Categoria: Interviste

  • Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

    Pnrr? Prima i diritti e poi i soldi

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Marco Esposito è giornalista professionista di lungo corso. Già redattore economico di Milano Finanza e in forza a La Voce di Indro Montanelli, passa nel 1995 a Repubblica. Quindi, nel 2000, approda a Il Mattino di Napoli, dove guida la redazione economica.

    Insignito nel 2008 col premio Sele d’Oro per gli articoli sul federalismo fiscale, Esposito diventa nel 2009 responsabile delle Politiche per il Mezzogiorno di Italia dei valori. Entra nella giunta De Magistris nel 2011 come assessore alle attività produttive e vi resta fino al 2013, quando viene eletto segretario di Unione Mediterranea.

    Eposito torna al giornalismo nel 2015 e prosegue le inchieste sul federalismo fiscale. Nel 2018 pubblica con Rubbettino Zero al Sud. Due anni dopo esce per Piemme (Mondadori) Fake Sud. con prefazione di Alessandro Barbero.

    mezzogiorno-pnrr-possibilita-rischi-secondo-marco-esposito
    La copertina di Fake Sud di Marco Esposito

    Il Piano nazionale ripresa e resilienza riprende due scenari: uno riguarda il “prima” dell’invasione russa, l’altro, ovviamente, il “dopo”. Cosa è cambiato? Quali saranno gli aspetti che dovranno essere manutenuti?

    «Il Pnrr è una risposta collettiva dei Paesi dell’Ue alla pandemia. Non era mai accaduto che si facesse debito comune. Forse un giorno scopriremo che questa reazione imprevista ha mandato all’aria i piani di chi, dall’esterno e dall’interno, puntava a destabilizzare l’Ue. Mi auguro che l’invasione russa e lo scontro sul gas portino una continuità strategica: solo le risposte collettive possono essere efficaci, appunto».

    Il Piano sembra rivolto essenzialmente al passato, ma pare privo di una visione strategica che proietti l’Italia, ed il Mezzogiorno in particolare, verso il futuro. Come si può correggere questa impostazione?

    «Un Paese sano ha grandi sogni e risorse per forza di cose limitate. I primi indicano la direzione di marcia e i secondi dettano in concreto i tempi di realizzazione. L’Italia però era, da tempo, un Paese malato, privo di sogni e quindi di grandi progetti. Così, lo ha denunciato il Parlamento europeo, nel Pnrr ci siamo impegnati soprattutto a “reimpacchettare” (non a caso, si è usato il termine “repackaging”) vecchi progetti, senza reale valore aggiunto. Correggere in corsa è difficile. Però credo che la crisi internazionale aperta dalla Russia spingerà l’Europa a rivedere il Pnrr, dilatandone i tempi rispetto al termine del 30 giugno 2026 e accelerando sull’innovazione energetica e digitale, con un occhio particolare alla sfida della comunicazione globale. Il Mezzogiorno italiano può essere protagonista in entrambi campi».

    Una metafora per il Sud: gli spagnoli sottomettono gli Incas
    Si parla del Mezzogiorno per conservarlo in naftalina. Il comportamento è simile a quello degli Spagnoli con gli Incas: chincaglieria in cambio le risorse del territorio. Stavolta lo specchietto per le allodole è nella riserva del 40% dei fondi. Come si può ribaltare questo apparecchio francamente irritante?

    «Prodi diceva che la regola europea del 3% per il deficit era stupida come lo sono tutte le regole rigide. Anche il 40% è stupido. Tuttavia credo che l’assenza di una soglia avrebbe portato risultati peggiori. Il punto è che a noi meridionali non dovrebbe importare di “quanti soldi” arrivano. Invece  dovremmo pretendere uguali diritti di cittadinanza: asili nido, tempo pieno a scuola, trasporti, sanità, assistenza sociale. Questi diritti non possono mutare in base alla residenza. Nel 2022 abbiamo assegnato un fabbisogno standard per i servizi di istruzione pubblica del 4,9% del totale nazionale al Comune di Milano e del 2,1% al Comune di Napoli, ma Napoli non è meno della metà di Milano e i suoi studenti non dovrebbero avere “per legge” meno diritto al tempo pieno o al trasporto scolastico. Per cambiare questo stato di cose dovremmo indignarci. Lo abbiamo fatto, nel 2018, contro gli zeri per gli asili nido e nel giro di un anno quegli zeri li hanno dovuti cancellare».

    mezzogiorno-pnrr-possibilita-rischi-secondo-marco-esposito
    Asili nido: uno dei problemi del Sud secondo Esposito
    La formula magica, è: i bandi “competitivi”. Ma come si possono mettere a gara tra le istituzioni i diritti dei cittadini? Dove si è smarrito il senso della nostra Costituzione?

    «La logica dei diritti messi a bando tra territori è agghiacciante. Chi vorrebbe vivere in un paese che mette a bando i Pronto soccorso e poi trovarsi in un posto che ne resta privo perché magari l’Azienda sanitaria locale non si è attivata? E allora come si può accettare di costruire un asilo nido o una palestra scolastica in base all’abilità del Comune di presentare la domanda? Non capire la differenza tra il bando (necessario) per stabilire quale impresa debba costruire l’asilo nido e il bando (insensato) per decidere in quale posto è utile aprire il servizio è segno di pochezza di tutta la classe dirigente. Al riguardo, non ho visto finora una reazione sufficiente da parte di sindacati, associazioni di genitori e quella che definiamo “società civile”».

    Nella esecuzione degli investimenti del Pnrr si ripresentano i nodi mai risolti di un federalismo sgangherato. Quanto sta pagando il Mezzogiorno questa struttura istituzionale neofeudale che proprio al Sud dà il peggio?

    «Il Sud paga da sempre l’incapacità di fare squadra. Il federalismo, per quanto sgangherato, può essere governato se gli enti locali con interessi simili – Regioni, Città metropolitane, Comuni – comprendono l’importanza di operare insieme. Lo fanno con efficacia – è noto – tre Regioni come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna che nella loro storia non hanno mai avuto un identico indirizzo politico. Le regioni del Mezzogiorno non lo hanno fatto mai, neppure quando tutti i presidenti appartenevano al medesimo partito. Michele Emiliano, presidente della Puglia, mi raccontò che in occasione di una Fiera del Levante aveva invitato tutti i colleghi meridionali per aprire un ragionamento comune. Ma dalla sede romana del Pd arrivarono telefonate ai singoli presidenti per invitarli a disertare».

    mezzogiorno-pnrr-possibilita-rischi-secondo-marco-esposito
    Michele Emiliano, il presidente della Puglia
    Non esiste un Mezzogiorno: ce ne sono tanti, con problemi convergenti ma con un tasso di complessità spesso differente. Come può il Pnrr affrontare questo mezzogiorno “plurale”?

    «Questa storia dei tanti Sud, devo dire, non mi ha mai convinto. E’ ovvio che il Meridione non è tutto uguale. Forse è tutta uguale la Lombardia? O la Baviera? Il punto è che in statistiche fondamentali come il tasso di occupazione nella fascia di età 20-64 anni su 286 regioni europee le ultime quattro sono Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. Ciò vuol dire che non in Italia ma in Europa c’è un gigantesco problema che riguarda un territorio che ha quasi il doppio degli abitanti della Svezia».

    Il Mezzogiorno vive un declino demografico accelerato, dovuto al calo della natalità, alla ripresa dell’emigrazione dei giovani e alla scarsa attrattività verso gli immigrati. Il Pnrr affronta questo problema che potrebbe cambiare radicalmente, tra qualche decennio, il panorama sociale dei territori meridionali?

    «Il Pnrr non solo non affronta il problema ma, addirittura, in alcuni bandi si dà per scontato che il declino demografico debba continuare. E si prende come riferimento non la popolazione del 2021 o, al limite, quella stimata al 2026 ma addirittura quella prevista dall’Istat per il 2035 nell’ipotesi che i flussi migratori restino stabili. Il che avverrebbe se il Pnrr non incidesse per nulla sulle opportunità a disposizione nei diversi territori. Ciò vuol dire che il Piano postula il suo fallimento. Detto questo, occorre capire che quella demografica è “la” sfida dell’intera Europa e la si vince se le nostre università diverranno attrattive per giovani di tutto il mondo. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, c’è stato il problema delle centinaia di studenti universitari indiani che dovevano lasciare le università di quel Paese. Il Mezzogiorno vincerà la sua sfida quando i giovani di qualsiasi paese del mondo penseranno che non c’è nulla di meglio per il proprio futuro di trascorrere gli anni di formazione in atenei prestigiosi e pronti ad accoglierli: Napoli, Bari, Cosenza, Palermo e così via».

    L’Università della Calabria
    Le organizzazioni criminali condizionano da sempre il funzionamento delle società meridionali. Quanto è elevato il rischio che questi soggetti si impadroniscano delle leve che governano gli investimenti del Pnrr per consolidare il loro potere?

    «L’interesse di organizzazioni criminali a intercettare flussi di risorse pubbliche non è un rischio ma una certezza. E non solo al Sud, come dimostrano le inchieste su appalti pilotati, dal Terzo Valico al Mose. L’attenzione quindi deve essere alta, senza però spingerci nell’errore di affondare Venezia perché qualcuno ha rubato sul Mose».

    Nella governance del Pnrr non pare emergere una piattaforma di comando e controllo in grado di contrastare l’inerzia di cui il Mezzogiorno è storicamente prigioniero. Potrebbe valere la pena di attivare la regola dei poteri sostitutivi quando emergono lentezze e ritardi delle istituzioni locali?

    «Se mettiamo al centro i cittadini, la risposta è ovvia. La Consulta è stata chiara nel chiedere allo Stato di definire i livelli essenziali delle prestazioni prima di attuare il Pnrr e la Costituzione lo è altrettanto nell’assegnare allo Stato poteri sostitutivi qualora i Lep non siano garantiti n tutto il territorio nazionale. Purtroppo la governance del Pnrr prevede poteri sostitutivi per l’ente locale che si assicura un progetto ma poi stenta a realizzarlo, non per l’ente locale che non si attiva affatto. Si può cambiare questa linea di marcia? Certo. Se ci convinciamo che è il tempo dell’ambizione, non della pigrizia».

  • Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Il j’accuse del vescovo: chiesa e poteri, massoni deviati, politici come caporali

    Francesco Savino è il vescovo di Cassano, territorio ricco, con una antica radice cattolica, ma anche tormentato dalla presenza di una potente criminalità organizzata. Ed è l’uomo mandato da Papa Francesco nella Chiesa calabrese.

    La voce pacata e lo sguardo mite non devono ingannare: Savino viene dalle lotte di Libera contro le mafie, è delegato presso la conferenza episcopale della Chiesa calabrese ai temi della Salute. E sa che qui è troppo spesso un diritto negato, assieme al lavoro e alla dignità.

