Categoria: Inchieste

  • La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    La diga da 70 miliardi con la monnezza al posto dell’acqua

    Più di dieci anni di cantiere, un capitolato di spesa lievitato fino all’inverosimile e uno status di servizio breve e un po’ deprimente, prima dello svuotamento e del sostanziale abbandono in cui versa da quasi dieci anni: la storia della diga sul Lordo, invaso artificiale alle spalle di Siderno, è lunga e piena di inciampi. Pensata per soddisfare il fabbisogno irriguo della Locride e costruita – assieme alla “gemella” sul Metramo, sul versante tirrenico d’Aspromonte – dal consorzio di imprese Felovi (acronimo per Ferrocemento, Lodigiani e Vianini), la diga, di proprietà regionale ma gestita dal consorzio di bonifica dell’alto Jonio reggino, avrebbe dovuto garantire il fabbisogno d’acqua dei numerosi paesi a vocazione agricola del territorio e implementare, di molto, la capacità di acqua potabile disponibile. Ma è diventata, in attesa dell’ennesimo finanziamento, un enorme catino vuoto e desolante.

    Cancelli chiusi dopo la chiusura del 2013

    Vent’anni dopo…

    Partito nel 1983, il cantiere per la costruzione dell’invaso artificiale – i fondi li mette la Cassa del Mezzogiorno – procede a mozzichi e bocconi. Per dieci anni ingloba una serie di terreni agricoli e vecchi poderi che si trovano nella piccola valle di contrada Pantaleo. Nel 1993, pochi metri alla volta, l’acqua inizia a confluire nel catino appena costruito. Arriva dal Lordo, piccola fiumara che vive praticamente solo dell’afflusso delle acque piovane. E a farle compagnia c’è quella del Torbido, grazie ad una condotta sotterranea lunga più di 9 chilometri che si collega nel comune di Grotteria, poco più a nord.

    Le operazioni di parziale riempimento e di collaudo vanno avanti per quasi 10 anni fino al raggiungimento dei 9 milioni di metri cubi di acqua che rappresentano il limite massimo a pieno regime. Dalla posa della prima pietra sono ormai trascorsi quasi 20 anni. I costi sono lievitati fino a 70 miliardi e del progetto iniziale è sparita una buona parte. Nessuno ha realizzato le condotte previste che avrebbero dovuto rifornire di acqua ad usi irrigui i paesi a nord e a sud dell’impianto. La diga si limita, per i pochi anni in cui è rimasta in esercizio, a rifornire solo le campagne di Siderno, che del territorio è il comune con meno vocazione agricola.

    L’oasi e la cattedrale

    Poco dopo la messa in esercizio dell’invaso, partono anche i lavori per la potabilizzazione delle acque che dovrebbe “ripulire” parte del carico della diga prima di ridistribuirlo nelle reti dei comuni vicini. L’impianto viene costruito proprio di fronte alla muraglia artificiale che chiude la valle, sotto uno dei viadotti della nuova 106. Finiti i lavori però, la struttura, di proprietà della Sorical, non è mai entrata in funzione. Da anni rimane inutilizzata, ennesima cattedrale nel deserto della Locride.

    indicazioni-diga

    Nonostante i mille problemi funzionali però, il nuovo lago artificiale piace. Incastrata sotto Siderno superiore, affacciata allo Jonio e circondata da una natura prepotente, la diga diventa presto uno dei posti più frequentati del comprensorio. Appassionati di trekking, pescatori, cultori del jogging e della mountain bike: le colline di questo pezzo di Calabria si popolano di turisti e cittadini e anche molte specie di uccelli migratori iniziano a fare tappa fissa sulle acque del Lordo durante le loro migrazioni da e verso l’Africa. Le associazioni cittadine più volte avevano lanciato la proposta dell’istituzione di una oasi naturalistica – anche nel tentativo di fermare i cacciatori di frodo che degli stormi di uccelli migratori che facevano tappa a Siderno ne avevano fatto la propria personale riserva di caccia – senza però ottenere alcun risultato.

    Danni alla diga, svuotare tutto

    I problemi veri però, iniziano nel 2013. I tecnici del consorzio che curano la funzionalità della diga si accorgono infatti di una serie di crepe nella struttura in cemento armato del pozzo dentro cui è ospitata la camera di manovra per le paratie che regolano il deflusso delle acque dalla diga. Inizialmente si pensa ad un danno superficiale ma le cose peggiorano in fretta e, poco meno di un anno dopo, in seguito ad un ispezione dei tecnici del Ministero, si decide per il progressivo svuotamento dell’invaso che viene portato al 70% della capacità massima.

    diga-svuotata
    L’invaso svuotato dopo la scoperta dei problemi per il cemento armato

    Gli ingegneri si accorgono infatti che le crepe nel cemento sono il frutto di un movimento franoso (traslazione, in termini tecnici) che interessa il costone destro dell’impianto, quello posto sotto il versante dell’antico borgo collinare di Siderno. Movimento di cui nessuno, né durante la fase di costruzione, né durante quella di collaudo e di messa in esercizio si era accorto prima. Il rischio è serio, la decisione inevitabile: se il pozzo crolla, i comandi per muovere le paratie (e quindi regolare il livello dell’acqua contenuta nella diga) diventano irraggiungibili, l’unica strada è quella di svuotare tutto. In pochissimo tempo, quella che era diventata un’oasi nel cuore della Locride, diventa terreno di conquista per discariche abusive e pascoli altrettanto illeciti.

    Un nuovo progetto per la diga

    Questa situazione si trascina da anni e si è incastrata anche con le guerre intestine all’interno del Consorzio di bonifica, retto oggi da un commissario – l’ex sindaco di Sant’Ilario, Pasquale Brizzi – nominato dall’allora presidente Oliverio e in gara per il rinnovo delle cariche previste a giorni. Ma potrebbe sbloccarsi grazie a un nuovo progetto di intervento attualmente al vaglio del Ministero per la fase esecutiva dello stesso. Vale 9,27 milioni di euro, già finanziati dal fondo Coesione e Sviluppo e approvati con delibera del Cipe, e prevede il consolidamento del costone e la ricostruzione del pozzo con la camera di manovra.

