Categoria: Interviste

  • Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Che fine ha fatto la partecipazione politica?

    Ci sono libri che sono figli di altri libri. Ripercorrono uguali sentieri, ma con occhi nuovi, perché le cose cambiano e anche in fretta. È il caso de La partecipazione politica (Il Mulino), l’ultimo lavoro di Francesco Raniolo.
    Con autoironia l’autore avverte che è come il «tornare sul luogo del misfatto» dopo circa vent’anni dalla prima edizione. Vent’anni sono ere geologiche per chi osserva i mutamenti politici e Raniolo – che insegna Scienze politiche all’Unical ed è coordinatore del dottorato in Politica, cultura e sviluppo – è tornato a rivolgere lo sguardo verso i modi che caratterizzano la partecipazione politica. «Il tempo che separa i due libri accompagna un ciclo di vita», spiega Raniolo e in questo non breve periodo è accaduto di tutto. In Scienze politiche si chiamano “giunture critiche”, o semplicemente crisi.

    I tempi cambiano

    Ma il punto è che in certe fasi storiche si presentano in forma multipla, quasi uno sciame. Sono chiamate poli-crisi. Si tratta di fenomeni complessi che attraversano le società generando incertezza. Sono rappresentate da mutamenti profondi, crisi economiche innanzitutto, migrazioni di massa, guerre e terrorismo internazionale, perfino una pandemia. Tutto ciò non poteva non riflettersi su forme e intensità della partecipazione e sulla qualità della democrazia. Questa è rappresentata dall’esistenza di spazi di dibattito, talvolta di conflitto, che ne costituiscono una componente cruciale. In sintesi, sono le distinte “arene” all’interno delle quali viene esercitata la democrazia. Per questo osservare come queste arene siano cambiate è fondamentale.

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    Francesco Raniolo

    Raniolo dedica grande attenzione a questi spazi, sia istituzionali che collegati alla società civile o ai media, ma presenti pure nelle pieghe della comunità e nei movimenti di protesta, essendosi questi rivelati incubatrici di mutamenti e innovazioni.
    Nei territori spesso troviamo aggregazioni di persone, accomunate da interessi condivisi e da valori, che hanno dato vita a pratiche sociali tese a creare beni comuni e a sviluppare reti di solidarietà. Le riflessioni del docente riportano alla mente il ruolo solidale svolto, ad esempio a Cosenza nel corso della pandemia, da realtà come La Terra di Piero, che ha provato a soddisfare i bisogni essenziali affrontando fragilità sociali diffuse in molti quartieri della città. Si è trattato di un ruolo di supplenza, laddove le istituzioni e la politica erano distratte o semplicemente non efficaci.

    Raniolo e i partiti di oggi

    In realtà i movimenti e le esperienze che da lì scaturiscono dovrebbero spingere i partiti a «rinnovarsi, nel tentativo di ricucire quel patto mitico che dovrebbe legarli ai cittadini, che restano le molecole della Polis».
    Il libro di Raniolo significativamente ripropone i passaggi chiave che potrebbero riattivare la partecipazione e cioè l’allargamento decisionale sulla scelta dei leader e delle linee programmatiche, lo spazio al pluralismo delle voci protagoniste del dibattito, la presenza diffusa di reti che collegano i partiti al contesto, la capacità inclusiva delle pratiche politiche.

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    Elettori del Pd alle primarie del 2023

    Nel meraviglioso mondo della teoria questi passaggi dovrebbero funzionare, ma calati nel terribile mondo reale non tanto. Per esempio, si pensi all’incapacità dei partiti di trasmettere le domande e sfide che giungono dalla società . Per Raniolo l’esempio probabilmente più significativo riguarda l’esperienza delle primarie, «che non hanno retto al tempo e ai conflitti interni, finendo per essere neutralizzate, riassorbite dalla competizione tra leader».
    Altre forme di inclusione che hanno visto il fallimento sono le famose “parlamentarie”, del M5S, esperienza tutt’altro che inclusiva che si costruiva sull’inganno della Rete come nuovo e prefetto luogo della democrazia. Oggi le forme di inclusione sperimentate si sono rivelate modi per legittimare i leader e non per allargare la base partecipativa, perché sono prevalse le logiche funzionali a dinamiche di potere e di autoreferenzialità.

    Il fantasma della partecipazione politica

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    La copertina della nuova edizione de “La partecipazione politica”

    Ma cosa sono oggi i partiti? Quanto resta attuale la definizione offerta da Maurice Duverger che li immaginava come comunità? Raniolo sa bene che dai tempi in cui scriveva l’intellettuale francese ogni cosa è diversa. Tuttavia resta dell’opinione che «i partiti non possono rinunciare tanto facilmente ad essere comunità di destino, un equivalente laico dell’esperienza religiosa».
    Tra i cambiamenti intervenuti c’è stata la scomparsa dei luoghi tradizionali di confronto e la presunzione, da parte dei partiti, di sostituirli efficacemente con i media che rimbalzano la figura dei leader. L’effetto è stato una ulteriore atomizzazione dell’elettorato, cui oggi viene fornita l’illusione della partecipazione stando comodamente seduti sul divano guardando la televisione o chattando sui social. Forme di esperienza solitaria, che sembrano dare ragione alla Thatcher quando affermava che non esiste la società, ma solo individui.

    La democrazia se la passa male

    Questa deriva assunta dai partiti rappresenta una più marcata separazione tra essi e i cittadini ed è l’opposto di quanto necessario alla vivificazione del rito della partecipazione. Una delle conseguenze di questa atomizzazione è il sopraggiungere di una fragilità sociale sulla quale si avventano con successo forme di populismo.
    «Il populismo in passato ha avuto un ruolo importante nel percorso graduale e contorto (perché implicava anche tappe autoritarie come in America Latina) verso la democratizzazione delle società – spiega Raniolo – ma oggi riflette un malessere profondo della democrazia. Una tappa nel processo di de-democratizzazione o di deterioramento della qualità democratica».

    Raniolo e i populismi

    Il populismo di oggi ha anche diverse facce. «Una – spiega ancora Raniolo – è quella che possiamo definire includente o rivendicativa, volta all’allargamento dei diritti, l’altra più rischiosa è quella che chiamiamo identitaria o escludente».
    Accanto al populismo che vuole espandere democrazia autentica e diritti c’è un populismo sovranista. Risponde al disagio sociale e alle paure individuali generate dalle crisi promettendo di serrare i ranghi e maggiormente si offre non solo all’identificazione con un leader (in alcuni paesi manifestamente autoritario, si pensi all’Ungheria di Orbán), ma anche al trasferimento di delusioni e paure su capri espiatori interni o esterni.

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    Il primo ministro ungherese Viktor Orbán

    Questi sentieri conducono verso democrazie illiberali e irresponsabili. Ma sono purtroppo i sentieri più facili e perciò più seducenti, perché le sfide che attendono le democrazie sono cruciali e riguardano l’attuale frammentazione del tessuto sociale, la radicalizzazione delle domande, ma anche le forme del comunicare che con il web scivolano facilmente nella manipolazione dell’informazione, fino a quello che nel libro viene indicato come “totalitarismo digitale”.
    La posta in gioco è altissima e non pare che le leadership dei partiti siano attrezzate ad affrontarla nel modo più giusto. Forse abbiamo bisogno di un nuovo protagonismo dei cittadini.

  • Scuola e scrittura, il viaggio creativo di Assunta Morrone

    Scuola e scrittura, il viaggio creativo di Assunta Morrone

    Assunta Morrone si divide tra la scuola e la scrittura. Due grandi passioni che camminano insieme. È dirigente scolastico dal 2007. Tra i suo libri compaiono titoli come Il Bosco, Io e Velazquez, La Maratona (Artebambini di Bologna), Ardian che voleva svuotare il mare (Expressiva edizioni), Eustachio Naumann. Le montagne che camminano (Falco Editore). Alcuni suoi testi (e di Allen Say) hanno animato lo spettacolo Storie in musica, di scena al teatro Rendano di Cosenza.

    La guerra raccontata ai bambini. Come nasce l’idea della sua storia andata in scena al Teatro Rendano?

    «La guerra non è l’unico tema trattato nel concerto-spettacolo andato in scena al Rendano, ma sicuramente comporta la messa in gioco di emotività e sensibilità legate all’attualità e provoca negli ascoltatori, peraltro molto giovani la condizione e il desiderio di dire “no alla guerra”, la stessa guerra che invece attanaglia i tempi presenti e su più fronti. È necessario che si ritorni a sensibilizzare le giovani generazioni sui temi duri della guerra per dare loro gli strumenti per poter partecipare alla nascita di un mondo senza ostilità, senza stragi, senza soprusi. Il percorso ha previsto, oltre alla guerra, un passaggio sulla storia del Kamishibai, per poi passare ai temi dell’amicizia, dei sentimenti familiari, della fantasia (con un omaggio a Gianni Rodari) e della poesia (con il passaggio su Dante). Tutto il canovaccio teatrale è stato ideato da me e dal maestro Massimo Belmonte come percorso sulla narrazione agita e resa spettacolare».

    Questa idea è stata alla base delle tante collaborazioni?

    «Storie in Musica ha preso l’avvio da una progettazione più ampia che ha messo insieme tanti soggetti in una sorta di prova zero che, a seconda degli esiti, poteva diventare riproducibile e trasferibile in altri contesti. L’Orchestra Sinfonica Brutia ha fatto propria la proposta progettuale nella persona del maestro Francesco Perri e, per la parte organizzativa, della dottoressa Annarita Callari, in collaborazione con l’associazione teatrale Porta Cenere di Cosenza, l’ente di formazione e casa editrice Artebambini e l’Associazione Kamishibai Italia, che hanno entrambe sede a Bologna. All’interno del concerto- spettacolo la messa in scena di tre linguaggi della narrazione, i testi, le immagini e le musiche di altrettante storie scritte per kamishibai, strumento antico di origini giapponesi in grado di produrre una speciale ricaduta negli ascoltatori. Ringrazio tutti gli illustratori con cui ho lavorato, Francesca Carabelli, Jole Savino e Lida Ziruffo ma anche i musicisti Giuseppe Musumeci, compositore del primo brano e direttore d’orchestra e Massimo Belmonte che ha musicato gli altri cinque brani previsti nel Concerto-Spettacolo. Le voci di Elisa Ianni Palarchio e Mario Massaro, attori professionisti, formati sulla lettura per kamishibai, ci hanno regalato emozioni a iosa, in tutte le letture ma soprattutto in quella dedicata alla guerra. Mi corre l’obbligo di ringraziare Gianpaolo Palumbo per la grande competenza di gestione delle immagini e l’estro creativo su alcuni passaggi del grande Kamishibai che è diventato il palcoscenico, l’associazione il Delfino per aver permesso la realizzazione di un laboratorio destinato ai minori stranieri non accompagnati, ospiti del Sai di Mendicino, il cui esito ha arricchito la parte illustrata, non solo formalmente. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza la partecipazione di ben dodici scuole di Cosenza e provincia che hanno accolto il nostro invito. Una scuola in particolare della nostra città ha curato le riprese video della prima matinée: si tratta dell’Istituto d’Istruzione Superiore Da Vinci-Nitti che ringrazio di cuore».