    Non fa giri di parole. Sa pure che i responsabili sono da cercare nei legami tra certa politica e il malaffare, nella presenza di poteri trasversali che si sono impossessati di ampie porzioni della vita pubblica. E sa anche che lo sguardo severo va rivolto anche dentro la Chiesa, troppe volte in silenzio quando avrebbe dovuto gridare.

    E così, partendo dal messaggio del pontefice, Savino traccia la rotta di una chiesa militante, dentro la moltitudine delle persone, immersa tra la gente, alla ricerca di una via di liberazione che non lasci escluso nessuno. Quando Savino pronuncia la parola “liberazione”, una suggestione latinoamericana sembra insinuarsi nel salone della Diocesi. E invece siamo a Cassano, in Calabria. Ma forse non è così differente.
    CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER VEDERE L’INTERVISTA

    Michele Giacomantonio e Claudio Dionesalvi

  • Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

    Bassolino: «Il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte»

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Oggi è consigliere comunale di Napoli, ma Antonio Bassolino ne è stato sindaco per due mandati consecutivi. Deputato alla Camera per due legislature nel gruppo PCI-PDS, poi ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel primo governo D’Alema, presidente della Regione Campania per due mandati di fila. Già esponente del PCI, del PDS e dei DS, è stato tra i fondatori del Partito Democratico, che ha in seguito abbandonato nel 2017.

    Viviamo tempi drammatici. Da due mesi, nel cuore dell’Europa è tornata la guerra, con l’aggressione della Russia all’Ucraina. Cosa cambierà questo terribile conflitto nelle relazioni internazionali e nelle nostre vite?

    «L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è un fatto molto grave. Bisogna sempre usare un linguaggio di verità: siamo di fronte all’aggressione di un paese libero e sovrano da parte di un altro. Bisogna fare ogni sforzo perché si ponga fine al conflitto armato e si affermi la strada del negoziato e della pace. Più forte deve dunque essere il ruolo dell’Europa che proprio in questa tempesta ha di fronte a se stessa il compito di ripensare e rilanciare il suo ruolo e di cominciare finalmente a dare vita ad una propria e comune politica estera e di difesa».

    Palazzi devastati a Kharkiv

    Con la pandemia l’Europa ha impresso un passo di accelerazione, con la decisione di varare un programma di rilancio con risorse comuni, anche indebitandosi sul mercato finanziario. Stiamo cogliendo questa opportunità, come europei, come italiani e come meridionali?

    «Sulla pandemia l’Europa è riuscita ad andare oltre le politiche di austerità degli anni scorsi e a varare impegnativi programmi di investimenti sul terreno dello sviluppo e nel campo sociale. È un passo in avanti, ed ognuno deve fare la sua parte. Per un paese come il nostro, in particolare per il Mezzogiorno, è una grande opportunità. La sfida è tutta aperta ed è in corso. Dalla capacità delle istituzioni, delle forze politiche e sociali di saperne essere all’altezza dipende in gran parte il futuro del nostro paese».

    Ma il PNRR riesce a cogliere e ad esprimere tutte le esigenze di trasformazione che sono necessarie per il rilancio delle regioni meridionali?

    «È necessario considerare il PNRR assieme alle altre risorse europee e alle nostre scelte nazionali. Questo vale soprattutto per il nostro Sud. Saper utilizzare tutte le risorse disponibili è fondamentale anche per creare un ambiente favorevole all’attrazione e all’impegno di capitali imprenditoriali privati. Sono dunque indispensabili una piena collaborazione tra tutte le istituzioni nazionali, regionali e comunali e, aggiungo, un clima che consenta la nascita di un patto sociale e per lo sviluppo con le forze produttive e sindacali».

     

    Nella politica nazionale si sta manifestando quella maturità necessaria per comprendere che senza la ripresa del Mezzogiorno non potrà ripartire l’economia del nostro Paese?

    «Soltanto in parte, ed invece è proprio questa la questione fondamentale. È nel Mezzogiorno la principale chiave di volta per consentire a tutto il paese di fare il salto necessario valorizzando tante potenzialità ancora inespresse. È nel Nord che deve davvero e fino in fondo maturare questa convinzione: mai come ora è nei prossimi anni il destino del paese è legato da un filo unitario. Spetta poi a noi meridionali far crescere questa consapevolezza con l’esempio di buone pratiche istituzionali ed amministrative e stare attenti a non far diffondere illusioni sudiste perché noi abbiamo di sogno di un Nord forte così come il Nord ha bisogno di un Sud molto più forte di quello di oggi».

    sud-ripresa-pnrr-non-basta-anche-italia-deve-fare-sua-parte

    Sono passati tre quarti di secolo dalla nascita della Cassa per il Mezzogiorno. Quanto hanno pesato nei decenni recenti la fine dell’intervento straordinario nel Sud e l’arretramento della industria pubblica nel ripiegamento delle regioni meridionali?

    «La Cassa per il Mezzogiorno ha avuto fasi diverse. All’inizio – e per tutto un periodo – è stata una scelta significativa, il tentativo di portare anche in Italia il meglio delle teorie e delle esperienze anglosassoni in materia di paesi in via di sviluppo.
    Fu così che si realizzarono interventi di rilievo nelle campagne e in molte città meridionali. E fu così che via via si affermava anche una industria pubblica. Poi però da fattore positivo la Cassa è andata via via cambiando negativamente nella sua funzione fino alla sua crisi e alla sua scomparsa.
    Resta oggi il tema di un necessario coordinamento tra il livello nazionale delle politiche per il Mezzogiorno e le istituzioni meridionali per superare il doppio rischio del centralismo e del localismo».

    Nel Mezzogiorno, ma ormai nell’intero Paese e nel mondo, si sono radicate le forze della criminalità organizzata, che hanno impresso il marchio del proprio potere economico e sociale nei nostri territori. Come possiamo tornare a combattere con decisione le forze criminali che condizionano ed inquinano anche la politica nei territori?

    «La mafia, la ‘ndrangheta e la camorra sono il nostro principale nemico, un nemico interno, che vive in mezzo a noi. Queste potenze criminali vivono dentro l’economia e la società e cercano sempre di penetrare nella vita delle istituzioni e dello Stato. È dunque su tutti i terreni che dobbiamo condurre questa battaglia: su quello politico-istituzionale e su quello culturale e civile. Una grande prova viene oggi dal PNRR e dagli altri finanziamenti: impedire alla mafia e alla camorra di metterci sopra le mani è determinante per costruire un nuovo futuro per le nostre terre».

    Quanto pesa nel malfunzionamento delle istituzioni un federalismo sbilenco che ha indebolito il governo centrale senza rafforzare quelli territoriali? Come si esce da questa frammentazione? Quanto può danneggiare il Mezzogiorno questa architettura istituzionale?

    «Durante la pandemia si è prodotto uno sbilanciamento nei rapporti tra le istituzioni: il governo nazionale e i comuni hanno deciso di non utilizzare pienamente i loro poteri e le Regioni hanno visto accrescere le loro responsabilità e funzioni.
    Si è trattato in gran parte di scelte che si sono rese necessarie per contrastare la diffusione e la pericolosità del Covid. Ora è tempo di ripristinare giusti rapporti tra le principali istituzioni (governo, regioni, comuni) e di puntare soprattutto sulla doverosa sinergia tra i poteri della Repubblica».

  • «Ho lottato da sola, ora spero che anche altri denuncino»

    «Ho lottato da sola, ora spero che anche altri denuncino»

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Clarastella Vicari Aversa è l’architetta di Messina che con il suo esposto penale ha portato all’inchiesta ‘Magnifica’ che ha decapitato i vertici dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria, con l’interdizione del rettore Santo Marcello Zimbone e del prorettore Pasquale Catanoso.

    Classe ’71, abilitata dal ’96, è vicepresidente dell’Ordine degli Architetti di Messina e ha maturato una vasta esperienza anche all’estero. Intervistata da I Calabresi ci ha raccontato dell’esperienza vissuta in questi anni tra ricorsi ed esposti e della solitudine che spesso si prova combattendo battaglie di legalità. Oggi, però, sta vivendo un momento di rivincita e riscatto, con molte persone che la contattano e le esprimono solidarietà e stima.

    Lei denunciando ha scoperchiato il vaso di Pandora all’Università di Reggio Calabria, oggi crede ancora nel sistema universitario italiano?

    «Ci credo nel senso che ci devo credere. Cosa ci resta se perdiamo la speranza in una istituzione così importante come l’Università. È quella che forma il futuro, quella che forma i giovani di domani. Come possiamo rassegnarci a che non funzioni? È proprio questo che mi conduce a portare avanti questa battaglia. Non è una lotta per un posto che posso pensare sia mio, né una questione di principio e basta, è una lotta per la legalità. È una lotta per sperare che prima o poi qualcosa che nel contesto universitario – nella parte che non funziona, perché non posso pensare che sia tutto così – cambi».

    Il suo, diciamolo, è stato un atto di coraggio, quanto è stato difficile metterci la faccia? Molti suoi colleghi non hanno firmato l’esposto, lo ha fatto solo lei…

    «È stato difficilissimo. È difficile anche parlarne, infatti non l’ho fatto per tanti anni. Questa è una battaglia che conduco in solitudine sostanzialmente da 14 anni. Per diversi anni sono andata avanti solo con ricorsi amministrativi, tutti accolti al Tar e al Consiglio di Stato, una quarantina. Solo di recente anche a seguito di vicende analoghe conosciute tramite l’associazione Trasparenza e merito, e anche su consiglio dei legali che hanno ipotizzato potessero sussistere diversi illeciti penali, ho presentato l’esposto in Procura. Ho avuto la sensazione che la via amministrativa non fosse sufficiente, che arrivava fino a un certo punto. L’Università disattendeva tutto ciò che disponeva la giurisprudenza amministrativa».

    Tra l’altro ha raccontato che negli accessi agli atti che faceva in Università si trovavano degli errori macroscopici nelle valutazioni nei concorsi…

    «Se tornassimo indietro e avvolgessimo il nastro, io non avrei mai pensato di fare un ricorso. Ma quando ho fatto l’accesso agli atti per curiosità e ho visto delle cose inverosimili o stavo zitta, o mi giravo dall’altra parte e me ne andavo o affrontavo la cosa. Altri colleghi non hanno fatto ricorso perché magari la volta dopo in altre sedi avrebbero potuto rifare il concorso secondo loro. Altri, invece, non se la sono sentita. Una collega in particolare, pur non facendo ricorso, mi è stata vicina. Almeno mi attestava solidarietà, ma, in generale, ho condotto questa vicenda in totale solitudine. Ora, invece, sto ricevendo tantissimi messaggi dai miei ex studenti. Io per 10 anni ho insegnato alla Mediterranea, ero docente a contratto, ho lavorato, ero correlatore di tesi di laurea. Avevo un rapporto meraviglioso con gli studenti e ritrovare questi attestati di stima oggi è emozionante. È avvilente, invece, quello che altri continuano a fare in una istituzione, non è un bell’esempio».