    L’invaso oggi

    La progettazione dell’intervento è andata a bando per oltre 600 mila euro ed è stata vinta dallo studio Di Giuseppe con un ribasso – unico discriminante previsto dal bando – di circa il 60%. Burocrazia permettendo – l’intero progetto potrebbe passare sotto l’ala del Pnnr, pappandosi così quasi un terzo dei finanziamenti previsti nel comparto idrico per la Calabria e strappando altri sei mesi alla scadenza massima, per non perdere i fondi già stanziati, a metà 2023 – la diga potrebbe essere rimessa in funzione entro il 2026. Sempre se, nel frattempo, l’invaso che per un breve tempo era stato un’oasi, non continui a riempirsi con spazzatura e scarti di cantiere.

  • Presi per il Cud: l’Unical del futuro sognava in vhs però andò a picco come il Titanic

    Presi per il Cud: l’Unical del futuro sognava in vhs però andò a picco come il Titanic

    C’è stata una stagione, ormai lontana e inesorabilmente perduta, in cui la Calabria sembrava avere avuto lo sguardo proiettato verso il futuro. Era la prima metà degli anni Ottanta e qui nasceva un’idea che sarebbe stata potentemente pionieristica nel panorama nazionale, quella di dare vita ad una università a distanza. Si chiamava Cud. Una sfida straordinaria per una regione con lo stigma di una terra perennemente in ritardo sulla modernità, ancorata all’immagine di una arretratezza endemica.

    La prima università a distanza d’Italia

    Mentre il modello di sviluppo classico fondato sulla fabbrica andava in frantumi ovunque senza essere mai stato davvero applicato nel meridione, con straordinaria lungimiranza in Calabria c’era chi pensava di fare un salto in un futuro che era stato esplorato in alcuni paesi, come l’Inghilterra e l’Australia, ma era sconosciuto in Italia. La prima università a distanza del Paese nasceva sulle colline di Arcavacata.

    cud-unical-i-calabresi
    L’Università della Calabria

    C’erano pure la Sapienza, Olivetti, Ibm e Telecom

    Tutto ha origine dal Dpr 382 del 1980, che autorizzava “le università italiane ad unirsi in consorzi ed a sperimentare forme alternative a quelle tradizionali per erogare i propri corsi.” E nell’84 arrivò il Cud, consorzio università a distanza. Ad aderire all’idea, e dunque al consorzio, sono Università della Calabria, Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, Politecnico di Milano, Università di Bari, quella di Padova, di Siena e di Trento. Ma anche realtà private come il Consorzio per la ricerca e l’applicazione dell’informatica (Crai) e poi Olivetti, Confindustria, Ibm, Telecom Italia (ex Sip), Rai, Telespazio.

    Con questi soci il Cud doveva essere una corazzata imbattibile, invece affondò come il Titanic. Le risorse economiche, ingenti, per far partire la corazzata vennero dall’Intervento straordinario per il Mezzogiorno. Alcuni docenti Unical, come Sergio De Julio (che divenne successivamente deputato dell’allora Pci), Ivar Massabò e Franco Lata (tutti provenienti dall’esperienza Crai) presentarono il progetto.

    Il guru australiano

    Era una idea dell’altro mondo. E, infatti, a guidare i primi passi di quell’avventura chiamarono uno che stava dall’altra parte del mondo: si chiamava Desmond Keegan ed era australiano. Era il massimo pioniere dell’educazione a distanza, impegnato nello studio dell’uso delle tecnologie applicate all’insegnamento e sulle strategie necessarie per aumentare l’equità di accesso. L’australiano venne in Calabria, ma tornò presto nella terra dei canguri, forse perché aveva capito che quell’idea bellissima qui aveva una cattiva sorte.

    Cud-desmond-Keegan-i-calabresi
    “Principi di istruzione a distanza” è il titolo italiano del libro di Keegan

    Cud, dieci anni finiti male

    Il Cud resistette poco più di dieci anni ma gli ultimi furono parecchio travagliati, tra mobilità e cassa integrazione del personale. Una fine annunciata causata dalla ferocia predatoria della classe politica, ma non solo. Eppure la vocazione all’educazione a distanza era nei geni dell’Unical, che era posta fisicamente sulle colline di Rende, ma aveva l’ambizione di essere università regionale e di raggiungere quindi tutti gli studenti calabresi, anche quelli che non avrebbero trovato posto nel campus.

    Timidi inizi di multimedialità

    Una idea di decentramento educativo in un tempo in cui ancora il web non esisteva, si basava sulla costruzione di programmi didattici veicolati su videocassette. «C’erano centri di studio, luoghi posti in aree urbane strategiche nella regione, dove gli studenti avrebbero potuto accedere al materiale e studiare le lezioni confezionate nella sede del Cud», racconta Massimo Celani, uno dei primissimi protagonisti di quella storia. Proveniva da una esperienza di programmista Rai e dunque con altri padroneggiava le tecniche del linguaggio video, indispensabili per costruire le lezioni multimediali. Celani, assieme ai primi professionisti formati in quella fase iniziale, costituiva la schiera di “redattori”, o “metodologi dell’insegnamento”. Così venivano chiamate le prime professionalità impiegate nel Cud. «Non si trattava di video lezioni frontali – prosegue Celani – ma di programmi strutturati, con un senso narrativo, al cui interno già emergeva una qualche forma di multimedialità».

