Categoria: Interviste

  • «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    «Autonomia differenziata? Ma proprio no»

    L’autonomia differenziata? «Se passasse, sarebbe la rovina del Sud». E, fin qui, è un luogo comune.
    Ma in questo caso è nobilitato da chi lo esprime: Vittorio Daniele, professore ordinario di Politica economica presso l’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e sostenitore originale di una teoria economica importante e anticonformista sul ritardo storico del Sud. Questo sarebbe dovuto non tanto a fattori contingenti o a handicap politici quanto a un elemento fisiologico: la posizione geografica, a causa (o per colpa) della quale il Mezzogiorno è fuori dai traffici economici più importanti.
    Daniele ha sostenuto questa teoria in due volumi: Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011 (2011), scritto assieme a Paolo Malanima, e Il Paese diviso. Nord e Sud nella storia d’Italia (2019), editi entrambi da Rubbettino.
    Al che sorge un dubbio: se il Meridione è condannato alla subalternità dalla posizione, a che serve insistere sul problema delle autonomie?
    La risposta è sofisticata ma non incomprensibile: «Lo Stato e la politica hanno dei ruoli importanti, tra cui il dovere di incidere sull’economia. Quindi, anche di correggere e attenuare i gap territoriali».

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    L’Italia smembrata dagli egoismi politici

    Autonomie differenziate: è un tormentone tornato di moda quasi a ridosso delle ultime politiche. Se passasse questa riforma, avanzata tre anni fa, che succederebbe?

    «Il Sud regredirebbe di brutto, perché i trasferimenti pubblici calerebbero in misura consistente. Si consideri che le regioni meridionali, la Calabria in particolare, dipendono molto da questi trasferimenti, in cui lo Stato fa da mediatore».

    È opportuno chiarire meglio questo meccanismo, su cui si sono creati tanti equivoci.

    «Nessuna Regione del Sud prende soldi direttamente da quelle del Nord. Il Meridione riceve da ciò che lo Stato preleva dal gettito fiscale di tutte le Regioni in base a una ripartizione elaborata sulla base di un criterio: assicurare servizi uguali a tutti i cittadini italiani».

    E quindi?

    «Le tre Regioni del Nord che desiderano l’autonomia sono grandi contribuenti, dati i loro livelli di reddito. Si pensi che la Lombardia pesa per il 22% del Pil nazionale, cioè quanto l’intero Meridione. Se aggiungiamo Emilia Romagna e Veneto arriviamo al 40%.
    Alla base di queste richieste c’è un malcontento generato da un meccanismo economico: le Regioni settentrionali ricevono dallo Stato meno di quel che versano. Viceversa quelle del Sud, la Calabria in particolare, ricevono più di quel che versano. Questa differenza di trattamento si giustifica per garantire l’eguaglianza dei cittadini, che hanno diritto a ricevere cure, istruzione e infrastrutture di eguale valore».

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    Il vecchio spot della Milano “da bere”, simbolo del primato economico lombardo

     

    Un importante fattore politico, che rischia di venir meno.

    «Anche a dispetto del comma due dell’articolo tre della Costituzione, che come sappiamo impone allo Stato di rimuovere gli ostacoli che impediscono o limitano la piena eguaglianza».

    Sorge un dubbio: tutti i Paesi europei hanno divari interni, anche importanti. Possibile che le autonomie siano solo un problema italiano?

    «Le disparità e i relativi malumori esistono dappertutto. Ma i divari economici non implicano affatto differenze nei servizi pubblici. Non è così in Germania, dove il dislivello tra Est e Ovest continua a pesare. Non è così in Spagna, dove pure è avvenuto, circa quattro anni fa, un tentativo di secessione della Catalogna. Non è così neppure nel Regno Unito, nonostante i significativi divari economici regionali. Si noti che in Spagna e Germania, i Länder e le Comunità autonome hanno notevole autonomia, anche finanziaria, e competenze in numerose materie. Ma sono previste efficaci forme di perequazione che assicurano un’uniformità dei servizi».

    «Per esempio, in Spagna il Fondo di garanzia dei servizi pubblici fondamentali ha il fine di assicurare alle diverse Comunità le medesime risorse per abitante, con riguardo a servizi pubblici fondamentali come l’istruzione, la sanità e i servizi sociali essenziali. Il modello tedesco di federalismo è, invece, un modello cooperativo ben funzionante».

    Ciò implica un calo nella qualità della vita.

    «Esattamente. E invito a una riflessione: in altre nazioni europee avanzate, sarebbero tollerate le disuguaglianze nei servizi pubblici che caratterizzano l’Italia? Penso che le funzioni essenziali, soprattutto la Sanità, dovrebbero essere riaccentrate. In un paese disuguale, l’autonomia, a ogni livello, nella sanità come nella scuola, tende ad accrescere le disuguaglianze. E ciò anche per un’evidente differenza nel grado di efficienza delle Regioni nella gestione dei servizi pubblici: si pensi alla sanità in Calabria e in Emilia Romagna. Non è solo una questione di risorse, ma di capacità. In Calabria, la gestione dei servizi pubblici è stata spesso piegata a spicciole logiche politiche e clientelari».

    ».

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    Una protesta contro la Sanità calabrese

    Ma questo non cozza con la sua teoria? Se i nostri territori sono naturalmente depressi perché marginali, a che serve assicurare servizi che non avrebbero comunque ricadute economiche significative?

    «Economia e politica sono interdipendenti. Quindi, ridurre il gap nei servizi significa anche rendere più appetibili i territori a livello economico. In ogni caso, lo Stato ha il dovere di assicurare uguali servizi in tutto il suo territorio e ciò, indipendentemente, dal livello di reddito dei cittadini».

    Il Paese andrebbe davvero in pezzi se passasse l’autonomia differenziata?

    «Non credo ci sarebbe alcuna secessione, neppure “mascherata”. Si esaspererebbero le disparità e i dislivelli, già notevoli. Ma l’Italia continuerebbe a esistere, coi problemi di sempre: un Sud sempre più ridotto a serbatoio di forza lavoro e un Nord produttivo».

    La soluzione?

    «Dubito che i meccanismi di perequazione per le regioni con minore capacità fiscale, siano in grado di garantire uniformità dei servizi con la realizzazione dell’autonomia differenziata. Non solo per una questione di risorse, ma anche per le differenze nelle capacità gestionali delle Regioni meridionali. Penso che le politiche nel campo della sanità, dell’istruzione e delle infrastrutture di collegamento dovrebbero essere centralizzate: se ne dovrebbe occupare lo Stato. Per il resto, ognuno faccia da sé. Ma questi servizi devono essere uguali dappertutto».

    L’Istruzione: un altro settore che soffre il decentramento

    Secondo le teorie che ha aggiornato ed esposto in due libri diventati classici, il divario Nord-Sud non è l’effetto di patologie storiche ma è fisiologico. Cioè, è dovuto alla posizione geografica.

    Q«ueste riflessioni hanno un precedente illustre nel grande economista cosentino Antonio Serra, che agli inizi del Seicento indicava chiaramente come la situazione territoriale del Regno di Napoli, una penisola nel centro del Mediterraneo, quindi lontana dai grandi traffici, fosse un oggettivo svantaggio. Attenzione: quando scriveva Serra il processo storico che avrebbe reso le rotte mediterranee secondarie rispetto a quelle atlantiche era ancora agli inizi. Purtroppo, i fatti continuano a dargli ragione».

    Il Sud, quindi, non ha potuto o non è riuscito a svilupparsi?

    «Il Nord è stato avvantaggiato dalla dimensione del suo mercato interno e dalla vicinanza ai grandi mercati del centro-Europa con cui si è economicamente integrato. Il Sud, distante oltre mille chilometri da quei mercati e a lungo penalizzato dalla carenza di infrastrutture, è rimasto periferico. La geografia non è stata l’unica causa, ma ha contato molto nel determinare il ritardo del Sud e, seppur meno che in passato, conta ancora».

    Quanto c’è di vero nella tesi che il ritardo del Sud si debba a scelte politiche delle classi dirigenti settentrionali?

    «È innegabile che l’industrializzazione del Nord, specie nella prima fase, sia stata sostenuta dall’azione statale. Il Sud, per lungo tempo, è stato trascurato. Il divario tra le due aree, inizialmente piccolo, è aumentato in tutta la prima metà del Novecento. Poiché il processo di sviluppo tende ad autoalimentarsi, quel divario, storicamente accumulatosi, non è stato più colmato».

    Una vecchia immagine-simbolo della questione meridionale

    E le classi dirigenti meridionali che colpe hanno?

    «Hanno tante colpe, sebbene non tutte quelle che gli sono attribuite. C’è un dato fondamentale, evidente da almeno venti anni: le classi dirigenti meridionali hanno molto peso sul proprio territorio, sia perché sono mediatrici di risorse pubbliche sia per l’assenza di contropoteri sociali ed economici, ma sono modeste su scala nazionale e irrilevanti a livello europeo. E questo ha pesato, va da sé, anche per le autonomie differenziate».

    Come?

    «Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono state esaudite non appena hanno alzato la voce perché il Sud era sguarnito. Non c’è praticamente un leader meridionale di peso in grado di contrastare le tentazioni autonomiste».

    Eppure, il partito maggioritario della coalizione di governo ha nel suo bagaglio culturale una tradizione nazionalista che dovrebbe contrastare certe spinte centrifughe.

    «Se ci si riferisce a Fratelli d’Italia, sarei molto cauto: il partito di Giorgia Meloni ha preso il 26% su una percentuale di votanti pari al 64% degli elettori (percentuale molto più bassa al Sud). Quindi, siamo al 16% degli italiani. Ancora: Fdi ha riscosso molto più consenso nel Centronord che al Sud. E si consideri che i ministeri chiave, cioè Affari Regionali e Autonomie, Infrastrutture ed Economia, sono in mano alla Lega. Siamo sicuri che gli eredi della Fiamma Tricolore abbiano la forza e la determinazione necessarie per difendere le prerogative dello Stato e le esigenze del Sud?».

  • Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

    Paolo Orlando, il reggino che sceglie i film che vedrai al cinema

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    Il fiuto per i film su cui puntare si è sviluppato in anni di lavoro sul campo, ma è nato probabilmente sulle colline di Arcavacata. Era nella prima generazione di studenti del progetto pilota di un Dams a Sud, tra i cubi dell’Università della Calabria, dove si è laureato con una tesi su Stanley Kubrick.
    Paolo Orlando oggi è il direttore della distribuzione di Medusa film e in questa fine anno ha buoni motivi per gioire. Guarda i successi in sala, è continuamente collegato con i report di Cinetel.

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    Paolo Orlando

    È un “grande giorno” per il cinema italiano. Il film con Aldo, Giovanni e Giacomo, diretto da Massimo Venier, ha festeggiato un magnifico Natale, con un incasso di oltre un milione e 100mila euro nel giorno di Santo Stefano. A firmare la colonna sonora della commedia ambientata sul lago di Como, è il cantautore calabrese Dario Brunori, che già aveva collaborato con il trio in Odio l’estate.
    Il box office è da record. Se la partenza è questa, si spera anche in un grande anno del ritorno del pubblico in sala nella post pandemia. Il terreno è già tastato da diversi titoli di questa fine 2022. L’omaggio al teatro di Roberto Andò con il suo La stranezza, la commedia piccante Vicini di casa, il family Il ragazzo e la tigre.

    Da Reggio al grande schermo

    Paolo Orlando, 52 anni, reggino, nella grande fabbrica italiana del cinema, che ha il suo quartier generale a Roma, lavora dal 2001. Oggi fa parte della rosa ristretta dei manager. Dal 2019 insieme con il vice-presidente e amministratore delegato Giampaolo Letta, condivide scelte e strategie. Visiona quintali di pellicole ed è presente a tanti festival, da quelli più importanti ai cosiddetti minori, le vetrine del cinema che verrà. Da Cannes, Venezia e Berlino a Giffoni e Saturnia.

    Anche all’invito del Reggio Calabria film festival ha risposto volentieri. Un buon motivo per tornare a respirare l’aria del mare dello Stretto e per fare visita ai suoi genitori.
    Nella città brutia è stato nel febbraio scorso, in occasione dell’anteprima nazionale di un film a lui caro, “Una femmina” del regista cosentino Francesco Costabile, la storia di Rosa la ribelle, l’attrice cariatese Lina Siciliano, che non accetta il clima e la brutalità mafiosa in cui è costretta a crescere.
    Ciò che colpisce dei titoli Medusa è la perfetta osmosi tra il cinema più impegnato e i prodotti che possono piacere a un grande pubblico.

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    Lina Siciliano sul set di “Una femmina” (foto Francesco Spingola)

    Come si sceglie un film?

    «Le scelte nascono da un’idea condivisa, a partire dall’amministratore delegato, fino a coinvolgere tutte le varie funzioni aziendali. Medusa ha sempre avuto la costante coesistenza di titoli dall’alto potenziale commerciale, quindi trasversalmente nazionalpopolari, e di tutto ciò che aveva a che fare con un mondo più art house che passava sia per gli esordi del cinema italiano, sia per il consolidamento di grandi autori. Le congiunture degli ultimi dieci anni hanno modificato l’approccio, anche perché il pubblico ha manifestato un’attenzione particolare al prodotto di qualità».

    Cosa è cambiato? E come si sceglie un listino Medusa?

    «Abbiamo provato a far coesistere quello che più naturalmente ci viene bene, cioè la commedia popolare, con un cinema più ricercato, più impegnato. L’esigenza è, quindi, quella di comporre un listino che sia il più eterogeneo possibile e che vada a intercettare al meglio le tipologie di pubblico È in quest’ottica che nascono film come Perfetti sconosciuti, 2016, oppure film family, un sottogenere della commedia che il cinema italiano non frequentava e che è stato rianimato con Dieci giorni senza mamma (di Alessandro Genovesi, con Fabio De Luigi e Valentina Lodovini, ndr).
    Gli esempi più recenti sono la distribuzione di Un altro giro diretto da Thomas Vinterber, Oscar come miglior film straniero, e Nostalgia di Mario Martone con Pierfrancesco Favino, Tommaso Ragno e un bravissimo Francesco Di Leva».

    Un decennio di risultati, insomma, prima che il covid fermasse tanti progetti. Un esempio per tutti: La grande bellezza e l’Oscar per il miglior film straniero riconquistato dal cinema italiano.

    «Sì, tutta la produzione di Sorrentino fino a Youth è passata da noi. Ma penso anche a Tornatore, a Virzì, a Pupi Avati e ad altri nomi illustri del cinema italiano».

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    Paolo Sorrentino con l’Oscar vinto con il suo La grande bellezza

    Il tuo primo incontro con il cinema è stato in Calabria. Sei stato allievo di Marcello Walter Bruno, semiologo e critico di “Segno cinema”, uno che con i suoi studenti amava discutere di tutte le forme d’arte. È scomparso lo scorso luglio, ed è stato un dolore per chiunque l’abbia conosciuto, ascoltato, letto. È inevitabile chiederti se il tuo intuito abbia a che fare con questo background.

    «L’intuito o sensibilità, io preferisco questa definizione, sicuramente trae le sue origini dal mio percorso di studi ad Arcavacata.
    Con Marcello Walter Bruno fu un incontro folgorante. Lui e un altro docente in particolare, Roberto De Gaetano, sono stati gli attizzatori di questa fiamma. Marcello ha avuto il grande merito di proporre un metodo che utilizzo tuttora: il modo che io ho per approcciare un progetto, a partire dalla sua sceneggiatura, è quello di scomporlo. Ed esattamente era questa la maniera di procedere nello studio dei grandi autori italiani come Visconti o del cinema americano, da Coppola fino ad arrivare a Kubrick. Quando l’ho scelto come relatore, lui stava lavorando proprio al suo libro sul regista (un volume cult uscito qualche mese dopo la morte di Kubrick, per la Gremese n.d.r.).

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    Warren Clarke, Adrienne Corri, Malcolm McDowell e Stanley Kubrick durante le riprese di Arancia meccanica, 1971

    Io ero affascinato dal rapporto di Kubrick con Max Ophüls, il meno conosciuto di tutti i registi teutonici che tra gli anni ’40 e ’50 emigrarono nel cinema americano. Marcello mi aveva suggerito un approfondimento stilistico, ma io sono andato oltre e ho portato avanti una mia tesi, secondo la quale le influenze ophulsiane non riguardavano soltanto la tecnica ma arrivavano alle tematiche. Quindi il mio lavoro aveva questo piano suicida, perché toccare un mostro sacro è da suicida, di dimostrare che Kubrick aveva pescato a piene mani nel cinema del regista tedesco. Ho lavorato per sei mesi notte e giorno ed ero pronto a laurearmi, quando Marcello mi chiese altri tre mesi di approfondimento. Io ero completamente sfinito e non accettai».

    Come andò a finire?

    «Non bene. In sede di commissione di laurea bocciò la proposta del presidente del Dams di conferirmi la lode. Lui che era il mio relatore. Ecco Marcello era preciso, netto, era trasparente. E anche queste sue qualità sono state un lascito, oltre al metodo di lavoro, a cui cerco di ispirarmi».

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    Marcello Walter Bruno

    Qual è oggi la tua visione della Calabria? Pensi anche tu che potrebbe essere un set naturale, a cielo aperto?

    «Sono nato a Reggio Calabria ma all’età di sette anni sono andato a vivere a Roma, per poi trasferirmi a Cosenza negli ultimi anni di scuola. La mia è sicuramente una visione poco campanilista che non mi impedisce di vedere le grandi potenzialità e insieme i grandissimi sprechi e anche gli scempi che vengono fatti da tutti i punti di vista. È sicuramente vero che negli ultimi tempi si è mosso qualcosa. Con la Calabria film commission sono nati progetti che hanno prodotto risultati importanti. C’è stata tutta una serie di film girati nella regione che hanno guadagnato il panorama nazionale e internazionale, partecipando a festival, riscuotendo premi, ottenendo attenzioni da parte della critica.

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    Gianni Amelio al Festival di Venezia

    Penso ad Anime nere di Francesco Munzi, tratto dal romanzo di Gioacchino Criaco e al “mio” Una femmina del regista Francesco Costabile. C’è un nuovo rigurgito di nuovi autori che hanno trovato origine in produzioni locali e, inoltre, non dimentichiamo che uno dei più grandi autori italiani viventi, parlo di Gianni Amelio, è calabrese. Ecco, mi sembra che ci sia più di un elemento per essere fieri. Se poi è un set a cielo aperto bisognerà vedere. La cosa più importante è non disperdere ciò che sinora è stato fatto».

    Anche sotto l’ombrellone, quando arrivi in Calabria per trascorrere qualche giorno di vacanza, guardi immagini e sceneggiature. È vero che spesso coinvolgi i tuoi familiari e i tuoi amici nella visione di un trailer, di un cortometraggio divertente, della bozza di un manifesto?

    «Sì, spesso, coinvolgo persone a me vicine, ascolto i pareri di amici, familiari e anche di figure target. Per esempio, se deve uscire un film per famiglie, mi capita di mostrare il trailer a un bambino e di chiedergli cosa ne pensa».

    Un’attrice, un volto nuovo femminile del cinema, sulla quale punteresti molto?

