Categoria: Interviste

  • «Invasioni? Sì, non sagre paesane in salsa Occhiuto»

    «Invasioni? Sì, non sagre paesane in salsa Occhiuto»

    Comincia il conto alla rovescia per il XXII Festival delle Invasioni, all’insegna – è ormai il claim di questa edizione – della contaminazione e della contemporaneità.
    Il 13 e il 14 luglio nel centro storico risuoneranno rock, elettronica, jazz, world music (qui il programma): ne abbiamo parlato con il consigliere comunale Francesco Graziadio, ideatore insieme al direttore artistico Paolo Visci, di un cartellone che vuole riproporre atmosfere post punk e suoni elettronici come negli anni d’oro della kermesse e archiviare certe edizioni «da sagra paesana dell’era Occhiuto». È l’occasione per un primo bilancio di questa esperienza a Palazzo dei Bruzi: l’entusiasmo, le difficoltà e quel silenzio irreale che regna dentro un municipio incredibilmente deserto.

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    Bagno di folla per Calcutta alle “Invasioni” del 2019, il sindaco era Mario Occhiuto
    Come te le immagini queste serate del festival?

    «Sotto il profilo artistico e musicale me le immagino fantastiche. E so che non resterò deluso. Sotto il profilo della partecipazione me lo immagino come tutti quelli che organizzano eventi di questo tipo: alle 8.00 penso che sarà un successo, alle 8.05 penso che saranno un fiasco clamoroso, alle 8.10 sarà tutto bellissimo e stupendissimo, alle 8.15 sotto il palco saremo in sette compresi mia moglie e mio figlio e così via… In realtà è una vera e propria incognita: ho percepito una grande attesa per un evento che è rimasto fermo per tre anni, ottimi riscontri per il cast artistico da parte degli appassionati, ma anche una certa diffidenza per i nomi non proprio conosciutissimi».

    Clock DVA saranno sul palco del Festival delle Invasioni 2023
    Sono state fatte scelte musicali molto particolari. Che percezione hai del pubblico cosentino?

    «Cosenza è una città con una sua storia e una sua tradizione. Ha un orecchio educato anche a sonorità non esattamente commerciali. Ho incontrato cosentini in concerti a Roma, Milano, Londra, Barcellona. Ascoltano rock, punk, post-punk, metal, elettronica, hip hop… Sono incuriositi dalle sperimentazioni. Comprano dischi, leggono riviste specializzate, fanno musica. Malgrado la posizione geograficamente periferica Cosenza ha sempre accolto con entusiasmo tutti i grandi movimenti musicali degli ultimi 50 anni, dal Beat e dal Progressive in poi. Gli artisti che si esibiranno il 13 ed il 14 sapranno soddisfare i palati più raffinati. Senza nulla togliere agli altri, possiamo dire che Clock DVA e The Bug sono nomi che hanno fatto e stanno facendo la storia della musica».

    John Cale (foto Rex Huang – Wikipedia)
    Qual è il è il tuo ricordo più bello legato alle edizioni passate del festival delle Invasioni?

    «Questa è davvero, davvero difficile. Mi devi concedere almeno una doppia possibilità. Dal punto di vista musicale sicuramente il concerto acustico di John Cale al Duomo. Il leggendario leader dei Velvet Underground, cresciuto nella Factory di Andy Warhol, a pochi metri da me. L’urlo finale alla fine di Fear mi fa ancora accapponare la pelle. Ma Invasioni non è stata solo musica e non dimenticherà mai la performance di Fura del baus su Corso Mazzini. Uno spettacolo fantastico, con la folla che sgomitava per salire sul loro mezzo postatomico e surreale per scenderne sporca, sudata ed irragionevolmente felice. Ma restano fuori i Mutoid, I Tamburi del Bronx, la chitarra di Tom Verlaine…»

    Hai percepito critiche legate al fatto che i concerti sono a pagamento?

    «Qualcuna. Mi rendo conto che si tratta di un cambiamento importante, anche se per Lou Reed abbiamo pagato un biglietto. Devo dire, però, che l’ingresso è davvero popolare, con un prezzo politico, se mi passi il termine. Trenta euro per due serate con nove live di livello sono davvero pochi. Basta fare il confronto con le altre realtà musicali per rendersi conto dello sforzo che abbiamo fatto. Oggi gli artisti non guadagnano più con i dischi ed i concerti sono diventati costosissimi».

    E cosa rispondi a chi potrebbe obiettare che si è passati da scelte eccessivamente commerciali e mainstream – nel decennio occhiutiano – ad artisti noti soprattutto nel circuito indipendente?

    «Non mi permetto di giudicare le scelte artistiche degli altri, di dire che è cambiata proprio la prospettiva. Il Festival delle Invasioni era diventato una specie di cartellone per i cosentini rimasti in città a morire di caldo, una sagra paesana. A me le sagre paesane piacciono moltissimo, ma il Festival delle Invasioni era una cosa diversa, non il luogo dove ascoltare con una pizzetta in mano il musicista che puoi sentire alla radio del supermercato facendo la spesa. Noi abbiamo pensato di tornare allo spirito delle prime edizioni: dare al pubblico uno spettacolo di alta qualità artistica scegliendo fra i musicisti che hanno una prospettiva originale ma riconosciuta dalla critica internazionale. Con umiltà, perché siamo un Comune in dissesto e non abbiamo le disponibilità economiche di 25 anni fa. Ma anche con ambizione, perché la formula che abbiamo scelto (concentrare l’evento in due giorni) è quella di tutti i festival musicali del mondo e speriamo che, con il tempo, possa diventare un appuntamento fisso per tutti gli appassionati di musica calabresi e, perché no, italiani. Il direttore artistico Paolo Visci, che non ringrazierò mai abbastanza, ha fatto davvero un lavoro fantastico e con lui abbiamo già parlato della prossima edizione…».

    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
    Un primo bilancio di questa esperienza da consigliere comunale nella giunta Caruso?

    «Difficile. Una esperienza difficile persino oltre le previsioni. Delle difficoltà economiche sapevamo, anche se nessuno poteva immaginare il disastro che abbiamo trovato entrando a Palazzo dei Bruzi, ma la carenza di personale è davvero un problema che rischia di rendere vano ogni sforzo. I dipendenti del Comune sono un terzo rispetto a pochi anni fa ed è complicato trovare le risorse umane capaci di portare avanti un programma ambizioso come quello che abbiamo proposto ai cittadini. Le buone idee camminano sulle gambe degli uomini, e quando cammini a Palazzo dei Bruzi puoi sentire l’eco dei tuoi passi, tanto il silenzio che regna in quei corridoi. E poi io sono un tipo pratico, abituato a fare, ma i consiglieri possono fare ben poco. Ma se quel poco è il Festival delle Invasioni posso dirmi soddisfatto. Un’altra cosa: il risanamento dei conti. Se a fine mandato saremo riusciti a rispettare gli impegni presi (e sono ottimista) avremo reso un buon servizio alla città. Di cose da fare ce ne sarebbero tante e so che i cosentini sono critici ed esigenti, ma riuscire a governare senza fare altri debiti mi sembra un obiettivo prioritario. Per rispetto ai cosentini di domani».

  • Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Le dee di Gallo in trionfo a Cannes

    Un pezzettino di Calabria vola al Cannes World Film Festival. Il regista cosentino Francesco Gallo ha trionfato nella categoria “Miglior film sportivo” con il documentario Le dee di Olimpia, un lavoro dedicato alle lotte di emancipazione femminile nei Giochi olimpici.

    Incuriosita dal tema, non potevo esimermi dal cercare Francesco per conoscere più a fondo la sua opera. Prima, però, avevo bisogno di conoscere meglio l’artista che si cela dietro il documentario. L’intervista, quindi, parte con una domanda banale: chi è Francesco Gallo?

    «Io sono uno storico dello sport, membro della SISS (Società italiana di Storia dello Sport). Ho studiato Cinema a Cinecittà e poi Storia all’università. E così cerco di unire tre passioni: la storia, lo sport ed il cinema. Tutti i miei documentari sono sportivi, ma sono un pretesto per far avvicinare le persone alla storia in maniera più esaltante. Le storie di sport esaltano gli spettatori e alcuni argomenti passano più facilmente al cuore e alla mente delle persone se c’è lo sport di mezzo.
    Poi c’è la passione della scrittura, perché sono principalmente uno sceneggiatore. Scrivo tutti i testi dei documentari e nella struttura narrativa che utilizzo non ci sono interviste perché racconto per lo più storie internazionali. Quello che mi interessa è raccontare le storie degli ultimi, le storie di chi ha bisogno di luce sulle proprie lotte che spesso sono dimenticate».

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    Francesco Gallo

    Prima di realizzare questo documentario, hai scritto un libro dedicato alle battaglie delle donne nella storia dei Giochi. Come ti sei avvicinato a questo tema?

    «L’idea del libro era uscita in occasione delle Olimpiadi del 2016 di Rio de Janeiro. Ero al telefono con l’editrice e le dissi “se pensi a tutte le storie delle donne, ci viene fuori un libro a parte”. Lei mi fa: “Ecco, scrivi quello”. È nata così, quasi come una sfida. Ho dovuto iniziare a studiare da capo e andare a cercare solo fonti che riguardassero le atlete. In realtà, è quasi più corposo il documentario del libro».

    Ma esattamente cosa racconta Le dee di Olimpia?

    «Inizia alla fine dell’Ottocento con le prime Olimpiadi di Atene, dove le donne non ci sono. Proprio in quegli anni c’erano le lotte per ottenere il diritto al voto e queste lotte si sono riversate anche nei giochi. Le donne hanno detto: “non solo vogliamo votare, vogliamo anche gareggiare”. Non tutte le donne potevano accedere allo sport perché era vietato. In epoca vittoriana c’erano degli studi, ai tempi considerati scientifici, che dicevano che le donne non potevano andare in bicicletta perché rischiavano infezioni agli organi genitali, potevano addirittura approfittarne per onanismo e quindi non bisognava dare alle donne le biciclette. Da una parte, quindi, la scienza diceva assolutamente no e dall’altra parte, a livello sociale e culturale, per alcune donne di ricche famiglie era sconveniente. Ma erano proprio, in maniera ambivalente, le donne di ricche famiglie a potersi permettere di essere un po’ più ribelli e di accedere ad alcuni sport. La vela, ad esempio, o l’equitazione, il golf e il tennis sono sport di alta estrazione sociale, soprattutto all’inizio del Novecento e sono queste donne a essere le prime ad andare alle Olimpiadi».

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    Charlotte Cooper, oro olimpico a Parigi nel 1900

    E poi cosa succede?

    «Da qui arriviamo agli anni Venti. C’è questo grande buco che è la Prima guerra mondiale in cui alle donne hanno detto “uscite dalle case o dalle piste di atletica e andate a sostituire gli uomini, che sono al fronte, nelle fabbriche o nei campi”. Sembrava uno stop ma, invece, è stato un grande salto in avanti: gli uomini, tornati dal fronte, si sono trovati queste donne con le gonne più corte, perché dovevano stare nelle fabbriche e serviva facilità di movimento, voglia di libertà, che ovviamente non volevano perdere. Proprio nel decennio tra gli anni Venti e gli anni Trenta c’è stato un grande salto simboleggiato dalla nascita delle Olimpiadi femminili. La dirigente francese Alice Milliat, contro le parole di Pierre de Coubertin che continuava a sostenere che le donne non devono assolutamente partecipare ai Giochi, dice di organizzare delle Olimpiadi per sole donne. Non solo c’erano migliaia e migliaia di spettatori, ma davano a tantissime donne la possibilità di partecipare».