    Adesso sembra preistoria: una videocassetta degli anni Ottanta

    La Calabria che voleva modernizzarsi

    L’idea ambiziosa è quella di far diventare la formazione a distanza una forma concreta di alternativa all’università tradizionale. Il Cud cresce dentro un contesto in cui i fermenti intellettuali e imprenditoriali sono molto vivaci. È una delle aziende più innovative, assieme al Crai e a Intersiel. La Calabria con queste aziende partecipa come protagonista alla partita della modernità, immaginando un diverso modello di sviluppo che non è basato sull’industria o sull’agricoltura, ma sui saperi e sulla diffusione delle tecnologie. Nasceva quella che poi avremmo chiamato “lavoro cognitivo”, ma allora non lo sapevamo. I settori di intervento didattico del Cud furono all’inizio i corsi di Informatica e di Lingue. Si estesero poi alla Formazione professionale e alla formazione dei docenti delle scuole superiori di tutta Italia all’interno nel nascente Piano nazionale informatico.

    Gli appetiti della politica

    Il punto debole di quella avventura si rivelò presto la sua natura societaria. «L’essere un consorzio sembrava diluire le responsabilità, sbiadire la guida», ricorda Marina Simonetti, che nel Cud fu prima borsista, e poi progettista di formazione. Una fragilità che rendeva il Cud facile preda di conquista degli appetiti politici, che praticarono indiscriminatamente l’arte della clientela. In breve tempo, da poche decine di professionisti accuratamente selezionati, il personale si estese a più di cento impiegati, molti dei quali autisti. Inoltre un management molto esteso e assai costoso fece la sua parte nell’indebolire la vitalità del Cud.

    Cud-unical-I-Calabresi
    Marina Simonetti, prima borsista del Cud

    L’immancabile sede romana per il Cud

    Come nelle migliori avventure calabresi, fu subito acquistata una costosa e bellissima sede romana di rappresentanza, in Corso Vittorio, mentre intanto sorgevano in Italia altre esperienze di università a distanza, come per esempio Nettuno, che avevano meno pretese sul piano metodologico, ma con maggiore pragmatismo conquistavano quote di mercato. Poco per volta i vari soci si sfilarono e nel maggio del ’98 si presentò il curatore fallimentare per chiudere la baracca. Per quanti vi lavoravano cominciava la diaspora, tra università e aziende private.

    Finisce tutto con il Piano telematico

    Con la chiusura del Cud non moriva solo una opportunità, ma si consumava lo spreco di un sapere collettivo. La fine del Cud però è anche altro. È la fine di una stagione in cui complessivamente la Calabria aveva conosciuto stimoli plurali. «C’era una società vivace, capace di pensare più in là, di puntare ad un risveglio tecno scientifico», dice Emilio Viafora, sindacalista della Cgil e allora segretario del sindacato. Per lui la presenza di quella società civile, sensibile ed accogliente verso gli stimoli che venivano dall’Unical, fu l’alchimia necessaria per far nascere l’ambizione di aprire nuove frontiere.

    A condannare il Cud e tutta quella stagione furono molte cose. Viafora ricorda una scarsa attenzione verso nuovi modi di vedere gli interventi europei, facendo prevalere una logica «conservativa e assistenziale», ma anche l’inadeguatezza della classe politica del tempo. La fine giunse quasi di colpo, con l’avvio del Piano telematico e le sue immense risorse. Era stato annunciato come il più grande investimento per la modernizzazione della Calabria, sul quale si avventarono i partiti del tempo.

    Oggi si parla molto della detestata Dad, eppure nella prima metà degli anni Ottanta la Calabria aveva visto più lontano di tutti, aveva capito che le tecnologie possono costruire e diffondere saperi sofisticati. Il Cud è stato, per questa regione, un breve ed emozionante viaggio in un futuro che abbiamo fatto morire.

  • Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Amantea, l’ex regina del Tirreno dove anche la normalità sembra un miraggio

    Era una regina del Tirreno, bella e capricciosa. Dal dopoguerra ai primi anni ’80, quando Paola e Torremezzo ne presero il posto, Amantea era anche la spiaggia dei cosentini, che vi arrivavano in tre quarti d’ora attraverso la vecchia, scassatissima “via del mare”, che passa per Potame, alle pendici del Monte Cocuzzo. Ancora: Amantea, specie negli anni ’70, era piuttosto “avanti”: parrebbe che Coreca, al riguardo, vanti il primato dei primi topless, esibiti con generosità, va da sé, dalle “forastìere”.
    La mafia? C’era senz’altro, ma era poca cosa: fece giusto scalpore, il 13 maggio 1981, il triplice omicidio di Francesco Africano, Emanuele Osso e Domenico Petrungaro, avvenuto nel contesto – particolarmente tragico – della guerra tra i clan Perna-Pranno e Pino-Sena.

    Ma il grasso colava e copriva molte cose, comprese alcune forme di sviluppo urbanistico, iniziate prima della “legge Galasso” ma che dopo sarebbero state censurate, più che dagli uomini dalla natura: ci si riferisce al lungomare, costruito attorno alla vecchia “rotonda”, e all’urbanizzazione della costa nei pressi della foce del fiume Oliva e di Campora San Giovanni. Su queste opere, va detto, sarebbe piombata la vendetta del mare, nella duplice forma delle ondate e dell’erosione, che, in particolare, ha divorato un bel tratto della scogliera di Coreca.
    Ma il presente di Amantea va oltre le peggiori dietrologie. La regina, dopo essere stata detronizzata, ha le rughe.

    Le rughe della regina

    Queste rughe sanno più di malattia che di fisiologico invecchiamento. Lo rivela il decreto con cui, il 30 giugno 2021, la Presidenza della Repubblica ha deciso di prorogare su indicazione del prefetto di Cosenza, il commissariamento della cittadina tirrenica.
    Un dato colpisce in maniera particolare: insediatisi nel 2020, i commissari prefettizi erano riusciti sì e no ad approvare i rendiconti del 2016 e del 2017, relativi cioè all’ultima fase dell’amministrazione Sabatino, e si redigono tuttora i rendiconti del biennio successivo.
    I risultati di questa prima, importante attività finanziaria sono già micidiali: certificano un debito che oscilla tra i 27 e i 30 milioni di euro. Su scala, queste cifre ricordano non poco il dissesto di Cosenza. Vediamo come.