    «Mi fa molto piacere parlare di un’attrice che secondo me ha un potenziale che adesso sta venendo fuori, anche se già da qualche anno era evidente, e che, non vorrei essere blasfemo, ma potrebbe essere una nuova Monica Vitti. È Pilar Fogliati (vista in Forever Young, in Corro da te e nella serie Netflix Odio il Natale, ndr).
    È molto giovane ed ha tantissime caratteristiche, riesce ad essere fragile, divertente, quindi comica, ma anche intensa e drammatica. È per queste sue doti che ricorda lo stile Vitti».

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    Pilar Fogliati

    Quale sarà il film italiano del nuovo anno, il film che lascerà qualcosa di importante nel pubblico, il più amato, il più visto?

    «A saperlo! Magari! Posso anticipare alcuni film su cui riponiamo speranze. Uno di questi è Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese tratto dal suo romanzo, un film con un supercast, sulla ricerca della felicità, del motivo per essere felici e che uscirà a fine gennaio. È la storia di una sorta di gestore di anime, Toni Servillo, che offre sette giorni per far ritrovare la forza di vivere a persone che stanno per suicidarsi. È una storia intrigante e interessante. Subito dopo, a febbraio, usciremo con Laggiù qualcuno mi ama, il docufilm di Mario Martone su Massimo Troisi, che proprio nel 2023 avrebbe compiuto settanta anni. È stato realizzato con documenti inediti e testimonianze di colleghi e amici e che tra l’altro vedrò per intero proprio stasera, quando finiremo questa intervista, perché sinora ho visto dei pezzi. Stasera vedrò il film finito».

    Cosa ti manca di Reggio Calabria?

    «Ciò che mi manca di più in assoluto sono i miei genitori, poi ci sono anche altri affetti, amici, che rivedo sempre volentieri. Una cosa che mi lega moltissimo a Reggio è il mare, perché è qualcosa di ancestrale, che va oltre qualunque deturpamento della realtà. Sì, è anche il mare a mancarmi molto».

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    L’Arena dello Stretto a Reggio Calabria

    Il mare della Fata Morgana che avvicina le sponde e incanta, culla di reperti riemersi, il mare archeologico che fa venire in mente proprio la testa di Medusa, quella cara a Versace, che inchioda la sguardo, come fa un bel film con il suo pubblico.

     

     

  • Reggio, Rem e Paul McCartney: che musica per Francesco Villari

    Reggio, Rem e Paul McCartney: che musica per Francesco Villari

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    Francesco Villari è andato via molto presto da Reggio: subito dopo il liceo. Arrivato a Roma, già durante l’università,  ha messo a frutto quella che era sempre stata la sua passione: il giornalismo musicale. A ICalabresi racconta il suo cammino. Che lo ha portato a intervistare big del rock. E collaborare con mostri sacri della musica leggera italiana.

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    Francesco Villari, giornalista e scrittore di Reggio Calabria

     

    Dove è nato il fuoco sacro per il giornalismo?

    «Sono entrato nella prestigiosa Università della Musica, che era stata creata da due grandi maestri, Gino Castaldo ed Ernesto Assante. Lì si imparava concretamente a scrivere una recensione di un pezzo, di un disco o di un concerto. Il preside della facoltà era Gianfranco Salvatore, famoso etnomusicologo. Da subito, le opportunità erano tante: così ho cominciato con la rivista Tutti Frutti, che era la bibbia del giornalismo di cultura alternativa in quei primi anni Novanta. Da lì sono passato al Mucchio Selvaggio, Rumore e naturalmente anche la bellissima esperienza con Musica del quotidiano La Repubblica. Era un cammino a metà esatta tra il pratico e il teorico, al punto che dai nostri laboratori universitari è nata proprio la squadra che ha creato l’inserto del quotidiano, allora ancora guidato da Scalfari».

    Quanto è durato il percorso lì dentro?

    «Tre anni. Come un master post-universitario».

    Quando ancora eri a Reggio e hai capito che questa doveva essere la tua strada, come l’hanno presa in famiglia?

    «Io vengo da una famiglia che fortunatamente ha sempre avuto una maggiore apertura mentale, ma è chiaro che la “vena artistica” viene sempre vista con sospetto. La mia è una famiglia di storici, quindi ha vissuto di qualcosa di molto tangente all’arte. Rosario Villari si è occupato di storia moderna, Lucio di storia contemporanea, mio padre Nicola di storia del folklore. Quindi, come per discendenza spontanea, io mi occupo di storia della musica. Inizialmente mi hanno consigliato di approcciarmi a qualcosa di più concreto, già all’epoca si pensava che queste strade fossero un po’ complicate e nonostante questo io sono sempre stato un sognatore. Alla fine è andata anche bene».

    All’inizio dove vivevi a Roma?

    «All’inizio la classica vita del fuorisede calabrese a Roma: le prime case in comune con alcuni amici in zona Tiburtina e Prenestina, poi invece sono diventato pariolino».

    Com’è iniziata la collaborazione con “Tutti Frutti”?

    «È stata la mia prima esperienza. Cinquanta-sessanta recensioni di dischi a settimana. Poi anche tanti concerti. Erano gli anni del Palladium alla Garbatella, del Palaeur. All’epoca nascevano i Modena City Ramblers, i Bluvertigo, gli Almamegretta: la scena alternativa italiana era fiorente e io ero lì ad assistere. Poi l’intervista agli Oasis».

    Paul McCartney

    E sono arrivate anche le “trasferte”.

    «Sì, per il Mucchio. La mia prima trasferta importante a New York nel 1994, per intervistare i REM, che ancora non erano famosi, sarebbero esplosi più avanti con l’album Out of time, ma in Europa ancora non li conosceva nessuno. Poi a Londra con Paul Mc Cartney, una leggenda davanti ai miei occhi. Abbiamo parlato del suo album Off the ground, che era appena uscito. La mitologia vera».

    E i cantautori italiani?

    «Sono arrivate le occasioni per intervistare anche loro. De André, De Gregori, Dalla, Battiato. Con Franco ho addirittura realizzato un disco, in collaborazione con il Banco del Mutuo Soccorso. Si intitolava Imago Mundi».

    Hai continuato anche con “Rumore”. Esperienze di rilievo?

    «L’intervista con Roger Taylor, batterista dei Queen. Anche gli Spearhead di Michael Franti, un gruppo hip hop molto interessante, crossover tra i generi».

    Francesco Villari, quale è stato l’incontro più strano?

    «Senza dubbio quello con Fish dei Marillion. Lui era completamente sbronzo. Paolo Maiorino, un caro amico dirigente della Emi dell’epoca, mi chiese se avevo bisogno di un traduttore. Io mi piccai perché pensavo di non averne bisogno. Dopo capii il perché. Fish era un boscaiolo scozzese, era come se parlasse un sardo. Facevo finta di capire tutto. Così mi sono dovuto inventare l’intervista. Lo so che non si dovrebbe dire. Ma è quello che ho fatto, tanto ormai non mi possono più radiare. Però il giorno dopo mi chiamò l’ufficio stampa del cantante per farmi i complimenti».

    A un certo punto qualcosa cambiò nell’editoria musicale.

    «Musica ha cominciato a uscire autonomamente ma non ha funzionato. Le altre riviste e gli altri giornali stavano cambiando molto rapidamente, diventando le “fanzine” prezzolate dalle case discografiche. Non si scriveva più di un disco che piaceva davvero, ma lo si faceva per far piacere a loro. Ho cominciato a fare produzione, altre cose. Poi, per motivi sentimentali, sono tornato a Reggio nel 2012».

    E com’è iniziata la nuova avventura di “Cartoline Rock”?

    «Non potevo rinunciare alla musica e alla scrittura musicale. Così è nata la pagina Facebook (che oggi ha quasi settemila iscritti), mi serviva come sfogo per continuare a seguire la mia passione ma all’inizio non pensavo che il mezzo dei social media potesse avere così tante potenzialità di diffusione. Poi invece si è creata una bellissima rete, con Castaldo, Assante e anche con Carlo Massarini, poi Gegé Telesforo, Ellade Bandini e tanti altri. A un certo punto questa comunità spontanea è cresciuta un po’ anche per la dimensione “forzata” online (eravamo ancora in piena pandemia) con un megaevento alternativo il Primo Maggio del 2020, realizzato dagli studi di Radio Touring 104».

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    Vota Jim Morrison e Jimi Hendrix, la “campagna elettorale” di Cartoline rock

    E così hai capito che volevi uscire dal guscio virtuale?

    «Sì, ho capito che questa comunità voleva guardarsi in faccia, erano stati anni complicati. Così ho creato Cartoline Club. Una specie di hang out di Cartoline Rock: ho cominciato a organizzare eventi musicali, di letteratura, cinema, teatro, stand up comedy. Il locale, prima nella zona di via Aschenez (al centro di Reggio). D’estate abbiamo avuto la nostra appendice Cartoline beach club, su una terrazza sul mare in zona Pentimele e da poco abbiamo una nuova sede più grande, in via Friuli (zona Parco Caserta)».

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    Cartoline Club a Reggio Calabria

    Che oggi è un locale a tutto tondo.

    «Sì, facciamo musica live, di tutti i generi. 140 eventi ad oggi. Per iscriversi al circolo bastano 5 euro al mese e si può pagare con una o due annualità. Coinvolgiamo già una serie di artisti che vengono da un po’ tutta la Calabria. Facciamo anche serate di reading di poesia e letteratura, presentazioni di libri rassegne cinematografiche, la stand up comedy curata dal direttore artistico Rocco Barbaro. La rassegna jazz e quella blues. Poi c’è Rock Tales, curata da me con il chitarrista Salvatore Familiari e con la pittrice Luisa Malaspina che dipinge dal vivo. Ogni volta analizziamo un tema diverso affrontato dal rock, attraverso un filo conduttore di canzoni che ne hanno parlato. C’è un bar con piccola ristorazione all’interno, così ci si può anche fermare a consumare qualcosa. Non manca niente al Cartoline Club!».