    Dalle sue parole mi sembra di capire che lei volesse bene all’Università Mediterranea…

    «Io volevo tanto bene a quell’Università. Per me è stata una delusione. Era il posto dove mi ero formata. Io a 17 anni mi sono iscritta a questa Università piena di speranze, poi ho fatto molte cose fuori. Ma mi piaceva lavorare in quell’istituzione, era un arricchimento e una forma di crescita, mi piaceva la ricerca».

    Conosceva, quindi, coloro che ha denunciato…

    «Non avrei mai pensato di fare l’esposto penale. C’erano cose un po’ pesanti fin dall’inizio, molto pesanti, ma sono cose prescritte. Non me la sono sentita perché queste persone le avevo conosciute, avevamo fatto workshop insieme, era capitato di organizzare cose insieme. Di alcuni conoscevo il marito, la moglie. Una come si sente nel fare un esposto penale sapendo cosa possono rischiare? La prima volta ho pensato ad un errore. Qualcuno in Università mi ha detto che erano stati pasticcioni nella commissione d’esame, ho detto proviamo a vedere se fanno un concorso con meno pasticci. Ma così non è stato. Quando ho fatto l’esposto penale, era una cosa per me troppo intima per parlarne, lo sapevo io, l’avvocato, mio marito e il procuratore».

    L’ex Rettore Catanoso si rivolge a lei definendola “quella grandissima puttana”, cosa ha pensato nel leggere queste parole?

    concorsi-pilotati-a-reggio-gli-intrecci-con-catanzaro-e-il-silenzio-del-rettore
    Pasquale Catanoso

    «È una cosa bruttissima per me, ma anche per le donne. È un insulto sessista, ma non fa una bella figura chi lo dice. La cosa più raccapricciante non è quello che uno legge. Rispetto a quello che ho visto io in 14 anni, queste sono solo coltellate che si aggiungono su ferite aperte».

    C’è speranza per l’Università Mediterranea di scrostarsi da questo sistema?

    «Io me lo auguro. Sono una gocciolina, però la goccia scava la roccia come si sa. Però da sola no, bisogna diventare un fiume in piena. Dobbiamo essere in tanti. Spero che tanti altri che sono vittime denuncino. Invito a contattare l’associazione Trasparenza e Merito. Porterà a non sentirsi soli come mi sono sentita io. La speranza per il contesto universitario c’è, ma è necessario che le rivoluzioni partano da dentro. Qualche attestato di stima l’ho avuto da persone dell’Università Mediterranea, ma vorrei che fossero attestati pubblici e non privati. Ripeto, le distanze vanno prese da chi è dentro l’istituzione».

    universita-reggio-calabria-concorsi-truccati-decapitata-la-mediterranea
    La facoltà di Architettura nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria

    C’è molta paura…

    «Deve essere difficile per chi è dentro vedere queste cose e girarsi dall’altra parte. La paura è tanta, ma anche la paura mia era tanta quando ho fatto il ricorso. La paura c’è sempre quando si fa una battaglia, ma bisogna trovare il coraggio. Molti mi dicono “tu hai una forza che io non ho”, ma io la forza non ce l’ho, io la forza me la do. Affrontiamo le nostre paure, le cose possono cambiare. Altrimenti non ci chiediamo perché i nostri figli vanno all’estero… Con i soldi pubblici si fanno concorsi pubblici secondo le regole della Costituzione, altrimenti cambino la Costituzione se non si vogliono fare concorsi regolari!»

  • Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

    Maneskin contro Putin? L’Italia del Coachella parla calabrese

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    L’edizione di quest’anno passerà alla storia per quel «Free Ukraine, fuck Putin!» urlato dai Maneskin sul palco, ma c’è molto altro. Perché il Coachella Valley Music and Arts Festival è il festival musicale più famoso e instagrammato al mondo. Un raduno di musicisti che si avvicendano sui palchi giorno e notte, ma anche di celebrities e influencer che sfilano sui campi dell’Empire Polo Club di Indio, California. La location e l’atmosfera vagamente anni ’70 sono il vero spettacolo, quello che si svolge a favore di telefonini e si riversa sui social.

    https://www.youtube.com/watch?v=hewbCtVY2LU

    Un tocco di Calabria al Coachella

    Dietro il successo di questa edizione c’è anche l’estro di una giovane professionista calabrese che, insieme allo staff dello studio newyorkese con cui collabora, ha progettato un’installazione coloratissima che fa da cornice alle esibizioni sui palchi del festival e, naturalmente, a migliaia di foto postate con l’hashtag #Coachella.

    Una influencer in posa di fronte a Playground, il progetto a cui ha collaborato Anna Laura Pinto

    Lei è Anna Laura Pinto, cosentina, laurea in architettura a Roma e una valigia sempre pronta perché gli Stati Uniti sono ormai la sua seconda casa. Il Playground, questo è il nome dell’installazione che porta anche la sua firma, «è un pezzo di paesaggio urbano vagamente onirico – spiega – nel bel mezzo del deserto: quattro torri colorate che si raccolgono attorno a una piazza pensata come luogo di aggregazione, gioco, relax e che funziona come tale: durante la giornata, in particolare durante le ore più calde, è frequentatissima».

    Una calabrese a New York

    È appena rientrata dalla California, alle prese con i postumi del fuso orario e la valigia ancora da disfare. «Sono rimasta piacevolmente colpita dall’atmosfera che ho trovato – dice – non c’ero mai stata prima d’ora e ne avevo sempre avuto un’immagine diversa, filtrata dalle foto “glitterate” degli influencer. C’è anche quello ovviamente, ma non è la caratteristica predominante: ciò che è straordinario – dice – è lo spirito positivo che anima la collettività del festival, decine di concerti al giorno e migliaia di persone spinte dalla voglia di condividere la propria esperienza con altri. Da un lato le performance dei musicisti, dall’altra quelle degli spettatori. Un’esperienza del genere non può che fare bene allo spirito, direi che ne è valsa la pena».

    Anna Laura Pinto al Coachella Festival

    Quella del Coachella Festival è un’avventura che per Anna Laura è iniziata nel 2019. Si trovava a New York in quanto collaboratrice oltreoceano di Architensions, un prestigioso studio che ha sede nella Grande Mela e a Roma. «Ero venuta in estate a visitare i cantieri di progetti che avevo seguito a distanza. Poco dopo il mio arrivo – racconta – lo studio è stato invitato dalla direzione artistica del Coachella a partecipare a una gara per il progetto di una delle installazioni artistiche per l’edizione 2020, in competizione con altri artisti e designer».

    Un invito raccolto al volo: «In quel periodo vivevo l’ufficio dall’interno e sono stata subito coinvolta fin dalle primissime fasi nella progettazione dell’installazione. Ricordo perfettamente le lunghe discussioni in ufficio con Alessandro, Nick e gli altri membri del gruppo: quando inizi a lavorare ad un progetto e non sai ancora come si concretizzerà, gli scambi di opinioni sono fondamentali per stabilire dei criteri e capire quale sarà la strada che porterà alla definizione dell’oggetto. Il team è una forza».

    L’idea ha preso rapidamente forma: così è nata Playground. «Personalmente ho sempre avuto fiducia nel design di quest’opera – sorride Anna Laura – ho sempre pensato che aveva buone probabilità di essere selezionata. Ho ricevuto la notizia che il nostro progetto era stato scelto dopo il mio rientro in Italia. Fino a febbraio del 2020 pensavo che sarei tornata negli Usa per il Coachella 2020, poi è arrivata la pandemia ed eccoci nel 2022».

    Dall’Italia agli USA

    Anna Laura Pinto ha già all’attivo diversi successi nella sua carriera, il progetto di una casa a cui ha preso parte è stato pubblicato su Domus, la prestigiosa rivista di architettura e design.
    «Mi sono laureata in architettura ormai tredici anni fa a Roma – racconta -, dove ho iniziato la mia gavetta lavorando in diversi studi. Erano i primi anni ‘10 e molti miei coetanei in quegli anni erano già partiti per fare esperienze altrove. In Italia già allora un giovane architetto aveva poche opportunità di crescita professionale. In Cina c’era moltissima richiesta di architetti occidentali, in Europa le mete più gettonate erano Londra e Berlino. Io ero incuriosita dagli Usa, in particolare da New York che è la metropoli per eccellenza: è normale che un architetto ne sia affascinato.

    E così arriva dall’altro capo dell’Atlantico. «Sono partita per la prima volta nell’estate del 2013, un viaggio studio per perfezionare il mio inglese. Al mio ritorno in Italia ho conosciuto Alessandro Orsini, architetto italiano ed ex project designer dello studio Steven Holl che aveva da poco fondato Architensions con Nick Roseboro. Da lì a breve è nato il nostro rapporto di collaborazione. Al tempo l’ufficio era ancora molto giovane, ma mi sono trovata subito in linea con la loro maniera di fare e pensare l’architettura. In poco meno di dieci anni sono cresciuti molto, ed io con loro».

    Di nuovo in Calabria

    Ma nel presente e nel futuro di Anna Laura c’è sempre anche la Calabria. «Dopo aver lavorato ad una serie di progetti negli Stati Uniti, attualmente sono la referente sul versante europeo. Abbiamo da poco ultimato un progetto residenziale a Londra e stiamo studiando un piano per la riqualificazione e lo sviluppo di un paesino proprio qui in Calabria, Architensions è stato ufficialmente invitato dal sindaco. Un’ottima occasione di studio e approfondimento, sono contenta di poter portare avanti questa ricerca in un team internazionale: lo scambio di visioni dovute a esperienze in contesti molto diversi penso possa aggiungere valore al risultato finale».

    Un legame forte quello con la sua terra, in particolare con Cosenza, dove è tornata a vivere dopo il primo periodo negli Stati Uniti. «Ho fatto base qui per tutto questo tempo, trascorrendo lunghi periodi a New York e a Roma, sempre con un occhio verso l’esterno. Però non l’ho mai abbandonata. È un rapporto basato fondamentalmente su un legame d’affetto, ma penso che Cosenza sia una città che ha molto da raccontare, piena di potenzialità inespresse che mi auguro possano essere valorizzate. Ancora è presto per entrare nello specifico – conclude – ma devo dire che alcune collaborazioni sono nate proprio in Calabria, dove ci sono degli ottimi professionisti e dove esiste una vivacità intellettuale e culturale che merita di emergere».

  • Marrazzo: «Gay in Consiglio e Giunta? Ci sono, spero facciano coming out»

    Marrazzo: «Gay in Consiglio e Giunta? Ci sono, spero facciano coming out»

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Fabrizio Marrazzo, ingegnere, già presidente di Arcigay Roma, portavoce del Gay Center, storico attivista LGBT* oggi è anche leader del Partito Gay. La formazione politica, nata nel 2020, ha già ottenuto le prime soddisfazioni. Nell’ultima tornata amministrativa ha eletto numerosi consiglieri comunali in giro per l’Italia e ora si appresta a concorrere anche in Calabria.