    Il municipio di Amantea
    Il municipio di Amantea

    Amantea, che ha circa 13mila e rotti abitanti, dovrebbe pareggiare il Bilancio con più o meno 12 milioni di euro. Ciò basta a far capire come il debito, gestibile o fisiologico in città più grandi, possa risultare micidiale e quindi ripiombare la città nel dissesto.
    Il problema, come per il capoluogo, è soprattutto il mancato incasso dei tributi comunali, relativi alla rete idrica, alla Tari e alla Tasi, che sfiora percentuali da capogiro, che si attestano attorno al 60%.
    Ma c’è di peggio: molti esercenti e residenti non ricevono le tasse da circa due anni e tutto lascia pensare che il default, il secondo in meno di 10 anni sia un’ipotesi quasi certa.
    Di fronte a questo disastro, la ’ndrangheta, che pure c’è e condiziona tantissimo, potrebbe non essere il male principale.

    Tutto mafia è?

    La prima emersione giudiziaria dei retroscena amanteani è nell’ordinanza di “Omnia”, la maxi operazione antimafia condotta nel 2007 dalla Dda contro i Forastefano di Cassano. Cosa curiosa per un’inchiesta gestita dai Carabinieri del Ros, il nome di Franco La Rupa, all’epoca dei fatti (2005) sindaco di Amantea, vi appare grazie a una velina della Digos, che lo tampinava da tempo: secondo i poliziotti, La Rupa trescava con Antonio Forastefano, detto “il Diavolo”, per ottenerne l’appoggio nelle Amministrative regionali a cui partecipava in quota Udeur.

    Franco La Rupa
    Franco La Rupa

    In seguito alle accuse di Omnia, La Rupa finì in galera e subì un procedimento che, tra vicende alterne, è terminato nel 2018 con la sua condanna definitiva a cui è seguita l’interdizione dai pubblici uffici e l’applicazione della sorveglianza speciale.
    I problemi di La Rupa non finiscono qui: nel 2007 l’ex sindaco finì in un altro guaio grosso, assieme a un suo ex sodale, Tommaso Signorelli, suo compagno di avventura fino al 2004. Ci si riferisce all’operazione “Nepetia”, in cui era emersa l’eccessiva vicinanza dei due amministratori al boss Tommaso Gentile.

    Per amor di verità, occorre ricordare che La Rupa e Signorelli sono risultati prosciolti dal processo Nepetia. Ma ciò non è bastato, evidentemente, al Prefetto e alla Commissione d’accesso, che menzionano i due a più riprese nella relazione inviata al ministro dell’Interno sulla base di un assunto: la loro vicinanza ai clan resterebbe comunque provata, anche a dispetto delle assoluzioni. Di più: a dispetto degli “omissis” La Rupa e Signorelli restano riconoscibilissimi, anche perché i loro nomi sono associati alle ultime elezioni amministrative, svoltesi nel 2017, in cui entrambi hanno avuto ruoli di primo piano. Signorelli come candidato sindaco e La Rupa come organizzatore della lista civica di Mario Pizzino, risultato vincitore e poi commissariato.
    Lo diciamo con tutto il garantismo possibile: quando la polvere è troppa, non la si può più nascondere.

    Il disastro che viene dal passato

    A settembre è franata una strada che collega il centro storico di Amantea alla marina. E non è stato possibile intervenire in alcun modo, anche perché il municipio era già con le pezze al sedere: sono rimasti otto funzionari, tre dei quali prossimi alla pensione e uno “a scavalco”, cioè che lavora non solo per Amantea. Il grosso dei servizi è appaltato, inoltre, a cooperative e aziende esterne e i fondi scarseggiano.
    Il grande buco finanziario emerge tra il 2016 e il 2017, quando salta la maggioranza della sindaca Monica Sabatino, sostenuta dal Pd e vicina a Enza Bruno Bossio, e il Comune finisce in commissariamento.

    Monica Sabatino
    Monica Sabatino

    La sindaca Sabatino, tra l’altro figlia dello storico ragioniere del municipio, non presenta la relazione finale del suo mandato. Ciò spiega il successivo immobilismo di Pizzino, che scarica agevolmente ogni responsabilità sui predecessori. E spiega come mai i conti di Amantea somiglino un po’ troppo a quelli dell’Asp di Reggio Calabria. Cioè risultino misteriosi e, in buona parte “orali”. Ma il disastro risulta enorme e ha più responsabili. Soprattutto, non può essere imputato alla sola Sabatino e al solo Pizzino.
    Occorre un ulteriore passo indietro. Cioè al dramma politico e alla tragedia umana di Franco Tonnara.

    Morire col tricolore

    Tonnara è il classico sindaco del “dopo”. È stato l’amministratore che si è dovuto far carico del post La Rupa. Proveniente anche lui dalla Dc, Franco Tonnara si candida nel 2006 contro una coalizione guidata dal superbig ex scudocrociato Mario Pirillo e da La Rupa. Vince ma paga dazio: nella sua giunta c’è Tommaso Signorelli, già sodale dell’ex sindaco. Come già accennato, Signorelli finisce nell’inchiesta Nepetia e il Comune subisce lo scioglimento nel 2008.

    Per fortuna dura poco: l’anno successivo Tonnara e i suoi vincono il ricorso al Consiglio di Stato e vengono reintegrati con tante scuse e un cospicuo risarcimento. La giunta Tonnara si ripresenta nel 2011 e rivince a man bassa. Ma l’ebrezza dura poco, perché il sindaco muore poco dopo di un brutto tumore allo stomaco e Amantea torna al voto nel 2014, dopo tre anni di reggenza del vicesindaco Michele Vadacchino. Vince la Sabatino e tutto il resto è storia nota. O quasi.

    Coppole e debiti

    Potrebbe essere una scena degna di un film di Cetto La Qualunque: durante la campagna elettorale del 2017, Pizzino ringrazia dal palco Franco La Rupa. La Rupa, spiega la relazione del prefetto, si sarebbe dato dato un gran da fare per organizzare la lista che porta Pizzino alla vittoria. Anzi, si è dato da fare un po’ troppo: la lista si chiama “Azzurra”, proprio come le liste che ha organizzato nei suoi anni d’oro. Ancora: nell’aiutare a compilarla, l’ex sindaco non sarebbe andato troppo per il sottile. Infatti, pende a suo carico un’inchiesta per intimidazione, in cui è rimasto coinvolto anche Marcello Socievole, un consigliere di maggioranza costretto alle dimissioni nel 2018.