    Numeri paragonabili a quelli degli uomini?

    «Nel documentario, anno dopo anno, ho evidenziato il numero di atleti uomini e di atlete donne. È andato via via aumentando fino a Tokyo 20-21, in cui siamo più o meno in parità.
    Nel periodo in cui il fascismo e il nazismo volevano che le donne tornassero ad essere angeli del focolare, proprio l’Italia con Ondina Valla vince la prima medaglia d’oro. Poi abbiamo questo salto della Seconda guerra mondiale, perché la guerra è drammatica ma molto spesso è una molla per l’avanzamento sociale e culturale».

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    Trebisonda “Ondina” Valla (seconda atleta da sinistra) e le ragazze della squadra italiana alle Olimpiadi del ’36

    Cosa cambia per le donne?

    «Le donne, dopo aver dato il proprio fondamentale contributo nella Resistenza europea, negli anni ’50 iniziano una salita infinita, che culmina con le istanze politiche e sociali degli anni ’60. Vediamo le donne che iniziano a vincere sempre di più nelle piste, ma anche nelle piazze con le lotte per l’aborto, per l’utilizzo della pillola, o della minigonna perché nel documentario c’è anche il costume. Mentre dall’America ancora tentavano di imporre modelli come la Barbie o le pin-up, l’Europa era più avanti. Era scoppiata anche la Guerra fredda e il modello occidentale si contrappone a quello sovietico».

    E questo cosa comportava per le sportive?

    «Nel ’52 Stalin dice “dobbiamo affrontare questa sfida anche in pista” e le donne sovietiche, quasi più degli uomini, accumulano medaglie edizione dopo edizione. Finché gli americani si chiedono perché le comuniste trionfino così tanto e come possa la piccola Germania dell’Est vincere quasi quanto gli Stati Uniti. Si dopano? Effettivamente, purtroppo, la risposta spesso era sì. Ed era un doping di Stato. Per questioni di propaganda politica dovevano per forza vincere, il numero di medaglie serviva a dimostrare che il modello sovietico era, anche dal punto di vista sportivo, superiore a quello dell’Occidente. Ragazze e ragazzine, per la maggior parte minorenni, erano costrette ad assumere anabolizzanti».

    Con quali conseguenze?

    «Molte di loro, una volta cresciute, hanno deciso di cambiare sesso, stavano praticamente diventando a tutti gli effetti degli uomini. C’è il famoso caso di Irina e Tamara Press, che la stampa americana sarcasticamente chiamava i fratelli Press perché sembravano davvero due uomini per la stazza e la muscolatura. Poi abbiamo il crollo del muro di Berlino, che cambia tutto.
    Da allora c’è stata un’evoluzione tuttora in corso perché, malgrado ci sia una parità numerica in pista adesso la sfida è fuori dagli stadi. È nei palazzi del potere e della politica sportiva dove si decidono le leggi e i regolamenti sportivi».

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    Tamara e Irina Press

    Quali sono le sfide dello sport oggi? E in che modo il genere e la razza interagiscono e diventano un limite per le atlete?

    «Il discorso che ho fatto finora vale più che altro per noi, per l’Occidente. Se andiamo nei cosiddetti paesi del Terzo mondo, l’accesso allo sport è paragonabile a cento anni fa. Questo avviene per questioni sociali, culturali e religiose. L’Arabia saudita, per esempio, o la Siria e l’Iran non permettono alle donne di gareggiare perché le divise sportive non aderiscono ai precetti islamici. Ci sono stati casi, come l’alzatrice di pesi Amna Al Haddad, che ha deciso di gareggiare comunque col velo e ovviamente non è facile. Oggi, come abbiamo visto nell’edizione 20-21, le donne hanno capito che possono usare il palcoscenico olimpico per varie forme di protesta, come quella sull’abbigliamento».

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    Amna Al Haddad

    Qualche esempio?

    «Le ginnaste tedesche stanno protestando contro le tutine striminzite che sessualizzano il corpo delle atlete e a Tokyo hanno indossato delle tute che non lasciavano nulla da vedere. Anche nel beach volley ci sono ancora questi pantaloncini davvero minuscoli. Mi vengono in mente le tenniste che devono, per l’etichetta ottocentesca di Wimbledon, giocare vestendo sempre di bianco, così come gli uomini. Ma le tenniste dicono “come facciamo durante il ciclo? È una cosa che ci mette a disagio e condiziona anche le nostre partite”».

    Poi c’è la questione delle violenze, che ha sollevato un polverone anche in Italia negli ultimi tempi…

    «Molte atlete stanno protestando perché sono spesso vittime di abusi piscologici e sessuali o talvolta entrambi. Queste ragazze hanno pressioni psicologiche talvolta ingestibili e persino delle professioniste, come Naomi Osaka nel tennis o la ginnasta Simone Biles, hanno deciso di ritirarsi dalle ultime Olimpiadi perché non riuscivano a gestire questo carico di pressioni, che sono sia sportive che mediatiche. Poi non possiamo parlare delle Olimpiadi e della condizione delle donne in vista di Parigi 2024, senza pensare alla situazione in corso in Ucraina. La guerra sarà un elemento fondamentale che sposterà gli equilibri.

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    La ginnasta Simone Biles con uno dei suoi quattro ori olimpici

    Esiste davvero una correlazione così forte tra politica e sport?

    «Questo accade ed è sempre accaduto, fin dalla nascita delle Olimpiadi. Nell’antica Grecia chi vinceva le Olimpiadi diventava cittadino di Atene. Molto spesso si gareggiava sia per la gloria sportiva che per quella sociale. Perché essere cittadino ateniese era il massimo del vanto che si poteva avere nell’antichità»

    Torniamo al presente e affrontiamo la polemica sulle atlete trans nelle gare sportive…

    «Cambiano le modalità, ma il cuore della questione rimane sempre lo stesso. Da cento anni c’è il problema del test sessuale nelle Olimpiadi. Lo racconto anche nel documentario: tantissime donne travestite da uomini, o viceversa, come il caso tedesco di Heinrich Ratjen che si travestì da donna e gareggiò col nome di Dora Ratjen. Poi c’è stato il caso, come dicevo prima, di medicinali utilizzati per stravolgere le donne e farle diventare più forti e muscolose. Dalla fine degli anni Sessanta è stato introdotto il sex test per non far gareggiare chi si professava di un sesso invece di un altro. In questo caso le donne trans, che volessero partecipare ai giochi, dovrebbero avere la possibilità di partecipare ai giochi nel sesso in cui più si sentono di appartenere. Poi c’è tutta la storia dei regolamenti: un uomo che gareggia contro una donna, o viceversa, può essere più o meno svantaggiato ma, quando c’è una scelta personale, si deve dare alle persone la libertà di scegliere. È una scelta che va oltre la possibilità di vincere più medaglie».

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    Heinrich/Dora Ratjen

    Non ci addentriamo oltre nei contenuti del documentario di Gallo e lasciamo a chi legge la possibilità di godersi la visione di Le dee di Olimpia.
    Con una consapevolezza in più: anche lo sport è politica e lotta.

    Francesca Pignataro

  • La prof che porta la Calabria immateriale a Betlemme

    La prof che porta la Calabria immateriale a Betlemme

    «Non è stato semplice. Operazione importante, impegnativa e coraggiosa, sotto diversi punti di vista». Patrizia Nardi, storica, già docente universitaria della Facoltà di Scienze Politiche di Messina, già assessore alla cultura del Comune di Reggio Calabria e focal point per l’Unesco della Rete delle Grandi Macchine a spalla italiane è appena rientrata dalla Palestina dove, a Betlemme, lo scorso 4 aprile 2023 ha inaugurato la mostra internazionale Machines for Peace. Un’iniziativa importante realizzata in sinergia con l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, con il patrocinio della Farnesina, della Commissione Nazionale Italiana UNESCO e il Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Dalla sua voce traspaiono soddisfazione, stanchezza e quella consapevolezza per una missione di pace che è il suo senso dell’operare nella Storia.

    Perché organizzare una mostra del genere?

    «Il 2023 segna per noi una data importante: è il decennale del riconoscimento UNESCO che coincide con il ventennale della Convenzione UNESCO 2003 per la Salvaguardia del Patrimonio Immateriale, ossia di quelle espressioni culturali, dei processi e dei saperi trasmessi e ricreati da comunità e gruppi in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura e alla loro storia. Era necessario dare un segnale importante, concreto, di testimonianza praticata. Per questo ho proposto alla grande comunità della rete – 36 associazioni e 4 amministrazioni comunali, Viterbo, Nola, Palmi e Sassari – di aggiungere alle attività ordinarie un focus specifico sul tema della pace che è una delle missioni, forse la più importante per cui è nata UNESCO dopo la seconda guerra mondiale: indurre comunità, gruppi, individui e nazioni a parlarsi e dialogare partendo dal patrimonio culturale come luogo per ricomporre i conflitti».

    La guerra in questi mesi è su tutti i media…

    «A maggior ragione oggi, con il conflitto ucraino in Europa e un rischio sempre maggiore di escalation, il tema della pace bussa, se mai ce ne fosse bisogno, con maggiore urgenza. Per questo abbiamo coinvolto tanti soggetti, pubblici e privati: l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura, i Comuni, le Diocesi e Arcidiocesi delle Città della Rete, la Federazione Nazionale dei Club per l’UNESCO, Rotary International, FRACH – Fellowship of Rotarians who Appreciate Culturale Heritage, Meraviglia Italiana».

    Raccontaci questo percorso

    «A settembre scorso, in occasione del trasporto della Macchina di Santa Rosa – che celebra la traslazione del corpo della patrona di Viterbo avvenuta il 4 settembre 1258 per volere di Alessandro IV – abbiamo organizzato nella Città dei Papi un grande concerto coinvolgendo musicisti e cantanti dei Teatri dell’Opera di Leopoli, Odessa e Kiev: un evento partecipatissimo, oltre mille persone presenti. Quei musicisti straordinari, sofferenti e dignitosi al tempo stesso, suonavano il loro dramma davanti a noi, come abbiamo visto fare al coro dell’opera di Odessa riunitosi all’aperto per intonare l’inno nazionale ucraino.

    Un modo esplicito per parlare alla comunità internazionale attraverso la musica, linguaggio universale per antonomasia. In quel momento ho pensato che la Rete delle Grandi Macchine potesse e dovesse continuare a dare un contributo concreto schierandosi contro tutti i conflitti: Macchine di pace contro macchine da guerra».

    Che risposta c’è stata?