    E poi Dante? Ci ricorda quanto abbiamo bisogno di poesia e letteratura. A qualsiasi età. Sin da piccoli…

    «L’umanità è poesia, abbiamo bisogno di immergerci nella poesia e nella letteratura perché ci appartiene e ci identifica. Il nostro sentire individuale si fonde con un sentire collettivo, universale ed è necessario che la consapevolezza possa formarsi da subito, tra i bambini molto piccoli, in un percorso dall’infanzia all’adolescenza. Il progetto identifica tra le priorità anche attività di educazione ai sentimenti e alle emozioni. Il Dante, protagonista della narrazione, è un bambino che immagina la sua vita futura e si mette nella condizione di confrontarsi con i suoi coetanei esortandoli a guardare il mondo con il suo metodo, quello dell’osservazione e dell’immaginazione. Crescendo, quegli stessi bambini riconosceranno il Sommo Poeta e forse sarà più facile per loro appassionarsi nella lettura e comprensione dell’opera complessa che ci ha lasciato in eredità».

    Perché ha scelto la forma del Kamishibai? C’è qualche motivo particolare?

    «Ho conosciuto il Kamishibai nel 2011, grazie alla promozione e alla diffusione che ne faceva, già da qualche tempo Artebambini, con cui è iniziata una collaborazione che ha portato a molte pubblicazioni e alla proposta di formazione nelle scuole, curata dagli esperti della casa editrice con competenza e passione. Scrivere storie per il Kamishibai è esperienza difficilmente paragonabile: i testi seguono un andamento particolare, non devono essere troppo lunghi, hanno un contraltare nelle illustrazioni e nel progetto da me ideato un rapporto stretto anche con la musica. Oggi in Italia il lavoro di formazione e promozione di Artebambini con il Kamishibai, ma anche nell’abito più complessivo della letteratura per l’Infanzia, è molto ampia e di grande qualità. Una delle prove più tangibili di questo impegno si ritrova nella Rivista Dada, una rivista d’arte per bambini che coglie la storia, i metodi, le narrazioni, i laboratori didattici. Narrare con il Kamishibai offre allo scrittore la possibilità di entrare nel vivo dei temi trattati, nella sinergia giusta con gli altri linguaggi».

    Lei ha già scritto diversi libri. Cosa bolle in pentola in questo momento?

    «I progetti a cui sto lavorando sono di diversa natura: a breve in uscita una raccolta di liriche che attraversa un periodo lungo della mia scrittura e ne coglie i passaggi storici e geografici più significativi, in tutta la loro essenza poetica, a breve anche la conclusione di una saga per ragazzi sulle avventure di un falco grillaio amato dai lettori che torna più forte di prima con la sua terza storia ambientalista e poi tanto altro ancora nell’alveo della letteratura per bambini e ragazzi e non solo di cui vi darò indicazioni a tempo debito».

  • Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Vins Gallico, sullo Stretto c’è un dio ed è noir

    Senigallia. 15 settembre 2022. Mi trovo in città per dare il via a un’iniziativa a cui lavoro da mesi. Il cielo, carico di pioggia, è minaccioso. Mentre va in scena il primo evento, in sala fa breccia un messo comunale trafelato che inizia ad urlare di sgomberare: sta arrivando la piena del fiume. Di lì a poche ore il Misa strariperà rovinosamente. La mattina successiva, dopo una notte di inferno, ricevo una chiamata da un amico reggino che vive in zona e che decide di raggiungermi.
    Nonostante la città sia una distesa di fango e detriti, Giandiego arriva e, dopo un caffè stravolto e straniante, mi regala una copia di A Marsiglia con Jean Claude Izzo, invitandomi a contattare il suo autore Vincenzo Gallico, interessato all’iniziativa marchigiana ormai abortita per cause di forza maggiore.

    Il mio dialogo con Vincenzo Gallico, per gli amici e i lettori Vins, inizia così. Scambiamo qualche messaggio, gli passo alcuni dei miei scritti da cui parte un confronto virtuale che entro qualche mese approderà alla vita reale.
    Scilla, 24 giugno 2023. Ci incontriamo per la prima volta dal vivo in occasione della presentazione de Il Dio dello Stretto. Reggino, trasferitosi a Roma, ammiratore di Paul Preciado, un passato come ricercatore in Germania, Vincenzo “Vins” Gallico è ormai un autore di lungo corso e già finalista al Premio Strega. Concordiamo un’intervista che si concretizzerà solo diversi mesi dopo.

    Come sta andando?

    «Il libro sta andando bene. Sono contento. Rispetto all’andamento della narrativa italiana non ho di che lamentarmi. Siamo già in fase di ristampa. E, a considerare il numero di inviti che sto ricevendo in giro per l’Italia e l’accoglienza che mi viene riservata, devo considerami fortunato. È successo quanto mi aspettavo».

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    La copertina de Il Dio dello Stretto, ultimo romanzo di Vincenzo “Vins” Gallico

    In che senso?

    «Ritornare al romanzo per me non era così scontato. Quando te ne allontani, alcuni posti vengono rioccupati, altre voci vengono dimenticate. Invece vedo che c’è stato parecchio affetto e calore intorno a questo libro».

    Mi hai detto «ritorno al romanzo». Perché?

    «Dopo Portami Rispetto del 2010 e la commedia Final Cut, avevo scritto La Barriera, un romanzo a quattro mani uscito nel 2017. Poi era stata la volta di due volumi, due saggi, A Marsiglia con Jean Claude Izzo e La Storia delle librerie italiane. Di fatto non scrivevo un romanzo da solo dal 2015. Sette anni. E non ne scrivevo uno noir da circa tredici. Quindi mi sembra di poter parlare di ritorno».

    Il tuo romanzo non è una semplice storia di fantasia. C’è dietro uno studio sul contesto italiano politico e giudiziario, sulla guerra di mafia che negli anni Ottanta ha insanguinato Reggio Calabria e sui nuovi equilibri raggiunti negli anni Novanta. C’è dentro tutto lo Spirito del Luogo: dai tramonti mozzafiato del lungomare alla decadenza umana e urbana…

    «E non sarebbe potuto essere altrimenti. Sono cresciuto al Gebbione (quartiere dell’area Sud di Reggio Calabria, n.d.r.) e mi porto dietro tutto quello che le mie origini comportano. Reggio è un luogo complesso e stratificato dove una bellezza struggente si accompagna a una ferocia senza scrupoli. Camminano insieme in un ossimoro. Non riesco a non parlare di queste mie origini, legate a un territorio che già parte da una evidente condizione di svantaggio in cui anche il contesto della borghesia cittadina non è certo paragonabile a quello del Centro-Nord. In più, porto un cognome che può ingannare: nonostante non abbia parentele di un certo tipo, mi rendo conto che a volte questo cognome abbia una ricezione scomoda. Raccontare certe storie e certi territori è il mio modo di affrontare il trauma di nascita, che è mio e di tutti i calabresi per bene».

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    Case popolari nel quartiere Gebbione di Reggio Calabria

    Una lettera scarlatta?

    «Un qualcosa che è assieme prigione, spinta evolutiva, bisogno di affrancamento. È chiaro che certi luoghi, specie se natali, ti segnano: sono la tua sventura, ma anche il tuo trampolino. Essere cresciuto a Reggio mi dà maggiore sicurezza nella mia vita odierna e nella gestione di situazioni critiche. Un punto di forza, non di vanto».

    Nel tuo noir racconti una storia di passioni, malaffare, maschilismo in cui l’eroe – il giovane magistrato Mimmo Castelli – si trova a indossare le scarpe dell’antieroe e antagonista, il malavitoso Logoteta…

    «Mimmo Castelli è il protagonista della vicenda. E lo è in due direzioni e dimensioni: sia per quanto riguarda il motore esterno della storia – l’eventuale risoluzione dell’indagine – sia per quel che concerne il motore interno – i dubbi etici, i rapporti con la moglie, gli amici, il gruppo, la religione. Di fatto si tratta di una storia che si sviluppa su questi due pilastri. Meglio: due tiranti. Due elastici. Entrambi ispirati agli stilemi del romanzo di detection. Sul versante esterno: riuscirà il nostro eroe a risolvere il caso? E, nel caso, riuscirà a sconfiggere l’antagonista? Su quello interno: riuscirà a sciogliere i suoi crucci interiori?».

    Tra le recensioni che ho letto c’è chi ha sottolineato la tua capacità di non perdere il ritmo. Che è un aspetto essenziale per il gradimento dei lettori.

    «L’aspetto ritmico è complicatissimo nella scrittura. I miei editor mi hanno più volte contestato che corro troppo, che c’è troppa storia. Per cui ho molto lavorato su questo aspetto: ho provato a evitare troppi colpi di scena e a entrare un po’ più nei personaggi. Anche perché trovare un’intimità con chi ti legge è un’operazione complessa. Non so quanto mi sia riuscita, ma ho provato a farlo: per cui ho corso un po’, mi sono fermato un attimo, ho ripreso fiato e sono ripartito nella corsa».

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    Vincenzo “Vins” Gallico durante una presentazione del suo ultimo libro

    Un ritmo che accompagna dubbi, inquietudini e turbamenti di Castelli con un capovolgimento che rasenta il coup de théâtre: da giudice integerrimo a uomo troppo umano.

    «A me la roba delle stanze chiuse interessa parecchio. Mi riferisco all’aspetto non manicheo per il quale “quello è una-bravissima-persona”. Vero! Ma anche la-bravissima-persona combatte i suoi demoni. Che spesso sono tappati, o repressi, ma possono venir fuori da un momento all’altro. Mimmo Castelli è un personaggio che è convinto di essere buono ma deve arrendersi di fronte alla verità che la bontà tout court non esiste. Nemmeno nei santi. Il retro-pensiero fa parte di qualsiasi essere umano».