    La pittrice Luisa Malaspina dipinge dal vivo al “Cartoline Club” di Reggio Calabria
  • Il paninazzo made in Calabria che vuol sfidare McDonald’s

    Il paninazzo made in Calabria che vuol sfidare McDonald’s

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    Le idee sono come germogli, ha detto qualcuno. Se poi partono dalle proprie radici e, infilate in un panino, fanno il giro, arrivano alla Capitale e cercano di oltrepassare i confini, allora sono destinate a durare. È la storia di Marco Zicca e del marchio Mi ‘Ndujo, partito da Cetraro alla conquista dei palati italiani ed europei.

    Come inizia la tua storia?

    «Sono nato a Cetraro. Non sono mai stato particolarmente brillante a scuola, quindi inizialmente mi sono messo a fare il pizzaiolo, poi, essendo già molto intraprendente, ho aperto un circolo per far giocare a carte e biliardino. L’altro passo è stato prendere in gestione con la mia famiglia un ristorante solo d’inverno, così nel frattempo la mattina andavo a scuola. A diciannove anni, la prima occasione concreta: il ristorante Miramare (oggi conosciuto come Frittura al metro). Non avevo nessuna esperienza, ma mi sono lanciato e dopo circa due anni le cose hanno cominciato a ingranare bene».

    Sempre da solo?

    «Con la mia famiglia. La tradizione calabrese di gestione familiare, che poi ha continuato ad accompagnarmi nelle mie scelte. Le difficoltà sono tante e senza la famiglia non si possono gestire».

    In che anno hai cominciato a pensare di cambiare?

    «Nel 2006 ho ricevuto la proposta di un amico, voleva aprire un piccolo locale all’interno del centro commerciale Metropolis di Rende, ma non poteva gestirlo personalmente. Ho pensato che fosse comunque importante mantenere un’alternativa al ristorante sul mare e così ho deciso di occuparmene io. Mia sorella mi ha dato una mano. Era Panino Genuino, l’antenato di Mi ‘Ndujo, nel 2007».

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    Il centro commerciale di Rende da dove è partita l’avventura di Mi ‘ Ndujo

    Era già partita l’idea.

    “Sì, contemporaneamente ho aperto in Polonia, tramite un ragazzo che aveva lavorato da me a Cetraro. Ma lì non ha funzionato, perché il centro commerciale del luogo aveva già problemi economici. Quindi ho provato anche a Bergamo, ma lì i ragazzi che lo gestivano hanno fatto troppi errori. Così mi sono riempito di debiti e ho dovuto ricalcolare tutto. È stato un periodo complicato».

    Come ne sei uscito?

    «Ho capito che mi mancavano le basi, allora sono andato a studiare per un anno in una scuola di formazione a Bologna, con la mia Fiat Multipla scassata, avevo sempre paura di restare per strada. Mi serviva capire come funzionassero il marketing, le competenze gestionali, conoscere le strategie imprenditoriali e la gestione del personale. Ho capito gli errori che avevo fatto».

    E hai ripreso il cammino da Cosenza…

    «Sì, abbiamo cominciato a lavorare bene, con una scelta molto attenta a tutti i prodotti del territorio, dalle carni al caciocavallo e alle patate silane, fino alla farina biologica. Le polpette di melanzane le produce un laboratorio di Crotone, quelle di sopressata il Salumificio Menotti secondo la ricetta di mamma Tonia. Grazie all’incontro con Coldiretti, si è sviluppata una collaborazione con tutti i produttori locali che si sono occupati del rifornimento. Niente roba congelata, solo fresca. Persino le bibite, come il chinotto».

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    Patate della Sila e polpette di melanzane: due cibi tipici calabresi che la catena propone ai suoi clienti oltre ai panini

    Quando è arrivata la svolta per Mi ‘ndujo?

    «Con Roberto Bonofiglio. Ci siamo conosciuti perché volevamo investire in bitcoin. Io non ne capivo niente, ma mi ha convinto. Poi parlando gli ho proposto di investire nella ristorazione e ha accettato volentieri. Lui inizialmente voleva provare nel Nord Europa, ma abbiamo ricominciato dal “piccolo”. Aprendo un punto Mi ‘Ndujo a Cosenza, su corso Mazzini, le cose sono andate subito molto bene. Da lì tutto è cresciuto molto velocemente e in poco tempo abbiamo aperto a Quattromiglia, a due passi dall’uscita dell’autostrada. In banca pensavano che fosse un azzardo, quindi ci abbiamo messo soldi nostri. Invece ha funzionato ancora».

    Nel frattempo quante persone avevi impiegato?

    «Già erano una quarantina. Poi ne abbiamo preso altri per gli uffici e quelli del Miramare per l’estate. Ma volevo provare altri territori. Ho pensato prima a Reggio, poi a Catanzaro. Alla fine ho deciso per Roma, che sicuramente, con qualche ora di macchina in più poteva offrire più prospettive di sviluppo. Pensavo ai quattro McDonald’s qui e mi chiedevo: ma perché non posso provare a fare la stessa cosa nella Capitale?».

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    Il progetto di Marco Zicca conquista anche le pagine di Vanity Fair

    E quindi a Roma com’è andata?

    «Sono andato in avanscoperta. Il primo punto vendita lo abbiamo aperto al centro commerciale Aura, nel quartiere Aurelio. Tante difficoltà anche lì, una cosa è viverla da turisti, una cosa è lavorarci. Era la fine del 2019. Poco dopo è arrivato il Covid e abbiamo dovuto ricominciare tutto, sfidando la paura e cercando di restare in piedi, attivandoci subito con le piattaforme di delivery e facendo riunioni online per studiare ogni giorno strategie nuove di sopravvivenza».

    Come siete usciti dalla pandemia?

    «Piano piano, ogni piccola consegna che riuscivamo a fare era una conquista. È stato un momento di grande disperazione, ma ci siamo intestarditi, da veri calabresi. Cinque soci più due ragazzi che lavoravano con me. Una volta finita la tempesta, oggi possiamo dire di essere rimasti in piedi».

    E oggi quanti Mi ‘Ndujo ci sono a Roma?

    «Ne abbiamo sei, oltre a quello all’Aurelio oggi ne ho uno in centro, Ponte Milvio, poi al rione Monti, un altro sulla Tuscolana, uno nel centro commerciale Euroma2 e uno in zona Piazza Bologna (storica zona di immigrati calabresi nella Capitale). La Banca Centro Calabria ha creduto in noi, ci hanno fatto un finanziamento importante per aprire nuovi locali. In Calabria sono rimasti tre locali».

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    L’interno di uno dei locali aperti da Zicca

    Pensi di aprire altri punti Mi ‘Ndujo nella regione?

    «Sì, ho ancora l’idea di aprire anche a Reggio, sul lungomare e a Catanzaro Lido. Poi Milano, Bologna e Puglia. L’idea adesso è quella di aprire un po’ in tutta Italia. E magari riprovarci all’estero. Oggi siamo circa 120 persone».

    Siete anche molto attivi sui social…

    «Eugenio Romano, il nostro direttore marketing, si occupa di questo aspetto e poi mia sorella Teresa fa i video, intervistando anche i ragazzi che lavorano per noi. Noi teniamo tanto alla formazione interna continua. Ogni punto vendita ha i suoi corsi settimanali e mensili, vogliamo che tutti si mettano in gioco e crescano insieme».

    Hai mai pensato alle fiere per Mi ‘ndujo?

    «Al momento non la vedo come una cosa fatta per noi».

    Secondo te, dei nostri sapori cosa piace di più ai “non calabresi”?

    «La ‘nduja, la salsiccia ma anche cose meno famose come il caciocavallo silano, o i cuddrurìaddri. Ne abbiamo venduto 200 a locale, sono stati un successo, la gente non li conosceva. Poi, in futuro, vorrei introdurre la liquirizia Amarelli, il bergamotto o la rosamarina, anche se il pesce va lavorato in un modo diverso e con quantità e tempi di deterioramento differenti».

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    Uno dei panini sfornati da Mi ‘Ndujo

  • Da Catanzaro alle città del futuro: Paola Cossu, cervello in fuga… a ritmo di musica

    Da Catanzaro alle città del futuro: Paola Cossu, cervello in fuga… a ritmo di musica

    [responsivevoice_button voice=”Italian Male” buttontext=”ASCOLTA L’ARTICOLO”]

    Paola Cossu è un cervello in fuga. Da Catanzaro al mondo, sempre alla ricerca di un accrescimento professionale e culturale, sempre in movimento.
 Paola Cossu è partita dalla Calabria, subito dopo il liceo, perché per seguire il suo percorso era necessario andarsene, come molti figli di questa terra sanno, una scelta obbligata. A Roma si è laureata in Scienze Statistiche. Poi, parallelamente, è diventata AD di Fit Consulting, azienda leader nel settore della mobilità urbana sostenibile, e manager di Paola Turci, artista tra le più originali e coraggiose della musica italiana con quasi 40 anni di carriera. È una calabrese illustre.

    Partiamo proprio dalle radici: dove sei nata?

    «Sono nata e cresciuta nel centro storico di Catanzaro, in una condizione perfetta: I giardini davanti casa, circondata da giovani come me. Ero una privilegiata, non usavo motorino né mezzi pubblici, avevo tutto lì. Sono nata in un quartiere “bene”: mio padre discendeva da una famiglia nobile di giudici e notai, ma lui era un funzionario Inps e ispettore di vigilanza, mia madre insegnante elementare. Questo mi ha avvantaggiato perché la mia era una famiglia senza pregiudizi, io e mia sorella siamo sempre state estremamente libere in ogni nostra scelta. Sicuramente non era la tipica famiglia del Sud».