    «La Rete ha molto sostenuto il progetto, fin dall’inizio: una mostra da portare nei luoghi di guerra, a partire dalla Terra Santa, per lanciare un messaggio di pace, forte e chiaro. Un Patrimonio Unesco ha il dovere di farlo e la partnership istituzionale è fondamentale. Le trattative erano state lunghe e complicate: avevamo avviato lo scorso ottobre l’interlocuzione con il Comune di Bethlehem per ricevere l’adesione solo il 20 febbraio successivo. Abbiamo organizzato tutto in poco più di un mese, pancia a terra potrei dire, costruendo una rete di cooperazione anche professionale molto significativa: abbiamo operato contemporaneamente con il team di ICPI, la OpenLab Company e il partner palestinese Iprint».

    Altri aiuti?

    «Abbiamo avuto il sostegno tecnico dei Comuni di Sassari e Viterbo e delle comunità della Rete, che sono venute in Terra Santa insieme a me. Senza di loro il progetto non avrebbe avuto la stessa valenza, progettare è un conto, condividere con gli stakeholder un altro ed ė un atto dovuto. E, chiaramente, fondamentale ė stato il lavoro di squadra ministeriale, la sinergia costante con il Gabinetto del ministro degli Esteri Tajani e la collaborazione con la nostra straordinaria rete diplomatica: Commissione Unesco, Rappresentanza Unesco a Parigi, Ambasciata di Tel Aviv, Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme. Quando arrivai in riunione, la prima volta qualche giorno dopo l’ok da Bethlehem, rimasi stupita. Mi sarei aspettata più una riunione tecnica che una mobilitazione generale e questo mi ha molto incoraggiata, devo dire».

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    Patrizia Nardi insegna all’Università di Messina, è stata anche assessore alla Cultura del Comune di Reggio Calabria

    Potremmo dire che il governo ha avuto l’opportunità di cogliere un’occasione importante: il Mediterraneo in generale (e il Mediterraneo allargato, più specificamente) tornano ad essere centrali per la politica estera italiana.

    «L’Italia lavora da diversi anni a sostenere l’obiettivo della costituzione di uno Stato palestinese nella logica dei “due popoli, due stati”, sostenendo i negoziati di pace tra le parti: un ritorno a linee di politica estera che possano contribuire a costruire la pace in territori in cui la tensione ė continua e tangibile non può che essere considerato un fatto importante. Il conflitto ucraino ha saldamente posizionato il Paese in assetto atlantista, come mai accaduto prima dello scorso anno; e la guerra, con le sue priorità per la diversificazione di approvvigionamento energetico, combinata con le pressioni migratorie, impone la necessità di tornare alla vocazione naturale italiana: snodo centrale e madre del Mediterraneo, una responsabilità dalla quale, nel bene e nel male, non possiamo esimerci. Tajani ne è consapevole e la sua missione nello scorso marzo in Israele e Palestina è un segnale che va interpretato in un certo modo».

    Mi stai dicendo che la cultura è il guanto di velluto della diplomazia?

    «Avvicinare, far dialogare, fare cooperare comunità e soggetti istituzionali è il primo obiettivo dell’agenzia dell’ONU. La diplomazia culturale è strettamente connessa alla diplomazia politica e deve avvalersi di molti strumenti e altrettante strategie, specie in contesti complessi come quello palestinese, dove un conflitto che va avanti da oltre settant’anni anni ha creato comunità che vivono quotidianamente la divisione come parte integrante e quasi connaturata alla loro vita, con un mondo che sembra essersi girato dall’altra parte. Ma la missione della nostra delegazione non è passata inosservata».

    In che senso?

    «Le date scelte non sono state casuali. Abbiamo individuato il periodo della Pasqua, anzi delle “Pasque” che hanno radice comune, per il nostro messaggio di pace. La Pasqua cristiana, quella ebraica e l’ortodossa quest’anno, per l’insolito allineamento di calendario, hanno assunto un significato ecumenico di notevole importanza e un ulteriore invito al dialogo tra le religioni e le comunità. Purtroppo determinate ricorrenze vengono “utilizzate” anche nel male. Fino al martedì 4 aprile la situazione appariva tranquilla. Poi è precipitata. Il 5 era previsto un nostro incontro con gli studenti dell’Università di Bethlehem alla fine saltato per ragioni di sicurezza. Il 6 è iniziata l’escalation: la pioggia di missili, l’auto lanciata contro un gruppo di turisti proprio vicino all’ambasciata italiana di Tel Aviv, a trenta metri da dove si trovava l’ultimo gruppo della nostra delegazione, con le conseguenze che tutti conosciamo».

    Avete percepito il pericolo?

    «Si, anche per l’aumento dei controlli ordinari, particolarmente accurati anche in aeroporto. Una “normalità” che si è presentata a noi in maniera molto cruda, difficile da capire per chi non vive la quotidianità dell’emergenza».

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    Un alberello di Ulivo fra i totem della mostra “Machines for peace”

    Una mostra virtuale, un “affresco digitale”. Non avete trasferito nulla, ma avete trasferito tutto…

    «Proprio così. Grazie alla tecnologia abbiamo scomposto, trasportato e ricomposto le feste di Nola, Sassari, Palmi e Viterbo, la coralità delle stesse, il significato che quella coralità assume in un processo di costruzione di ponti e di dialoghi di pace. Il film di Francesco De Melis – che abbiamo girato durante il lockdown per testimoniare il rischio della sparizione dei patrimoni immateriali in contesti di crisi riportando nelle città vuote, sui palazzi, sulle chiese, la musicalità e le immagini delle feste – fa scorrere le sue sequenze su un enorme spazio di proiezione di 16 metri».

    Che effetto crea nello spettatore?

    «Si entra nelle feste, nel Bethlehem Peace Center, a due passi dalla Natività e ci si trova in un’altra dimensione, accompagnati da 13 figuranti nei loro magnifici costumi “di scena” festiva, che dialogano con la maestosa testa-scultura che Giuseppe Fata ha dedicato al tema della mostra, nel contesto del progetto Simulacrum. Una circolarità di sensazioni, idee, progetti, competenze, solidarietà che hanno prodotto un miracolo».

    Sei soddisfatta?

    La pace si coltiva e si pratica nel lavoro quotidiano, non credo bastino più le teorizzazioni, i cortei e le bandiere. Aiutano, ma non bastano. Essere operatori di pace è una grande responsabilità e le “mie” comunità della Rete lo hanno capito bene. Se devo parlare di soddisfazione, beh, questo può essere sufficiente. Non possiamo voltarci dall’altra parte, né far finta che niente succeda: questo vale per tutti i conflitti e soprattutto per le comunità che ne restano vittime fisiche, sociali, economiche. Quel muro, immanente e imminente, che divide la Cisgiordania parla anche a chi si rifiuta ancora di ascoltarlo».

    Le prossime tappe dopo Betlemme?

    «La mostra resterà a Betlemme fino a maggio. Poi alcune tappe europee, tra cui Praga e Parigi e dove sarà necessario portare il nostro messaggio di pace, fino al 2024. In più, oltre ad alcune città italiane, ci sono situazioni in progress che stiamo monitorando, di cui daremo notizia al momento opportuno».

    Cosa ti porti indietro da questa esperienza?

    «La consapevolezza di avere dato il mio contributo e di aver incoraggiato la Rete a dare il suo, in un momento particolarmente difficile; l’aver lavorato con tantissime persone, le mie comunità, il mediatore Giorgio Andrian, il mio straordinario co-curatore Taisir Masrieh Hasbun e il team palestinese di IPrint, con OpenLab, la vicinanza di tutti. Di aver dato un contributo con i mezzi che mi sono propri e congeniali. Non dimenticherò le preghiere all’alba del muezzin dal minareto, l’avere la percezione che quella Terra continui ad essere il centro del mondo. E non dimenticherò un piccolo bambino, che accompagnava il suo papà autista di un nostro transfer: un piccolo bambino vivacissimo, un bimbo in trincea, le cui prospettive sono ben lontane da quelle di un mondo forse anche fin troppo dorato e fasullo, come a volte sembrerebbe essere il “nostro”».

  • Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    Festival del diritto: tiktoker e Montesquieu a colpi di codice

    «Non è un Festival sulla legalità astratta, ma un evento letterario e culturale calato nel mondo in cui viviamo: quest’anno ci occupiamo di democrazia». Inizia così la conversazione con Antonio Salvati, magistrato napoletano e palmese adottato, alle 8.30 del venerdì mattina seguente alla conferenza stampa di presentazione del X Festival Nazionale di Diritto e Letteratura della Città di Palmi (20-22 aprile 2023).

    CLICCA QUI PER SCARICARE IL PROGRAMMA DEL FESTIVAL

    Siamo al tribunale di Reggio: ho redistribuito i miei impegni per riuscire a vederlo. «Sono contento che siamo riusciti a incontrarci. Mi ha colpito, nella nostra chiacchierata telefonica, che lei abbia insistito per vederci. Oggi si fa prima con lo scambio di comunicati stampa?».

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    Il tiktoker Usso96
    Sarà anche vero – ribatto -, ma è la conseguenza del depauperamento della professione. Se per tirar su uno stipendio decente bisogna scrivere duecento pezzi al mese, capirà che la forchetta tempo/approfondimento si assottiglia fino quasi a sparire. Peccato perché il giornalismo è una delle gambe della democrazia.

    «Pensi, quest’anno, per il nostro decennale, all’aula Scopelliti del Tribunale di Palmi processeremo i social network! Intendiamoci: si tratta di un processo atecnico, fittizio, di uno spunto di riflessione, per approfondire il legame tra forma di governo, contesto socio-economico e innovazione tecnologica. Il pubblico Ministero sarà Dario Vergassola, la difesa verrà rappresentata dal tiktoker Usso96 e il giudice sarò io. Partiamo dal presupposto che la globalizzazione abbia innescato due processi: il rafforzamento del potere esecutivo e il crollo dei corpi intermedi mentre noi siamo stati parcellzzati. Tutto deve essere veloce e ad immediata portata di mano».

    Mi torna: ogni cambio di paradigma porta crolli e nuove regole di organizzazione. Sono i temi che tratto a scuola con i miei studenti: il digitale, le piazze virtuali, i tribunali del popolo versione social network, l’epoca del click, i processi mediatici sommari, l’individualizzazione, la partecipazione.

    «Quando nel 2015 chiesi al professor D’Alessandro dell’Alta Scuola di Giustizia Penale di Milano se credesse che portare un festival sugli studi di Diritto e Letteratura fuori dalle aule universitarie e verso il mondo della scuola fosse un punto di debolezza, mi risposte che no, che anzi rappresentava la forza dell’iniziativa. Eravamo alla seconda edizione e l’idea che con i ragazzi si dovesse lavorare attraverso le dimensioni di semplicità e curiosità è stata vincente. Avvicinare la scuola al mondo del diritto è più facile attraverso la letteratura».

    In che senso?

    «Cerchiamo di mostrare come il diritto non sia semplicemente appannaggio delle aule di un tribunale, ma riguardi la convivenza di tutti noi. La letteratura e la finzione sono i nostri attrezzi del mestiere. Lavorando con attori, scrittori, tiktoker, come quest’anno, svestiamo le toga e cerchiamo di avvicinarci alla generazione Z. Non mi ritrovo nell’assunto di Montesquieu che i magistrati siano la bocca della legge».

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    Piero Calamandrei
    Però la magistratura è percepita come una delle caste di questo Paese. La voce del popolo pensa che siate intoccabili, per restare nel solco di un dibattito allargato sulla democrazia.