    Che è un po’ il tema principe trattato con cruda lucidità da Rocco Carbone in “L’Assedio”: la dimostrazione plastica di come la pretesa assolutistica dell’etica abdichi di fronte alla relatività di certe circostanze legate all’emergenza o alla sopravvivenza. Un tema che tu enunci chiaramente nelle citazioni che introducono il tuo romanzo.

    «Con Rocco ho un legame speciale, che tu conosci, e che inevitabilmente, in maniera conscia o inconscia, mi riporta a lui e alla sua poetica. A margine de Il Dio dello Stretto cito Aristotele: per lui la giustizia – in qualità di virtù prima – rappresenta il Giusto Mezzo per antonomasia. Può essere padroneggiata solo al compimento di un processo di ricerca incessante che oscilla tra sentimenti, esperienze, incontri e riflessioni. Una Giustizia che può anche smarrirsi tra le pieghe di verità giuridiche che non sempre coincidono con le realtà dei fatti. Senza dimenticare – come ti ho detto – che i nostri natali calabresi e il processo di crescita vissuto a certe latitudini ha influenzato molto la nostra visione dell’etica».

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    Rocco Carbone

    Ossia?

    «Trattare il tema del bene e del male a volte può voler dire fissare il limite tra l’eroismo e la scelta di vivere. Nel nuovo romanzo che sto preparando, il sequel de Il Dio dello Stretto, viene ucciso il fratello di Patrizia, amica di Miriam (moglie di Mimmo Castelli, n.d.r.). La stessa Miriam viene da una famiglia complicata. Mimmo allora inizia a interrogarsi su quale sia la normalità: quella della sua famiglia che lo ha cresciuto nella bambagia o quella dei contesti di degrado da cui è circondato?».

    Che Calabria racconta Vins Gallico?

    «Cerco di tenermi lontano sia dallo sciovinismo, quindi dallo stereotipo di una Calabria favolistica dalle magnifiche tradizioni, sia dalla classica narrazione di ‘ndrangheta. In realtà non sono un “esperto” di Calabria, ma mi pongo come narratore dello Stretto. Sono più vicino a Carbone che a Corrado Alvaro: Gente in Aspromonte mi è più lontano rispetto a L’Apparizione. Più semplicemente ho cercato di raccontare i fermenti di un territorio all’alba di quella che si presentava come una stagione di speranza. Il Dio dello Stretto è anche un romanzo legato alla speranza.

    Corrado Alvaro

    In che senso?

    «Con la fine della seconda guerra di ‘ndrangheta, si era aperta una stagione in cui un po’ ci si credeva che qualcosa potesse cambiare».

    Questa speranza è finita?

    «Diciamo che in questi ultimi 20 anni ha preso un bel po’ di pugni in faccia».

    Chi è il Dio dello Stretto che vorrebbe Vins Gallico?

    Una nuova comunità di giovani che prova a cambiare Reggio. Recentemente sono stato al “Da Vinci” (uno dei due licei scientifici di Reggio Calabria, n.d.r.) e ho buttato lì una proposta agli studenti: perché non provate a diventare la prima scuola green in Italia? Lasciate auto e motorini e raggiungete la scuola a piedi. Nonostante si trattasse di una boutade, la mia speranza e il mio augurio riguardano la capacità ricettiva di Reggio: spero che prima o poi la città si svegli, recepisca e faccia proprie le istanze di reale cambiamento».

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    Il liceo Da Vinci di Reggio Calabria

    Cos’altro bolle in pentola?

    «Lo scorso 17 dicembre si è concluso il primo Festival dell’Ascolto promosso da Fandango, di cui sono responsabile. Abbiamo iniziato a lavorare in modo più strutturato su un format che coniuga podcast e nuove forme di inchiesta. La risposta è stata molto positiva e presto ci saranno delle novità».

  • «Andrò in galera a testa alta»

    «Andrò in galera a testa alta»

    Bisognerà attendere l’11 ottobre per conoscere la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria su Mimmo Lucano. L’ho cercato per avere le sue impressioni di prima mano. Ho con lui un rapporto d’amicizia cementato nel corso degli anni dalla condivisione di idee e principi. Tuttavia, ciò che penso della sua vicenda umana, politica e, ahimè, giudiziaria, non ha niente a che vedere con questo.

    «Non mi sono occupato del problema migranti per avere visibilità, è stata una conseguenza di quello che già facevo prima. Da vent’anni e più questo è un argomento al centro del dibattito politico, tanto che i confini, il loro rafforzamento, sono diventati i confini delle nostre coscienze, barriere alzate per proteggere i propri egoismi. Egoismi contro i quali ho sempre lottato. Già da ragazzo ho partecipato ai collettivi, alle lotte sociali: ero affascinato. C’è chi preferisce fare sport o altro, a me è sempre piaciuto occuparmi degli altri. Quando ero studente ho vissuto il 68 della Locride. Eravamo legati al mugnaio Rocco Gatto, al Movimento Cristiani per il Socialismo, al prof. Natale Bianchi. Dopo a monsignor Bregantini. Lui non ha mai dichiarato di aderire alla teologia della liberazione, ma era stato un prete operaio. Ci siamo incontrati in occasione del primo sbarco dei Curdi».

    Mimmo Lucano e la nascita del modello Riace

    Un momento di svolta per Mimmo Lucano. «Sono diventato un attivista del movimento del popolo curdo soprattutto per la loro lotta al capitalismo. L’accoglienza è nata da subito con forti motivazioni politiche, questa è la differenza con altre esperienze in altri luoghi. È nato il cosiddetto modello Riace, che a mio avviso non è un modello perché è nato spontaneamente. È stato, questo sì, coerente con il mio impegno precedente contro la speculazione edilizia e la devastazione della costa. Abbiamo recuperato i luoghi vuoti, dove in passato c’era la vita della comunità contadina, con i bambini che giocavano per strada. Sono diventati luoghi d’accoglienza, risvegliando anche la nostra tradizione umanitaria, di rispetto per lo straniero. Non abbiamo costruito lager, ma piccole comunità globali. La solidarietà e l’accoglienza parlano di per sé di rispetto per la dignità umana, quindi sono una naturale opposizione alla cultura mafiosa, alla violenza. Come ha detto Wim Wenders, era un messaggio di valore universale».

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    Mimmo Lucano e Wim Wenders a Riace

    Il pericolo Mimmo Lucano

    Mimmo Lucano ci tiene a dare una forte connotazione politica al suo impegno per i migranti, come abbiamo visto. Una tragedia che affonda le sue radici nell’azione del capitalismo e del neo liberismo «che hanno sconvolto le terre abitate dai più poveri costringendoli a intraprendere i viaggi della speranza». L’esperienza di Riace, continua Mimmo Lucano, è stata messa all’indice perché pericolosa. Essa ha sbugiardato la predicazione sull’invasione in corso e quindi sulla necessità di rafforzare i confini e adottare politiche repressive. «Riace rappresenta un pericolo per la vendita delle armi, per il neoliberismo, per le guerre: se passa il messaggio dell’Umanità, l’unica arma che abbiamo utilizzato, tutta questa scenografia cade come un castello di carta. Anche la fiction con Beppe Fiorello non è stata mandata in onda perché, in prima serata su Raiuno, avrebbe raggiunto un pubblico vastissimo».

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    Beppe Fiorello nella fiction mai trasmessa dalla Rai

    Né soldi né candidature

    Gli chiedo del processo. «Il colonnello della GDF che ha testimoniato ha detto: “Attenzione, questo sindaco non ha intascato un euro”. Io non ho case, non ho barche, non ho nulla. Il giudice ha scritto una cosa, che si poteva risparmiare, utilizzando un’accusa e non una prova: io preferirei vivere in modo (diciamo) semplice perché devo simulare».

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    Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena

    È un passo della sentenza di primo grado sul quale si è soffermato qualche giorno fa, sul Manifesto, il professore Luigi Ferrajoli: «C’è una frase rivelatrice nella motivazione della condanna, che si aggiunge alla massa di insulti in essa contenuti contro l’imputato: la mancanza di prove dell’indebito arricchimento di Lucano seguito alla sua politica di accoglienza, scrivono i giudici, dipende dalla “sua furbizia, travestita da falsa innocenza” e attestata dalla sua casa, “volutamente lasciata in umili condizioni per mascherare in modo più convincente l’attività illecita posta in essere”. Qui non siamo in presenza soltanto di una petizione di principio, che è il tratto caratteristico di ogni processo inquisitorio: assunto come postulato l’ipotesi accusatoria, è credibile tutto e solo ciò che la conferma, mentre è frutto di inganni preordinati o di simulazioni tutto ciò che la smentisce. Non ci troviamo soltanto di fronte a un tipico caso di quello che Cesare Beccaria stigmatizzò come “processo offensivo” nel quale, egli scrisse, “il giudice diviene nemico del reo” e “non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto”. Qui s’intende screditare come impensabili e non credibili le virtù civili e morali dell’ospitalità, del disinteresse e della generosità».

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    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    Luigi Saraceni, calabrese, già magistrato e parlamentare, ha detto che non sa se definire la sentenza drammatica o ridicola. «Il colonnello della GDF – prosegue Mimmo Lucano – ha dichiarato che non avevo motivazioni economiche, caso mai politiche». Ciò è smentito dai fatti, in quanto l’ex sindaco di Riace non ha mai accettato le proposte di candidatura che gli sono piovute addosso da più parti e in più occasioni: elezioni politiche, europee, regionali. «Per quanto riguarda i soldi, poi, io non sono proprio interessato al denaro, alla proprietà, ai beni materiali. La storia delle carte d’identità, per la quale sono stato condannato per danno erariale, è emblematica: le compravo coi miei soldi, e andavo a Reggio a mie spese».

    Mimmo Lucano e il processo di ottobre

    Gli parlo del progetto della Regione Sicilia (governo di centrodestra) di ripopolamento di venti paesi delle Madonie dando accoglienza ai migranti. «In Calabria abbiamo la legge 18/09, ma Loiero e Oliverio non hanno fatto nulla per applicarla. Ho ringraziato Oliverio per l’appoggio che mi ha sempre dato, ma questo gliel’ho voluto dire. Con i fondi FER o POR avrebbero potuto realizzare uno SPRAR regionale, inserendo nel progetto anche l’utilizzo dei terreni incolti. Purtroppo si è persa, almeno finora, questa possibilità».

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    L’ex presidente della Regione, Mario Oliverio, e Mimmo Lucano

    Alla fine non posso fare a meno di chiedergli cosa si aspetta dall’11 ottobre.Risponde senza esitazioni: «Mi aspetto l’assoluzione per un processo che non avrebbe dovuto neanche iniziare, orchestrato da un potere senza volto e senza nome per distruggere un’esperienza che metteva in discussione tutto quello che andavano dicendo sul fenomeno migratorio. Ma se ciò non dovesse avvenire, voglio che si assumano fino in fondo le loro responsabilità, non voglio sconti di pena. Andrò in galera a testa alta». Usa proprio questo termine, in tutta la sua crudezza: galera. Senza girarci intorno, edulcorando nulla.