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    Uno scorcio del centro storico di Catanzaro
    C’è un ricordo in particolare che leghi a Catanzaro e alla Calabria?

    «Ce ne sono tanti, ma sicuramente quelli più legati alla scuola. Mi piaceva tantissimo studiare, ho fatto il liceo scientifico. Ho avuto anche la fortuna di avere professori molto aperti, leggevamo Repubblica in classe con quello di filosofia, negli anni ’80 non era una cosa banale. Ho imparato dai miei prof giovani a essere uno spirito critico e aperto. Mi piaceva tantissimo, avevo la consapevolezza di essere già molto fortunata. Andavo al cinema, a teatro…».

    Un posto del cuore, in Calabria?

    «Dal 1975 ho una villetta sul mare, a 20 km dalla mia città. È il mio posto del cuore, rappresenta tutta la mia infanzia, la mia adolescenza, i momenti più belli. Ancora oggi che mio padre non c’è più, l’estate è lì, con mia madre e mia sorella. Arrivo, mi metto gli zoccoli e mi sento libera».

    Quando hai iniziato a pensare “in grande” e capire cosa volevi fare?

    «Ho fatto poche scelte nella mia vita, ma tutte molto convinte. Quando mi sono diplomata volevo andare via dalla Calabria, non perché non la amassi, ma perché sapevo che per quello che volevo fare io era impossibile restare. L’unica facoltà che non c’era e che era solo a Roma: Scienze Statistiche. Ero obbligata, i miei mi hanno capita. Il primo anno un po’ di ambientamento, poi in casa con altre ragazze, infine ho preso un appartamento con mia sorella. Dopo la laurea, con una tesi super sperimentale sui titoli azionari, con un prof che sceglieva ogni anno uno studente soltanto per fargli fare tesi così. Ero felicissima, ci ho messo un anno e mezzo per finire ed è stato faticosissimo».

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    Roma, La Sapienza: l’ingresso della facoltà di Scienze Statistiche
    E dopo?

    «Dopo ho deciso che dovevo cominciare a guadagnare qualcosa e ho cominciato con lezioni private di statistica, matematica finanziaria, redazione di tesi. Quindi ho lavorato per una compagnia di assicurazioni e dopo qualche mese ho incontrato il mio attuale socio. Mi ha proposto di entrare in una società di progetti europei sulla mobilità sostenibile con sede a Orte, disse che c’era da lavorare e da viaggiare tanto. I miei non erano molto convinti, preferivano che rimanessi nelle assicurazioni, ma sono sempre stata allergica all’idea che qualcuno mi dicesse cosa dovevo fare o non fare, è il mio carattere.
    Questa mia caparbietà mi ha quindi portato a viaggiare, a imparare bene l’inglese, a scrivere progetti per la Commissione Europea. Dopo tre anni sono diventata socia perché lui mi aveva detto che se avessi raggiunto gli obiettivi stabiliti mi avrebbe regalato una quota. E così dal 3 per cento nel 1998 sono passata a diventare amministratore delegato di Fit Consulting nel 2003. In cinque anni. Avevo 33 anni».

    Quali pensi siano le sfide realistiche in questo settore, data l’urgenza del cambiamento climatico?

    «Io sto lavorando su diversi piani, due fondamentali. Il primo riguarda una gestione dinamica degli spazi della città per tutti, non possono più essere ad uso esclusivo di una categoria: per la logistica e per il trasporto pubblico. Di giorno uso lo spazio per una cosa, la sera per un altro. Tutte le infrastrutture della città devono essere messe a servizio: mobility hub, cioè spazi dove trovi la fermata del bus, la ricarica elettrica, il car sharing, la bicicletta.

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    Il secondo riguarda l’e-commerce, che ha cambiato davvero non tanto i processi logistici, ma proprio l’abitudine delle persone: sono diventate compulsive. Il delivery deve diventare più lungo possibile, non è pensabile né sostenibile che la consegna sia per forza in un giorno. Amazon ha voluto soddisfare il singolo cliente nella sua singola necessità. Ma se tu acquisti un bene e lo vuoi domani, hai un impatto forte sull’ambiente, quindi è urgente responsabilizzare il cliente sulla sua scelta di acquisto. Bisogna lavorare sulle persone. L’acquirente ha un potere enorme, così si possono capovolgere i poteri».

    A proposito di logistica, cosa pensi del Ponte sullo Stretto?

    «È una stronzata. Un programma europeo ha finanziato un ponte grandioso, quello che congiunge Svezia e Danimarca, e quello ha un senso prima di tutto perché non ci sono appalti, subappalti e subappaltini. Secondariamente, lì ci sono le infrastrutture che consentono di gestire la domanda. Ma se tu fai il ponte che arriva a Messina e a Messina non ci sono le infrastrutture che smaltiscono il volume di traffico è una proposta fuori dal mondo. È una megalomania propagandistica e opportunistica. Bisogna creare ferrovie, migliorare le strade, promuovere il turismo».

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    Il ponte di Øresund, che – insieme a un tunnel sottomarino – collega Svezia e Danimarca
    Come hai incontrato, invece, Paola Turci?

    «Nel 1996, tra gli album Una sgommata e via e Volo così. Lei aveva un fan club gestito da un’altra persona che mi ha chiesto di aiutarla. Dall’immediata stima reciproca è nato un affetto grande. Negli anni abbiamo costruito e tenuto viva la passione di tutti i fan che la seguono, cercando di darle continuità. Il mondo della musica è molto difficile: puoi avere il miglior discografico che vuoi, ma devi avere la tua fanbase, le persone che ti amano e comprano i tuoi dischi».

    Qual è la qualità che più apprezzi in lei, come persona ancor prima che come artista?

    «È una persona fragile e forte allo stesso tempo. Le vuoi bene perché, al di là dell’enorme talento che le ha fatto sempre mantenere un livello artistico alto senza mai scendere a compromessi, Paola è una persona libera. La sua libertà è la sua forza ed è anche la sua generosità: i fan lo avvertono. Ho una grandissima stima di lei. Fare la sua manager richiede tanta attenzione, riuscire a tutelarla e a farle esprimere il meglio. Il suo nuovo progetto teatrale sta andando benissimo, la prima cosa che lei mi ha chiesto è stata il teatro. Sta facendo sold out dappertutto, sarà un grandissimo successo. È lei con le persone davanti, ma non è più la musica. È una cosa diversa. Paola ha tantissimo coraggio, non ha paura. La frase più significativa di questo spettacolo è: “Pensate quello che volete di me: io sono libera”».

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    Paoa Cossu con Paola Turci
    Un’ultima domanda, a risposta secca: in cosa la Calabria è imbattibile e in cosa è pessima?

    «Il calore, la generosità, l’ospitalità e la simpatia, la genuinità delle persone sono qualità per cui la nostra regione è imbattibile. I calabresi accolgono a braccia aperte, come faceva mio padre. La cosa che invece assolutamente non apprezzo è il vittimismo: è il freno più grande allo sviluppo della nostra terra».

  • «Termovalorizzatore raddoppiato? Lunare parlarne nel 2022»

    «Termovalorizzatore raddoppiato? Lunare parlarne nel 2022»

    Cristian Romaniello, psicologo e giornalista, deputato eletto nel marzo 2018 in Lombardia con il Movimento 5 Stelle, è stato espulso dal partito per non aver votato la fiducia al Governo Draghi. Nel febbraio di quest’anno è entrato in Europa Verde-Verdi Europei divenendo presidente della relativa componente parlamentare.
    In vista delle comunicazioni in Parlamento di Draghi di mercoledì, Romaniello interviene su I Calabresi affrontando argomenti di stretta attualità politica.

    Onorevole Romaniello, qual è la posizione di Europa Verde nei confronti del Governo Draghi? Voterete la fiducia?

    «Noi siamo stati sempre in opposizione al Governo Draghi, non abbiamo mai dato la fiducia. Sarebbe ridicolo anche solo pensare che si possa noi votare la fiducia. I nostri voti negativi dipendono da un giudizio che diamo sui provvedimenti che vengono approvati da questo governo. Per citarne qualcuno, il taglio alla sanità, il taglio al finanziamento sull’istruzione, sulla ricerca, sulla cooperazione, tra l’altro con scuse assurde.

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    Draghi in parlamento

    Sull’istruzione Draghi ha detto “c’è un calo demografico, possiamo tagliare un po’ di soldi”. Come se le classi pollaio non esistessero più, come se gli insegnanti non fossero ancora sottopagati e costretti a lavorare in condizioni non dignitose. Chiaramente è insensato un taglio a queste voci di spesa, salvo poi vedere che si corre a rispettare gli impegni internazionali per quanto riguarda l’aumento delle spese militari. Bisogna ricordare che anche la spesa sociale dipende da accordi internazionali. Questa incoerenza ci porta a non votare una fiducia a questo Governo che è anche contrario alle politiche ambientali che portiamo avanti noi».

    A febbraio contavate 7 consiglieri regionali e quasi 200 consiglieri comunali. Le amministrative di giugno sono andate bene, siete pronti per le elezioni politiche?

    «Sì, siamo pronti con questa alleanza con Sinistra Italiana. Ci sarà una lista unica, anche con altre realtà civiche. La mia speranza è che in questo percorso si aggiungano queste realtà civiche del popolo vero, ma anche del mondo intellettuale, giornalistico, di personalità di spicco. È un ragionamento largo e ampio, che esce dalle logiche dei partitismi degli ultimi decenni. Siamo pronti, gli argomenti ci sono, la forza c’è e si rifletterà anche nei numeri».