    Marrazzo, come mai la nascita del Partito Gay?

    «Il “Partito Gay per i Diritti LGBT* solidale, ambientalista e liberale” nasce per dare all’Italia un partito che si occupi seriamente dei diritti delle persone LGBT. Purtroppo, come abbiamo visto anche con la bocciatura della legge contro l’omofobia, partiti che durante la campagna elettorale hanno fatto grossi spot per dire che si stracciavano le vesti per i diritti LGBT poi, in concreto, non lo fanno. Per questo c’è bisogno di un partito. Anche nella legge contro l’omofobia che è stata affossata c’erano cose che non andavano bene. L’articolo 4, ad esempio, la svuotava perché diceva che non venivano considerati autori di discriminazioni coloro che facevano affermazioni in base al proprio riferimento sociale o culturale. Si poteva, secondo quella legge, dire che i gay sono malati, senza commettere alcun reato».

    Lei parla della legge Zan. Mi pare di capire che non è molto contento dell’operato del Partito Democratico…

    «L’operato non tanto del Pd, ma di Alessandro Zan e di Monica Cirinnà. Hanno voluto rappresentare loro le istanze della comunità LGBT*, dimostrandosi purtroppo impreparati e incapaci. La stessa legge vietava la formazione contro le discriminazioni nelle scuole, cosa che noi oggi riusciamo a fare e se fosse stata approvata la legge non sarebbe stata più possibile. Se io volessi fare un corso contro la violenza sulle donne o su tematiche simili, il problema non si porrebbe, ma, con quella legge, si sarebbe posto in caso di corsi contro la violenza nei confronti delle persone LGBT*.

    zan-gay
    Alessandro Zan

    Siamo riusciti, però, a fare approvare il fondo contro l’omofobia grazie alla senatrice Alessandra Maiorino del M5S, che ha fatto una lotta politica all’inizio abbastanza solitaria in cui esponenti di partiti che si dicevano favorevoli alle istanze LGBT non l’hanno aiutata».

    Oggi, però, c’è una ministra per le Pari opportunità: Elena Bonetti…

    «La ministra c’è, ma ha un ruolo esecutivo e non legislativo. Non esiste una legge che tuteli le persone LGBT ad eccezione delle unioni civili. Noi abbiamo promosso un referendum per trasformare le unioni civili in matrimonio egualitario. La ministra per le Pari opportunità, se non ha l’opportunità di legiferare con una maggioranza in Parlamento per approvare leggi di contrasto alle discriminazioni, può soltanto mettere in campo le leggi che già esistono. Cioè zero. L’eccezione del citato fondo contro l’omofobia, che è un fondo limitato, non permette di fare prevenzione.

    bonetti-gay
    Elena Bonetti, titolare del dicastero per le Pari opportunità

    È un punto di inizio, ma siamo allo zero assoluto. Se domani la Bonetti andasse in Parlamento a chiedere una legge sui pari diritti alle coppie omosessuali o per fare formazione nelle scuole, non avrebbe purtroppo la maggioranza. Si è visto con la legge contro l’omofobia, che era un compromesso, fatto pure male».

    Il Partito Gay sarà presente anche alle prossime elezioni amministrative?

    «Saremo presenti in varie città grandi e piccole. Stiamo lavorando in vari territori. In alcune Regioni abbiamo già rapporti consolidati. Abbiamo decine di consiglieri, anche un assessore, in tutta Italia. Cercheremo di esserci anche in Calabria, territorio dove ci sono vari amministratori locali LGBT che per la loro carriera preferiscono non dichiararsi».

    Lo scorso autunno avevate espresso la volontà di presentarvi anche alle elezioni regionali in Calabria, ma poi non ci siete riusciti. Come mai?

    «Ci sono stati dei problemi organizzativi e delle difficoltà sul territorio. Molte persone avevano problemi a presentarsi con una lista di questo tipo, credendo che ciò comportasse un coming out familiare e lavorativo. Purtroppo è stato un elemento che in Calabria ci ha penalizzato. Siamo certi che una volta presentate le liste, come già accaduto altrove al Sud, troverà alle urne una buona parte di consenso».

    Secondo lei in Giunta e in Consiglio regionale in Calabria ci sono omosessuali?

    «Sì, ci sono sicuramente persone LGBT sia in Giunta che in Consiglio. Però, ad oggi, non sono dichiarati. Noi ci auguriamo che facciano coming out e che sia positivo per dare l’esempio e per lavorare sui diritti. Il problema è che quando ci sono nelle amministrazioni persone non dichiarate poi c’è un problema nelle attuazioni delle azioni antidiscriminatorie. E, quindi, di questi temi non se ne occupano».

    giunta-occhiuto
    Roberto Occhiuto con sei dei suoi sette assessori

    In Calabria nel gennaio 2019 è stata approvata all’unanimità in commissione regionale Cultura una proposta di legge contro l’omofobia, che non è stata mai portata in aula dalla maggioranza targata Pd che, di fatto, l’ha affossata. Oggi col centrodestra al potere quali speranze ci sono di vedere riesumato quel testo?

    «Sicuramente la maggioranza di centrodestra a livello nazionale ha sempre ribadito con la Lega e con Fdi l’opposizione ai diritti delle persone LGBT*. Matteo Salvini da ministro emanò il cosiddetto decreto “Padre e madre” che vieta alle coppie omosessuali con figli adottati e riconosciuti dallo Stato di poterli riconoscere anche sulla carta di identità del minore. Ha creato dei danni al minore nella vita quotidiana, ad esempio se deve viaggiare all’estero o andare in ospedale oppure se un genitore deve andarlo a prendere a scuola.

    A Pescara a seguito del Pride un ragazzo fu aggredito e gli venne rotta la mascella con una violenza inaudita. Il sindaco di Fratelli D’Italia e Giorgia Meloni diedero piena solidarietà al ragazzo, poi quando in aula in Consiglio comunale venne portata una mozione per aiutare il ragazzo a pagare le spese legali contro chi lo aveva aggredito, la maggioranza di centrodestra votò contro. Con questa maggioranza di centrodestra non si va da nessuna parte».

    La commissaria regionale di Fdi in Calabria, l’onorevole Wanda Ferro, è stata una delle sostenitrici della nascita di Arcigay a Catanzaro. Magari c’è una maggiore sensibilità su questi temi…

    «Una rondine non fa primavera. Sono persone che, anche se hanno una certa influenza nel partito, poi non riescono a concretizzare. Penso alla ministra Mara Carfagna che, nonostante si sia schierata spesso a favore delle istanze LGBT, poi in aula non è riuscita ad avere il voto favorevole della sua componente sui provvedimenti. È certamente importante avere queste presenze, ma le azioni spot non bastano.

    wanda ferro
    Wanda Ferro

    Occorre far capire che non sono tematiche di una sola parte, sono tematiche di civiltà che tutti devono portare avanti. In Inghilterra il matrimonio egualitario è stato sostenuto dal leader di centrodestra David Cameron. Anche la Cdu di Angela Merkel votò il matrimonio egualitario in Germania. Questo lo dico al centrodestra in Calabria per far capire che questi temi devono essere trasversali. Tra i loro eletti, i loro candidati e i loro elettori ci sono persone LGBT e per questo invito a favorire la tutela e la garanzia dei diritti di tutti».

  • Delrio: «La durata della guerra dipende da noi. E basta con l’ideologia del mercato»

    Delrio: «La durata della guerra dipende da noi. E basta con l’ideologia del mercato»

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Graziano Delrio rappresenta bene quel misto di concretezza e di valori che esprime la terra e la cultura emiliana. Nato a Reggio Emilia sessantadue anni fa, è deputato per il Pd dal 2018. Dei dem è stato anche capogruppo alla Camera dei deputati per i primi tre anni della legislatura corrente.
    Nella sua esperienza politica, il territorio ha sempre rappresentato una dimensione di primario rilievo, che ha però sempre unito ad una visione di carattere generale.

    È stato sindaco di Reggio Emilia dal 2004 al 2013, ricoprendo anche l’incarico di presidente dell’ANCI da ottobre 2011 ad aprile 2013. Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie nel governo Letta, ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti dal 2015 al 2018, prima nel governo Renzi e poi riconfermato in carica nel governo Gentiloni. Nel governo Renzi ha rivestito anche la carica di Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, prima della sua nomina a ministro.
    Lo incontriamo a Napoli, nel corso della presentazione del libro L’illusione liberista (Laterza) di Andrea Boitani.

    Quali riflessioni induce il volume di Andrea Boitani?

    «L’ideologia del mercato offusca i dati di realtà. Nuotiamo, ormai da decenni, inconsapevolmente in questo schema di pensiero, e non ci accorgiamo nemmeno più che si tratta di una costruzione ideologica. Abbiamo perduto la capacità di guardare criticamente ai guasti che questo approccio, non solo economico, ha causato, e sta causando, alla vita delle nostre comunità.

    Viviamo tempi di guerra: quali implicazioni e quali lezioni possiamo trarre dalle terribile tragedia ucraina?

    «Dobbiamo innanzitutto tornare a prendere su noi stessi il carico delle responsabilità. La durata della guerra dipende da noi, da nostri comportamenti, dalle idee che siamo in grado di mettere in campo, dal rifiuto della rassegnazione. Sentiamo dire in questi giorni che sarà un conflitto destinato a durare anni. Non possiamo accettarlo passivamente. Esistono forze certamente interessate alla lunga durata della guerra: i mercanti di armi, i nemici delle democrazie, i suscitatori di odio».

    Come possiamo riprendere il mano il nostro destino? Da quali temi occorre ripartire per restituire protagonismo alla politica?

    esercito-ue«L’aumento delle spese militari di ogni Paese è un obiettivo totalmente improduttivo, non risponde affatto alle logiche di difesa dei territori o di sostegno ai resistenti ucraini. Non ho votato per il 2% del Pil destinato alle spese militari. L’ho fatto perché responsabilità della politica è costruire coerenza tra strumenti e fini. Oggi il fine primario per noi è costruire gli Stati Uniti d’Europa, e quindi mettere in campo anche un esercito comunitario».

    Cosa cambia se si adotta questo angolo visuale sulle priorità?

    «Se si persegue questo obiettivo, lo strumento non può essere un aumento generalizzato delle spese militari, perché ci sarà da effettuare un enorme lavoro di razionalizzazione della spesa, che consentirà di disporre di un esercito maggiormente efficiente e tecnologico, con un minor dispendio di risorse economiche. Lo strumento militare deve essere orientato rispetto ai fini. Se non abbiamo chiarezza sui fini, tutto diventa confuso».

    Possiamo cercare di diradare almeno alcune delle ombre?