    Ci salutiamo col solito calore. Rimango seduto, col telefono in mano. Sono stordito. Ci sono uomini che fanno la Storia, e Mimmo è uno di questi. Con la sua macchina trascurata, il suo conto corrente alla posta quasi a zero, la sua semplicità spesso disarmante.
    Nel 2016 Forbes l’ha classificato al 40° posto degli uomini più influenti al mondo. A distanza di 7 anni rischia la prigione per avere speso la sua vita aiutando il prossimo.

  • Da Verzino alla Turchia per salvare vite

    Da Verzino alla Turchia per salvare vite

    Da Verzino fino alla grotta della Morca, nella Turchia meridionale, per salvare l’americano che era lì era rimasto ferito ed intrappolato a mille metri di profondità.
    Francesco Ferraro è un giovane calabrese in forza al Corpo nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico della Puglia. È un “tecnico specialista in recupero”, vale a dire la qualifica formazione più alta che un soccorritore in grotta possa vantare. Ed è per questo che quando è avvenuto l’incidente a Mark Dickey, impegnato nella esplorazione della Morca, Ferraro è stato tra i membri del CNSAS allertato per intervenire in quanto membro dell’Ecra (European cave rescue association).

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    Il salvataggio dell’americano in Turchia (foto del Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico)

    Così, nell’arco di poche ore, un aereo dell’Aeronautica ha trasportato una quarantina di tecnici italiani in Turchia e poi l’esercito turco li ha condotti all’ingresso della grotta dove da giorni altre squadre di soccorso internazionali erano già all’opera. Il salvataggio dell’americano è stato un successo grazie alla collaborazione tra i diversi gruppi e malgrado le grandissime difficoltà.

    Francesco Ferraro, o in grotta o sui tralicci

    Oggi Ferraro è tornato in Calabria e alla sua professione. Lui che per passione scende a mille metri nel ventre della terra, per lavoro si arrampica sui tralicci dell’alta tensione, ad oltre trenta metri. Insomma, una vita passata indossando casco, imbrago e moschettoni di sicurezza. Ma quando non si prende cura di cavi da centinaia di migliaia di Volt, allora non resiste e parte per qualche grotta.
    La sua passione inizia a Verzino, piccolo paese della provincia di Crotone e precisamente attorno al mistero che su di lui esercitavano gli ingressi bui della grotta della “Grave” (Grave grubbo) e dello Stige. Nel 2011 inizia a praticare la speleologia, seguendo persone con maggiore esperienza e imparando come una spugna. Rapidamente acquisisce tecniche e competenze, ma soprattutto il suo motore è la curiosità: «Si deve uscire dal proprio recinto, confrontarsi con realtà diverse, solo così si migliora nella speleologia», dice sicuro.

    Dal Marguareis all’Iran

    E infatti presto la Calabria con le sue grotte gli stanno strette. Cerca esperienze nuove. Va nel tempio della speleologia italiana, il Marguareis, visita il gigantesco complesso carsico che si dipana in chilometri di grotte. Impara di più, impara meglio, si affianca ai nomi più autorevoli della speleo italiana. Poi lo sguardo curioso si sposta più in là, di parecchio. Francesco Ferraro nel 2018 parte per l’Iran, partecipa a una spedizione internazionale composta da 10 italiani e 16 polacchi, oltre che un certo numero di speleo iraniani.
    «La zona dove si svolgeva la spedizione era molto inospitale. Ci aspettavano 10 ore di cammino, 1.600 metri di dislivello, fino alla cima posta tra i 2.800 metri e i tremila con una infinità di inghiottitoi e ingressi».

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    Ferraro nelle grotte del Marguareis

    L’associazione che ha messo assieme i componenti della spedizione è La Venta probabilmente tra le più importanti realtà di esplorazioni geografiche. Francesco Ferraro ha fatto il salto definitivo. Torna in Iran per completare l’esplorazione l’anno successivo, intanto ha trasferito la sua passione nel Soccorso. Acquisisce nuove competenze, «perché essere bravi in grotta non basta, si deve imparare a portare soccorso, mettere in sicurezza il ferito, trovare la via più sicura per portarlo fuori, avere cura dei compagni di squadra».
    È un percorso di responsabilità, di conquista di maturità, di consapevolezza e senso di solidarietà. Perché altrimenti non ti svegli all’alba la domenica, magari d’inverno, per partecipare a una esercitazione.

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    La spedizione in Iran

    Francesco Ferraro e Il Buco di Frammartino

    Il valore di Francesco Ferraro viene successivamente riconosciuto anche da Michelangelo Frammartino, regista del film Il Buco, sulla scoperta ed esplorazione dell’abisso del Bifurto. In quella occasione Francesco assieme ad altri esperti speleo calabresi, come Nino Larocca, fornisce assistenza alle riprese, trasportando nei pozzi le attrezzature e garantendo la sicurezza degli attori. Pur se calabrese entra a far parte del Soccorso Alpino e Speleologico Puglia e lì, dopo un lungo periodo di formazione diventa, Specialista nelle tecniche di recupero. Un traguardo che premia la costanza e la passione, ma pure una acquisita maturità sui compiti di un soccorritore.

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    Francesco in una grotta

    Le grandi esplorazioni non lo hanno separato da Verzino, dove con un gruppo di amici cerca di promuovere la pratica della speleologia, di tenere in vita il fascino della scoperta tra i ragazzi del paese.
    «Per me descrivere la speleologia è difficile – spiega sorridendo Francesco Ferraro – per tanti uno è sport, per altri un laboratorio scientifico, per altri ancora una frontiera da esplorare in un mondo che visualizza la realtà tramite il display di un telefonino. Credo sia la somma di tutto questo e certamente è stato il modo per conoscere tante persone, costruire amicizie solide, relazioni umane sulle quali puoi contare. Che poi è il senso profondo del Soccorso Alpino e Speleologico, perché l’evento in Turchia mi ha fatto riflettere su una cosa, che in parte già sapevo, ma il cui senso è diventato più forte: Non importa chi tu sia, se sei uno speleo e sei in difficoltà, altri speleo faranno di tutto per aiutarti».
    È l’etica dei soccorritori, se sei in difficoltà in un ambiente remoto e impervio, ci saranno sempre tecnici preparati che faranno di tutto per salvarti.

  • Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    Tortora, Mani Pulite e non solo: Della Valle contro i pm “stellati”

    In bocca sua il garantismo non è peloso: è la difesa, appassionata e sincera, di un principio di civiltà, non solo giuridica. Non potrebbe essere altrimenti nel caso di Raffaele Della Valle, avvocato battagliero a dispetto dell’età (84 anni suonati) con un passato politico di tutto rispetto, prima nel Pli e poi in Forza Italia.
    Soprattutto, non può essere altrimenti quando si è stati protagonisti di uno dei processi più tragici, controversi e, purtroppo, spettacolari dello scorso secolo: quello a Enzo Tortora.
    «Fu il primo processo mediatico e fornì il modello a Mani Pulite», spiega Della Valle. Che aggiunge: «Da quella ingiusta persecuzione giudiziaria emersero i primi preoccupanti segnali della deriva che avrebbe preso di lì a poco l’amministrazione della giustizia».
    Della Valle è impegnato in un giro di presentazioni in tutta la Calabria di Quando l’Italia perse la faccia (Pellegrini, Cosenza 2023), il libro intervista scritto assieme al giornalista Francesco Kostner. Un piccolo best seller arrivato alla quarta edizione nel giro di quattro mesi: uscito a maggio, il libro ha esaurito lo stock tre volte. Niente male davvero…

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    Un primo piano di Raffaele Della Valle

    A proposito di processi mediatici e di giustizia-spettacolo: alcuni settori della magistratura, di recente hanno espresso forti critiche sul protagonismo eccessivo di alcuni magistrati, sul ricorso ai maxiprocessi e sul dialogo, ritenuto improprio, di alcune Procure con i media…

    Le condivido alla grande, perché riguardano i fondamentali di qualsiasi operatore del diritto.

    Avvocati compresi?

    Certo, nessuno dovrebbe enfatizzare il materiale raccolto durante l’attività probatoria, tuttavia nella vita reale pochi si fissano questo limite. Tant’è: noi difensori abbiamo spesso appreso le attività degli inquirenti grazie a quello che ho definito più volte il deposito degli atti in edicola.

    Cioè la pubblicazione degli atti sui media ancor prima che in cancelleria…

    Esatto.

    A proposito del processo Tortora, Vittorio Feltri nel suo “L’irriverente” (Mondadori, Milano 2019) afferma di essere stato il primo cronista ad accorgersi che molte cose non quadravano nel teorema della Procura di Napoli e, quindi, a schierarsi col conduttore televisivo finito in disgrazia…

    Diciamo che, per quel che mi ricordo, fu tra i primi. Ma è doveroso citare anche Piero Angela, Giovanni Ascheri e Luciano Garibaldi, che assunsero da subito posizioni garantiste. Non facili all’interno dello stesso mondo mediatico: si pensi, per fare un esempio, che la Rai mandava tutti i giorni (spesso ci apriva i tg) le veline della Procura di Napoli. Ma probabilmente il primissimo fu Enzo Biagi.

    Enzo Biagi fu forse il primo innocentista nel caso Tortora

    La carta stampata, c’è da dire, fece di peggio, come scrive Vittorio Pezzuto nel suo “Applausi e sputi”

    Il Messaggero, ad esempio, arrivò a titolare “Tortora ha confessato”, salvo chiedere scusa a danno fatto. In una fase avanzata del processo, il settimanale Oggi pagò Gianni Melluso per fotografarne le nozze nel carcere di Campobasso. La rivista ricorse a un escamotage per aggirare il divieto dei magistrati: uno dei cronisti fece da testimone allo sposo.

    Parliamo di Gianni Melluso, alias Gianni il Bello, alias Gianni Cha Cha Cha. Ovvero di uno dei più grossi accusatori di Tortora, vero?

    Su Melluso, il quale si è abbondantemente squalificato da sé, sospendo il giudizio, di sicuro  tutt’altro che positivo. Ricordo solo che anche lui fu una creatura mediatica. Lo aiutò molto Francamaria Trapani, giornalista e consuocera di Francesco Cedrangolo, il procuratore capo di Napoli. A proposito di Feltri: gli va dato atto che stigmatizzò sin da subito il comportamento supino di tantissimi colleghi.