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    Il termovalorizzatore di Gioia Tauro

    In Calabria, invece, alle regionali dell’anno scorso Europa Verde, in coalizione con il centrosinistra Pd-M5S, ha raggiunto lo 0,5%. Il “campo largo” vi ha penalizzati?

    «Penso che il campo largo penalizzi sempre. In Italia le leggi elettorali sono spesso maggioritarie, quasi non ti puoi permettere di andare fuori coalizione. Questo avvantaggia le forza più grandi, danno più sicurezza».

    Alcune forze prettamente civiche calabresi vostre alleate alle scorse regionali, come “Tesoro Calabria” del geologo Carlo Tansi, hanno pubblicamente preso le distanze dalla candidata presidente del centrosinistra, oggi consigliera regionale, Amalia Bruni, rea di svolgere una opposizione troppo “soft” a Forza Italia e Roberto Occhiuto. Avete ancora fiducia nella Bruni?

    «I modi di fare opposizione sono diversi, riguardano anche il temperamento, il carattere. Che una scienziata faccia una opposizione diciamo “mansueta” non mi stupisce. Il lavoro scientifico non è un lavoro di impeto, è un lavoro ragionato, a toni bassi. Penso che sia nell’ordine delle cose. Nessuno è mai soddisfatto del tipo di opposizione che fa il vicino di banco. Sul permanere della fiducia ad Amalia Bruni bisognerà sentire chi ha più sott’occhio l’operato locale».

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    Amalia Bruni

    Il capogruppo del M5S in Consiglio regionale, Davide Tavernise, si è detto favorevole al raddoppio del termovalorizzatore di Gioia Tauro. Il referente e candidato regionale di Europa Verde, Giuseppe Campana, in campagna elettorale riteneva che parlare ancora di termovalorizzatori fosse un insulto. Che ne pensa e da che parte sta?

    «La nostra posizione storica anche mia personale è di contrarietà netta ai termovalorizzatori. Ci sono sempre dei meccanismi e delle tecnologie di transizione. Si potrebbe usare un po’ tutto se è in via di transizione. Bisogna cercare di arrivare ai metodi che siano veramente più importanti per la gestione dei rifiuti, io penso alla raccolta differenziata porta a porta, al riuso, al riciclo totale. Bisogna evitare a monte di produrre rifiuti. L’obiettivo è evitarlo il conferimento in discarica. Per questo occorre investire su questo ed è lunare parlare di valorizzatori nel 2022».

    Davide Tavernise, il capogruppo regionale di M5S

    Nel vostro programma c’è la spinta verso un “Green new deal”, quali sono le vostre proposte?

    «A livello centrale bisogna partire, specialmente in questo periodo, da politiche energetiche lungimiranti. Non si può dire, ad oggi, che possiamo spegnere le centrali di ciò che non è rinnovabile domani mattina. La questione è: “come investiamo i nostri soldi?”. Io vorrei vedere che i nostri soldi siano impiegati una parte nella ricerca e nello sviluppo di nuovi orizzonti energetici puliti, dall’altra parte vorrei vedere investimenti poderosi sulle rinnovabili e su tutto ciò che riduce l’inquinamento. Vorrei vedere più investimenti sul sole, sul vento, sulle batterie naturali. Le pompe idroelettriche sono particolarmente efficienti. Partire da questo vuol dire utilizzare energie di transizione, come il gas, ma per un periodo che deve essere limitato. Da qui potremmo ridurre un costo enorme che è quello dell’approvvigionamento energetico e poi di ripulire l’aria.
    Sui rifiuti bisogna cambiare radicalmente le politiche di gestione. La salute, l’ecologia e l’ambiente sono molto collegate. I fanghi di depurazione, ad esempio, vanno gestiti, ma non in modo folle. Non devono più esserci effetti nocivi per i terreni e per le persone».

    Trattamento dei rifiuti in discarica

    Lei è promotore di una legge importante, quella per la prevenzione del suicidio e degli atti di autolesionismo. Perché è importante intervenire su questo tema?

    «È molto importante legiferare perché l’Italia è l’ultimo tra i paesi avanzati a non avere una strategia nazionale sulla prevenzione del suicidio. Attraverso una mozione approvata il 14 giugno a mia firma obbligo il Governo ad istituirla. Ci vorrà un po’ di tempo, ma è un passo. La questione non è l’essere rimasti gli ultimi, ma il significato. In Italia ogni anno si suicidano 4.000 persone. Questo è il dato emerso, ma si parla di una forbice di 4.000-8.000. È così ampia perché il suicidio è la causa di morte che subisce più errori di classificazione. È la seconda causa di morte nel nostro paese dei giovani adulti. Si amplifica particolarmente nella seconda fase delle crisi. Ma noi oggi siamo in una fase di crisi permanente: economica, finanziaria, pandemica, bellica, inflazione. Tutte queste crisi concorrono ad aumentare il numero dei suicidi, non c’è più la speranza di tornare alla normalità, di star bene, di avere una mano tesa. In Italia non abbiamo un numero verde per la prevenzione del suicidio, non abbiamo un centro studi nel pieno delle sue competenze che possa fare una raccolta dati e aggiornarli di anno in anno, non abbiamo politiche che vanno in direzione del disarmo. Nella mozione abbiamo inserito una misura che dovrebbe arrivare a contrastare le armi in ambiente domestico, perché capita che i giovani si suicidino con le armi dei genitori, anche se debitamente e legalmente tenute. Per tutti questi motivi è importante intervenire sul tema».

  • Castorina imbarazza il Pd, ma dice: votato dai vivi, non dai morti

    Castorina imbarazza il Pd, ma dice: votato dai vivi, non dai morti

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    Antonino Castorina di professione fa l’avvocato. È stato capogruppo del Pd in Consiglio comunale a Reggio Calabria e consigliere metropolitano con delega al Bilancio.
    Castorina è stato pure membro della direzione nazionale del Partito democratico. In occasione delle primarie del 2019 è diventato coordinatore regionale della mozione “Sempre Avanti” di Roberto Giachetti e Anna Ascani, ex ministra dell’Istruzione e ora sottosegretaria alo Sviluppo economico.
    L’ex capogruppo è stato, inoltre, coordinatore regionale di “Energia democratica”, la corrente della sottosegretaria.
    Una carriera politica in ascesa, fino al clamoroso arresto nel 2020 nell’inchiesta sui presunti brogli elettorali a Reggio. Oggi Castorina è rinviato a giudizio per tentata induzione indebita nel processo Helios e indagato per concorso morale in falso ideologico nell’inchiesta sui brogli alle ultime amministrative reggine.
    Decorsi i termini della misura cautelare che gli vietava la dimora a Reggio Calabria, l’avvocato è pronto a rientrare nella sua città e nel consiglio comunale dopo un anno e mezzo. Ha deciso di parlare in esclusiva a I Calabresi.

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    Palazzo San Giorgio, il municipio di Reggio Calabria

    Avvocato Castorina, a Reggio i morti votavano per lei?

    «Per la seconda volta consecutiva sono stato tra i pochi consiglieri a superare le mille preferenze in tutti i seggi della città.
    La storia dei morti che mi avrebbero votato è sconfessata prima dal Tar e poi dal Consiglio di Stato. I due organi di giustizia amministrativa hanno chiarito la validità delle comunali di Reggio del 2020. Inoltre, negli atti di indagine a mio carico non c’è alcuna contestazione sul presunto voto dei defunti. Anche perché i loro nomi – proprio perché morti – non possono essere nei registri elettorali. Una fake news bella e buona, usata ad arte per creare suggestione e provare a fare un processo fuori dal Tribunale».

    Il Tribunale del Riesame a febbraio 2021 ha parlato di «vero e proprio sistema di alterazione dell’espressione del voto». Cosa dice a riguardo?

    «Il Riesame si è espresso sulle esigenze cautelari e non sul fatto. Su questo si esprimerà un altro Tribunale quando ci sarà il processo. Mi preme specificare che abbiamo fatto ricorso contro la decisione del Tdl in Cassazione. Tuttavia, la stessa Procura aveva già revocato i domiciliari con il divieto di dimora e poi ha dato parere favorevole alla cessazione della misura».

    Il Presidente di Seggio Carmelo Giustra aveva parlato di un vero e proprio “accordo con Castorina” sui brogli durante l’interrogatorio del dicembre 2020. Lei aveva un davvero questo accordo?

    «Se si legge tutto l’interrogatorio, si può capire come in nessuna parte si sostiene che io ho dato indicazioni di fare brogli. E non è un mistero che il presidente di seggio sottoposto a misura cautelare sia stato interrogato ben tre volte: ciò significa che le sue dichiarazioni sono state alquanto contraddittorie».

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    Giuseppe Falcomatà, il sindaco “destituito” dalla legge Severino

    Quindi non c’erano liste di anziani il cui voto sarebbe stato espresso da altre persone…

    «Di sicuro, durante la campagna elettorale esistevano liste di potenziali elettori che potevano essere intercettati: giovani, anziani, stranieri, tutte le categorie. Alterare la libera espressione del voto non fa parte della mia cultura. Per questo motivo, non avrei mai praticato alcuna alterazione. Inoltre, ritengo che sia molto complicato o addirittura impossibile taroccare i consensi: un seggio elettorale è composto da sei persone, oltre le forze dell’ordine e i dipendenti comunali a presidio degli stessi».

    Lei è imputato nel processo Helios. Secondo l’accusa avrebbe cercato di assumere persone amiche nell’azienda dei rifiuti di Reggio Calabria. Reato o clientela?