    «Lo scenario geopolitico è completamente cambiato, e non ce ne siamo accorti. Stiamo ancora subendo passivamente decisioni di altri, piuttosto che diventare padroni del nostro destino. Da diversi anni gli Stati Uniti stanno disimpegnandosi dallo scacchiere europeo, e chiedono continuamente un consistente aumento di spese militari da parte della Unione Europea».

    Quali sono le implicazioni di questo orientamento?

    «Dietro questa decisione c’è la volontà americana di smobilitare in questo quadrante per dedicare tutte le energie al contesto del Pacifico, al confronto con la Cina che è considerata la potenza emergente più pericolosa per l’egemonia statunitense. È questa la ragione che ha indotto gli USA a considerare la Russia come una potenza di media grandezza, suscitando un ritorno di fiamma del nazionalismo russo».

    Joe Biden e Xi Jinping

    Dove stanno le matrici ideologiche che inducono la Russia alla invasione della Ucraina?

    «Dietro a Putin c’è una ideologia non solo economica, ma anche religiosa. Trent’anni fa, un sacerdote ortodosso ucraino mi spiegò che la Russia ha sempre assorbito i mali del mondo: prima con Napoleone, poi con Hitler ed infine con l’ideologia tecno-economica. Dobbiamo stare attenti: la Russia è parte dell’Europa come l’Ucraina, l’immagine riflessa del nostro specchio. La sua anima resta collegata agli sviluppi della società occidentale».

    C’entra qualcosa il neoliberismo in tutto quello che sta accadendo?

    «Il mercato, da mezzo, è diventato fine. I prezzi non sostituiscono i valori morali. Se tutto diventa prezzo, o prestazione, i valori crollano, e si afferma il relativismo basato sul perseguimento della utilità privata. Nella storia delle idee il primato della sfera collettiva era chiaramente definito.
    Per Aristotele, l’obiettivo era la ricerca della felicità per la città, oggi la felicità è diventata la ricerca della massima utilità individuale. Abbiamo messo al centro della nostra vita sociale l’homo oeconomicus, non più l’homo sapiens. La differenza è abissale: mentre per il primo funziona solo il meccanismo della competizione sfrenata guidata dall’interesse proprio, per il secondo la comunità funziona con il meccanismo della cooperazione».

    Come possiamo riequilibrare le distorsioni che l’ideologia neoliberista ha determinato nel tessuto delle nostre società?

    «Il mercato ed il capitalismo non vivono senza regole e senza istituzioni. Ce ne siamo accorti che le crisi finanziarie ed economiche che si sono susseguite dal 2007 in avanti, sino ad arrivare poi alla pandemia ed alla guerra. Ora siamo ad un bivio nel quale la politica deve riprendere la sua responsabilità. Sono i valori civili, morali e costituzionali quelli che determinano la qualità della vita collettiva».

    Come la politica può lanciare la sfida al mercato senza regole che distrugge valore e valori?

    «Dobbiamo tornare a creare legami di comunità e di fiducia, che in realtà servono al mercato ed anche alla società. Gli studi antropologici, da Lévi-Strauss a Marcel Mauss, dimostrano che i gesti di gratuità hanno formato la nostra comunità. Il mercato deve tornare entro il perimetro in cui funziona, accettando le regole di funzionamento che le istituzioni devono sempre presidiare con grande attenzione».

    delrio-la-durata-della-guerra-dipende-da-noi-ora-serve-responsabilita
    Claude Lévi-Strauss

    Quale ruolo deve svolgere lo Stato in questo ridisegno della responsabilità nella politica?

    «Lo Stato deve essere non solo l’arbitro del mercato, per evitare che gli individualismi esasperati costruiscano diseguaglianze intollerabili e monopoli prepotenti. Le istituzioni debbono porre anche le premesse dello sviluppo attraverso la programmazione e la definizione delle rotte lungo le quali debbono dispiegarsi gli strumenti della cooperazione e della fiducia».

    Quanto ha giocato, nella storia recente del nostro Paese, un regionalismo sghembo, che ha reclamato poteri senza assumersi responsabilità, oltretutto dispiegando sui territori una offerta di servizi sociali ad alto tasso di variabilità?

    «Il valore dell’autonomia non è in discussione. Autonomia però significa responsabilità maggiori e vicinanza in un quadro di diritti esigibili comuni a tutti i territori. Non anarchia e inefficienza».

    Perché non ha funzionato l’istituzione della città metropolitana, che pure coglieva l’esigenza di offrire maggiori strumenti di governance alle aree vaste che si erano sviluppate attorno alle principali città del nostro Paese? Alla legge Delrio serviva anche un sistema di elezione diretta del sindaco metropolitano, oppure serviva anche altro ?

    «Dopo 40 anni di discussione la legge istitutiva delle città metropolitane è arrivata. Prevedeva già la possibilità delle elezione diretta. Perché le leggi abbiano effetto bisogna crederci, e continuare a lavorarci in spirito cooperativo e non competitivo fra i comuni».

    delrio-la-durata-della-guerra-dipende-da-noi-ora-serve-responsabilita
    Le città metropolitane d’Italia

    Quando il Mezzogiorno è cresciuto più del resto del Paese, c’è stato – tra metà degli anni Cinquanta ed inizio degli anni Settanta del secolo passato – il miracolo economico italiano. Poi, con la riapertura della forbice delle diseguaglianze territoriali, il calabrone italiano ha smesso di volare, è il declino è diventata la nuova parabola italiana. Come possiamo far tornare il Mezzogiorno un protagonista della ripresa civile ed economica del nostro Paese?

    «Sono convinto che il Mezzogiorno sia il vero motore per uno sviluppo duraturo del nostro Paese. La scommessa si vince nel rafforzamento delle istituzioni pubbliche a partire da scuola ed università. Un sistema sanitario efficace e vicino, è prerequisito allo sviluppo dell’impresa sostenibile che anche al Sud può giocare con i nuovi fondi del Next Generation un ruolo propulsivo al benessere dei territori.
    Va fermato subito l’esodo del capitale umano. I tanti giovani che emigrano devono poter trovare un sistema, anche pubblico, forte, che offra loro opportunità per una vita dignitosa».

  • Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

    Logge, ‘ndrine e complotti: la versione di John Dickie

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Misteri, ma anche sospetti: sono parole che, se si parla di massoneria, quasi sempre finiscono nella stessa frase. Ma è davvero così? Lui si schermisce. Non si considera affatto un “tuttologo” della massoneria. Ma la sua è un’opera monumentale: I Liberi Muratori – Storia Mondiale della Massoneria, edito da Laterza. John Dickie, professore all’University College di Londra, è un esperto di fama internazionale su molti temi della storia italiana. Si è dedicato molto alle dinamiche di natura mafiosa e ‘ndranghetista. Lo ha fatto con testi di rango scientifico. Ma anche con lavori televisivi, come alcuni documentari di successo trasmessi da History Channel.

    Con il suo lavoro, John Dickie mette al centro del ragionamento l’entità che più di tutte al mondo ha attirato le più arzigogolate teorie: la massoneria e i massoni. Membri di una confraternita dedita alla filantropia e all’etica o una società segreta complice dei peggiori misfatti? Dalle Rivoluzioni alle stragi e le trame oscure della storia repubblicana: cosa c’è di vero sui massoni e cosa, invece, appartiene al mito complottista? Il docente inglese ne parla in un’intervista esclusiva a I Calabresi.

    Nel suo libro “I liberi muratori – Storia mondiale della Massoneria” ripercorre le varie epoche vissute dalla Fratellanza. Qual è la genesi della Massoneria? Quali i valori che la ispiravano nel momento della sua nascita?

    «I massoni amano rifarsi alle arti dei mestieri del medioevo inglese, e in particolare all’arte dei lavoratori in pietra. Secondo i massoni, sarebbero state queste radici della Libera muratoria come organizzazione a plasmare allo stesso tempo i loro valori fondamentali (cioè fratellanza, umiltà, solidarietà e beneficienza, pretesa di stare al di fuori della lotta politica, tolleranza religiosa, politica, sociale e etnica…) e la simbologia che sta al centro della vita delle Logge. Tant’è vero che i simboli massonici più importanti (grembiulino, squadra, compasso, ecc.) sono arnesi i quali, per la massoneria, sono ormai diventati metafore di qualità morali.

    Secondo il codice massonico, lo scopo della loro fratellanza è quello di “costruire” uomini migliori così come i lavoratori in pietra di una volta costruivano castelli e chiese. La realtà storica è, inevitabilmente, diversa rispetto a questa mitologia delle origini. L’arte dei lavoratori in pietra era, per una serie di motivi pratici, molto debole e incapace di imporsi come invece facevano l’arte dei sellai o quella degli orefici, per esempio.

    Però in due momenti storici particolarmente importanti l’élite dei lavoratori in pietra (un gruppo di professionisti che oggi chiameremmo architetti) costruisce un legame col potere politico che lentamente trasforma l’arte dei lavoratori in pietra in qualcos’altro: in un’associazione con pretese filosofiche e morali e un luogo dove uomini di diversa provenienza sociale possono riunirsi e discutere in un’atmosfera relativamente libera e egualitaria».

    Quali sono i due momenti di cui parla?

    «Il primo momento accade negli ultimissimi anni del ’500 in Scozia alla corte del re Giacomo VI. Il secondo momento accade a Londra all’inizio del ’700, quando la massoneria si stacca definitivamente da qualsiasi legame con l’edilizia e trova invece un posto all’interno delle reti d’influenza del partito Whig. Ricordo che, per gli standard di quel periodo, i Whigs e la società urbana inglese in genere manifestano forme di tolleranza religiosa e politica, e di libertà d’espressione, molto all’avanguardia rispetto al resto del continente. Vari studiosi hanno sostenuto che la massoneria aveva un ruolo importante come “palestra” della vita politica e istituzionale delle società moderne».

    In Inghilterra, suo Paese, com’è vista l’appartenenza massonica? Quali sono gli snodi più importanti della storia mondiale in cui la Massoneria ha avuto un ruolo centrale?

    «Da Londra, a partire degli anni ’20 del ’700, la Massoneria si diffonde molto velocemente nel resto del mondo, grazie al commercio e all’Impero. Infatti, è con il suo contributo all’imperialismo che la Massoneria forse ha la sua più grande influenza nella costruzione del mondo contemporaneo. Per i soldati, i mercanti, gli amministratori dell’Impero britannico che si muovono tra Calcutta e Città del Capo, tra il Canada e l’Australia, la massoneria offre una specie di welfare internazionale, una banca di contatti, e una vita sociale già bell’e pronta all’arrivo in qualsiasi angolo lontano dei territori britannici.

    E tutto aiuta naturalmente a legittimare ideologicamente la conquista e lo sfruttamento di altri popoli. Detto in parole povere, il codice massonico della tolleranza si presta a diffondere l’idea che gli inglesi costruiscono l’impero non per motivi di avidità, ma per portare la luce della civiltà ai “luoghi oscuri del mondo” (per usare la frase del vate dell’imperialismo di fine Ottocento, Rudyard Kipling, un massone)».

