricostruito le nefaste conseguenze delle politiche economiche di austerità europea, a suo tempo realizzato insieme a Mirko Melchiorre e Adriano Cutraro con la voce narrante di Claudio Santamaria, il regista crotonese Federico Greco torna nella propria terra per evidenziare una delle sue piaghe peggiori. A I Calabresi, lui e Melchiorre narrano in anteprima contenuti e retroscena della loro inchiesta sullo sfacelo sanitario. Al centro del film, la vicenda emblematica dell’ospedale di Cariati, chiuso per effetto del commissariamento della sanità in Calabria. Da più di un anno è occupato dagli attivisti dell’associazione Le Lampare e da migliaia di altri cariatesi in segno di protesta.

    ospedale cariati
    Striscioni di protesta davanti all’ospedale di Cariati (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi
    Raccontare il mondo partendo dalla Calabria

    «Tutto nasce nel novembre dell’anno scorso – spiegano Greco e Melchiorre -, quando Gino Strada fu chiamato in Calabria per l’emergenza Covid. Abbiamo lavorato con lui un paio d’anni fa. Quello era solo l’inizio di un progetto più ambizioso: raccontare la devastazione della sanità pubblica in Italia e nel mondo, a partire dalla Calabria. Ottenuto l’OK da parte di Gino, Simonetta Gola e tutta Emergency ci hanno anche sostenuto finanziariamente, oltre a starci molto vicini. Dopo aver seguito Gino a Crotone, abbiamo proceduto con un approfondimento. Un giorno, tornando a Roma, ci siamo fermati a Cariati per conoscere gli occupanti dell’ospedale. All’inizio pensavano che noi fossimo della Digos ed erano molto straniti. Non gli piacevamo. Poi hanno capito che eravamo persone sincere e volevamo davvero fare ciò che dicevamo. La loro storia ci è piaciuta tantissimo. Siamo stati insieme in quest’ultimo anno almeno una volta al mese per tre o quattro giorni, quindi abbiamo seguito tutto l’arco narrativo».

     

    cover piigs

    Come PIIGS, anche questo documentario si basa su due binari paralleli. Uno è la microstoria de Le Lampare, l’altro focalizza il macrolivello, cioè l’analisi di quel che succede nel mondo nella privatizzazione della sanità. Intervengono nomi autorevoli, come l’epidemiologo inglese Michael Marmot (OMS) e il sociologo svizzero Jean Ziegler (ONU). «Abbiamo l’aspettativa di portare il lavoro nei festival internazionali nella prossima primavera. Poi – proseguono gli autori – sarà nei cinema, in Tv e sulle piattaforme. Dobbiamo fare i conti con la chiusura delle sale cinematografiche a causa della pandemia. Quest’anno abbiamo un calo del 45 % degli spettatori nelle sale. Un’ecatombe! Se continua così, nel 2022 non riaprirà il 30 % dei cinema».

    Epoche a confronto

    Il titolo C’era una volta (la sanità pubblica) in Italia propone un sottotitolo: Giakarta sta arrivando. Mirko Melchiorre e Federico Greco spiegano che «questa frase minacciosa apparve nel 1970 in Cile sui muri di Santiago e in alcune lettere recapitate ai militanti del Partito comunista cileno dopo l’elezione di Salvador Allende. Si riferiva al massacro di circa tre milioni di comunisti, avvenuto a Giakarta, in Indonesia, nel 1965. In precedenza, il presidente indonesiano Sukarno aveva espresso la volontà di proteggere il suo Paese dalla predazione delle multinazionali statunitensi e londinesi. Ma nel ’66 ci fu il golpe militare di Suharto, durante il quale furono uccise da 500mila a tre milioni di persone con modalità atroci. Quindi, quando fu eletto Allende, la CIA avvertì che in Cile sarebbe accaduto quanto era già avvenuto in Indonesia.

    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile
    La scritta apparsa sui muri di Santiago del Cile – I Calabresi

    Noi riteniamo che Giakarta metaforicamente stia arrivando in Italia,e in Europa grazie alla globalizzazione. L’operazione ha avuto un momento di svolta nel 2011, con l’avvento del governo di Mario Monti; oggi grazie a chi all’epoca a Monti conferì pieni poteri. È ovvio che non parliamo di golpe militare in Italia. Gli obiettivi però sono gli stessi: la predazione dei servizi e degli asset pubblici, la privatizzazione non solo della sanità, ma anche dell’acqua pubblica e di tanti altri settori nevralgici della nostra società».