    «Sicuramente c’è qualcuno che vorrebbe far proprio questo modello. Io la penso diversamente. Prenda l’esempio del periculum in mora, il possibile danno in cui potrebbe incorrere il diritto soggettivo: la valutazione su questo periculum non si può fare se non si resta essere umano, con la propria esperienza di vita: cosa che nessuna intelligenza artificiale o algoritmo potrà mai fare. Per Calamandrei, prima di giudicare, un magistrato avrebbe dovuto sperimentare quindici giorni di carcere. In altre parole, per fare bene il suo lavoro, un giudice ha necessità di un gap esperienziale che gli permetta di operare coerentemente con il contesto, consapevole di essere persona tra persone. L’idea di smettere di essere persona per diventare un asettico braccio della legge non mi rappresenta».

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    Lo scrittore portoghese Josè Saramago
    Ecco, non c’è democrazia senza rappresentanza e non c’è rappresentanza senza partecipazione. Un po’ ovunque, per lo meno in Europa, i dati sull’affluenza raccontano di una disaffezione. Chi elegge è una minoranza della maggioranza. E più in generale la partecipazione alla vita pubblica si affievolisce…

    «Jose Saramago in Saggio sulla lucidità racconta di un Paese in cui ad un tratto votano scheda bianca, con le conseguenze che ne derivano. É un esempio di cosa è e come si muove il Festival: contattiamo le scuole, chiediamo di aderire. Diamo il tema, Consigliamo di leggere il testo di riferimento che scegliamo per parlarne assieme. Tutto si tiene. Allargando il discorso questo modello, che è un po una metodologia, mira a fare uscire il diritto fuori dai suoi tecnicismi per divulgarlo, calandolo nella realtà di tutti noi. Il Festival è stato in alcune circostanze evento di formazione nazionale della Scuola Superiore della Magistratura, proprio perché il modo in cui affronta le tematiche che tratta contribuisce all’abbattimento dei bias cognitivi, ossia di quelle forme di pre-giudizio da cui un magistrato può essere influenzato, ma che occorre scongiurare per evitare prima stereotipi e poi errori. In seguito quello che era nato come strumento di formazione per giuristi si è trasformato ed è stato allargato alla scuola».

    Nella prima parte de I tweet di Cicerone, l’autore affronta un tema cruciale per il nostro mondo, i cambiamenti causati dal passaggio dall’oralità alla scrittura. E mostra come, in ogni grande passaggio, le categorie degli apocalittici e degli integrati siano sempre esistite. Cosa possiamo fare noi, la generazione-cerniera, per dare ordine nel passaggio dall’analogico al digitale?

    «Innanzitutto dire ai ragazzi che va tutto bene, andando noi, che abbiamo le spalle più robuste, verso di loro. Spiegando che certi tempi vanno affrontati. Bisogna uscire da questa tendenza accademica, che è molto italiana, e spingere sulla divulgazione. Ce lo ha insegnato Piero Angela: c’è modo e modo di affrontare le cose e modo e modo di narrarle. L’efficacia comunicativa è scandita dal come: per affrontare con il pubblico riflessioni apparentemente pesanti su temi come il cambio di paradigma, la democrazia 4.0, la partecipazione, i valori, gli stereotipi bisogna trovare la chiave giusta».

    Piero Angela, volto noto della tv italiana per tanti anni
    É contento dei risultati raggiunti?

    «Molto contento. Ritengo il Festival di diritto e letteratura di Palmi un formidabile strumento di umanizzazione e divulgazione e le posso assicurare che siamo sicuri di una cosa: il Festival lo faremo sempre, con qualsiasi budget, sia con zero fondi, sia con risorse più importanti. Se lo avessimo presentato come un’iniziativa sulla legalità in Calabria, sicuramente avremmo avuto maggiore risonanza, ma non è quello che volevamo».

    A proposito di stereotipi… la Calabria?

    «Le dico una cosa: girando l’Italia vedo negli occhi la delusione di qualcuno quando dico che che in Calabria faccio una vita normale. Spesso si è convinti che per fare questo lavoro in Calabria si debba girare con l’elmetto. Paragonando lo stereotipo calabrese con quello napoletano, ho la sensazione che il secondo assuma venature di leggerezza, mentre per il primo sembra manchi un piano B. Eppure sono convinto che la Calabria ce la farà. Ma deve smettere di raccontarsi attraverso gli stereotipi che le hanno cucito addosso. Perché questa terra, con il suo radicamento a certi valori, può essere laboratorio di modernità al di fuori dell’omologazione».

    É fiducioso?

    «Si. Il giorno migliore della nostra vita è domani. La aspetto al Festival».

  • «Tre migranti sopravvissuti a Cutro accolti in Arbëria»

    «Tre migranti sopravvissuti a Cutro accolti in Arbëria»

    Tre migranti pakistani, sopravvissuti alla tragedia di Cutro, arriveranno tra martedì e mercoledì a San Benedetto Ullano, paese arbëresh in provincia di Cosenza. Sono stati affidati all’associazione don Vincenzo Matrangolo di Acquaformosa. Il presidente è Giovanni Manoccio, sempre in prima linea sul tema dell’accoglienza e della difesa di chi fugge da guerre e povertà. A ICalabresi spiega il senso del suo impegno decennale.

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    Soccorritori portano a riva i corpi senza vita dei migranti a Steccato di Cutro
    Dal 2010 opera l’associazione don Vincenzo Matrangolo…

    «Abbiamo iniziato questa avventura di accoglienza nel 2010 ad Acquaformosa. Era come nuotare in mare aperto. Non c’erano figure professionali. Ma c’era la consapevolezza che potevamo farcela. Ragazzi molto motivati e alcuni professionisti disponibili. Erano anni di grande esposizione mediatica del Comune. Tanti giovani lavoravano in questa impresa sociale. L’associazione poi si è allargata in 5-6 comuni poi diventati 10. Con una caratteristica fondamentale: l’accoglienza dei paesi arbëresh. Cinquecento anni prima i nostri avi avevano vissuto la drammaticità di questi momenti. Noi abbiamo ridato ai territori quello che abbiamo avuto dalla Calabria. Siamo stati vecchi ospiti di questa terra. Il progetto ha accolto nel corso degli anni oltre 1600 persone, provenienti da 70 nazioni, 140 etnie. Poi ancora vulnerabili, vittime di tratta. Davvero un campionario incredibile di esperienze. Oggi l’associazione ha 110 dipendenti. Questa economia sociale ha fatto sì che tanti nostri giovani laureati siano rimasti nei loro paesi. E tanti ragazzi che non lo sono hanno avuto una possibilità. Un modello di vita per loro, perché lavorare nell’immigrazione non è facile».

    Studenti stranieri per uno stage ad Acquaformosa dialogano con la mediatrice culturale dell’associazione “Matrangolo”
    Come inizia la sua storia di accoglienza?

    «Il giorno dello sbarco della Vlora  io ero a Bari. Ricordo ancora una madre che partoriva nel porto. I cittadini pugliesi che donavano cibo e vestiti. Ero un giovane assessore. Andammo alla prefettura di Cosenza e facemmo in modo che molti di loro restassero nei nostri paesi. Molti hanno messo famiglia e radici qui da noi. Quel giorno del 1991 a Bari non lo dimenticherò mai. Gente in fuga per la libertà. Da lì nasce la mia volontà di accogliere».

    Cosa c’è dietro quelle parole di Piantedosi sui migranti a Cutro?

    «È la loro cultura. La conseguenza di ciò che avevano fatto poco prima, iniziando la battaglia contro le Ong. Diventano sempre più inumani per dimostrare al loro elettorato razzista e xenofobo che loro non sono come quelli di prima. Una logica conseguenza di un non politico che utilizza un linguaggio meramente burocratico».

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    Quel che resta di una tutina da neonato sulla spiaggia della tragedia a Cutro
    Il centrosinistra ha pure le sue responsabilità

    «Molti sindaci del centrosinistra hanno fatto tanto nelle loro comunità accettando la sfida dell’accoglienza. Ma se penso a Minniti e agli scellerati accordi con la Libia… Ha affrontato l’immigrazione con un approccio securitario.
    Mi auguro che i nostri politici, destra e sinistra, cancellino la Bossi-Fini. Poi serve diversificare tra progetti di accoglienza pubblici e privati. I secondi sono la negazione dell’accoglienza. Su questo il mio partito, il Pd, ha fatto pochissimo. La sinistra ha perso un’occasione».

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    Giovanni Manoccio e la neo-segretaria del Pd, Elly Schlein all’Università della Calabria
    E adesso con Elly Schlein cosa cambia?

    «Credo in un rovesciamento di posizioni. In questi giorni ho parlato con Elly Schlein, la neo-segretaria che, tra l’altro, ho sostenuto al congresso. Da europarlamentare mi invitò a Bruxelles. Si interessava di queste cose. Anche la sua visita a Crotone, privata e senza rilasciare interviste, dimostra un approccio diverso del Pd rispetto a tali problemi.
    La Schlein deve sostituire quelli della mia generazione. E muoversi sull’onda di un entusiasmo palpabile tra la gente. La conosco dai tempi di Occupy Pd. Io c’ero quel giorno a Roma, e ho rischiato di essere arrestato (ride ndr). Non volevano farci entrare nella sede del Partito democratico».

    Autonomia differenziata o secessione? 

    «Una condanna a morte per il Sud. Un processo lungo. Quando ero sindaco di Acquaformosa mi sono accorto che ogni anno arrivavano circa 240 euro per ogni cittadino. E in Lombardia ed Emilia c’erano invece punte di quasi 500 euro di trasferimenti statali pro capite. Quindi? Il welfare pubblico funzionava con questi soldi. Consentivano di gestire asili nido, scuole materne, le strutture del dopo di noi.
    Come fa il Sud a recuperare questo gap se passa la logica dell’autonomia differenziata? Colpirà il welfare, la salute delle persone, i servizi sociali, la scuola. Così si compie un delitto ai danni delle regioni del Sud».

    Roberto Occhiuto alla fine non ha opposto resistenza al ddl Calderoli

    «Un presidente calabrese che cerca di stravolgere la realtà non fa bene né a se stesso né alla regione. La classe dirigente locale è arroccata su stessa. Vive dei poteri logorati, che sono quelli regionali. I nostri ragazzi se ne vanno, i nostri ospedali chiudono, i nostri edifici scolastici non sono a norma».

    Sono finiti i tempi del Decalogo di Firmoza? Oppure lei vede similitudini con quello che accade oggi?

    «Quel decalogo era una provocazione. Ma a rileggerlo si intravede tutto quello che emerge con l’autonomia differenziata. Era anche una trovata mediatica per denunciare l’isolamento istituzionale e politico di paesi dell’Italia interna come Acquaformosa».