    Anche la politica reagì in maniera tutto sommato tiepida, tranne poche eccezioni. Non è così?

    Persino il Partito liberale, in cui militavo assieme a Tortora, tentennò, con la sola eccezione di Alfredo Biondi. Col senno del poi, si capisce benissimo che questa “timidezza” era anche indotta dalla pressione mediatica. Solo Pannella, con la consueta aggressività, ruppe il muro di gomma e trasformò il processo Tortora in un caso politico.

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    Gianni Melluso, uno dei primi accusatori di Tortora

    È corretto affermare che nel processo Tortora prese forma il rapporto particolare tra politica e magistratura che si sarebbe affermato durante Tangentopoli?

    Certo che sì. Fu il primo processo mediatico, per colpa dell’atteggiamento della stampa, che andò ben oltre il servilismo. Il rapporto tra magistratura e stampa, sin da allora è diventato drogato.
    Da un lato, molte Procure tendono a diventare fonti privilegiate, anzi: le fonti per eccellenza. Dall’altro, i cronisti contribuiscono a trasformare gli inquirenti in star, anzi magistar, per usare un efficace neologismo. È un meccanismo perverso che si autoalimenta.

    Al punto che il legislatore è dovuto intervenire in più modi: attraverso la riforma delle intercettazioni e, più di recente, ponendo limiti precisi alle comunicazioni degli inquirenti. Non le pare una forma di censura?

    Di sicuro in parte lo è. Ma è anche una reazione ad anni di abusi.

    Sempre di recente, è stata avanzata una proposta particolare: un master in giornalismo giudiziario riservato ai laureati in Scienze giuridiche. La riqualificazione culturale dei giornalisti non è una valida alternativa?

    Altroché. Si consideri pure un’altra cosa: finora per accedere alla professione di giornalista non sono stati necessari titoli particolari. Iniziare a promuovere per davvero la formazione culturale della categoria significa stimolare quel senso critico e di indipendenza che libera il cronista dall’asservimento alla fonte. E quindi, rende superfluo ogni intervento del legislatore a tutela di chi, fino a condanna definitiva, ha il sacrosanto diritto di essere considerato innocente.

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    Raffaele Della Valle durante l’intervista

    Il procedimento a carico del celebre conduttore fece parte di un maxiprocesso a sua volta molto spettacolarizzato: quello alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Oggi, nella magistratura, non mancano le voci critiche anche nei confronti del ricorso ai maxiprocessi. Qual è l’opinione dell’avvocato Della Valle?

    I maxiprocessi avrebbero un’utilità apparente: il risparmio di tempo e di energie che deriverebbe dalla valutazione di più situazioni e persone in contemporanea. In realtà, la pratica di mandare a giudizio molte persone contemporaneamente si traduce spesso in una mattanza probatoria, che danneggia senz’altro gli imputati e i loro difensori. Ma danneggia anche tantissimo il lavoro degli inquirenti, che finisce spesso in un tritacarne confuso.
    La differenza, in questi casi, la fanno gli inquirenti. Se sono bravi, puntigliosi, concreti e garantisti come lo fu Giovanni Falcone, i procedimenti filano bene e danno risultati. Altrimenti diventano spettacoli da stadio, tanto rumorosi quanto improduttivi.

    Dal processo Tortora emersero anche i limiti nell’uso dei pentiti…

    La gestione dei collaboratori di giustizia è un altro problema irrisolto.

    Perché?

    Perché è un problema strutturale, etico prima ancora che giuridico. La normativa, infatti, proteggeva gli ex terroristi che saltavano il fosso. Tra di loro ci furono molti pentiti sinceri che, una volta finita l’illusione ideologica e ammessa la sconfitta politica, volevano tornare alla normalità e chiesero scusa.
    Questa dinamica, va da sé, non è facilmente applicabile ai malavitosi, che non hanno motivazioni ideologiche. Non normalmente, almeno.
    Ne deriva un problema di credibilità e di affidabilità piuttosto diffuso. Anche in questo caso, il processo Tortora diede spie d’allarme.

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    Enzo Tortora in manette tra i carabinieri

    Sospendiamo il giudizio su Berlusconi, che deve essere comunque un giudizio politico. Al netto di tante polemiche, non sembra eccessivo il numero di procedimenti senza risultati subiti dall’ex premier fino alla fine dei suoi giorni?

    Il problema è uno solo: le vicende giudiziarie di Berlusconi sono l’appendice giudiziaria di Mani Pulite.
    Non entro nel merito di quella maxi inchiesta. Mi limito, al riguardo, a notare che, da allora, la magistratura ha cambiato il suo Dna costituzionale ed è diventata un organo politico. Faccio un esempio attuale: tra chi si oppone ai tentativi di riforma di Nordio figurano trecento magistrati, che hanno sollevato dubbi di costituzionalità.
    Ora, non sarebbe più logico mettere le normative alla prova, magari impugnando davanti alla Corte Costituzionale, quando necessario, anziché lanciarsi in proclami politici?

    Se la magistratura si politicizza non c’è da meravigliarsi di vicende come quella dell’ex capo dell’Anm Luca Palamara. Chi la fa l’aspetti, o no?

    Io mi meraviglio che ci si sia fermati a Luca Palamara, al quale si sono attribuite troppe responsabilità. Palamara, semmai, era solo un terminal di interessi e posizioni di potere consolidatissimi.
    La magistratura ha travalicato da tempo le sue funzioni. Tant’è che troviamo parecchi magistrati al di fuori delle sedi istituzionali. Li troviamo, ad esempio, nei ministeri, come consulenti e capi di gabinetto incaricati di redigere le normative. Mi pare ce ne sia abbastanza per dire che il rapporto tra l’ordine giudiziario e il potere politico ne risulti quantomeno alterato.

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    L’ex magistrato Luca Palamara

    In questi giorni ha presentato il suo libro in tutta la regione. Come le è sembrato il pubblico calabrese?

    Preparato e sensibile ai temi giuridici. E devo dire di essere rimasto favorevolmente colpito anche dagli amministratori locali con cui ho avuto modo di confrontarmi: c’è una crescita di livello che lascia ben sperare.

  • Così salveremo l’Aspromonte. Parla Pino Putortì

    Così salveremo l’Aspromonte. Parla Pino Putortì

    «Il Parco per me è un ritorno». Pino Putortì, dallo scorso settembre nuovo direttore dell’Ente Parco Aspromonte, descrive così il reincarico alla guida amministrativa dell’Ente.
    Già direttore sotto la presidenza di Tonino Perna, un passato alla direzione generale dell’Asp di Palmi prima dell’accorpamento con Reggio, Putortì parla con franchezza della situazione del Parco.

    Dalla stampa e da varie testimonianze, si ricava l’impressione che il Parco sia in perenne polemica con operatori ed esperti del settore. La dura nota dello scorso 28 luglio non lascia dubbi.

    «Credo che l’attuale Ente Parco non sia amato».

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    Pino Putortì, il direttore dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Parliamo degli incendi?

    «Quest’anno, non appena è scoppiato quello in zona Polsi, ci sono stati interventi immediati: cinque canadair hanno impedito che l’incendio diventasse “di chioma”.
    Il Parco può lavorare sul Piano antincendi, cosa che già fa. Non ha però competenze di intervento né risorse dedicate. Soprattutto, non possiede il patrimonio che custodisce.
    La sua funzione è fare da pungolo. E può operare in vari modi. Ad esempio, con incentivi ai privati e risorse ai Comuni per la pulizia dei boschi.
    Torniamo ai roghi. I dati a disposizione consentono di individuare un andamento ciclico del fuoco. Al riguardo, si può attuare una serie di azioni che rafforzino il monitoraggio e la prevenzione.
    Una delle criticità del 2021 ha riguardato i Dos (direttori operativi dello spegnimento). Mi era stato riferito che era personale formato da poco e con poca esperienza. Ma non posso averne certezza».

    L’intervento per limitare i disastri è solo l’ultimo anello di una catena che si è comunque rivelata debole. Ma la prevenzione è tutt’altro e dovrebbe essere la priorità…

    «Bisogna ricordare che ogni incendio è una storia a sé e dipende da variabili diverse. In ogni caso, Calabria Verde quest’anno ha fatto il proprio lavoro».

    Un canadair in azione durante i roghi dell’estate 2021

    Prima no?

    «Io lavoravo in Prefettura. Leo Autelitano, attuale presidente del Parco in carica dal 2018, chiese il nostro intervento. Assieme ai vigili del fuoco, abbiamo preso la situazione in mano. Purtroppo, devo ricordare un problema non proprio leggero. Stando a quanto riferitomi da terzi, Calabria Verde forniva coordinate errate per cui i mezzi antincendio scaricavano acqua dove non era necessario».

    Sempre nella nota di luglio l’Ente Parco ha illustrato una serie di attività.

    «Siamo partiti con il progetto Pastori custodi, esperienziali ed enogastronomici, volto a valorizzare l’antica cultura della transumanza e sensibilizzare il territorio al rispetto ed alla difesa della natura e della montagna».

    [Nda: Questa linea risulta già percorsa in passato, nelle gestioni di Tonino Perna e di Giuseppe Bombino, con il progetto pilota Pastori custodi. Quest’iniziativa puntava sulla prevenzione. Infatti, nel 2017, mentre Sila e Pollino bruciavano, in Aspromonte non ci furono disastri. Alla presentazione di quel progetto partecipò anche il prefetto. Nel 2018, con l’avvicendamento alla presidenza tra Bombino e Leo Autelitano, quella sperimentazione, che sarebbe dovuta finire nel Piano Antincendi, cadde].

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    Leo Autelitano, il presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    Il funzionamento dei Parchi può essere migliorato?

    «Ritengo che gli attuali strumenti a disposizione non garantiscano appieno le finalità della legge 394 del 1991.
    Di più: lo stesso sistema dei Parchi in Italia meriterebbe una seria revisione. Certo, il legislatore ha avuto una buona intuizione sulla governance, e ha creato un certo equilibrio di pesi e contrappesi. Tuttavia, una statistica recente rivela che in 19 parchi su 20 si registra uno scontro tra direttori e presidenti».

    Anche all’Ente Parco dell’Aspromonte?

    «Ci sono momenti di forte dialettica. Ma è nell’ordine delle cose».

    Entriamo più nel dettaglio: come funzionano i Parchi?

    La governance dei parchi è fatta di diversi organi. Tra questi, presidente, consiglio direttivo e direttore amministrativo. L’ultimo propone, i primi due dispongono».