    Mario Pizzino
    Mario Pizzino

    Tuttavia, questi non sono i problemi principali, perché, come si apprende ancora dalla relazione del Prefetto, il Bilancio resta un’entità virtuale e il Comune continua a non incassare. In particolare, varie aziende e cooperative non pagano i tributi. A scavare un po’ più a fondo, ci si accorge che in alcune di queste lavorano o hanno ruoli importanti persone imparentate con i boss di Amantea e altri personaggi, legati a loro volta ai clan di Lamezia e Gioia Tauro.

    Non è il caso di approfondire oltre, perché si rischia di scrivere intere pagine di storia criminale. Che però non basterebbero a spiegare perché una cittadina una volta ricca e aperta sia finita in un declino così profondo e, probabilmente, con poche vie d’uscita.
    La ex regina si prepara al voto per la prossima primavera. Ancora non è dato capire chi si sacrificherà per sanare un disastro nato in lire a fine ’90 e poi esploso in euro.
    Nel frattempo, il territorio è presidiato in continuazione dai Carabinieri ed è pieno di poliziotti in borghese. Come se non bastasse, gli elicotteri dell’Arma sorvolano di continuo la città, che sembra vivere un paradossale coprifuoco.
    Gli anni ’80 sono lontani e irrecuperabili. Ma, in queste condizioni, anche la normalità sembra un miraggio.

  • L’autismo è un pianeta ignoto per le istituzioni calabresi

    L’autismo è un pianeta ignoto per le istituzioni calabresi

    Dopo la colazione con tre biscotti della sua marca preferita e un bicchiere di latte riempito fino all’orlo, Lorenzo vorrebbe andare al cinema. Mentre suo fratello si veste per non arrivare tardi a scuola, lui rimane in pigiama sul divano a guardare cartoni animati di cui conosce a memoria ogni battuta. I suoi coetanei sono in classe e lui riempie quel tempo vuoto di richieste bizzarre, domande difficilissime e pensieri solitari, alcuni lo fanno sorridere altri lo immalinconiscono fino a farlo piangere. Lorenzo è un ragazzo autistico, di quelli che lo guardi e dici «ma sembra normale!» in una società in cui l’etichetta deve sempre accompagnare un giudizio. Lorenzo è un normalissimo ragazzo autistico ormai maggiorenne.

    Lorenzo era un genio della matematica

    A lui, nel pomeriggio, piace andare in giro. Sarebbe bello se lo facesse con i ragazzi della sua età, ma non ha amici. Soltanto suo nonno vuole uscire con lui e nonostante l’età e gli acciacchi vanno su e giù insieme, a guardare i treni che arrivano alla stazione o a leggere una per una e poi daccapo tutte le offerte esposte all’ingresso del supermercato. Lorenzo era un genio in matematica. Alle scuole elementari davanti alla porta della sua aula si formava sempre un capannello di curiosi che voleva assistere alle sue performance: risolveva le espressioni algebriche a mente, rimaneva immobile, osservava quei numeri scritti sulla lavagna e poi diceva: «50. Fa 50!». Ed era esatto, e tutti applaudivano e lui si tappava le orecchie perché Lorenzo odia il rumore degli applausi.

    Un superlativo Dustin Hoffman interpreta un autistico nel film “Rain man”
    Un ragazzone che trascorre tante ore da solo

    Poi la matematica è scivolata via, insieme alla passione per la scrittura, per la lettura delle storie, alla meticolosità nel disegno, all’amore per il pianoforte. Era un bambino pieno di talento, adesso è un ragazzone che trascorre tante, troppe ore da solo e che a scuola non ci va quasi più. Perché? Perché non è facile comunicare con lui se non si è ha ben chiaro il suo “funzionamento”, perché è cresciuto e intorno a lui sono cresciuti i limiti e le barriere mentali.

    A partire dall’asilo ha cambiato un insegnante di sostegno ogni anno, ha provato a fare equitazione, nuoto, a unirsi a gruppi di preghiera, di artigianato, di trekking, non c’è nulla che i suoi genitori non abbiano tentato per regalargli una vita sociale ma non è servito e oggi, sulla soglia dell’età adulta, a tenere compagnia a Lorenzo – oltre ai suoi familiari – ci sono solo educatori a pagamento e qualche ora di svago in un centro diurno per persone con disabilità.

    Le mille sfumature dell’autismo

    La vita di Lorenzo è come un vestito che si potrebbe incollare così com’è al volto di molti altri ragazzi autistici, perché cambiando scenario e città la situazione rimane simile. Solitudine e interminabili giornate da strutturare, famiglie sfasciate, madri e padri esausti che hanno dovuto mettere da parte tutto, spesso anche il lavoro, per dedicarsi ai loro figli. L’autismo include moltissime sfumature, ci sono persone non verbali e persone molto loquaci, ma è comune la difficoltà nelle relazioni e l’assenza quasi totale di supporto alle famiglie, con l’adolescenza e l’età adulta tutto diventa esponenzialmente più complicato.

    La felicità di stare insieme agli altri

    «Ha mai visto un ragazzo autistico che va a mangiare una pizza con gli amici?». Angela Villani, presidente dell’associazione “Il volo delle farfalle” di Reggio Calabria evita giri di parole e va dritta al punto. «I nostri figli crescono senza la gioia di condividere qualcosa con i loro coetanei. La mancanza di socialità è un grande vuoto nella loro vita. Noi genitori facciamo il possibile, chi può spende molti soldi per permettergli di fare sport o altre attività, ma c’è qualcosa che nessuno di noi può comprare: la felicità di stare insieme agli altri». E gli interrogativi di un genitore sono lame affilatissime che inchiodano la politica e le amministrazioni, a partire da quelle locali.