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    Il Decalogo di Firmoza
  • La materia di Migliazza: terra, radici e bambini

    La materia di Migliazza: terra, radici e bambini

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    Paolo Migliazza merita. Questa cosa non l’ho capita subito, cioè quando l’ho conosciuto qualche anno fa. L’ho capita un po’ dopo, quando entrai per la prima volta nel suo studio, il vecchio laboratorio in un sotterraneo di via del Pratello, a Bologna. Non tanto per l’ambientazione, che aggiungerebbe già di per sé una patina di bohémien di cui Paolo non ha minimamente bisogno, quanto per l’impatto visivo ed emotivo all’ingresso di quel luogo. E certo, uno studio d’artista è sempre una fucina magica più o meno a soqquadro a seconda delle inclinazioni del personaggio. Ma questo aveva in più qualcosa tra l’inquietante e un certo senso di estraneità rispetto al tempo. Ricordo un’intera stanza piena di busti di bambini, pochi ancora in lavorazione, molti finiti, tutti silenziosi ma in qualche modo urlanti. Qualcuno coperto, qualcuno rotto. Una specie di piccolo Esercito di terracotta under 18 e soprattutto inerme.

    Perché hai cominciato proprio con la scultura anziché con un altro mezzo espressivo?

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    Alcune sculture di Paolo Migliazza realizzate per We are not superheroes

    «Ho cominciato da bambino, toccando e giocando con la terra, stando in campagna dietro a mio nonno. I miei nonni erano da una parte operai, e dall’altra piccoli proprietari terrieri. Tutti di Girifalco. La terra l’ho sempre respirata, in particolare col nonno paterno, come spesso succede giù. E in campagna, uno dei modi che avevo per giocare, per inventarmi e costruirmi le stalle degli animaletti era prendere la terra, paciuccarla e creare i vari spazi. Il mio primo approccio alla scultura è stato questo, ludico, abbastanza inconscio».

    Strano che proprio a Girifalco fosse nato un altro artista, con un cognome simile al tuo e che forse ti assomigliava pure un po’, il garibaldino Antonio Migliaccio…

    «Nessun collegamento. L’arte l’ho assorbita un po’ da mio padre, che è stato sempre un po’ appassionato, anche non avendola mai potuta praticare. Ma io mi sento del tutto figlio, anzi, nipote di una dimensione contadina, anche nell’accezione più bella e romantica del termine».

    Contano, e molto, le radici?

    «Le radici sono un elemento costituente della personalità, ma che noi non razionalizziamo. Assorbiamo il retaggio culturale della storia dei luoghi in cui nasciamo e cresciamo e ce li ritroviamo nelle scelte che facciamo, specialmente in ambito artistico».paolo-migliazza-scultura

    Il fatto di aver iniziato con la terra ha condizionato quindi anche la scelta dei materiali con cui lavori oggi?

    «Sì e no, nel senso che quella è stata una scelta di comodo perché la conoscevo bene. La potevi costruire e distruggere, modellare la forma da 0 a 100 e da 100 a 0. Poi c’è anche la condizione del lavoro. La scultura ha qualcosa che tanti altri linguaggi non hanno: devi mettere in conto anche la stanchezza, il lavoro fisico, e non solo quello psicologico legato all’idea».

    Quali modelli di ispirazione hai avuto?

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    Una delle opere di Paolo Migliazza

    «Negli anni di studio sono venuto spesso a Bologna ma non ci ho trovato mai niente di interessante… mi ero formato in una piccola bottega locale… quello che mi ha veramente toccato è stato quando, al Parco Archeologico di Scolacium, Alberto Fiz curò per due anni Arte Nel Parco, una mostra collettiva all’interno degli scavi (con opere di Paladino ecc.); poi quello che mi ha smosso di più è stato Time Horizons di Antony Gormley: aveva installato sui pendii 100 calchi in ferro pieno e nonostante l’orografia, insomma le curve di livello altimetriche del parco fossero incoerenti, le 100 figure restavano tutte esattamente sullo stesso piano, disegnando idealmente una linea d’orizzonte che guardava verso il mare. Poi ho intervistato Aron Demetz per la tesi, ed è gente che mi ha messo un po’ in pace col mondo. Lui, Walter Moroder, Bertozzi e Casoni, mi hanno fatto capire che si poteva ancora fare la scultura figurativa. Io pensavo fosse una roba legata al Novecento e invece oggi è più viva di altri linguaggi.

    Ricordami quell’installazione tua e di Nicola Amato, che vi feci portare ad Aliano al festival di Franco Arminio (la gloriosa e indimenticabile edizione de “La luna e i calanchi” di fine agosto 2016)…

    Fu una cosa fatta solo per quell’occasione, ed era un’installazione assolutamente site-specific. Avevamo utilizzato circa 200 vecchi mattoni conici forati, le pignatte che venivano utilizzate per fare soffitti e controsoffitti. Avevano un buco sulla testa e uno sulla base, così da trattenere il calore ma contrastare l’umidità, una sorta di coibentazione. Ce le caricammo in macchina io e Nicola, da Girifalco ad Aliano… 270 km. Arrivati lì scegliemmo lo spazio che ci interessava di più, il pianterreno di una casa antica, con in mezzo la bocca di un pozzo. Rovesciammo le pignatte in modo praticamente casuale, considerato anche il fatto che quelle cadute orizzontalmente finivano per rotolare… sarebbe da rifare. Ma poi com’è che c’eravamo finiti?

    Niente, fu che l’anno prima fui invitato da Franco Arminio sempre ad Aliano, dove facevo una specie di seminario folle, itinerante, che si intitolava “Viabilità a misura d’uomo contro gli attacchi di panico (tornando all’Italia di prima)”, che poi era la base di partenza della rubrica “Strade Perdute” che sto curando su questo stesso giornale… Ma torniamo a te e cerchiamo di uscire un po’ dal tecnico. Qual è stata la tua soddisfazione maggiore?

    «Sicuramente l’esperienza con la Galleria L’Ariete di Bologna, il mio battesimo del fuoco in termini concettuali, quando ho fatto We are not superheroes, e ho cercato di trascinare la scultura nella contemporaneità».paolo-migliazza-dettaglio-scultura

    I tuoi bambini, meravigliosi e inquietanti… perché proprio i bambini?

    «Da un lato era la necessità di uscire dal seminato dello studio accademico, dei modelli e delle modelle, dall’altra iniziavo a riflettere su una mia visione personale, una mia traccia visiva. Anche su quello che era il mio passato: ho giocato per strada e nella mia memoria c’è questo imprinting per cui ho plasmato questi bambini che riporto ad un’immagine minima relazionandoli alla scultura arcaica: sono fermi, non giocano, non hanno rapporti tra di loro ma nemmeno con i grandi. Sono dei bambini vecchi».

    Una volta mi hai detto che questi bambini sembrano buoni ma in realtà sono cattivissimi.

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    Uno dei bambini scolpiti da Paolo Migliazza

    «Conosci bambini buoni? Tutti i bambini sono cattivi. Il male che ci si fa tra bambini è tremendo… Ne Il Signore delle Mosche Golding ci insegna che i bambini sono la peggiore cosa che possiamo incontrare. Perché sono terribilmente schietti.

    Non è che poi crescendo le cose cambino molto… Detto ciò: i tuoi sono bambini belli… perché? Forse per una forma inconscia di politically correct per cui non vorresti far passare la cattiveria infantile attraverso tratti somatici sgradevoli?

    «Riguardandone alcuni che non ho mai esposto, diciamo che non li metterei sul podio dei più belli della classe».

    Sono anche molto fotografici, icastici, ma spesso è come se non avessero gli occhi…

    «Li hanno velati: quello che voglio è eliminare un aggancio emotivo diretto, ecco perché eliminare l’occhio. Nella mia visione, velare gli occhi significa riportare tutto al corpo e alla semantica del corpo. Una scultura che diventa vicina fisicamente ma lontana a livello emotivo. Non mi interessa che passi la mia idea. Interessa che la mia opera riesca a far sentire lo spettatore davanti a un dispositivo aperto. Poi sta a lui».

    Prossimi progetti?

    «Il MABOS (Museo d’Arte del Bosco della Sila), è un museo d’Arte Contemporanea situato nella Sila catanzarese. L’imprenditore, Mario Talarico, ha aperto questo parco scultoreo offerto per la realizzazione di opere site-specific che rimangano lì. E poi sono stato invitato al Premio San Fedele, a Milano».

    Quindi, in parte, un temporaneo ritorno alla Calabria. Tutta l’Italia è paese?

    «Tutta l’Italia è provincia. L’Italia non è mai riuscita a vedersi come una nazione protagonista, ma ha sempre avuto una visione subalterna di se stessa».

    A parte forse durante il Rinascimento, anche se non c’era una sola Italia…

    «Esatto… era più internazionale e centrale cinquecento anni fa che non oggi».

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    Paolo Migliazza all’opera in occasione di We are not superheroes

    Cosa consiglieresti a un diciottenne artista di oggi?

    «Niente. Gli consiglierei di annoiarsi».

    Questa l’ha detto anche Paolo Sorrentino…

    «Ed è giusto. L’eterna provincia d’Italia, che è il Sud, e in particolare la Calabria… in questo ci aiuta. La provincia ti lasciava la libertà della noia perché non era a contatto con una contemporaneità stressata dai mezzi di comunicazione. Mi sento fortunato».

    Però fa scaturire anche recriminazioni…

    «Certo, il fatto che ci sia sempre una sorta di clientelismo. Il fatto è che spesso giù – ora un po’ meno – c’è sempre un po’ una visione per cui la cultura sembra di minor valore e rischia di mischiarsi alla sagra di paese. La Calabria è come una macchina supersportiva che potresti mandare a mille e invece la lasci ad arrugginire nel vialetto dietro casa perché ti vergogni di farla vedere…».

    Le immagini all’interno dell’articolo raffigurano alcune sculture di Paolo Migliazza della serie “We are not superheroes”. L’autrice degli scatti è Rosa Lacavalla

  • Autonomia differenziata, parla Esposito: Bonaccini? È come Calderoli

    Autonomia differenziata, parla Esposito: Bonaccini? È come Calderoli

    L’autonomia differenziata? «Ci spingerà ancor più verso la desertificazione».
    Parola di Marco Esposito, firma storica de Il Mattino, esperto di economia (esordì con Milano Finanza) e osservatore attento delle politiche nazionali più pericolose per il Sud.
    Lo ribadiscono due saggi, diventati instant classic: Zero al Sud (Rubbettino, Soveria Mannelli 2018) e Fake Sud (Piemme, Milano 2020), nel quale fa il punto, con grande acume critico, sui pregiudizi antimeridionali ma anche sugli eccessi di certo meridionalismo.
    Il primo obiettivo polemico di Esposito è stato il federalismo fiscale. Quello attuale è l’autonomia differenziata. Su cui ha parlato di recente a Cosenza.
    Ma, specifica il giornalista napoletano, «io non ho pregiudizi verso l’autonomia differenziata in sé».

    Allora dov’è il problema?

    «Nella sua applicazione, ovviamente. Non ho alcun pregiudizio nei confronti delle autonomie. Semmai, occorre capire che non si può parlare di decentramento o accentramento in astratto: dire a priori che un sistema accentrato alla francese sia meglio di un sistema federale, come quello tedesco, è una sciocchezza»

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    Marco Esposito

    Però sei in prima fila nel contrasto al ddl del governo Meloni…

    «Certo, ma questo contrasto è anche critica allo status quo. Noi ci opponiamo all’autonomia differenziata perché, così com’è concepita, aumenterà i divari nel Paese, che invece vanno colmati»

    Calderoli e vari esponenti dell’attuale coalizione di governo negano o minimizzano questo rischio.