    Tonino Perna, ex presidente dell’Ente Parco dell’Aspromonte

    E qual è il rapporto tra il Parco e gli enti locali?

    «La Comunità del Parco è costituita da Regione, Città Metropolitana e Comuni del Parco. Questa designa quattro componenti del consiglio direttivo.
    La norma prevede che i componenti designati siano esperti. Laddove, invece, sono sostituiti dai sindaci può capitare che qualcuno tenda a perorare le proprie cause o a favorire il proprio territorio».

    Sempre la politica di mezzo…

    «Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica e quello dell’Economia sono organi vigilanti. C’è sempre un gioco della politica. Inevitabile che a volte si siano chiusi gli occhi e si siano avallate azioni da evitare».

    Questo può valere per tutte le nomine. Compresa quella del direttore. Lei che ruolo ha?

    «Il direttore fa da garante e mette le firme».

    Come interpreta il suo ruolo?

    «Voglio fare in modo che il Parco faccia un salto di qualità e che tutti – organi dell’ente, operatori, associazioni, esperti, sindaci, comunità – capiscano che occorre lavorare insieme in una visione condivisa.
    È necessario restituire l’Aspromonte ai suoi protagonisti. Alcune guide del Parco, ad esempio, sono un nostro patrimonio. Il Parco ha il dovere di dialogarci.
    Non bisogna disperdere l’eco positiva a livello internazionale che abbiamo riscontrato dopo la partecipazione alla Bit di Verona. Dobbiamo tutelare la bellezza e promuovere le economie».

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Quali sono oggi le grandi criticità del Parco Aspromonte?

    «Sono di tre ordini: governance del territorio, pianificazione e programmazione e risorse umane. Oltre a un forte deficit di comunicazione».

    Spieghi…

    «Quando parlo di governance mi riferisco a una oggettiva difficoltà di gestione di un territorio vasto e complesso come l’area protetta del Parco. Questa difficoltà impatta direttamente sul secondo aspetto, la necessità di revisione di strumenti di pianificazione».

    Quali strumenti?

    «Il piano del Parco, il regolamento, il piano di sviluppo socioeconomico e la zonizzazione, su cui stiamo cercando di intervenire con fatica,
    Alcune linee guida erano state messe insieme, forse un po’ sommariamente. Bisogna rafforzare tutta la pianificazione e intervenire in modo serio su un nuovo perimetraggio delle zone che bilanci protezione, tutela e sviluppo del territorio.
    Non è pensabile, ad esempio, che zone di diversa tipologia confinino in maniera diretta, come accade ora. Questo produce confusione e alimenta gli ostacoli alla governance dei territori. Il danno è stato compiuto anni fa. Recentemente abbiamo approvato il Piao (Piano integrato di attività e organizzazione) 2023-2025 con il nucleo della nuova programmazione».

    Giuseppe Bombino, altro ex presidente del Parco dell’Aspromonte

    [Nda: sotto la precedente presidenza Autelitano, l’allora ministra dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, sentito il parere di Regione, Provincia e Comuni competenti, emanava un decreto che riperimetrava il Parco: dai 76.000 ai 64.153 ettari attuali. Quest’operazione diminuiva l’area protetta, e ne ridisegnava la geografia con quella zonizzazione su cui oggi si vuole intervenire]

    Ha detto «a fatica»: perché?

    «L’organigramma dell’Ente Parco è ridotto all’osso. Attualmente, e con difficoltà, riusciamo a coprire solo l’ordinario.
    Il parco ha perso nove risorse per provvedimenti di mobilità concessi in regime di finanza invariata. Ciò significa che non ci sono i fondi per assumere nuove risorse se non sostituendole con la mobilità in entrata.
    il Parco allo stato attuale è depauperato in modo quasi irreversibile. Stiamo tentando di risalire la china. Sono poi in corso questioni che non è il caso di approfondire in questa sede».

    Di nuovo: perché?

    «La situazione è delicata».

    [Nda: che lo sia davvero risulta da diverse fonti. Da notizie riservate, sarebbe in corso una serie di accertamenti presso i ministeri competenti e l’Avvocatura dello Stato su mobilità e assunzioni.
    In particolare, sulle procedure di stabilizzazione degli lsu volute dal presidente. Questi, a sua volta, avrebbe presentato un altro esposto alla Procura della Repubblica.
    Inoltre lo stesso Piao fotografa uno stato dell’ente non in perfetta salute.
    Durissima la parte del documento dedicata alla situazione del personale: «Si è venuta evidenziando una scarsa conoscenza delle competenze del personale e l’assenza di una banca dati delle competenze». Inoltre, «resta di particolare attenzione il monitoraggio del benessere interno ed il clima lavorativo all’interno dell’organizzazione, specie a fronte di una evidente conflittualità interna». Questo quadro la dice lunga, in attesa delle pronunce degli organi competenti e delle valutazioni della Procura].

    Alberi dell’Aspromonte a due anni dell’incendio

    Quale idea vuole portare avanti?

    «Un Parco per tutti. Lavorare su quello che può garantire il futuro e proteggere la bellezza anche attraverso lo sviluppo delle comunità locali. Bisogna dare piena attuazione agli obiettivi delineati nella legge 394. Il fine della conservazione per me è questo».

    Cosa dobbiamo attenderci?

    «Sono in corso una serie di attività e una proficua interlocuzione con la Regione. Abbiamo presentato alla dirigenza del Settore parchi ed aree naturali quattro schede per un valore tra i 6 e i 7 milioni. In più, dopo un’attenta revisione del bilancio, risulta un avanzo di 5 milioni e 200mila euro che verranno allocati per diversi interventi».

    La sfida più grande?

    «Accessibilità e sistema della mobilità verso il Parco in un’ottica di intermodalità».

     Come si vede tra un anno?

    «Se le operazioni che sto cercando di realizzare andranno in porto, sarò dove mi trovo adesso. Altrimenti, ormai vicino alla pensione, sarò felice di dedicarmi alla pesca».

    È stanco?

    «Conduco una battaglia quotidiana e non nascondo le mie difficoltà».

  • Zabatta e Solfamì: una Cosenza oltre le maschere

    Zabatta e Solfamì: una Cosenza oltre le maschere

    Secondo i dati Istat del 2023 sui fenomeni migratori, sia interni alle regioni italiane sia dall’Italia verso paesi esteri, il tasso di emigrazione più elevato si registra in Calabria. Oltre il 7% dei residenti, nell’ultimo anno, ha abbandonato la regione.
    Agosto, però, è il mese dei rientri per le vacanze. Gli emigranti si confrontano con le proprie nostalgie, misurano il benessere che può dare il ritorno alla casa natale. Anche gli aspetti peggiore della propria città di partenza si osservano attraverso un “filtro bellezza”, che ne minimizza i difetti. È successo anche a me e mentre la vocina nostalgica cantilenava nella mia testa mi sono imbattuta nell’articolo di un sito locale che annunciava l’uscita di un nuovo brano a firma Zabatta Staila e Solfamì: Mo.

    Era la risposta a quel sentimento nostalgico. L’uso del dialetto, le espressioni idiomatiche e l’ironia sul cosentino medio, i suoi piccoli vizi e le sue manie avevano teletrasportato il lato più comico di Cosenza fin all’altro lato d’Europa.

    Tra le varie canzoni, però, una su tutte può essere il manifesto della persona calabrese emigrata: Ohi Ma. È la dichiarazione d’amore di un figlio lontano alla madre rimasta a casa. Oltre i luoghi comuni sul prosciutto spedito assieme ai “pacchi da giù” traspare il disagio che si prova in una città non tua, in cui si parla una lingua che ancora non ti appartiene del tutto e in cui fai fatica a trovare il tuo posto. Ma, oltre quell’inadeguatezza, c’è la speranza di avere la propria occasione e la propria rivalsa. Non importa quale sia il sogno, che sia grande o piccolo: le luci delle altre città ci promettono che una chance possiamo averla, a prescindere da chi siamo.
    Da lì l’idea di intervistare la crew cosentina.

    Una band così radicata al territorio cosentino dove nasce geograficamente?

    «L’embrione è nato a Casali, il quartiere in cui siamo nati. Poi l’idea un po’ più studiata, quindi le maschere e il resto, forse è arrivata a Londra».

    Com’è che da Cosenza vi siete ritrovati lì?

    «Per quanto riguarda Zabatta – risponde Solfamì – è stato un caso, non è stata una decisione andare lì. Io mi trovavo a Londra per altre cose, poi lui mi ha raggiunto. Dopo un po’ di tempo e un bel po’ di pressing da parte sua abbiamo iniziato. Zabatta aveva già fatto uscire un brano anni prima, per questo ti dico Casali come embrione. Poi, quando ci siamo trovati a Londra, dopo quattro o cinque mesi di convivenza, mi ha proposto di scrivere, fare musica e lavorare al progetto insieme».

    «Di base – continua Zabatta –abbiamo sempre avuto la fissazione per la tradizione popolare. Soprattutto io, che ho nel mio background musicale la tarantella. La fissazione per il dialetto, gli accenti, le usanze o i costumi l’abbiamo sempre avuta. Poi, vivendo fuori, inizi a vedere le cose da un altro punto di vista, a riflettere su cose a cui stando qui non pensi. Sembrerà un po’ banale, ma è stato davvero così: lavoravamo da Starbucks e nelle pause scrivevamo le strofe. Tutto parte da una base di Eminem, perché li non avevamo neppure tutti gli strumenti per poter arrangiare. Non c’era nemmeno l’idea di fare delle canzoni una dietro l’altra o un progetto da proporre nei live. L’idea era quella di rimanere nei pixel del computer e fare una canzone ogni sei o sette mesi: buttare la bomba e sparire di nuovo»

    Vivendo fuori, quali sono state le differenze culturali maggiori che avete sperimentato?

    «Il rapporto con lo sconosciuto: qui fai amicizia in un attimo, lì c’è diffidenza. Ma questo è l’aspetto positivo di Cosenza, poi c’è l’aspetto negativo. Per esempio, l’assenza di opportunità. Questi posti lontani ti danno la possibilità di poterti perdere senza avere l’ansia di non ritrovarti», ci risponde Solfamì.

    Una volta tornati, come è nata l’idea di fare dei concerti live?

    «Sergio Crocco de La Terra di Piero ci ha chiamati per fare uno spettacolo allo stadio. Noi non lo conoscevamo, conoscevamo l’associazione però non ne facevamo parte. È “colpa” sua se abbiamo formato quella band live, perché ci ha chiamato e ci ha “imposto” di andare a suonare. Da lì siamo entrati a far parte della famiglia de La Terra di Piero».