    Servono più figure specializzate

    «Tutte le vite sono uguali? E allora perché i nostri figli devono rimanere isolati? Questa è la peggiore delle discriminazioni». C’è una soluzione? «La politica regionale deve investire sul capitale umano, deve farsi interprete dei bisogni di chi non ha voce. I ragazzi autistici desiderano stare con gli altri, ma hanno certamente bisogno di “mediatori” che li aiutino a rapportarsi nella maniera corretta, per questo c’è bisogno in tutti gli ambienti sociali di figure specializzate che creino la base per costruire i rapporti».

    Il futuro di un figlio

    Una prospettiva che per un attimo illumina lo sguardo, ma l’ottimismo è un lampo negli occhi di questi genitori. «Come vedo il futuro di mio figlio? Non riesco a vederlo – sospira Villani -. Dobbiamo lottare per il diritto alle cure, abbiamo appena vinto una battaglia per avere il rimborso dei soldi per le terapie. Siamo ancora a questo punto, come potrei riuscire a vedere oltre?». E invece guardare oltre è necessario, lo sostiene Enrico Mignolo dell’associazione “Io Autentico” di Vibo Valentia. «Per i nostri figli dobbiamo pretendere molto di più dei centri diurni, di strutture in cui fare terapia. I contesti esclusivi sono escludenti, dobbiamo invece educare i nostri contesti ad accogliere i ragazzi con autismo, solo così avremo un cambiamento reale e una prospettiva diversa e duratura».

    Le attività di Io autentico prevedono forme di socializzazione legate anche al lavoro
    Costretti a mettersi in gioco

    Io Autentico ha avviato un progetto che mette in pratica tutto questo, si chiama “Aut Out” e coinvolge ragazzi con autismo e a sviluppo tipico che, divisi in piccoli gruppi, svolgono attività di vario tipo. Per esempio durante le feste natalizie hanno confezionato panettoni e li hanno consegnati a domicilio.

    «Abbiamo buttato questi ragazzi fuori di casa – sorride Mignolo – e li abbiamo costretti a mettersi in gioco per conquistare autonomie personali e autonomie sociali che sono indispensabili per il loro futuro. Non è stato facile, lo abbiamo fatto a nostre spese, ci sono stati e ci saranno momenti complicati, ma abbiamo ottenuto grandissimi risultati. Prima venivano visti come “gli autistici”, quelli strani. Adesso abbiamo educato il contesto, lo abbiamo abituato alla nostra presenza e a non mostrarsi diffidente. Domani potremmo abituarli a vedere i nostri figli nella sala di un ristorante sparecchiare i tavoli o lavorare in altri settori in cui si possano sentire a loro agio».

    Il contesto crea la disabilità

    Una buona pratica da replicare, ma il primo obiettivo deve essere «un cambio di paradigma» dice Paola Giuliani, componente del comitato “Uniti per l’autismo Calabria” che racchiude tutte le associazioni di famiglie di bambini e ragazzi con autismo. «I nostri figli non devono restare chiusi in casa e l’alternativa non possono essere soltanto i centri diurni. Questi ragazzi hanno il diritto di vivere nei contesti in cui vivono i loro coetanei, di fare quello che fanno i loro coetanei, ovviamente affiancati da persone formate, educatori. Simone, mio figlio, non è un problema. Il problema semmai è il contesto che non lo accoglie e non lo include: è il contesto che crea la disabilità. Chi come me è madre di un ragazzo che ha superato i 18 anni sa che quando si oltrepassa questa tappa tutto diventa ulteriormente complicato».

    Le mamme rinunciano a lavorare, a vivere

    «Con un figlio adulto perdi la forza, le energie, la speranza  – continua Paola Giuliani – che qualcosa possa ancora cambiare, sopraggiunge la rassegnazione. Spesso le scuole superiori non sono attrezzate e pronte, non hanno personale specializzato e allora inducono all’abbandono scolastico, ti privano di fatto del diritto allo studio. Rinunciare alla scuola significa ritrovarsi ad avere una giornata vuota e sappiamo tutti quanto è importante per le persone autistiche strutturare i tempi perché altrimenti l’ansia e la frustrazione prendono il sopravvento».

    Tutto questo ha una ricaduta sulle famiglie che da sole si trovano a dover gestire ogni difficoltà. E allora? «E allora le mamme – quasi sempre loro – rinunciano a lavorare, a uscire, a vivere. L’unico appiglio è pagare un educatore che per qualche ora può darti respiro e consentirti di andare a fare la spesa o una piega dal parrucchiere. È inutile parlare del “dopo di noi”, parliamo del “durante”, parliamo di quello che si può fare per migliorare la qualità della vita dei nostri figli e quindi la nostra».

    Siamo indietro culturalmente

    Il territorio regionale è un deserto, conferma Alfonso Ciriaco dell’associazione “Oltre l’autismo” di Catanzaro. «Gli unici svaghi non possono essere logopedia e psicomotricità per i ragazzi autistici. Mancano le opportunità di socializzazione, ma soprattutto siamo indietro culturalmente, l’autismo è un pianeta sconosciuto e anche le amministrazioni comunali, nonostante la buona volontà, non conoscono le esigenze delle famiglie».

    Certi momenti la desolazione è devastante

    Bisogna sempre mettere insieme tutta la forza di cui si è capaci e continuare a lottare per garantire una qualità della vita dignitosa ai propri figli, lo sa bene Simona Laprovitera dell’associazione “Dimmi A” di Scalea. «Mio figlio Biagio ha 19 anni ed è un ragazzo molto sociale. Gli piace tanto stare insieme agli altri, ma c’è un problema: non ha coetanei con cui possa uscire e trascorrere del tempo. E quindi… io pago per garantirgli questa piccola felicità. In alcuni momenti la desolazione è devastante, noi genitori dobbiamo farci carico di tutto e augurarci di stare bene per continuare a farlo».

    autismo-i-calabresi
    I palloncini blu, simbolo della giornata della consapevolezza sull’autismo

    Ma lamentarsi non serve, bisogna anche essere propositivi. Pensare ad esempio di coinvolgere attività commerciali, aziende, cooperative, onlus affinché mettano a disposizione piccole opportunità di formazione e occupazione, sulla scorta di esperimenti che in altre parti d’Italia stanno funzionando, come ad esempio il progetto I Bambini delle fate (www.ibambinidellefate.it).