    «È scontato che l’oste difenda il proprio vino, in questo caso ben fermentato in cantine leghiste. Mi permetto di ricordare che, dietro questo ddl ci sono i referendum promossi in Veneto e Lombardia nel 2017. Entrambi su iniziativa di Roberto Maroni e Luca Zaia, che provengono dalla vecchia Lega di Bossi»

    Ma non si può gettare la croce solo sulla Lega. Anche la sinistra, a partire dalla riforma del Titolo V della Costituzione ha calpestato qualcosa…

    «Per l’autonomia differenziata, ricordo una foto del 28 febbraio 2018. Questa foto ritrae Stefano Bonaccini assieme a Maroni e Zaia durante la firma dei tre accordi sulle autonomie assieme a Gianclaudio Bressa, allora sottosegretario in quota Pd del governo Gentiloni»

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    Tutti assieme appassionatamente: da sinistra, Maroni, Bressa, Zaia e Bonaccini

    Vogliamo ricordare il contenuto di quegli accordi?

    «Fissano i fabbisogni standard delle Regioni sulla base di due elementi: la demografia e il gettito fiscale. Se i requisiti sono questi, è ovvio che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che sommate sono più di un terzo della popolazione nazionale, faranno la parte del leone». Teniamo presente inoltre, che l’autonomia differenziata include Sanità, Scuole e Infrastrutture, che riceveranno più o meno finanziamenti a seconda dei territori»

    E quindi, per tornare a Bonaccini?

    «Quando Bonaccini afferma che non saranno toccati i Lea (Livelli essenziali di assistenza) e i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) dice una fake, né più né meno di Calderoli»

    Insomma, questa riforma sembra fatta apposta per danneggiare il Sud

    «Questa riforma riflette la volontà di dare maggiori diritti lì dove ci sono maggiori ricchezze. Che il Sud sia danneggiato da tutto questo, è una conseguenza. Ma non solo il Sud: l’Italia presenta, anche nel Centro-Nord, una geografia economica a macchie di leopardo. Quindi alcuni territori settentrionali, penso al Piemonte, subiranno dei danni»

    Stefano Bonaccini

    Ma il problema non è solo economico…

    «No. Questo ddl mette a repentaglio la coesione del Paese. Se i residenti della Lombardia ricevono più cure o cure migliori rispetto a chi vive in Calabria o in Campania, il principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione va a farsi benedire»

    Non che ora questa situazione non ci sia…

    «Sì, ma l’autonomia differenziata la istituzionalizza. E lo fa senza interpellare gli amministratori più a contatto coi territori e i loro problemi»

    Cioè?

    «I sindaci e gli amministratori locali. L’autonomia differenziata, così com’è concepita, si basa sulla dialettica tra governo centrale e Regioni. Quindi, il sindaco di Napoli o quello di Reggio Calabria, due città metropolitane importanti, non hanno diritto di parola?»

    A proposito di sindaci: la “rivolta” contro l’autonomia differenziata ne vede molti sulle barricate, almeno al Sud

    «Sì e per due motivi: conoscono i problemi del territorio e sono eletti direttamente dai cittadini. Ricordo che quando sollevai il problema dei finanziamenti agli asili nido, presero posizione molti amministratori locali»

    Roberto Calderoli

    Però è strano che un giornalista debba dire ai politici come risolvere i problemi

    «Il giornalista che riesce a smuovere le coscienze fa il suo dovere. Non altrettanto si può dire dei politici che non prendono iniziative forti»

    È solo colpa dei politici?

    «Diciamo che il metodo di selezione della classe politica nazionale non aiuta. I parlamentari sono letteralmente cooptati dalle segreterie, quindi obbediscono a logiche di scuderia in cui le esigenze dei territori pesano poco. Inoltre, la tendenza ad allinearsi è dovuta anche a un certo meccanismo mediatico: se si sostengono certe tesi, si finisce sulla stampa e nelle tv che contano. Quando ci si lega ai territori, invece, si ottiene al massimo una visibilità di tipo locale»

    Tuttavia neppure i sindaci sono immuni da questo rischio

    «Più il Comune amministrato è grande, più i sindaci tendono ad allinearsi a logiche partitiche. Ma la dimensione locale e il contatto coi territori fanno da freno. Non è un caso che proprio i sindaci costituiscano oggi una sorta di opposizione civica»

    E i presidenti di Regione?

    «Il loro ruolo è più politico, quindi la tentazione di allinearsi per salire di gradino nella carriera è maggiore»

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    Una manifestazione contro l’autonomia differenziata

    Torniamo all’autonomia differenziata. C’è un aspetto del ddl su cui insistono in pochi: l’impatto sulla struttura costituzionale

    «è una vera e propria riforma dello Stato, operata al di fuori della Costituzione e in cui il Parlamento ha un ruolo marginale»

    Chiariamo di più

    «Allora, l’Italia è un Paese a regionalismo unitario. Tuttavia, le Regioni a statuto speciale hanno più poteri dei Lander tedeschi, che fanno parte di un sistema federale. Per capirci la piccola Valle d’Aosta ha più autonomie dalla Baviera, che è la zona più ricca d’Europa. Con le autonomie differenziate si arriverà al paradosso per cui alcune Regioni a statuto ordinario avranno, nei fatti, più potere di gestione delle Regioni a statuto speciale. Se questa non è una riforma costituzionale…»

    Che tuttavia esclude le istituzioni che dovrebbero farla…

    «Appunto. Il ddl minimizza il ruolo del Parlamento e degli attori istituzionali e “vola” sulle teste dei cittadini. Non proprio quello che dovrebbe accadere in una democrazia»

  • Lo Jonio s’illumina d’immenso: l’arte hi tech di Franz Cerami

    Lo Jonio s’illumina d’immenso: l’arte hi tech di Franz Cerami

    Uno show di luci ha concluso il 2022 a Corigliano-Rossano (o, per gli amanti dei campanili a Corigliano e Rossano).
    Tuttavia, «ho voluto celebrare anche questa unione tra due comunità, che hanno accantonato i loro campanilismi», spiega l’autore delle installazioni spettacolari che hanno abbellito la città jonica.
    È Franz Cerami, classe ’63, napoletano doc, artista specializzato nel mescolare tecniche classiche e hi tech e docente di Digital Storytelling presso l’Università “Suor Orsola Benincasa”.
    Spettacolo multimediale e nuove tecnologie per celebrare monumenti antichi e persone comuni. Oppure per dare una bellezza inedita agli orrori urbanistici, come la centrale elettrica.
    Tanti modi per dire una cosa sola: l’arte è anche racconto…

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    Lighting Flowers: la centrale idroelettrica trasfigurata dai laser

    Partiamo dall’installazione più legata al territorio che hai celebrato: Denzolu.

    Mi ha colpito molto, al riguardo, un’antica leggenda, che esprime le rivalità tra i campanili. Si racconta che i rossanesi mettevano le lenzuola davanti al sole per oscurare Corigliano. E poi mi ha colpito il suono di questo termine dialettale: “denzolu” vuol dire senz’altro lenzuolo, però evoca anche suggestioni arcane, se si vuole un po’ esotiche.

    Cosa hai voluto rappresentare con l’uso del lenzuolo?

    Ho voluto trasformare un elemento divisivo, che ricorda troppo le rivalità tra comunità, che a volte hanno avuto esiti tragici, in un simbolo d’unione.

    Quel che colpisce è la tecnica utilizzata. Vogliamo approfondire un po’?

    Ho fatto una serie di riprese con due videocamere a varie persone, cittadini comuni, artigiani, pescatori, professionisti e autorità. E ne ho fatto un doppio uso. Il primo è multimediale: ho mescolato queste riprese “ritratto” a riprese dell’ambiente e le ho proiettate sulla Torre del Cupo a Schiavonea.

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    Denzolu: ritratti di cittadini sulla Torre del Cupo

    Ma c’è anche uno sviluppo più tradizionale, che poi dà il nome all’opera. O no?

    Esatto: ho estratto dei frame da queste riprese e ne ho ricavato varie serigrafie sviluppate su delle tele che ho appeso sulle facciate dei due palazzi municipali di Corigliano e Rossano. Ed ecco: le lenzuola non offuscano più il sole, ma vivono attraverso la luce e raccontano la fusione coraggiosa.

    Lighting Flowers, invece, segue un’ispirazione diversa.

    Quest’installazione fa parte di una serie di opere che ho sviluppato in diverse zone del mondo: San Paolo del Brasile, Napoli, San Pietroburgo e via discorrendo. A Corigliano-Rossano ho deciso di valorizzare a modo mio la centrale elettrica.

    Un compito non facile…

    In questo caso, ho deciso di trasformare il classico ecomostro in un’opera d’arte attraverso la proiezione di motivi colorati con potenti fasci di luce. Ho giocato un po’ sul doppio senso della parola “mostro”: in latino “monstrum” vuol dire sia “brutto” (e la centrale indiscutibilmente lo è) sia “appariscente”. Io ho tentato di estrarre l’aspetto meraviglioso da una cosa brutta.

    Un primo piano di Franz Cerami

    A giudicare dal risultato, ci sei riuscito.

    Anche De Andrè diceva: «Dal letame può nascere un fiore. O no?».

    Infine c’è Lumina, che si ispira a una poetica diversa: portare un elemento futuribile su una struttura antica…

    In questo caso, ho proiettato dei fasci di luce sulla facciata dell’Abbazia del Patire. Il risultato è stato molto forte, a livello visivo.

    Notevole anche l’uso delle colonne sonore.

    Merito, in questo caso, di Claudio Del Proposto, che le ha composte per l’occasione. E sono debitore anche al mio assistente Flavio Urbinati, il cui aiuto è stato fondamentale per la riuscita.

    Com’è nata quest’iniziativa?

    Sono stato contattato direttamente dall’Amministrazione comunale, per sviluppare un progetto celebrativo di questo municipio unico che fonde due comunità calabresi affini anche quando erano divise. I contatti sono iniziati nella tarda primavera del 2022. Ho iniziato i lavori a luglio e li ho terminati poco prima dell’autunno.

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    Il Patire vola nel futuro

    Come ti sei trovato?

    Direi benissimo. I cittadini sono stati collaborativi e ospitali. Ottima l’accoglienza, bellissimo il paesaggio e molto suggestive parecchie zone. In particolare, mi ha colpito Schiavonea. Ma in una realtà così ricca come quella in cui ho lavorato c’è l’imbarazzo della scelta.

    Ma cosa può trovare di tanto importante un napoletano in Calabria?

    Tante cose. Ma soprattutto quell’apertura e quella socialità tipica delle zone di mare. Forse la magia di queste zone è tutta in quest’orizzonte sconfinato e bello. A Napoli come sulle vostre coste. Un punto di partenza per sognare un futuro migliore.

    Anche grazie all’arte?

    Certo.

  • Dal vernacolo agli haiku: Dante Maffia, un poeta per due continenti

    Dal vernacolo agli haiku: Dante Maffia, un poeta per due continenti

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    Con Dante Maffia ci siamo incontrati poco e di sfuggita. Una volta a Firenze, un’altra volta – fuori dal tempo e da ogni logica razionale – per caso a Laino Castello, deserta in un pomeriggio d’agosto, e un paio di volte nella “nostra” Roseto Capo Spulico. Ma basta leggere la voce di Wikipedia che lo riguarda per rimanere increduli davanti alla quantità di pubblicazioni e di riconoscimenti internazionali alla sua attività di poeta, narratore e saggista.