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    Zabatta e Solfamì in concerto allo stadio San Vito-Marulla di Cosenza

    Qual è il rapporto di Zabatta e Solfamì con la città?

    «A Cosenza abbiamo suonato per un Capodanno, tra l’altro come headliner, ma abbiamo dovuto portare i nostri microfoni ed è stata una cosa un po’ così. Non mi pare ci sia gran voglia di chiamarci». A parlare è Solfamì, con Zabatta che ironizza sul fatto che nessuno sia profeta in patria e aggiunge: «La reazione del pubblico, invece, è ottima e si vede che ci vogliono bene fin dall’inizio. L’invito, infatti, è quello di venire ai live perché l’esperienza è totalmente diversa e la risposta del pubblico c’è sempre stata in questo senso».

    Sotto le loro maschere di Zabatta e Solfamì, in fondo, si celano storie comuni a quelle di molte persone nate alle nostre latitudini. Racconti di emigrazione, di ritorni, di esperimenti per inventarsi qualcosa e trovare un proprio posto nel mondo. E la consapevolezza che, alla fine, più ci si allontana e più si scopre quanto i nostri posti di origine, nel bene o nel male, ci abbiano plasmato.

    Francesca Pignataro

  • «La follia greca si muove tra i miei libri»

    «La follia greca si muove tra i miei libri»

    Ho conosciuto Giuseppe Aloe qualche anno fa a Rossano. A cena con amici comuni si parlava ancora di libri e di Celine. Lo scrittore di origini cosentine ha lasciato il bicchiere di birra e recitato a memoria la prima pagina o poco più di Morte a credito. Tornare ai classici, ecco. Un buon modo per ribadire il concetto in una Calabria che scrive tanto e legge poco. Aloe non è proprio d’accordo con queste classifiche. Ne parlo con lui. Mi racconta del suo ultimo libro, Le cose di prima (edito da Rubbettino), e non solo, in una villa vecchia che cerca in tutti i modi di attutire l’estate infernale di questi ultimi giorni a Cosenza. Tra i suoi romanzi compaiono titoli come La logica del desiderio (finalista al Premio Strega), Ieri sera ha chiamato Claire Morin, Lettere alla moglie di Hagenbach.

    Giuseppe Aloe a Cosenza per la presentazione del suo libro “Le cose di prima”
    Le cose di prima? Perché questo titolo?

    «È un’espressione dell’Apocalisse di Giovanni. Le cose di prima sono finite perché nella sua visione è arrivato Dio. Io l’ho reso in un senso quasi interrogativo. Ma le cose di prima sono davvero finite? È un libro che si pone questa domanda. È possibile che siano finiti i momenti più drammatici dell’adolescenza? Siamo sicuri che non abbiano lasciato nulla nella nostra vita?».

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    La copertina dell’ultimo libro di Giuseppe Aloe
    Come nasce questo suo ultimo libro?

    «Era da tempo che ragionavo sul concetto di adolescenza. Un giorno a Milano sono andato al funerale di un compagno di scuola di mio figlio, un ragazzo che si è suicidato a 19 anni in carcere. E il prete ha letto questo passo dell’Apocalisse di Giovanni. “Le pene, l’infelicità, sono passate”. Questa frase mi ha instantaneamente procurato una visione. In quel momento ho avuto chiara l’intera trama del romanzo. Tranne il finale. È arrivato dopo. Il materiale c’era già nella testa. Mancava lo spunto».

    Cosa c’è dietro il processo creativo che dà vita a un romanzo?

    «Nella mia testa ci sono delle idee di romanzo. Che non vanno a compimento. Quando c’è un clic e riesco a trovare il bandolo della matassa in venti giorni lo finisco. Dal primo all’ultimo capitolo. Una discesa libera. È il mio metodo di lavoro».

    Una traccia che lega la Logica del Desiderio a questa sua ultima fatica letteraria?

    «Tutti i miei libri hanno una costante. Nella vita di ciascuno di noi quando la ragione perde il suo status, lascia spazio alla follia. E cosa accade? I miei sette romanzi sono sulla follia. Chiaramente intesa in senso greco, la manìa che ci governa. Che era degli indovini, dei poeti e degli innamorati. La follia del dolore, dell’amore come nella Logica del desiderio, la follia dell’infanzia, della vecchiaia, dell’ingiustizia. Nelle Cose di prima la follia dell’adolescenza».

    Cinque libri o autori da portare sull’Arca con lei?

    «Il vocabolario della lingua italiana. Poi Kafka, L’altro processo di Canetti, Molloy di Samuel Becket, alcuni racconti di Carver, Musica per Camaleonti di Truman Capote. E italiani? Lo Zibaldone dei pensieri di Leopardi. Summa che anticipa Nietzsche. Un libro fondamentale ma poco studiato e tradotto».

    Ma questa storia della Calabria fanalino di coda nelle classifiche di lettura ha un po’ rotto le scatole?

    «Queste classifiche non controllano quanti libri vengono letti ma quanti ne sono venduti. Cosa bene diversa. Questo genere di classifiche sono apparenti, non hanno alcuna sostanza.
    Quando vieni in Calabria dovresti parlare con le persone e ti rendi conto del livello culturale di questa regione. Vado in giro e trovo sempre gente molto colta e preparata. Come è possibile se in Calabria non legge nessuno? Non è vero. Io vivo a Milano. La stragrande maggioranza dei milanesi è incolta. Però Milano è la capitale culturale d’Italia. Dovremmo fare degli studi non sulle vendite ma sulla capacità di apprendimento».

    Il futuro sarà Chat Gpt oppure c’è speranza?

    «Il problema non è chatGpt ma gli editor, i corsi di scrittura creativa. In alcuni ambiti editoriali i romanzi sono molto simili. Libri standardizzati. Esci da una scuola di scrittura e applichi quello che hai imparato. Lo stesso faranno gli altri studenti. La letteratura deve superare se stessa, non deve indovinare i giorni di dolore. Quando tuo nonno ti picchiava, tuo padre ti trattava male. Basta! Così non si va avanti».

    In Calabria scrivono in tanti, però?

    «Sì, ci sono tante persone che corrono. Ma non sono Marcell Jacobs. È la stessa cosa. Tutti possono scrivere, ma per arrivare alle Olimpiadi serve qualcosa dietro. Una vita passata sui libri. Studiare, leggere e avere il senso della scrittura. Altrimenti si possono fare esercizi lirici o meno. Che non sono scrittura ma allenamenti della tua vita».

    La sede dell’Accademia Cosentina

    Cosenza Atene delle Calabrie? Lei che ne pensa?
    «C’è un impoverimento culturale della città e non solo. Abito a Cosenza vecchia. Si vede che è instabile, eppure è un patrimonio culturale non solo della nostra città. Nessuna amministrazione è stata in grado di risollevarla. Ma quando vengo a Cosenza, non posso negarlo, trovo sempre un buon livello culturale».

    Cosa rappresenta per lei il richiamo di Africo, l’appuntamento annuale sotto il grande albero pensato da Gioacchino Criaco?

    «Gioacchino è un mio amico come Mimmo Gangemi e Domenico Dara. L’appuntamento di Africo rappresenta il ripensare a chi sei, quale è il tuo posto nel mondo. Abito a Milano ma mi sento profondamente calabrese. Radicato alla mia terra. I tedeschi hanno la parola Heimat. Cosenza e la Calabria sono la mia. E Africo è una madre che ti richiama e ti rimprovera perché non stai pensando troppo alla tua Heimat».

    Ma Lettere alla moglie di Hagenbach è un libro mitteleuropeo, di calabrese nemmeno l’ombra.

    «Il respiro è Mitteleuropeo, Da Praga a Vienna, a Berlino, Lubecca. Ma il dolore che c’è nelle mie storie è quello che ho vissuto al Sud. Quella striscia di dolore che tutti abbiamo conosciuto e che non ti abbandona mai».

  • Manfredi Bosco, un cosentino sul tetto d’El Mundo

    Manfredi Bosco, un cosentino sul tetto d’El Mundo

    Manfredi Bosco è uno dei migliori cuochi – «Chef è solo un’etichetta gerarchica in cucina, se mi chiedono cosa faccio nella vita rispondo: il cuoco», ci tiene a precisare – di Madrid. A sostenerlo non è una voce qualsiasi, ma El Mundo, uno dei giornali più importanti di Spagna. Qualche settimana fa, nella sezione gastronomia, ha dedicato a questo cosentino, da qualche anno presidente dell’Associazione cuochi Italiani in Spagna – un lungo articolo. Il calabrese che voleva fare il diplomatico ed è finito a guidare uno dei ristoranti italiani – si chiama Pante – più interessanti della capitale iberica, lo ha definito Luis Blanco. Un traguardo niente male per uno che ha iniziato per caso a pensare di fare il cuoco una ventina o poco più d’anni fa: prestigio a parte, El Mundo ha il sito europeo di informazione in lingua spagnola più letto che ci sia.

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    L’ingresso del ristorante madrileno

    Per una volta, però, un piccolo giornale calabrese ha almeno un vantaggio su un colosso dell’editoria internazionale: Manfredi Bosco è stato mio compagno di classe alle superiori e mio coinquilino all’università. Che volesse fare il diplomatico dopo la maturità non lo ricordo. In compenso, ricordo che da lui negli anni del liceo si facevano mangiate formidabili. Merito di Francesco, suo padre: arrivava a casa con prodotti presi da questo o quel contadino durante i suoi giri di lavoro. Gestiva con alcuni parenti una ditta di liquori – erano loro a produrre l’Amaro Silano Bosco o l’Anice Bosco fino agli anni ’90, più o meno – e si occupava spesso della distribuzione, per cui viaggiava parecchio. E poi era cintura nera di pasta e patate ara tijeddra e abbastanza eretico (e bravo) tra i fornelli da preparare un delizioso morzello catanzarese nel cuore di Cosenza.

    Il tuo primo maestro, quello che ti ha trasmesso la passione per la cucina, è stato lui?

    «Più che per la cucina, per i sapori, per i prodotti del territorio. Però a fare il cuoco non avevo mai pensato: niente alberghiera, ma liceo classico, poi Scienze politiche a Roma. Non avevo le idee molto chiare sul futuro quando ci siamo iscritti alla Sapienza, diciamo così, però mi piaceva l’idea di viaggiare per lavoro. Tant’è che la mia carriera poi è nata proprio per quello».

    In che senso?