    «Lo chiarirà il processo. Io ho fiducia nella giustizia».

    Ma Castorina cosa pensa del clientelismo politico?

    «Io ho fatto politica sempre per passione e per amore del mio territorio, sin da quando ero rappresentante a scuola, all’Università e militavo nel Movimento giovanile. Non vivo di politica, faccio l’avvocato. Perciò il mio impegno politico non si inserisce negli scambi di favori».

    Torna in consiglio comunale, riabbraccerà il Pd?

    «La mia casa è il centrosinistra moderato, riformista e cattolico. La mia idea è quella del Pd. Il Pd si dovrà determinare.
    Tuttavia, tengo a dire una cosa: se se una persona come me – non condannata ma solo indagata – non può stare nel Pd, lo stesso principio dovrà essere applicato a tutti i soggetti indagati o condannati che militano o hanno ruoli nel partito. Io quando ho subito la misura cautelare ho subito comunicato la sospensione dal Pd e da tutti gli incarichi, compreso quello in direzione nazionale.
    Nelle prossime settimane manderò una lettera al segretario regionale Nicola Irto e a Enrico Letta per capire quel che accadrà».

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    Nicola Irto, il segretario regionale del Pd

    Ci sono malumori o mal di pancia da quelle latitudini per il rientro di Castorina nel Pd?

    «Bisogna chiederlo a quelli del Pd. Io non ho malumori con nessuno».

    Ha ricevuto solidarietà dal suo partito in questo anno e mezzo?

    «Ho ricevuto tanta solidarietà umana. Per quanto riguarda l’aspetto politico, ho evitato qualsiasi contatto o rapporto con esponenti della politica calabrese, fino alla revoca delle misure cautelari e al reintegro in Consiglio. Ritenevo inopportuno fare altrimenti».

    Ha mai pensato di dimettersi?

    «Neanche per un istante. Le dimissioni avrebbero significato una ammissione di responsabilità che non ho mai immaginato di avere».

    Falcomatà “destituito” dalla legge Severino, il cui referendum abrogativo ha fatto flop alle urne, che ne pensa?

    «È una legge giustizialista, totalmente sbagliata e che danneggia le comunità. Mi auguro che molto presto Giuseppe Falcomatà possa tornare al suo ruolo istituzionale».

  • Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Rubbettino: «Politica scadente? Sì, ma è un alibi per troppi calabresi» [VIDEO]

    Florindo Rubbettino è l’amministratore della più importante realtà editoriale del Sud.
    Fondata da suo padre Rosario nel 1973, la Rubbettino vanta un catalogo di oltre tremila titoli. Un catalogo decisamente onnivoro in cui passa di tutto purché di qualità. E, soprattutto, senza preconcetti culturali o, peggio, ideologici. Vi trova posto, ad esempio, Leonardo Sciascia, a fianco di filosofi come Dario Antiseri, Carlo Lottieri e Giuseppe Bedeschi.

    CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER GUARDARE L’INTERVISTA

    I tipi di Rubbettino, inoltre, “macinano” politologi (Alessandro Campi, Rudolph J. Rummell), sociologi (Pino Arlacchi), storici (Christopher J. Duggan ma tantissimi altri di vaglia). E non mancano i politici, che hanno raccontato sé stessi e le loro visioni (Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Paolo Savona).
    Intenso anche lo scavo nella cultura regionale, operato con la riedizione degli autori calabresi più importanti o di grandi autori che si sono occupati della Calabria.

    Da Soveria Mannelli al Salone di Torino

    Quest’avventura continua, dopo quasi cinquant’anni, lì dov’è nata: a Soveria Mannelli, nel cuore della Sila Piccola.
    A dimostrazione che la marginalità del territorio non è sempre e necessariamente un ostacolo.
    Reduce dal Salone del Libro di Torino, Florindo Rubbettino, ha ripreso la sua polemica nei confronti della classe politica meridionale e calabrese in particolare: «Il livello, nell’ultimo ventennio, è sceso tantissimo e forse questo declino è lo specchio della società».

    Florindo Rubbettino e la politica

    La società civile deve liberarsi di certe catene, ha sostenuto l’editore. Anche se – ammette – in Calabria non è facile: «Siamo tra gli ultimi in Europa anche nella lettura, dove ci battono anche i Paesi dell’Est Europa e il nostro pubblico è soprattutto fuori regione».
    Questo primato negativo, sostiene sempre Rubbettino, si riflette anche sull’economia e sul livello della vita civile. Già: «I Paesi più ricchi sono quelli in cui si legge di più».
    Le ipotesi, ventilate in passato, di candidature alla Regione sono sfumate. E ora Florindo Rubbettino le rispedisce al mittente.
    Questo e altro nell’intervista rilasciata a I Calabresi.

     

  • Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

    Guerra ed energie alternative: l’industria navale è avanti

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    L’armatore Mario Mattioli inizia a lavorare nei primi ’80 nelle aziende di famiglia legate al Gruppo Cafiero Mattioli, dove ricopre numerosi incarichi, fino all’attuale presidenza di Ca.Fi.Ma. Cafiero Mattioli Finanziaria Spa.

    Per venti anni è stato membro del Consiglio confederale e del Comitato esecutivo di Confitarma-Confederazione Italiana Armatori.

    Dall’11 ottobre 2017 è presidente di Confitarma. Inoltre, è stato presidente di Assorimorchiatori. È inoltre vicepresidente dell’Accademia italiana della Marina mercantile, vicepresidente dell’Unione industriali Napoli con delega per la Formazione e il Centro studi.

    Siamo bombardati dalle notizie di guerra in Ucraina. Che caratteristiche presenta questo conflitto, visto dal mare? Come cambierà le nostre vite?

    «Le notizie che arrivano dai teatri di guerra sono sempre raccapriccianti. E guardare a questo conflitto dal mare non tranquillizza. La guerra in Ucraina e le relative sanzioni che Usa ed Europa stanno imponendo alla Russia aumenteranno la pressione sul commercio globale. L’interruzione dei traffici marittimi in queste aree si ripercuote sulle catene logistiche internazionali, con gravi conseguenze per vasti settori dell’industria che dipendono da tutte le importazioni e non solo da gas e petrolio».

    La guerra evidenzia la necessità di una transizione energetica più accelerata rispetto a quanto credevamo necessario. Quale contributo può dare l’economia marittima al ridisegno del sistema energetico nazionale?

    «La guerra ha imposto l’attuazione repentina della transizione energetica. Tuttavia, questa transizione è in corso da tempo nei trasporti marittimi. I dati dimostrano quanto lo shipping mondiale sia impegnato nella decarbonizzazione. In particolare a raggiungere la riduzione di Co2 decisa dall’Imo, che prevede entro il 2050 la riduzione del 50% delle emissioni rispetto al 2008. Serve, però, un’azione condivisa a livello internazionale, per evitare che interventi di diversa tipologia (e quindi con diversi impatti) adottati dai singoli Paesi danneggino la competitività.

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    Un’immagine della guerra in Ucraina

    Per lo shipping la partita si giocherà con l’individuazione di fonti del nuovo green fuel a cominciare dallo sviluppo delle reti di distribuzione e rifornimento. Ma per rendere concreta la transizione ecologica occorrono ricerca e sviluppo, strumenti finanziari adeguati e, soprattutto, occorre sapere che i tempi non sono così immediati come invece appare dai tanti slogan sul tema.

    La transizione è ineludibile, ma il governo ci deve sostenere. Le azioni e le proposte che potrebbero dare slancio al nostro Paese partono da un assunto semplice, che gli armatori ribadiscono con forza: rimettere il mare al centro. Confitarma si prepara così alle numerose sfide del settore, specie quelle che ci impegneranno nella rotta verso l’impatto zero».

    La globalizzazione è sorta dall’economia marittima e dalle rotte transcontinentali, che hanno generato il decentramento produttivo spinto. Sarà così anche nei prossimi decenni, oppure assisteremo a un ripiegamento della globalizzazione su scala macro regionale?

     «Il trasporto marittimo ha dato prova del suo ruolo strategico di garanzia alla continuità delle catene di approvvigionamento globale durante la pandemia. Anche di recente, ha consentito il regolare flusso delle merci e dell’energia da cui dipendiamo. Basti pensare che in Italia, in pieno lockdown (cioè nel 2020) il Covid ha colpito più il fatturato delle aziende con una flessione media del 20/25%, che la consistenza della flotta di bandiera che mantiene la sua posizione nella graduatoria mondiale con circa 14,5 milioni di gt. Quindi non credo che assisteremo ad una totale “regionalizzazione” della globalizzazione. Credo, tuttavia, che per alcune commodity strategiche i singoli Stati cercheranno di dipendere sempre meno dall’estero».

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    La nave Sky Lady del Gruppo Cafiero Mattioli

    Quale politica marittima dovrebbe esprimere l’Europa per essere attore delle trasformazioni globali? Quale sarebbe il ruolo del Mediterraneo in questo scenario?

     «Credo che Draghi nella sua recente visita al Parlamento abbia spiegato benissimo cosa è la politica europea del futuro. Innanzitutto, occorre maggiore attenzione al Mediterraneo, data la sua funzione di ponte verso l’Africa e il Medio Oriente. Non possiamo guardare al Mediterraneo solo come a un confine, su cui ergere barriere. Sul Mediterraneo si affacciano molti Paesi giovani, pronti a infondere il proprio entusiasmo nel rapporto con l’Europa. L’Ue deve costruire con i Paesi mediterranei, come dice Draghi, “un reale partenariato non solo economico, ma anche politico e sociale. Il Mediterraneo deve essere un polo di pace, di prosperità, di progresso”. Soprattutto nella politica energetica, i paesi del Mediterraneo possono giocare un ruolo fondamentale per il futuro dell’Europa. Specie se si considerano la posizione strategica del Mezzogiorno e la sua esigenza di sviluppo. Ciò è tanto più valido a seguito della guerra in Ucraina, che ha mostrato la forte dipendenza di molti paesi dalla Russia. In primis l’Italia, che importa circa il 40% del gas naturale dalla Russia».