    L’impressione è che tu sia più conosciuto fuori che dentro dalla Calabria: quanto ritieni sonnolenta la regione, in termini di fruizione della cultura? 

    «Su Wikipedia non c’è tutta la mia attività, non mi sono preoccupato di fornire le notizie. A me interessa fare, prendere piacere e interesse a fare, con assiduità, con attenzione e cura perché provo gioia se riesco a realizzare dei versi belli, delle pagine interessanti che potrebbero (!) aiutare la conoscenza e la consapevolezza. Per il resto non mi preoccupo di promuovermi. Ho tanti difetti, tranne la vanità, e ciò non giova per occupare un posto preminente sui giornali e nelle televisioni. Ma io sono all’antica. Ho sempre creduto e credo che la poesia, la letteratura in genere, non siano notizia e dunque possono aspettare il loro turno per farsi vive e dire la loro. Sono uno stupido illuso, lo so, ma va bene così. Non mi sono aspettato mai niente dai miei libri. Perché li scrivo e li pubblico? Per molte ragioni, ma soprattutto perché dentro pongo messaggi che avranno senso in futuro. La poesia, quella vera, quella che nasce dal cuore, dall’anima, dalla cultura e dall’esperienza in un amalgama distillato in cerca della verità, non ha tempo, vive nella perennità.

    La Calabria mi ha sempre riconosciuto e mi ha dato molta attenzione, a cominciare dalla candidatura al Premio Nobel proposta all’unanimità dal Consiglio Regionale, dalle cittadinanze onorarie ricevute da Reggio Calabria, Girifalco, Trebisacce, Amendolara, Rocca Imperiale, Cassano Jonio… e infine da un convegno, con 47 interventi dalle Università di tutta Italia. Ma il problema Calabria è troppo complesso, prima perché si tratta di Calabrie, di molte Calabrie. Con vocazioni e intenti diversi, con storie diverse, con eredità che non sempre sono state smaltite per bene. Poi perché gli eventi si ripetono: Milano, in particolare, esercita una sorta di razzismo silenzioso ma efficace nei confronti di tutto ciò che non sia fatto di nebbia e di danaro. Lo so, è un luogo comune trito e ritrito, ma io ne ho subito molte dure conseguenze».

    Quali soluzioni individui?

    «Ce ne sarebbe una sola. Ritornare a due Italie, due gestioni autonome politiche, sociali ed economiche. Io maledico sempre le azioni di Garibaldi, il suo tradimento di Mazzini. E mi ricordo che Umberto Zanotti Bianco da qualche parte ha scritto che la Calabria, bellezza a parte, potrebbe essere la regione d’Europa più ricca: 900 chilometri di costa – e che costa! -, tre montagne, Aspromonte, Sila e Pollino, e il parco archeologico più grande del continente: Sibari».

    Beh, se Zanotti potesse vedere le coste allo stato attuale… Ma andiamo avanti: hai esordito a 18 anni, nel 1964, con “È più bella la notte”, poi a 21 anni hai pubblicato “Lo straccivendolo di Eros”, ormai introvabili tutti e due. Sapevi che il secondo è conservato soltanto in due delle migliaia di biblioteche pubbliche italiane? E il primo, addirittura, in nessuna?
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    Rara copia di un’opera degli esordi di Dante Maffia

    «In realtà ho esordito a 14 anni con un volumetto intitolato I canti dello Jonio e da quello addirittura ho recuperato una poesia che ancora ritengo valida: “Vado la sera / di casa in casa / ad ascoltare le fiabe / che mi raccontano i vecchi al focolare / come un mendico / che ha bisogno d’un pezzo di pane…”.
    L’ho preso in mano proprio ora, per controllare, e la meraviglia è che ci sono brevi poesie che sembrano haiku, quegli haiku che mi hanno portato in Giappone, dove sono stati tradotti 22 miei volumi. A gennaio, a Kyoto, ci sarà la prima edizione del Premio Dante Maffia. Proprio “Premio Dante Maffia”, nonostante che, almeno sembra, ancora io sia vivo. Una storia lunga. Annoieremmo i lettori».

    Poi, a 28 anni, hai pubblicato “Il leone non mangia l’erba” e a scriverne la prefazione fu nientemeno Palazzeschi. Vi furono gli apprezzamenti da parte di una componente importante della cultura italiana dell’epoca: da Sciascia a Natalia Ginzburg e Mario Luzi, da Caproni a Giacinto Spagnoletti. Cosa ricordi di te ventottenne, o giù di lì, circondato dalle attenzioni di questi nomi? Com’era quell’ambiente letterario?

    Con Il leone non mangia l’erba mi resi conto che le mie emozioni non erano dettate da velleità, ma da una profonda necessità di dialogare con l’Universo, con il Mistero, con il Lievito della vita, con la Morte. Quindi vedere alla Libreria Croce addirittura personaggi come Sciascia, Luzi, venuto da Firenze, Spagnoletti, Caproni, Palazzeschi, Moravia, Bellezza e altri… mi sembrò un fatto naturale. Ma allora ancora esisteva il mondo letterario che badava alla qualità dei testi e non agli inciuci. Allora si leggeva, non si appariva soltanto. E infatti, senza appoggi, senza referenze, se non quelle del mio entusiasmo e della mia cultura, fui chiamato a collaborare al quotidiano Paese Sera, al settimanale La Fiera Letteraria e alla rubrica dei libri Rai 2. Ognuno aveva il suo compito e si collaborava».

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    Un altro raro testo giovanile di Dante Maffia
    Anche il poeta Giuseppe Pedota scrisse di questa tua presentazione alla Libreria Croce, presenti – oltre ai suddetti – molti altri nomi celebri tra cui Giovanna Bemporad, Attilio Bertolucci e Leonida Repaci. «Un avvenimento – scrisse – che riempì la cronaca dei giornali. Come aveva fatto questo ragazzo venuto dal nulla, da un paesino sperduto della Calabria, a far confluire il gotha della letteratura romana alla presentazione del suo libro? Mistero». Oggi, questo “mistero” come puoi scioglierlo?

    «Era normale partecipare alle presentazioni dei libri. Non se ne facevano a bizzeffe, non si portavano in cattedra dilettanti, ruffiani e belle bambole. Si seguivano le novità. E se nasceva un poeta bravo, se esordiva un narratore valido si consentiva, si battevano le mani. Non si spianavano i fucili per dare spazio alla mediocrità o al comparuccio.
    Repaci mi abbracciò come rinascita della Calabria, che contraddiceva quello che una volta Jorge Luis Borges mi raccomandò: “Non dire mai che sei nato al Sud, dici che sei figlio di norvegesi o di londinesi e vedrai come il mondo cambia”».

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    Dante Maffia da giovane
    E invece tu hai scritto molto anche in vernacolo (quello dell’area Lausberg), indice di un legame forte, ma non totalizzante, con la tua terra d’origine. L’Italia è ancora pervasa da razzismi interni inespugnabili, figuriamoci quanto poteva esserlo all’epoca del tuo esordio. Quanto costava allora, in quell’ambiente, in quel settore culturale, avere una provenienza meridionale?

    «Quanto costava allora avere una provenienza meridionale? Devi dire quanto costa. Un solo esempio: se scorri le collane ufficiali che pubblicano poesia potrai renderti conto di quanta immondizia, non saprei come diversamente chiamarla, ci viene offerta e quasi tutta dalla stessa area o da chi ha adottato quell’area. Siamo allo sfascio. Certo, i danni del Gruppo 63 ancora sono visibili e la stupidità dei giocolieri ancora ha dei rigurgiti. Ma peggio hanno fatto i nominalisti, o come diavolo si chiamano, confondendo la poesia con la lista della spesa.

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    L’edizione scheiwilleriana del libro di Dante Maffia in vernacolo

    La brutta verità è che ormai nessuno legge. E allora mi domando perché ci sono primari di medicina, giudici, avvocati e dirigenti d’aziende e professoroni d’ogni genere che pretendono di fare i poeti. È forse una raccomandazione del loro medico per uscire dal tunnel dell’insipienza? E senza mai leggere i classici? Lo sai che cosa mi ha detto un personaggio televisivo sempre in bella mostra? Lui scrive poesie ma, per carità, non ne legge mai per non essere influenzato. Quindi: “È spuntato il sole e illumina la spiaggia; ti voglio bene amore mio; ai lati del viale ci sono gli alberi”… L’ovvietà più assoluta, il non dire, o la retorica nata dai ricordi carducciani e leopardiani, a proposito di influenze!
    Con un mio libro pubblicato con lo pseudonimo Maria Marchesi, e scrivendo che la poetessa è nata al Nord, ho vinto il Premio Viareggio. Per anni non ero mai stato preso in considerazione con la firma Dante Maffia».

    Tra i tuoi volumi in vernacolo il mio preferito è senz’altro “U ddìje poverìlle”. Enzo Siciliano ti ha paragonato a Scotellaro (che secondo me poco ci azzecca). E se qualcuno ti paragonasse – negli episodi vernacolari – ad Albino Pierro?

    «Enzo Siciliano ha buttato quel nome, credo, a caso. Con Scotellaro non credo di avere nessuna parentela. Ma se qualcuno mi apparentasse ad Albino Pierro mi sentirei offeso. Pierro non ha scritto mai poesia che tale possa dirsi, ha composto in dialetto perché aveva intuito che era il momento giusto per essere presi in considerazione. Basti leggere i suoi versi in italiano, davvero mediocri, più spesso banali. S’infatuò, cominciò a credere che fosse la lingua a fare la poesia e non la poesia a fare la lingua. E poi, quando i filologi come Contini e altri se ne occuparono, finì per credere che fosse un grande poeta e cominciò a pretendere il Nobel. No, Pierro no: io sono un poeta e lui era un letterato. Attenti alle mitologie create da situazioni festaiole o politiche o d’altro genere».

    Restiamo ancora al Sud, e possibilmente in Calabria. Tempo fa mi dicevi che sei stato amico pure dell’assai poco celebre Enrico Panunzio, pugliese temporaneamente naturalizzato parigino, scrittore sopraffino e però – o forse perciò – incompreso. So che assieme a Dario Bellezza frequentava d’estate Rocca Imperiale: c’eri anche tu, con loro, lì a due passi da Roseto? Mi racconti un paio d’aneddoti inediti sulle vostre chiacchierate?

    «Enrico Panunzio era uomo colto e intelligente, ma noioso e ripetitivo e, forse perché non aveva ottenuto ciò che meritava, si era eretto a giudice supremo con la falce in pugno. Non gli andava bene niente e ricordo che Spagnoletti, con cui era molto amico, spesso lo redarguiva. Parlava sempre della Francia. Era comico vedere che cosa faceva ogni giorno per farsi offrire il caffè. Era la tirchieria all’estrema potenza. Dario Bellezza e io, scialacquatori senza quattrini, ci divertivamo a prenderlo in giro, ma lui non batteva ciglio. Le nostre chiacchierate erano a ruota libera, io mangiavo troppi libri e spesso li disorientavo. Enrico parlava sempre di Camus e Dario lo chiamava “il riflesso della peste”».