    Lo scrittore britannico Rudyard Kipling

    Nota differenze particolari con l’Italia?

    Per quanto riguarda l’immagine della massoneria in tempi più recenti, un po’ come in Italia con la storia della Loggia P2, in Gran Bretagna gli anni ’80 del ventesimo secolo vedono degli scandali che danneggiano moltissimo l’immagine della Massoneria. Nel nostro caso sono casi di corruzione nella polizia dove vengono chiamati in causa i massoni. Nella mente di persone della mia generazione, la massoneria è rimasta quella invischiata negli scandali di 40 anni fa: una lobby piuttosto squallida, dunque.

    La differenza rispetto all’Italia, dove lo scandalo della P2 dava veramente motivi di preoccupazione, è che questa immagine di una massoneria centro di influenze clientelistiche è, nel caso inglese, uno stereotipo, una memoria collettiva fallace. Molto anni dopo gli scandali, alle fine degli anni ’90, l’inchiesta parlamentare incaricata di analizzare in profondità i legami tra massoneria e corruzione pubblica un rapporto che essenzialmente scagiona le logge e completamente ridimensiona il quadro che avevamo della loro influenza. Emblematico il caso del poliziotto massone che aveva giocato un ruolo eroico nello scoperchiare la corruzione della polizia della City di Londra. E si trattava di forme di corruzione molto serie: legami con violentissimi rapinatori in banca, per esempio.

    massoneria-ndrangheta-complotti-la-versione-di-john-dickie-i-calabresi
    Licio Gelli è stato il capo della P2

    In Gran Bretagna la massoneria ha preso atto dei problemi di immagine che sono l’eredità degli anni ’80. C’è stata una specie di Glasnost massonica, per esempio, con l’apertura degli archivi a storici non massoni come me. Ma cambiare le percezioni del pubblico è un lavoro lungo e difficile, soprattutto quando la Massoneria è in declino».

    Molto spesso, anche in questi due anni di pandemia, quando il cittadino medio non sa spiegarsi qualcosa, tira in ballo la Massoneria e presunti piani di controllo internazionali. Si tratta di teorie complottistiche destituite di fondamento? 

    «Assolutamente sì. So per esperienza che è quasi inutile cercare di convincere un complottista a cambiare idea, ma proviamoci ragionando in base alla natura stessa della massoneria. Innanzitutto, la Massoneria in quanto tale non esiste a livello nazionale in molti casi, figuriamoci a livello internazionale. Sin dal ’700 la storia della massoneria è caratterizzata da scissioni e da una diversificazione di tradizioni e obbedienze. Non c’è nessun franchising mondiale. I massoni hanno perso il controllo del proprio “marchio” secoli fa. Oggi come oggi è facile per un gruppo qualsiasi di chiamarsi massoni e mettere su una loggia, scopiazzando i riti e i simboli da Internet. Il risultato è un mondo quasi ingovernabile.

    Persino nelle tradizioni più autorevoli, come il Grande Oriente d’Italia o la United Grand Lodge of England, le singole logge hanno molta autonomia. E i singoli massoni vivono la propria appartenenza alla fratellanza in modi molto molto diversi. Chi copre una carica alta all’interno della Massoneria tende a non essere una persona con molta influenza nel mondo esterno, per il semplice motivo che immergersi in questa vita porta via un sacco di tempo in riti, amministrazione, diplomazia interna, ecc. Chi invoca “la massoneria” senza distinguo, non fa che dimostrare la propria ignoranza. Altro che complotto internazionale.

    “I Liberi Muratori”, un libro di John Dickie

    Però il legame tra massoneria e miti complottistici non è casuale. Infatti, possiamo rintracciare le origini del complottismo contemporaneo agli anni immediatamente dopo la Rivoluzione francese. Per l’Europa conservatrice, e soprattutto per la Chiesa cattolica, la Rivoluzione francese rappresenta un trauma collettivo di dimensioni inaudite. Come spiegare una catastrofe del genere? A chi dare la colpa? Come orientarsi quando sono saltati tutti gli schemi dell’antico regime? Nel 1797 un prete francese in esilio a Londra, l’abbé Augustin de Barruel, scrive un libro che fornisce la risposta che tutti cercano: la Rivoluzione francese è il risultato di un complotto dei Massoni, ispirati dal demonio. Questo mito del complotto diventerà presto l’ideologia della Chiesa cattolica per gran parte dell’Ottocento, e poi la matrice di tutti i complottismi dei nostri tempi».

    C’è stata, negli anni e nelle epoche, una degenerazione?

    «No. La massoneria è un fenomeno globale, vecchio 300 anni, che si manifesta in forme diverse a seconda del contesto e del momento storico. La massoneria si è prestata alle attività di statisti e rivoluzionari, imperialisti e lottatori per la liberazione, razzisti e umanitari, poliziotti e delinquenti, fanatici religiosi e razionalisti… Questa diversità rende estremamente interessante la storia della massoneria. Non mi sono mai divertito così tanto a scrivere un libro! E questa straordinaria diversità del fenomeno non si può riassumere in un’unica parabola di degenerazione.

    Il fattore dell’affarismo— ed è a questo che si vuole far riferimento quando si parla di una degenerazione attraverso il tempo — c’è stato sin dall’inizio. L’età d’oro della massoneria, l’età della purezza dei valori massonici, non è mai esistita. Ma dall’altra parte, anche in tempi più recenti, l’affarismo rappresenta soltanto una dimensione della lunga storia della Libera muratoria. E nemmeno, a mio avviso, la dimensione più interessante».

    In generale, c’è secondo lei un ambiente o un settore, tra quello politico, militare, economico in cui, nell’attualità che viviamo, l’appartenenza massonica, ha un ruolo preminente?

    «Dipende da dove ci troviamo nel mondo. In molti paesi oggi la maggioranza dei Massoni è composta di pensionati. La massoneria ha sempre avuto un legame molto forte con la vita militare: gli ex militari nella Massoneria sono tanti. Penso che sia perché la massoneria sostituisce alcuni aspetti della vita collettiva nelle caserme e offre una rete di sostegno per chi cerca di fare il difficile viaggio di ritorno al mondo dei civili.

    Al prezzo di generalizzare moltissimo, si potrebbe dire che la massoneria è un fenomeno delle classi medie. Però sarebbe un lavoro molto complicato fare una sociologia dell’appartenenza massonica anche in una sola realtà come quella italiana. In Italia ho visto molti professionisti. Ma le due obbedienze maggiori sono diverse: nella Gran Loggia d’Italia ci sono le donne, per esempio, e nel Grande Oriente no. E poi, ripeto, ogni loggia avrà le proprie caratteristiche».

    In questo momento, tutto il mondo parla della Russia. La massoneria ebbe un ruolo nella Rivoluzione russa, come alcune fonti sostengono?

    «No. Espresso in questi termini, si tratta dell’ennesimo mito del complotto. Lo Zar Alessandro I aveva messo a bando la Massoneria nel 1822, e dopo la Rivoluzione russa anche lo Stato sovietico la vieta. Poco spazio di manovra, dunque, per chi cerca una spiegazione della Rivoluzione russa chiamando in scena le eterne manovre dei fratelli in grembiulino. Non sono per niente un esperto di storia russa, ma nessuna delle analisi scientifiche che ho letto attribuisce importanza al fattore massonico nella Rivoluzione russa.

    Lo stesso vale anche per la Rivoluzione francese, l’Unità d’Italia, la Rivoluzione americana, il palleggio di responsabilità dopo l’affondamento del Titanic, ecc. ecc. In casi simili, la tesi secondo la quale l’influenza massonica è stata decisiva si sente soltanto da sedicenti esperti di massoneria che tendono a vedere la storia attraverso il buco della serratura delle proprie ossessioni».

    Veniamo all’attualità, ma sempre pensando alla storia. Nel suo libro parla anche dell’atteggiamento avuto, negli anni della Guerra Fredda dall’Unione Sovietica nei confronti della Massoneria. Cosa può dirci sul rapporto attuale tra la Russia e la Fratellanza?

    «Il mio libro copre 400 anni di storia, e episodi affascinanti dalla storia di paesi quali la Gran Bretagna, l’Italia, gli Stati Uniti, l’India, il Sudafrica, la Francia, la Spagna, la Germania, l’Australia…. Ma non è un’enciclopedia mondiale della massoneria, e averlo scritto non mi autorizza a dichiararmi un tuttologo in materia di massoneria. Quello che so è che, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della messa a bando sovietica, la massoneria è rinata ma ha avuto una vita molto difficile in tutto l’ex Impero URSS, tra sospetti dello Stato e pregiudizi popolari».

    Lei conosce molto bene la Calabria. E nel suo ampio excursus letterario c’è una parte molto dettagliata che riguarda i rapporti tra la massoneria e la criminalità organizzata. Che idea si è fatto sui legami tra la ‘ndrangheta e la Fratellanza, che da più parti vengono indicati come il vero punto di forza delle cosche? 

    «Mi sono concentrato sul processo Gotha. Sono carte molto importanti che anche tu conosci molto bene. Da anni si parlava di un livello “massonico” del potere della ’ndrangheta. Giravano testimonianze preoccupanti, anche di pentiti e di massoni importanti, alcune dirette, ma molte per sentito dire, e spesso contraddittorie l’una con l’altra. Parlavano di una profonda penetrazione della ’ndrangheta all’interno delle logge del Grande Oriente. O di un controllo della ’ndrangheta da parte di elementi massonici. O di logge corrotte, logge deviate, logge coperte. Parlavano di una rete nazionale, o di una concentrazione del fenomeno nella Piana di Gioia Tauro, o sulla Ionica, e via di seguito. Una enorme confusione, insomma, su cui era doveroso fare luce, compito che il processo Gotha si è assunto.

    gotha-giudici
    I giudici del processo Gotha durante l’udienza

    E alla fine, almeno secondo le sentenze più recenti, la luce c’è. Ed è una luce abbastanza deludente per i complottisti della situazione. Quello che il processo ha scoperto è un nuovo organo di controllo politico-affaristico della ’ndrangheta, a cui gli ’ndranghetisti stessi fanno riferimento usando diversi nomi: per esempio, “gli Invisibili” o “la Massoneria”. Ma è importante capire che si tratta di una metafora: gli Invisibili non sono letteralmente massoni, la ’ndrangheta non è letteralmente sotto il controllo della massoneria.