    Valorizzare le abilità di questi ragazzi

    «Biagio frequenta l’Istituto alberghiero – spiega Laprovitera – in estate dà una mano nel nostro piccolo albergo, si occupa di apparecchiare i tavoli per la colazione e per il pranzo. Piccole conquiste di autonomia che potrebbero essere un giorno la base di un’occupazione che gli consenta di vivere dignitosamente». Simona ha le idee chiare su come procedere, per suo figlio e per tutti gli altri: «Bisogna individuare le abilità di questi ragazzi e insistere su quelle per costruirci intorno un lavoro. È su questo che è necessario impegnarsi e investire. Sappiamo tutti quanto i ragazzi con autismo abbiano un’eccellente memoria, siano metodici e precisi. Questi sono punti di forza da sfruttare. Quante biblioteche ci sono, anche nelle scuole, che devono essere riordinate? Ecco si potrebbe pensare a microprogetti che coinvolgano i nostri ragazzi. Farebbero un ottimo lavoro e si sentirebbero utili e integrati».

    Il cinismo della burocrazia

    Sembra fattibile, ma questi genitori conoscono bene il cinismo della burocrazia che smorza ogni entusiasmo. «Chiedere è sfiancante, lottare per affermare i diritti è logorante, come biasimare quelle madri e quei padri che a un certo punto alzano le braccia, si arrendono. Ogni genitore vuole il meglio per suo figlio, a prescindere dalla personalità o dai suoi limiti. E allora perché noi dovremmo accontentarci di dar loro solo delle briciole?».

  • Platì punta sul turismo: i bunker delle ‘ndrine trasformati in musei

    Platì punta sul turismo: i bunker delle ‘ndrine trasformati in musei

    Trasformare i bunker in sale espositive, riconvertendo i cunicoli del malaffare scavati nel ventre del paese in moderne “passeggiate” sotterranee aperte ad «arte ottica e concettuale, folklore, sistemi con pannelli e mostre». Un progetto che il comune di Platì intende portare avanti – al costo di oltre due milioni di euro – per provare a dare nuova (e diversa) vita al sistema di capillari collegamenti criminali scavati nella roccia in quasi mezzo secolo per nascondere latitanti, prigionieri, droga e armi. Un “controcanto” che il piccolo centro – poche migliaia di abitanti sul versante jonico d’Aspromonte – vorrebbe intonare per mostrare il volto ripulito di una cittadina che, suo malgrado, è considerata da sempre come una della capitali storiche della ‘ndrangheta.

    Contrastare il binomio Platì-criminalità

    Un progetto dai tratti vagamenti bipolari, nato per smarcarsi da una nomea pesantissima e che non manca di cedere alla retorica un po’ vittimistica di tv, giornali e social che «le hanno riccamente documentate, spesso in maniera malevola con intenti di criminalizzazione generalizzata della popolazione» in una narrazione «folkloristica che contribuisce a infangare l’intera comunità». Da una parte vuole contrastare il binomio Platì uguale mafia. Dall’altra intende portare i turisti proprio in quello che a lungo è stato il regno sommerso di alcune delle più influenti famiglie di narcos a livello globale.

    bunker-ndrangheta-i-calabresi
    L’effige della Madonna di Polsi in un bunker della ‘ndrangheta a Platì
    La città nascosta

    E d’altronde erano state proprio le cosche platiesi a costruire la città sotto la città. Gallerie, cunicoli, bunker e stanze nascoste che i boss, in anticipo di un ventennio sulle gallerie scoperte al confine tra Messico e Stati Uniti, avevano commissionato per i propri intenti criminali. E che squadre di “bunkeristi” specializzati avevano realizzato collegando le nuove strutture a vecchi scarichi fognari e grotte naturali per un reticolo imponente di nascondigli e vie di fuga che a lungo avevano protetto i segreti del crimine organizzato locale.

    Era il marzo del 2010 quando i carabinieri del gruppo di Locri durante una retata si erano imbattuti nella “catacombe” platiesi. Perquisendo un garage nella disponibilità del clan Trimboli, i militari avevano scovato un portello automatizzato e ben mimetizzato tra calcinacci e vecchi mobili. Dietro si nascondeva l’ingresso al “sottosopra” criminale platiese. Un mondo al contrario che le cosche avevano fatto scavare negli anni e che, grazie al lavoro mastodontico di una serie di operai “specializzati”, aveva sostituito le precedenti gallerie (meno sofisticate) scoperte nel 2003.

    bunker-platì-i-calabresi
    Opere di carpenteria nei bunker di Platì
    Ingegneria mineraria al soldo dei clan

    Gli investigatori, che a lungo tennero riservata la notizia del rinvenimento, si trovarono di fronte ad una vera e propria opera di ingegneria mineraria. Dal piccolo box nel cuore del paese vecchio infatti, partiva una galleria lunga più di 200 metri costruita 8 metri sotto il livello del suolo e larga poco meno di un metro. Dotata di un moderno impianto di aerazione che consentiva il continuo ricambio dell’aria e di un funzionale impianto di luci al neon, la galleria collegava diversi bunker, a loro volta infrattati nelle intercapedini nascoste delle case dei boss, per un sistema quasi perfetto di mimetizzazione. Grazie ad esso capi e gregari delle cosche – che, come da tradizione mafiosa, difficilmente si allontanano dal proprio feudo d’appartenenza – erano rimasti a lungo al sicuro.