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    Enrico Panunzio e Dario Bellezza trascorrevano l’estate con Dante Maffia a Rocca Imperiale
    Mi pare che l’editoria italiana fino alla fine degli anni ’70 sia riuscita a conservare, almeno in parte, un’anima attenta alla qualità del prodotto. Sei d’accordo sul fatto che un certo spirito virtuoso sia venuto meno negli anni? E, secondo te, si può intravedere un destino editoriale meno suicidario in termini qualitativi?

    «Sono pessimista in proposito. E sono anche molto disorientato. Vedo un profluvio di libri, editi dalle sigle editoriali così dette prestigiose, che non hanno né testa né coda, che non dicono, subito spenti, inutili e obsoleti, privi di tutto. La domanda è perché vengono pubblicati. Anche mezzo secolo fa ogni tanto si faceva un favore e si pubblicava qualche cicoria, ma era evidente che si trattasse di un compromesso necessario all’editore. Adesso credo che sia ignoranza e affidamento totale alla possibilità eventuale che funzioni la vendita. Un disastro, culturalmente parlando. Un disastro al quale non riusciremo più a sottrarci, perché i lettori rimasti saranno man mano abituati alla mediocrità.

    Nello specifico, in Calabria pare manchino quasi del tutto figure intellettuali di riferimento. Peggio: che vi siano fin troppi sedicenti intellettuali e finti tali. Non ne nascono più? Nascono e non attecchiscono? Scappano? E la situazione editoriale calabrese?

    «Non mancano, anzi… Ma sono altrove, sono fuori e lontani dalla Calabria e dai problemi che la investono. Quindi scappano e, man mano, le radici seccano. La situazione editoriale calabrese non è male, ma le case editrici sono penalizzate perché non vengono distribuite per il solito motivo. Meno concorrenza c’è, meglio è. Il confronto fa male a molti, soprattutto ai poveri di spirito».

    Ti hanno apprezzato Pasolini, Calvino, Montale, Eco, Amado, Bobbio, De Mauro, Bufalino, Zanzotto, Praz, Dacia Maraini, Gina Lagorio. In Italia hai fondato riviste, a Palazzo Chigi sei stato insignito del Premio Matteotti per la letteratura Italiana. Ciampi – all’epoca Presidente della Repubblica – ti ha insignito della Medaglia d’oro alla Cultura. Sei stato candidato al Nobel. All’estero sei stato tradotto in 35 lingue. Due domande in proposito, una sopportabile: in quale Paese straniero hai ricevuto l’accoglienza critica più elaborata, articolata? E l’altra un po’ meno: poesia e politica… qual è il tuo parere sulla polemica di qualche anno fa in merito alla questione “con l’arte non si mangia”?

    «Soprattutto in Giappone, ma anche in Romania, dove sono stato tradotto più volte e sono membro effettivo della loro Accademia Eminescu. Ma forse anche in Albania, dove mi hanno dato il maggiore riconoscimento da loro elargito, il Premio Madre Teresa di Calcutta. E poi in Russia, in Ungheria, in Spagna… Devo dare ragione a Vittorio Introcaso, un giornalista televisivo che mi segue da sempre: gli stranieri mi amano di più. O almeno fanno di tutto per farmi sentire importante.
    Con l’arte non si mangia? È vero e non è vero. C’è perfino chi s’abbuffa o chi, come me, mangia indirettamente con qualche incarico e qualche riconoscimento».

    Hai presieduto numerosi concorsi letterari, te ne saranno capitate molte. Tempo fa, Erri De Luca pubblicava un minuscolo libro dal titolo “Tentativi di scoraggiamento (a darsi alla scrittura)”. Perché, secondo te, si può trovare più dilettantismo nella poesia che nella narrativa? Come si può far capire ai tanti, troppi sedicenti poeti che non basta spezzettare una frasetta e infiocchettarla con un paio di termini struggenti (secondo loro…) per farne un componimento poetico? O che prima di esprimersi bisognerebbe avere davvero qualcosa (possibilmente non troppo banale) da esprimere ?

    «A me Erri De Luca non è mai piaciuto, sempre per il solito problema. Vanno bene gli esercizi di stile, ma la narrazione è altra cosa, e non ti dico la poesia. Il dilettantismo è dilagante sia in prosa che in poesia. Con una differenza sostanziale: in poesia il disastro viene subito messo da parte o, se si tratta di personaggi importanti, si fa finta, si apparecchia l’ipocrisia e s’infarina; in narrativa, però, può accadere che un romanzo sbagliato, banale, non riuscito in nulla possa trovare l’interesse di un regista e diventare film.
    E il ballo della mediocrità continua e si allarga. Io vedo che siamo quasi sull’orlo del dirupo. La faccenda non finirà mai, tanto è vero che i cartellonisti, i pubblicitari ormai vengono chiamati pittori e i parolieri e i cantautori poeti. Il vocabolario si sta appiattendo, spero che non finiremo di servirci soltanto di mugolii per esprimere le inquietudini e le estasi della nostra anima. In principio fu il Verbo».

  • Anpi Presila: c’è sempre tempo per essere partigiani

    Anpi Presila: c’è sempre tempo per essere partigiani

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    Mancava fino a poco tempo fa. Ma da ottobre dello scorso anno anche la Presila cosentina ha la sua sezione dell’Anpi, associazione nazionale partigiani d’Italia. Il presidente è Massimo Covello, ex segretario regionale della Fiom. Adesso è il responsabile dell’ufficio studi Formazione e Archivio storico della Cgil. A I Calabresi spiega perché questo territorio ha bisogno di riannodare il suo legame con la Resistenza.

    La Presila ha un deficit di memoria storica?

    «È stata una delle aree calabresi a più alta intensità di lotta sociale e di protagonismo antifascista. E non solo. Tornerei indietro al pensiero garibaldino e alla lotta dei briganti traditi dalla unificazione dello Stato nazionale, elemento che ha visto crescere tra le masse diseredate uno spirito di lotta. Purtroppo la memoria è un po’ sbiadita in questi anni».

    Molti ritengono, anche a sinistra, che l’Anpi sia anacronistica?

    «Non condivido per nulla chi ha un pensiero di questo tipo. C’è sempre tempo per essere partigiani. Significa aderire a una lezione etica e politica che sta dentro i valori della Costituzione. L’Anpi oggi è un soggetto che deve e può essere rafforzato con una visione moderna e prospettica. C’è bisogno di difendere valori come la libertà, l’inclusione, la valorizzazione delle differenze».

    Non è una battaglia di retroguardia?

    «Restano sempre meno, purtroppo, le persone che hanno condotto in prima persona la lotta partigiana. La realtà ci insegna che la lezione di questa lotta – pluralismo, democrazia, libertà – non sono venuti meno. Anzi, il fatto che negli anni recenti sia entrato in un cono d’ombra l’antifascismo e abbia prevalso un revisionismo carico di un lettura distorta della storia, ha prodotto e sta producendo risultati e fenomeni negativi».

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    Pietro Ingrao a Pedace prima e dopo la caduta del regime fascista. In alcune foto compare Cesare Curcio

    Quanti conoscono una figura come Cesare Curcio?

    «Non solo Cesare Curcio (che nascose Pietro Ingrao). Penso a Edoardo Zumpano, Salvatore Martire, Luigi Prato. Tutti espressione della lotta partigiana qui in Calabria. Senza dimenticare due militari come Filippo Caruso e Mario Martire che, nell’esercizio delle loro funzioni, anche prima dell’8 settembre decidono di schierarsi dalla parte dei resistenti all’occupazione nazifascista».

    C’è stato un antifascismo “minore” al Sud?

    «Gli studi storici più recenti hanno dimostrato che non è vero. Poi è ovvio che lottare contro il Fascismo ha significato in alcuni luoghi imbracciare le armi e unirsi alla lotta partigiana, in altri resistenza per l’affermazione di alcuni valori. Noi abbiamo confinati politici per avere mostrato la loro estraneità e contrarietà al regime di Mussolini. A Casali del Manco c’è stata una cellula molto forte della Resistenza. Che era trasversale: comunista, socialista, in alcuni frangenti anarchica, anche bordighista e cattolica».

    Poi, improvvisamente, cosa è cambiato?

    «Possiamo individuare una data: il 1989 e il crollo del Muro di Berlino. Da lì c’è stato un revisionismo anche a sinistra quasi come se ci fosse una colpa da espiare. Con una interpretazione della storia assolutamente inaccettabile. Le conseguenze sono ben visibili. Comprese le istituzioni locali della Presila vocate a un approccio governista dei problemi, svendendo quei valori di riscatto sociale cari alla generazione dei vecchi gruppi dirigenti.
    Mi vengono in mente Rita Pisano, Pietro D’Ambrosio, Peppino Viafora, Oscar Cavaliere, Eleandro Noce. Anche nella loro storia amministrativa erano ancorati a quella cultura della politica come servizio e riscatto sociale. Invece negli ultimi anni l’obiettivo è stato l’occupazione del sistema istituzionale. E la classe politica locale e regionale? Indifferente ai destini collettivi».

    E la destra ormai è entrata nella ex fortezza rossa

    «Addirittura una delle candidate più votate è una leghista, una delle forze con più consensi è Fratelli d’Italia. Casali del Manco rischia di essere una palude in cui tutte le idee sono uguali. Si è tutti gli stessi e l’unica cosa che conta è l’intercessione per avere accesso a benefici privati invece di promuovere benefici collettivi».

    Un assessore regionale leghista, che smacco per la sinistra?

    «Questa è la conferma della confusione e del grande smarrimento. Che io leggo come una responsabilità storica di quei partiti che, a parole, dicono di rifarsi alla storia della Resistenza. Poi come sia arrivata a diventare assessore la dottoressa Staine è questione politicista. Il suo legame con il territorio non esiste se non per essere nata a Celico e avere origini pedacesi».

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    Emma Staine

    In pochi hanno trovato spazio nelle istituzioni?

    «Sono stati consiglieri regionali Enzo Caligiuri, Ciccio Matera e Giuseppe Giudiceandrea. Il problema non sono gli uomini e le donne, ma le idee per cui ci si impegna in un percorso. L’Anpi nasce qui per dire alle giovani generazioni che questa storia oggi sbiadita e messa in disparte merita di essere riportata in auge, valorizzando il patrimonio accumulato nella Biblioteca Gullo, nel Fondo storico Curcio, Zumpano, Malito. Sono patrimoni librari e documentali misconosciuti. Il nostro intento è metterli in circuito, coinvolgere le scuole in un lavoro di approfondimento e ricerca».

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    Lo studio di Fausto Gullo nella casa-museo che ospita la biblioteca omonima a Macchia nel Comune di Casali del Manco

    Le elezioni si avvicinano e l’Anpi Presila che farà?

    «L’Anpi da statuto non sarà della partita elettorale. Noi vogliamo dare un contributo alla comunità con idee, teorie, valori. Certo, sarebbe una contraddizione se uno si iscrive all’Anpi Presila e poi concorre con Fratelli d’Italia o con la Lega. Intanto siamo in prima fila per la raccolta firme contro l’autonomia differenziata. In quello saremo parte della lotta, eccome».