    Joe Biden ha emanato a fine febbraio un ordine presidenziale con cui ha invitato le istituzioni di governo a regolamentare l’eccessivo potere di mercato delle tre grandi Alleanze nel settore del trasporto dei containers. L’Europa, invece, consente sino al 2024, grazie alla regola di eccezione (exemption rule), non solo la legittimità delle tre Alleanze, ma anche un carico fiscale molto vantaggioso, con un onere pari al 7%. Perché questa asimmetria forte tra il regolatore americano ed il regolatore europeo?

     «Purtroppo, lo scenario dei mercati mondiali è stato sconvolto dalla pandemia, iniziata circa due anni fa. Sono molte le situazioni critiche venutesi a creare, come dimostra la congestione nel porto di Shanghai, che ripropone problematiche vissute nel marzo 2021. Mi riferisco all’incidente della Ever Given nel Canale di Suez, che portò alla ribalta l’importanza del settore marittimo nei rifornimenti e la complessità delle catene di approvvigionamento globali.

    Siamo di fronte ad eventi inaspettati che incidono su un sistema equilibrato su cui tutti facevamo affidamento, e che sono strettamente connessi al rialzo dei prezzi di varie commodity e ai colli di bottiglia in alcune catene globali.

    Joe Biden, il presidente Usa

    Inoltre, la grave situazione dell’Ucraina innesca, oltre alle devastanti conseguenze umanitarie, ulteriori tensioni con evidenti impatti sull’attività economica mondiale, al momento ancora difficili da quantificare. L’aumento del costo del trasporto nel settore dei contenitori incide anche sull’inflazione: è chiaro che la legge del mercato determina situazioni in cui c’è chi guadagna e chi perde. Di fatto, le decisioni di Usa o Ue sono decisioni politiche. L’auspicio è che non si creino nuove problematiche per la logistica, già fortemente colpita dagli eventi straordinari degli ultimi anni».

    Quale impatto avrà il Pnrr sul mondo marittimo, nazionale ed europeo? C’è una visione per gestire le transizioni imminenti, oppure ci portiamo ancora dietro i fardelli del passato senza riuscire a determinare la necessaria discontinuità?

     «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza è un’occasione irripetibile di rinascita e crescita del sistema economico nazionale ma necessita di una strategia orientata verso il mare che assicuri lo sviluppo di un sistema di collegamenti adeguato, con particolare attenzione alla transizione ecologica e digitale. Numerosi nostri partner europei, attraverso i fondi stanziati dal Next Generation Eu, investono risorse pubbliche per sostenere gli ulteriori importanti passi che le aziende del settore marittimo saranno chiamate ad effettuare sulla via della transizione ecologica.

    Di fatto, a fronte di investimenti di decine di miliardi di euro che gli armatori italiani continuano a fare per mantenere e incrementare elevate performance, l’industria armatoriale non sembra essere percepita come risorsa prioritaria del Paese. Il Fondo complementare al Pnrr, che mira a rendere le nostre navi più green, stanzia circa 500 milioni di euro. Qualora fosse un primo passo per verso il rinnovo green della flotta italiana, la partenza è buona. Ricordo però che, al momento rimane esclusa da questa misura una quota molto rilevante di navi appartenenti ad imprese radicate in Italia. Perciò servono altre iniziative. Anche in questo caso, credo che siano importanti sbocchi per i numerosi progetti che interessano lo sviluppo del Mezzogiorno».

    Un cantiere navale in attività

    Negli ultimi anni, gli interessi armatoriali in Italia si sono disarticolati. Sono nate, oltre a Confitarma, nuove associazioni datoriali. Perché si è determinata questa frammentazione? C’è possibilità che la frattura nel tempo si componga?

    «L’esistenza di rappresentanze diverse per gli stessi interessi è sempre un errore, anche nel caso degli armatori. Questo è ancora più vero in fasi storiche complesse, come la pandemia. Infatti, le divisioni, da un lato indeboliscono la categoria e, all’altro, confondono il regolatore politico che spesso “decide di non decidere”. Ad esempio, durante l’emergenza le due associazioni armatoriali hanno chiesto alla politica le stesse cose ma, per differenziarsi, lo hanno fatto in modi diversi. Il risultato è stato nullo. L’unità avrebbe creato un beneficio maggiore per le aziende di entrambe le associazioni».

     

     

  • Luxuria: essere trans non è un oltraggio alla Madonna di Capocolonna

    Luxuria: essere trans non è un oltraggio alla Madonna di Capocolonna

    Vladimir Luxuria, opinionista televisiva e attivista Lgbt. Domani riceverà una targa nell’ambito del Premio giornalistico sportivo “Franco Razionale” di Crotone, giunto alla XV edizione e promosso dall’associazione “Forza Crotone Alè”.
    Si parlerà di violenza di genere e di omofobia, in concomitanza, però, con la festa della Madonna di Capocolonna. Questa coincidenza ha generato uno sciame di polemiche che tengono banco da giorni nella città pitagorica. Ne abbiamo parlato direttamente con lei in una intervista esclusiva a I Calabresi.

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    L’ex coordinatore provinciale della Lega a Crotone, Giancarlo Cerrelli

    Vladimir Luxuria, la tua presenza a Crotone sta destando scalpore. L’ex coordinatore provinciale della Lega, Giancarlo Cerrelli, ha parlato di oltraggio alla festa della Madonna di Capocolonna. 

    «Ma per carità. Veramente si attaccano a queste cose? Io non ho parole. Non hanno altro di cui occuparsi? Ma beati loro. Io sono cattolica, cosa c’entra tutto questo? Mi sento offesa come credente. Come si fa a pensare che la presenza di una persona trans sia un oltraggio alla Madonna? Forse è un oltraggio dire queste parole. Chi decide chi è degno di essere credente o meno? Tra l’altro voglio ricordare che poche settimane fa io ho parlato dentro una Basilica sul tema della transessualità. Alla Basilica di San Giovanni Maggiore, invitata dal sacerdote don Salvatore, ho parlato di Chiesa inclusiva. Ricordo anche che il 22 febbraio, come tutte le Candelore, vado al Santuario di Montevergine, dove vengo sempre accolta dall’Abate, per devozione a Mamma Schiavona, la Madonna di Montevergine. Se vuole posso fornire io qualche altro pretesto per attaccarmi, ma questo è quello più assurdo. Non escludo che domani io possa pregare al Duomo di Crotone».

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    Vincenzo Voce, sindaco di Crotone

    A Crotone un anno e mezzo fa il Consiglio comunale approvò una mozione contro il Ddl Zan, il sindaco fece dietrofront. E oggi cosa si aspetta Vladimir Luxuria?

    «Sinceramente non so quanta possibilità abbia il Ddl Zan di essere approvato. L’importante è che se ne parli. Mi piacerebbe che questo tema si sganciasse da ideologie di partito. L’importante, per me, è che si consideri il contrasto alla violenza fisica e verbale per orientamento sessuale o identità di genere qualcosa che riguarda tutti. E se un consigliere comunale di Crotone che ha votato una mozione contro il Ddl Zan un giorno dovesse avere un amico, un parente, un nipote che torna a casa in lacrime per una offesa subita per il suo orientamento sessuale o con un occhio livido perché gay, lesbica o trans? Forse questo consigliere comunale si pentirebbe per il voto che ha espresso. Mi auguro che su questo tema si possa trovare una convergenza ampia, bipartisan.»

    Intanto la legge regionale calabrese contro l’omofobia è stata affossata dal Pd. Quanta omofobia c’è anche a sinistra?

    «Purtroppo c’è. È vero che la maggior parte delle volte le aperture vengono sempre dalla sinistra. Però, quelle che da noi sono le eccezioni rispetto a certi atteggiamenti, in altri ambiti come in Fdi e Lega, sono la maggioranza. A destra le eccezioni, invece, sono quelle che si distinguono favorevolmente».

    A proposito di destra. Ricorda il volantino della Lega a Crotone nel 2019 sul ruolo della donna «sottomessa all’uomo, buona solo per fare la madre e non adatta a fare la rivoluzione». 

    «Che anno era? 2019 avanti Cristo o dopo Cristo? Le donne non sono adatte a fare le rivoluzioni, sono obbligate! C’è ancora questo retaggio maschilista preistorico, da uomo delle caverne, come nelle vignette dove l’uomo trascina per i capelli la donna nella grotta. Bisogna andare molto oltre».

    Hai sostenuto il referendum costituzionale del 2016. Pensi che senza il bicameralismo attuale sarebbe stato più facile approvare le leggi sui diritti, dal Ddl Zan alla legge sul doppio cognome?

    «Ero favorevole per una questione proprio di praticità. Avendo fatto anche la parlamentare conosco le lungaggini. Questi passaggi continui portano veramente a tempi lunghissimi. Si parla tanto dei tempi della giustizia, ma bisognerebbe parlare anche dei tempi per le approvazioni delle leggi. A volte capita anche che, cambiando la legislatura, occorra rifare tutto da capo. I tempi sono davvero troppo lunghi».

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    Vladimir Luxuria in prima linea nel sostegno al Ddl Zan

    Ti manca il Parlamento? Ci torneresti?

    «Ci sono momenti in cui desidererei essere lì a dire la mia o a proporre delle leggi, ma penso si possa fare politica in tanti modi. Anche parlando di un tema importante come l’omofobia e lo sport a Crotone. Penso sia molto importante.»