    Come ha dichiarato pubblicamente il dottor Giuseppe Lombardo, magistrato da anni coinvolto in questa materia, nel corso di un dibattito con me al festival Trame a Lamezia: “Il rapporto tra la ‘ndrangheta non è un rapporto tra la componente mafiosa e la componente massonica regolare o universalmente conosciuta. Nel momento in cui si parla di componenti massoniche in contatto con le organizzazioni mafiose si parla di componenti che vivono di logiche massoniche, ma non possiamo assolutamente in alcun modo pensare che le massonerie siano un sistema che entra a far parte delle organizzazioni di tipo mafioso. Questo è grave e fuorviante. Non serve al contrasto alle mafie”. Se un problema all’interno del mondo massonico c’è, sempre secondo Lombardo, è con alcune logge irregolari o fasulle, cioè non appartenenti alle tradizioni massoniche maggiori.

    massoneria-ndrangheta-complotti-la-versione-di-john-dickie-i-calabresi
    Il magistrato Giuseppe Lombardo

    Quindi non c’è alcun legame specifico tra le due organizzazioni?

    Io esprimerei il problema in un altro modo. Le logge massoniche sono pezzi di società come gli altri, e come tali hanno i loro specifici punti di forza e di debolezza quando si tratta di rapportarsi col potere della ’ndrangheta. Hanno risorse, umane e culturali soprattutto, che possono far gola alla ’ndrangheta, come ce l’hanno le altre associazioni culturali e religiose calabresi. In una situazione del genere, bisogna seguire le prove, i casi singoli, e non fare di tutta l’erba un fascio.

    Gli intellettuali socialisti dell’inizio del ventesimo secolo usavano dire che “l’antisemitismo è il socialismo dei cretini”. Cioè prendersela con “l’Ebreo” in nome della lotta al capitale era pericoloso e fuorviante. Noi dobbiamo stare attenti a non fare un errore analogo. L’antimassonismo è l’antimafia dei cretini, e prendersela con “la massoneria” nel nome della lotta alla mafia o al malaffare, è pericoloso e fuorviante. Rischia di mettere la lotta alla mafia in mano al populista di turno, che non cerca altro che un capro espiatorio, ruolo svolto dalla massoneria già in molti altri contesti storici».

    In generale, crede che l’aura oscura che avvolge la massoneria, forse soprattutto in Italia, sia frutto dell’esperienza della P2 e che, quindi, si guardi alla massoneria con eccessivo allarmismo?

    Direi di sì. Ma ripeto, si fa presto a dire “massoneria” come se fosse un tutt’uno. Aggiungerei che trovo poco rassicurante l’atteggiamento della leadership del Grande Oriente. Il rifiuto di esaminare seriamente le proprie responsabilità nella vicenda P2. Il rifiuto di prendere sul serio il rischio di infiltrazioni mafiose o corruttive. La tendenza di lanciare accuse di pregiudizio antimassonico ogni volta che il tema della mafia viene sollevato. Tra antimafia e massoneria vedo solo un dialogo tra sordi, quando invece potrebbero avere molto da imparare l’una dall’altra.

    In conclusione, chi sono i massoni oggi?

    «Mi rifiuto di generalizzare. Ma ai non massoni come me darei un consiglio. Non vedere nei massoni degli affaristi e dei dissimulatori a prescindere. Parlateci».

     

  • INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

    INTERVISTA ESCLUSIVA | Mancuso, il pentito: così le ‘ndrine vogliono uccidermi

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    La vita di Emanuele Mancuso è cambiata nel giro di una settimana. Quattro anni fa, il 18 giugno del 2018, ha cominciato a parlare coi magistrati, ha deciso di raccontare ciò che ha visto e vissuto in 30 anni da rampollo di un potentissimo casato di ‘ndrangheta. Tre giorni dopo sarebbe dovuta nascere sua figlia, che si è poi fatta aspettare un altro po’, venendo al mondo il 25 giugno. I due eventi – la scelta di pentirsi e la nascita della primogenita – sono strettamente collegati.

    ndrangheta-intervista-esclusiva-pentito-emanuele-mancuso-i-calabresi
    Emanuele Mancuso intervistato da Studio Aperto

    Lo ripete spesso, Emanuele: ha iniziato a collaborare con la giustizia proprio per la figlia. Avrebbe voluto crescerla in un ambiente diverso da quello in cui è cresciuto lui. Ma, denuncia, ora gli viene impedito.

    Gli viene negato un diritto che è invece garantito a molti altri genitori che con la giustizia hanno avuto parecchi problemi ma che, come invece ha fatto lui, non ci hanno mai collaborato.

    Figlio di Pantaleone “l’Ingegnere”, quando suo padre era in carcere riusciva a vederlo più di quanto oggi permettano a lui di stare con sua figlia. Gli è concessa poco meno di un’ora a settimana, in locali «fatiscenti e privi di ogni requisito di legge». La bimba ora ha 4 anni e nota la presenza dei «signori» dei Servizi sociali e di quelli della scorta ai loro incontri.

    Lei vive, per decisione del Tribunale per i minorenni, in una casa-famiglia con la madre. Stanno in una località protetta individuata dal Servizio centrale di protezione, dunque a carico dello Stato, anche se l’ex compagna di Emanuele non si è mai dissociata dal contesto della famiglia di lui. Anzi, a suo dire sarebbe «in mano» ai Mancuso. A entrambi è stata limitata la responsabilità genitoriale.

    «Mi hanno visto persone di Limbadi»

    Emanuele è il primo, con il pesantissimo cognome Mancuso, ad essersi pentito. Mostra una certa dimestichezza con i meccanismi e la terminologia giuridica, ma il tono sicuro con cui solitamente parla, anche davanti ai giudici, durante un colloquio esclusivo con I Calabresi tradisce una profonda amarezza. Succede quando gli si chiede se abbia paura. «A questa domanda preferirei non rispondere. Una volta è capitato pure che mi abbiano visto alcune persone di Limbadi… Dico solo che quando ti isolano, provano ad avvicinarti più volte, ti tolgono quello che hai di più caro, la ragione per cui hai fatto la scelta più difficile, allora della vita e delle morte non ti interessa più niente. Non hai più paura di niente. Che mi dirà domani mia figlia?».

    pantaleone-mancuso-i-calabresi
    Pantaleone Mancuso “l’Ingegnere”, padre di Emanuele Mancuso

    «Salgono con le valigette di soldi e comprano tutto»

    Di recente ha inviato due lettere all’Autorità Garante per l’infanzia e al Presidente della Repubblica. Contengono una denuncia pesantissima: il pentito parla di «maltrattamenti» che la sua piccola subirebbe dagli operatori sociali. E parla di un «complotto» per sfinirlo e portarlo ad abbandonare la collaborazione con la giustizia.

    Dice anche molto altro: «La mia famiglia si compra tutto. Sale con valigette piene di soldi dove sta la bambina e corrompe i Servizi sociali. Infatti mi trattano come fossi Pacciani e fanno relazioni che contengono falsità, completamente sbilanciate dalla parte della mia ex compagna. La dipingono come una povera donna che non sapeva chi io fossi. Invece siamo stati insieme per circa 10 anni e si era inserita nel contesto criminale. È stata pure denunciata due volte per reati commessi mentre era nel programma di protezione».

    Un uomo libero

    Ora Emanuele è un uomo libero, anche se la libertà vera è un’altra cosa. «Mi sveglio alle cinque di mattina per andare a lavorare e torno la sera», dice. Ma si sente ingiustamente privato della possibilità di costruire un vero rapporto affettivo con la figlia. Una cosa che lo sta facendo vacillare parecchio. «Vogliono farmi ritrattare. Ho fatto tutto questo per poterla crescere e ora me lo impediscono».

    Il suo ragionamento è drammaticamente lineare. «Se il Tribunale ti dice che limita la tua responsabilità genitoriale a causa del conflitto con la madre della bambina, è chiaro che l’unico modo per riavere mia figlia è attenuare questo conflitto, insomma fare pace. Tra l’altro la rottura non è dovuta a motivi sentimentali, ma alla mia scelta di collaborare».

    Fare pace dunque significherebbe «inevitabilmente passare attraverso la mia famiglia». E fare marcia indietro, ritrattare, rientrare nei ranghi dei Mancuso. «Se va avanti così – ammette sconsolato – finisce che saluto tutti e ciao… ma non sarebbe solo una disfatta per la giustizia, sarebbe un’enorme sconfitta sociale».

    Teme le presunte pressioni sulla ex compagna

    C’è un episodio piuttosto inquietante che conferma quanto, secondo lui, l’ex compagna sia manovrata dai suoi familiari. Emerge da alcuni atti depositati nei processi – già approdati a sentenze di primo grado sia in abbreviato che in ordinario – sulle presunte pressioni della famiglia per indurlo a ritrattare. Si tratta di un’informativa di polizia giudiziaria redatta dopo l’ultimo arresto del padre.

    Nel 2014 “l’Ingegnere” era stato individuato a Puerto Iguazù, in Argentina, mentre cercava di passare il confine con il Brasile su un bus turistico, con un documento falso e 100mila euro addosso. A marzo del 2019 lo hanno invece beccato a Roma in una sala Bingo. Aveva con sé un IPhone ed è proprio da quel telefono che gli inquirenti hanno tirato fuori i messaggi scambiati con i familiari durante la latitanza. Chat che sono finite in un decreto di acquisizione di documenti di 187 pagine.

    Lei parla con i Mancuso

    I contatti tra i familiari di Emanuele e la sua ex compagna sono frequenti. Sembrano tenerla sotto controllo, tanto che a un certo punto si parla di un registratore da piazzare nella sua abitazione. E lei mostra soggezione nei confronti di Pantaleone, con cui dialoga attraverso il telefono della moglie. A un certo punto le dice, tra il serio e il faceto: «Sono in cielo e in terra». Le impartisce indicazioni precise: «Non mi deludere». Fino ad arrivare a scriverle esplicitamente: «Tu mettiti a disposizione».

    Succede dopo che lei manda un sms all’avvocato di Emanuele, fa uno screenshot del messaggio e lo invia alla sorella del pentito, che a sua volta lo inoltra al padre. Pantaleone cerca di tranquillizzare l’ex compagna del figlio. Ma lei è allarmata: «Si mi beccano quel coso su rovinata». Il «coso» sarebbe un telefono che lei dovrebbe portare a un incontro con l’ex compagno. La ragazza prova a ipotizzare una soluzione diversa: «Se riesco porto la scheda. E poi un cel lo prenderò lì». Lui taglia corto: «Na fari difficili». Ma il tono di lei resta quello: «Mi stati mandandu a furca».