    «Ho preso un volo per Londra, volevo imparare bene la lingua con un corso intensivo di qualche mese. Londra è cara, difficile mantenersi, e io parlavo poco e male l’inglese. La soluzione più semplice mi è sembrata chiedere un lavoretto in qualche ristorante italiano. Ho cominciato come lavapiatti, poi hanno visto che – anche se ero un principiante – me la cavavo tra i fornelli. Dopo un paio di mesi sono diventato aiuto cuoco. E mi sono reso conto che, oltre a guadagnare soldi miei per la prima volta, mi piaceva stare in cucina per mestiere.

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    Il Big Ben, simbolo di Londra

    Poi lavorare in Inghilterra è tutta un’altra storia, capisci come dovrebbero davvero andare le cose. Lì non ci sono nero o straordinari non retribuiti, ci sono regole e si rispettano. Se ci pensi, pur facendo il lavapiatti, riuscivo a pagarmi una stanza in una delle città più costose del mondo. Certo, quando lavori in un ristorante per il cibo a casa non spendi quasi nulla, però…».

    Se stavi così bene, perché tornartene in Italia allora?

    «Era il 2001, poco dopo l’11 settembre, e i miei avevano il terrore che il prossimo attentato potesse essere a Londra. Pur di convincermi a tornare mi hanno aiutato a entrare nelle cucine del Four Season, un grande albergo di Milano, per uno stage. E lì mi hanno distrutto, non avevo ancora visto come e quanto si lavora in una cucina di veri professionisti. Mi sono reso conto che non sapevo nulla e non è stato semplice. Ti faccio un esempio banale: tu magari puoi credere che tua mamma prepari una besciamella buonissima e segui la sua ricetta, ma in un posto del genere mica puoi servirne una preparata come la fa lei.

     

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    L’Hotel Four Season di Milano

    La cucina è fatta di sapori e ingredienti, ma anche di tecniche per valorizzarli e io ho dovuto impararle da zero. Ho capito pure quanto fosse duro e usurante fare il cuoco, però continuava a piacermi sempre di più. E, dopo le prime difficoltà, imparavo in fretta: a fine stage, con l’estate ormai alle porte, lo chef ha suggerito il mio nome a un collega per la sua brigata, nel mondo dell’hôtellerie funziona spesso così a seconda delle stagioni. Era il mio primo lavoro in Italia, al Palace Hotel di Capri, come cuoco capo partita. Mi occupavo della carne e di varie salse, più qualche turno notturno per il servizio in camera».

    Me lo ricordo eccome: una notte hai chiamato a casa nostra a Roma per dirci che avevi appena preparato una frittata a Brian May dei Queen!

    «Spaghetti e vongole prima, omelette poi, aveva fame. Era arrivato in elicottero, poverino… però non l’ho incontrato, peccato: nell’alta hospitality la riservatezza del cliente è sacra».

    Per uno che due anni prima lavava i piatti mi pare comunque un bel passo avanti, no?

    «Beh, sì, però a Capri è stato davvero un massacro, il Four Season era una passeggiata in confronto. Lì ero una stagista, qui avevo più responsabilità e, in sostanza, ancora nessuna esperienza. Ho visto cosa significhino davvero le gerarchie nelle cucine di un certo livello. Lo chef era Oliver Glowig, un grandissimo che ha conquistato diverse stelle Michelin negli anni; il suo secondo all’inizio mi trattava come uno schiavo, poi però dopo qualche settimana mi ha aperto casa sua: anche quello mi ha fatto capire che la mia strada era in cucina».

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    Oliver Glowig e Manfredi Bosco in una foto scattata qualche anno dopo l’esperienza insieme a Capri

    Finita l’estate sei tornato a Roma…

    «Sì, un lavoro ai Parioli. Gran ristorante, tra i clienti, per dirti, c’era Jack Nicholson quando veniva in Italia. Mi occupavo del pesce stavolta. E poi c’era un collega napoletano che mi ha insegnato tutto sulla pasta. Quando si parla di pasta non esistono maestri migliori dei napoletani, fidati».

    E perché sei andato via da lì?

    «Un’offerta migliore. Una famiglia storica della ristorazione romana aveva deciso di puntare sull’alta cucina con un piccolo ristorante dietro piazza Navona e ho deciso di lavorare da loro. Però le cose non sono andate granché bene, erano altri tempi. C’era attenzione verso questo mondo in Italia, ci mancherebbe, ma non come adesso. Roma non era ancora “pronta” per questo tipo di cucina».

    Sei pure scappato, letteralmente, da quel ristorante…

    «Vero, te l’ho detto che il cuoco è un mestiere duro e usurante, sono andato in tilt. Nello stesso periodo papà, che aveva venduto la ditta poco tempo prima, mi ha detto che avremmo potuto rimetterci a fare i liquori insieme, io e lui. Era il mio sogno da bambino che si avverava: la ditta quando ero piccolo era sotto casa mia, con tutti quegli alambicchi, bellissima. Così me ne sono tornato in Calabria».

    E dalle ceneri dell’Amaro Bosco è nato l’Amaro Manfredi, con cui tu da tempo però non hai più nulla a che vedere. E la cucina?

    «Mai abbandonata del tutto. Ho iniziato a organizzare eventi gastronomici per promuovere i prodotti del territorio, collaborato con aziende locali. Convincere i calabresi a fidarsi dei prodotti della loro terra era quasi più difficile di vendergli i liquori. Non posso nemmeno dar loro torto, di recente sono stato a Cosenza e dal fruttivendolo c’erano delle patate terribili: ma come, con la Sila a due passi, non hai patate buone? Dal punto di vista della cultura gastronomica siamo molto indietro ancora; ricordo che molti macellai avevano carne bovina ben frollata solo perché non riuscivano a venderla prima, assurdo. Se penso alla cura degli spagnoli nell’allevamento dei maiali il confronto è impietoso, il Nero di Calabria ha più pregi che mercato»

    Hai fatto pure qualcosina per la televisione, ricordo un programma con Mengacci. Che ne pensi della cucina in tv e dei cuochi nello show business?

    «Tutto il male possibile. No, dai, qualcosa di positivo c’è: è un modo per dare visibilità a un mestiere a lungo non valorizzato quanto meriterebbe, come succede invece in Francia, e per far conoscere i sapori di un luogo. Ma c’è l’altra faccia della medaglia: oggi, su 50 curricula che arrivano in un ristorante, 40 sono di gente che fa i suoi piatti per Instagram o ha partecipato a una mezza puntata di Masterchef. Qualcuno ha anche talento, ma quasi tutti scappano dopo aver visto come si lavora in una vera cucina. I professionisti con una formazione alle spalle magari non trovano posto, invece. E un’offerta così alta di manodopera ha fatto crollare le retribuzioni in cucina per tutti.

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    Manfredi Bosco prima di prendere servizio nel ristorante sardo di Gordon Ramsay

    Anche io ho iniziato dal nulla, ci mancherebbe, però l’ho fatto dentro una cucina, non sui social o in un talent show. E comunque, a parte tutto, in tv non funzionavo proprio. Troppo riservato, ho fatto giusto qualche puntata di Ricette all’Italiana: mi piace stare ai fornelli, non davanti a una telecamera».

    Però hai lavorato anche con due star della Tv come Carlo Cracco e Gordon Ramsay, che tipi sono?

    «Ramsay non l’ho conosciuto di persona, lavoravo in un suo ristorante al Forte Village ma non c’era mai. Anche con Cracco ho lavorato in Sardegna, veniva due volte a settimana: un professionista pazzesco, non posso che parlarne bene. E che puoi dire di male su uno che era chef a Montecarlo al Le Luis XV di Alain Ducasse, dove un genio come Massimo Bottura era solo uno dei tanti in brigata? Lo guardi lavorare e provi a imparare il possibile».

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    Manfredi Bosco e Carlo Cracco

    In Spagna, invece, come e quando sei arrivato?

    «Una decina di anni fa, ceduta la ditta di liquori. Avevo qualche contatto lì e sono andato a studiare un po’ la loro ristorazione. Poco dopo ho iniziato a lavorare al +39, come il prefisso dell’Italia, il primo ristorante calabrese di Madrid. Tra i soci c’era anche Matías Verón, l’ex calciatore della Reggina. Ho vinto un concorso – Madrid Fusión, una kermesse gastronomica che si ripete ogni anno e pone al centro dell’attenzione cuochi e tecniche di cucina – ed è partito anche il mio lavoro con l’Associazione dei Cuochi Italiani in Spagna. Organizziamo show cooking, eventi pubblici e iniziative nelle scuole per far conoscere i prodotti nostrani, il modo di prepararli, l’importanza della dieta mediterranea».

    Su El Mundo, però, sei finito grazie a un altro ristorante, Pante

    «Ci lavoro da quattro anni ormai. Facciamo cucina italiana, in particolare di Pantelleria, ma ho voluto che nel menu ci fosse sempre anche un po’ di Calabria. Il peperoncino, innanzitutto, ma anche le cipolle di Tropea, la ‘nduja, i fichi dottati.
    Tra i nostri clienti ci sono Carlo Ancelotti, un mio mito da adolescente come Raul, Diego Simeone. Il Cholo, quando ha saputo che ero di Cosenza, mi ha parlato della città: ricordava di esserci stato quando giocava nel Pisa in serie B, anche se aveva dovuto saltare la partita per infortunio».

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    Manfredi Bosco completa uno dei suoi piatti al Pante di Madrid

    Derby al ristorante… tu sei merengue o colchonero?

    «Juventino (ride). Però dopo tanti anni mi sento anche castigliano, è una terra meravigliosa e accogliente da cui difficilmente andrei via a meno di offerte irrinunciabili. Qui c’è un detto, “Se vivi a Madrid, sei di Madrid”, ed è davvero così»

    Hai puntato sulla tradizione – non locale, tra l’altro – nel Paese che negli ultimi anni è stato più all’avanguardia nel mondo della cucina. La tentazione di seguire quel filone non l’hai mai avuta?

    «Sinceramente no. Ho un immenso rispetto per cuochi come David Muñoz e per il successo del suo ristorante al World’s 50 Best Restaurant così come per l’Osteria francescana di Bottura (vincitore in precedenza del prestigioso riconoscimento, nda), ma perché so quanto abbiano lavorato duramente prima di arrivare lì, passando prima dalla ristorazione più tradizionale.
    Io però in un ristorante, anche il migliore del mondo, dove una cena dura 4 ore non andrei, non è il genere di esperienza che mi attira. La vedo così: il cliente da Manfredi Bosco viene per mangiare bene e quando va via deve pensare al piatto che gli ho servito come a quelli che gli preparavano sua mamma o sua nonna, rivivere quelle sensazioni. Non è semplice, specie in un paese straniero che non conosce davvero la tua tradizione, ma se ci riesco ho raggiunto il mio obiettivo».