    Dall’Inghilterra di Ken Loach alla Lombardia

    Nel documentario è Ken Loach a ricostruire l’analoga storia del sistema sanitario pubblico inglese, nato nel ’48 già con il verme delle privatizzazioni. «Successe la stessa cosa negli anni Ottanta in Italia – proseguono i due film maker -. Nel ’78 il primo ministro della sanità fu Renato Altissimo, un liberale, appartenente a uno dei partiti che il sistema sanitario pubblico non lo avrebbe voluto. Oggi, prendiamo per esempio la Lombardia: la narrazione dominante sostiene che questa regione sarebbe sempre stata un’eccellenza, ma noi abbiamo intervistato Maria Elisa Sartor, docente universitaria a Milano e autrice di un libro di 800 pagine, che racconta la privatizzazione della sanità lombarda. Guarda caso, la pandemia ha provocato più danni nella regione in cui il sistema pubblico non esisteva, perché quasi tutto in precedenza è stato privatizzato.

    Ken Loach
    Ken Loach chatta con gli autori durante la lavorazione del film – I Calabresi

    È una regione che ospita un sesto della popolazione italiana, ma ha fatto registrare un quinto dei contagiati e un quarto dei morti per Covid. Questo è dovuto al fatto che il sistema sanitario, dopo essere stato privatizzato dai Formigoni e dai Maroni, è indecente. I proprietari dei grandi gruppi che investono sull’oro delle Residenze Sanitarie Assistenziali, focolai del contagio, hanno comprato testate giornalistiche in perdita. Per esempio, De Benedetti, tessera “onoraria” numero 1 del PD, con la KOS Spa è un grandissimo proprietario di strutture sanitarie private. Viene spontaneo chiedersi a cosa gli siano serviti giornali in perdita come la Repubblica. E non solo a lui.

    Tanti sono gli editori di giornali che da anni producono articoli di aspra critica del sistema sanitario pubblico, a favore di quello privato. Ciò accade in Calabria, ma ovunque. Negli anni Ottanta in Italia avevamo più di 500mila posti letto, oggi meno di 200mila. L’emergenza pandemica non sarebbe stata così devastante se avessimo avuto il numero dei posti letto tagliati dalle riforme del ’92, dalla cosiddetta sinistra: prima Monti, poi Renzi. La responsabilità ricade soprattutto sulle scelte del PD negli ultimi 20 anni».

    Davide contro Golia

    Nelle loro inchieste, i due registi cercano di andare sempre alle origini dei problemi: la globalizzazione, il Washington consensus, il filantrocapitalismo. «Tocca lottare – concludono Mirko Melchiorre e Federico Greco – contro un mostro che è ciclopico, sta ad altezze siderali e non sappiamo nemmeno di preciso chi sia. Eppure, come dice Ken Loach, a volte colui che sembra Davide, può divenire più potente di Golia. Il vero gigante, se riesce a estendere le lotte e intrecciarle, è Le Lampare di Cariati, la sua occupazione dell’ospedale. Con Gino Strada realizzammo due interviste, una a Crotone e l’altra a Milano. Parlava con entusiasmo de Le Lampare. Aspettava solo un cenno per andare a gestire un ospedale in Calabria: quello di Cariati mi sembra il più adatto, disse».

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    Gino Strada, medico e fondatore di Emergency
    La Calabria come set

    Tra le immagini scolpite nella memoria visiva dei due film maker, la terapia subintensiva a Crotone: «Emergency la ha gestita per alcuni mesi. Abbiamo vissuto situazioni emozionanti nella tragicità come nella speranza. Una su tutte? La gioia di persone in età avanzata, quando gli infermieri annunciavano loro che il tampone era finalmente negativo e potevano tornare a casa».

    Riprese a Cariati
    Un momento delle riprese a Cariati – I Calabresi

    Federico Greco è così riuscito a fare i conti con la propria terra: «Ci torno ogni estate, da 50 anni. Non avevo mai visto, però, Crotone da un punto di vista professionale, non ci ero mai sbarcato con la telecamera in spalla. E questo mi ha fatto vedere Crotone e la Calabria come non le avevo mai osservate. Così ho sciolto le resistenze verso tutto ciò che non va. Adesso ci verrei a vivere e a morire. Con tutte le persone che abbiamo incontrato, gli attivisti de Le Lampare, Mimmo, Cataldo, Michele, Mimmo Massaro, Ninì Formaro, siamo diventati fratelli. È nata un’amicizia per tutta la vita. Come dice Michele Caligiuri, Cariati è il posto più bello del mondo».