    La compagna del pentito «abilmente governata» da Pantaleone l’Ingegnere

    L’ex compagna di Emanuele, secondo gli inquirenti «abilmente governata» dall’“Ingegnere”, avrebbe dovuto portare con sé, di nascosto anche dal suo compagno, un telefono (o una sim card) a un incontro con il pentito. Avrebbe voluto far credere, tramite l’sms al suo avvocato, che voleva riconciliarsi con lui ed entrare così nel programma di protezione, ma solo quando lui sarebbe stato posto ai domiciliari, perché all’epoca era ancora in carcere.

    ndrangheta-intervista-esclusiva-pentito-emanuele-mancuso-i-calabresi
    L’aula bunker di Lamezia Terme dove si celebra anche il processo Rinascita-Scott

    L’attentato al pentito sventato dalla Dda di Catanzaro

    «In questo modo sarebbe venuta con me nella località protetta e, mettendo questa sim in un telefono, avrebbe dovuto inviare ai miei familiari la posizione in cui ci trovavamo». Insomma, chiosa il pentito: «Stavano pianificando un agguato. Ma la Dda di Catanzaro lo ha sventato». Trae una conclusione agghiacciante, Emanuele. Ma i contatti tra la sua famiglia e l’ex compagna sono effettivamente cristallizzati nelle carte della Procura antimafia. In cui parecchie pagine sono coperte da omissis.

    ndrangheta-intervista-esclusiva-pentito-emanuele-mancuso-i-calabresi
    Luigi Mancuso “Il Supremo”

    Una dinastia di ‘ndrangheta

    Intanto nel Vibonese, tra Limbadi e Nicotera, la calma apparente nasconde un’evoluzione ancora non decifrabile delle dinamiche interne a una delle famiglie più potenti dell’intera ‘ndrangheta, e dunque delle mafie di tutto il mondo. Luigi Mancuso, il “Supremo”, è stato arrestato nel blitz di “Rinascita-Scott”, la maxinchiesta di cui è un elemento centrale e da cui è scaturito il processo che si sta celebrando nell’aula bunker di Lamezia.

    Luigi è zio di Pantaleone “l’Ingegnere”, dunque prozio di Emanuele. Nel frattempo sono tornati in libertà due zii diretti del pentito, Diego e Peppe “‘Mbrogghia”. Quest’ultimo è ritenuto uno dei capi storici, tra i più temuti. Si è fatto 24 anni consecutivi di galera, 20 dei quali in regime di 41 bis. Pare abbia sempre avuto un legame particolare con Luigi, che è suo zio ma è più piccolo di lui di qualche anno. Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, Domenico, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.

    Peppe Mancuso “Mbrogghia”

    «Sono un esercito», dice Emanuele dei suoi parenti. E aggiunge: «Figli e nipoti si sono laureati, alcuni recandosi ben poche volte all’università, giusto per firmare… Hanno contatti con colletti bianchi, massoneria…». Descrivendo i boss, spiega che «Luigi è il più “istituzionale”». Mentre Peppe «ha un cimitero alle spalle (risulta condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ndr). Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa. Ai giovani però – conclude – io vorrei dire una cosa: il fascino della ‘ndrangheta è ingannevole, in realtà fa schifo, non rovinatevi la vita con queste porcate».

  • Il calabrese del “Russiagate”: «Sto con Putin»

    Il calabrese del “Russiagate”: «Sto con Putin»

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    La prima volta in cui il suo nome rimbalzò sui media italiani fu nel novembre del 2016, quando Bruno Giancotti tirò fuori Matteo Salvini da un piccolo guaio in cui si era cacciato con la Polizia russa. Il leader della Lega aveva esposto nella piazza Rossa un cartello contro il referendum renziano, ma i gendarmi intervennero fermandolo per qualche ora perché la legge russa vieta di esporre striscioni con slogan politici senza una preventiva autorizzazione. «Lo avevo avvertito», racconta Giancotti, uomo d’affari originario di Serra San Bruno che, dalle montagne del Vibonese, è arrivato a stabilirsi a Mosca fin dal 1986.

    Il calabrese putiniano di ferro

    Un po’ più serio, quantomeno per il contraccolpo mediatico, si è rivelato in seguito il caso dei presunti fondi russi alla Lega e degli audio diffusi da BuzzFeed. Il suo nome è spuntato anche nel Russiagate, ma Giancotti assicura di non essere lui il «Gianko» a cui i protagonisti della trattativa del Metropole facevano riferimento parlando di percentuali su una grossa partita di gasolio russo da far arrivare in Europa.

    Una questione molto più seria, e drammatica, è oggi quella della guerra Russia-Ucraina. Incalzato sull’argomento, Giancotti non si tira indietro di fronte alle domande. Ma va detto subito e chiaramente che lui è di parte: è dalla parte di Vladimir Putin e non nasconde di avere «conoscenze nelle alte sfere del potere» a Mosca. «Sono un putiniano convinto», spiega. «Invece mia moglie, che è russa, è antiputiniana. Io la definisco addirittura russofoba».
    Lo abbiamo contattato attraverso Facebook.

    Ma alcuni social network non erano stati oscurati in Russia? E non è censura questa?

    «Io riesco a usare Facebook perché il mio account è stato registrato in Italia, ma effettivamente sì: qui è stato bloccato».

     

    «Beh… la guerra mediatica la Russia l’ha sempre persa e la continua a perdere. Però le fake news erano diventate esorbitanti così è stata presa la decisione di limitare i social. Non è una decisione democratica, certo, ma siamo in guerra…».

    Almeno lei non la chiama «operazione speciale»… Ma che aria si respira lì? Sembra evidente la repressione del dissenso.

    «A Mosca c’è un’atmosfera tranquilla, non c’è panico né isteria. Certo, non si può negare che ci siano proteste contro la guerra di Putin. Repressione? La Russia è in guerra con l’Ucraina. E in guerra vigono regole particolari che contemplano anche temporaneamente la restrizione di libertà democratiche. Quelli nei confronti dei manifestanti comunque non sono quasi mai arresti ma fermi, gli arresti scattano solo in casi di violenze verso la polizia, come del resto accade anche in Europa. E poi quasi tutti i manifestanti sono giovani: è quasi fisiologico che si ribellino. Ma non ci sono arresti di massa. Ho osservato parecchie manifestazioni contro Putin e il comportamento della polizia mi è sembrato sempre molto corretto».

    Di certo Putin non è quello che si dice un campione dei diritti civili…

    «Non lo è mai stato, anzi ha sempre detto che la democrazia liberale è un fallimento. Lui è sempre stato per un regime decisionista, che in Occidente è definito dittatoriale».

    guerra-russia-ucraina-calabrese-sta-con-putin-i-calabresi
    Giancotti alla marcia del 9 maggio (Il Giorno della Vittoria) sulla Piazza Rossa a Mosca

    Quindi chi dice che in Russia c’è un regime ha ragione?

    «Nei dibattiti televisivi gli oppositori di Putin parlano sempre senza problemi. Non c’è la censura di cui si parla in Occidente, io non la avverto. Vedo intellettuali oppositori del governo che parlano e agiscono indisturbati. Alcuni hanno una linea politica in contrasto con la tradizione russa e vengono perfino finanziati dallo Stato».

    Torniamo alla guerra Russia-Ucraina. È un’invasione di uno Stato confinante. È un conflitto giusto secondo lei?

    «È una guerra. E la guerra si fa con le armi, non con i fiori. Le vittime ci sono da ambo le parti. Ma non è una guerra tra Russia e Ucraina, bensì tra Russia e resto del mondo. Fin dal 2007, dalla Conferenza di Monaco, Putin ha detto che è ora di smetterla con il mondo dominato da una sola potenza. Perché possa esistere un mondo multipolare servono dei meccanismi che garantiscano la sicurezza di tutti. Da allora non ha mai smesso di dire questi: abbiamo nostri valori, non stanno bene all’Occidente e al globalismo? Beh, vanno comunque rispettati».

    Insomma quella della Russia sarebbe un’azione difensiva?

    «La Nato aveva promesso di non estendersi verso Est. Invece anche fonti non russe, come la rivista tedesca Spiegel, confermano che sono avanzati piano piano, in sostanza manca solo l’Ucraina per chiudere il fronte attorno alla Russia. Io ricordo il periodo catastrofico di Eltsin, quando vedevo i generali dell’esercito vendere le loro medaglie al mercato nero. La Russia all’epoca non poteva alzare la voce contro gli Usa, che ne approfittavano per bombardare Belgrado. Ora invece c’è una potenza militare e non permetteremo che venga compromessa la nostra sicurezza con basi Nato. In Ucraina poi agiscono incontrollate formazioni neonaziste che non sottostanno certo al governo di Kiev».

    guerra-russia-ucraina-calabrese-sta-con-putin-i-calabresi
    Vladimir Putin

    È passato quasi un mese dall’inizio della guerra. Non crede che l’esercito russo stia incontrando ostacoli inaspettati?

    «In Occidente si sostiene che la Russia stia avendo più difficoltà di quanto pensasse. Putin invece ha detto che tutto sta andando come nei piani. E che si sta attuando una tattica ben precisa: colpire obiettivi in modo chirurgico e non distruggere tutto con bombardamenti a tappeto».

    Intanto però le bombe cadono anche su ospedali e teatri. Le vittime tra i civili ci sono eccome.

    «Parliamo di centinaia, mentre con azioni massicce sarebbero state centinaia di migliaia».

    guerra-russia-ucraina-calabrese-sta-con-putin-i-calabresi
    Gianluca Savoini, Claudio D’Amico e Bruno Giancotti

    Gli italiani che stanno in Russia secondo lei come la stanno vivendo?

    «Per quello che vedo io, o sono indifferenti o per lo più condividono la linea di Putin. È solidale con il governo russo anche tanta gente che non ha nessun rapporto con il potere».

    Chiudiamo tornando al Russiagate. Possibile che non fosse davvero lei «Gianko»?

    «Non ero io, non so nulla di quella storia, altrimenti mi avrebbero indagato (la Procura di Milano ha aperto un’inchiesta per corruzione internazionale in cui all’epoca nel registro degli indagati figurava solo Gianluca Savoini, ndr).

    Ma Savoini, D’Amico e Salvini li conosce, o no?

    «Sì, ho introdotto io D’Amico e Savoini in Russia. Accompagnavo Salvini al Parlamento, ma non perché io sia della Lega. Io sto dalla parte della Russia. E chiunque sia amico della Russia è mio amico. In quel momento c’era un accordo tra il partito di Putin, Russia Unita, e la Lega. Gli audio del Metropole mi hanno reso famoso ma non ero io quello di cui si parlava. È vero che ho partecipato a trattative simili, ma esclusivamente di natura commerciale, non certo per finanziare la Lega. È il mio lavoro: faccio il mediatore commerciale. Credo che Savoini abbia avviato la trattativa per conto suo ma ci abbia messo dentro la Lega per rendere la cosa più appetibile. Invece era una pura trattativa commerciale, condotta però da chi di commercio non capisce nulla: degli imbecilli, da una parte e dall’altra. Vorrei però precisare un’ultima cosa».

    Prego.

    «Quello che sono diventato è dovuto solo alle mie capacità personali e non sono arrivato dove sono per vicinanza al potere. Le mie convinzioni non le vendo».

    Però conosce bene diversi di quelli che vengono identificati come oligarchi, vero?

    «Li conosco fin da quando non erano ricchi, fin da quando vendevano valuta al mercato nero scambiando rubli con dollari. Ora sono ultramiliardari».