    Fuori case senza intonaco, dentro rubinetti d’oro

    E così, attorno alle case cadenti del centro storico, le magioni dei mammasantissima – nudo intonaco fuori, rubinetti d’oro nei bagni e mobilio d’ebano nel tinello –erano state dotate, tra picchi d’ingegneria mineraria e folkloristiche immagini della Madonna di Polsi lasciate a presidiare il territorio, di un sistema “arterioso” artificiale che poteva essere usato di volta in volta dalle primule rosse del malaffare della montagna. Un mondo al contrario che, scavato sotto i ruderi di un paese in rovina e stritolato dallo strapotere dei clan di ‘ndrangheta, oggi vuole essere riconvertito in un’operazione “acchiappaturisti” dal retrogusto amaro.

    Militari davanti a un'abitazione di Platì
    Militari davanti a un’abitazione di Platì
    Vita da topi

    E se le “catacombe” di Platì rappresentano, probabilmente, un unicum dell’ingegneria votata al malaffare, i bunker dentro cui si rintanano i pezzi da novanta del crimine organizzato calabrese sono invece una presenza costante in tutto il territorio reggino. Anche perché una delle regole non scritte del crimine organizzato, prevede che un capo, anche se braccato, non si allontani mai troppo dal proprio territorio di “competenza”. E così, nascosti dietro finte pareti, occultati dietro porte scorrevoli e botole meccaniche, i nascondigli dei boss sono sempre più sofisticati e costruiti con tutte le comodità dettate dai tempi moderni, per consentire un soggiorno degno del blasone di chi lo ha commissionato.

    Il “bilocale” di Ciccio Testuni a Rosarno

    Come nel caso del mini appartamento che Francesco Pesce, alias Ciccio Testuni, si era fatto costruire proprio sotto un deposito giudiziale nelle campagne di Rosarno. Braccato dalle forze dell’ordine in seguito all’operazione All Inside, l’allora reggente del potentissimo clan della Piana, si era “sistemato” in un bilocale sotterraneo di circa 40 metri quadri costruito di nascosto da veri esperti del settore. Tv satellitari, impianto di video sorveglianza esterno, collegamento internet e consolle per videogiochi: nella residenza nascosta di Pesce, i carabinieri del Ros (che la mattina del ritrovamento si presentarono al cancello della Demolsud con ruspe e scavatori meccanici) trovarono tutto l’occorrente per trascorrere una latitanza tranquilla.

    Militari nelle gallerie sotterranee dei clan a Platì
    I muratori specializzati nei bunker

    Una tradizione, quella dei bunker, che coinvolge praticamente tutte le cosche criminali del territorio e che ha creato, paradossalmente, operai specializzati che le stesse cosche si contendono: «Ricordo – aveva raccontato agli inquirenti la collaboratrice di giustizia Giusy Pesce, che di Ciccio Testuni è prima cugina – di avere più volte visto un muratore di Rosarno, uscire dalla casa abbandonata di mia nonna. Era sempre vestito con una tuta da lavoro e mio padre mi spiegò che l’operaio stava ristrutturando per conto suo un vecchio bunker nascosto nella casa».

  • Sibari, la Storia sommersa: il Parco archeologico tra allagamenti e speranze

    Sibari, la Storia sommersa: il Parco archeologico tra allagamenti e speranze

    I soldi per il Parco archeologico di Sibari c’erano, ma nessuno li ha usati. E così il progetto di rendere fruibili i suoi tesori dopo il tramonto ha fatto un buco nell’acqua, che in zona di problemi continua a darne parecchi. «È una storia tristissima», commenta l’economista Fabrizio Barca. Durante l’allagamento del 2013 da ministro della Coesione territoriale si era speso per salvare il sito e il Comune di Cassano Jonio di recente gli ha conferito la cittadinanza onoraria proprio per questo. Nell’occasione si è tornati a parlare del fallimento del progetto Sibari di notte, promosso proprio da Barca.

    Fabrizio Barca riceva dal sindaco Papasso la cittadinanza onoraria a Cassano Jonio
    Fabrizio Barca riceve dal sindaco Papasso la cittadinanza onoraria a Cassano Jonio
    I soldi restituiti

    L’idea era di valorizzare il parco del Cavallo, l’unica area visitabile del sito archeologico di Cassano Jonio. Il Ministero dei Beni culturali (che lo gestisce) siglò un accordo con la fondazione Con il Sud, presieduta da Carlo Borgomeo. Il progetto prevedeva la ricostruzione virtuale – attraverso fondi privati e mediante l’ausilio di strumenti multimediali – di particolari delle strutture dell’antica polis della Magna Grecia. Barca e Borgomeo hanno criticato aspramente il Governo sostenendo che ormai i soldi sono stati riconsegnati agli investitori. Non è possibile visionare il progetto, ma abbiamo contattato l’ex ministro per avere un suo commento.

    «La valorizzazione notturna di Sibari – dice – è fallita negli anni passati. L’idea nasce nel 2013 sull’onda del disastro, per rilanciare il parco e non per tamponare. Si concretizza con una disponibilità straordinaria dell’imprenditoria locale e l’apertura del ministero. Sei mesi fa, però, abbiamo preso atto del fallimento e durante il conferimento della cittadinanza il consiglio comunale di Cassano, dalla maggioranza all’opposizione, con grande unità è tornato in quella sede a esprimere la speranza che si possa riprendere l’itinerario. Insieme a Patrizia Piergentili, membro attivo nel progetto, abbiamo retrocesso con enormi difficoltà le donazioni che un gruppo di imprenditori del territorio aveva fatto ed erano rimaste lì in attesa del via. Le difficoltà precedono l’autonomia data dal ministero a Sibari – conclude Barca – e la domanda da farsi è: ora ci sono le condizioni per superare queste criticità?».

    L’autonomia

    L’autonomia a cui fa riferimento l’economista riguarda la scelta del ministero della Cultura di inserire nel 2019 anche il Parco archeologico della Sibaritide – comprensivo del vicino museo e di Amendolara – tra gli enti autonomi. Significa affidargli la gestione degli incassi e l’opportunità di appaltare lavori e servizi, a differenza degli altri musei statali. Per rendere operativo il parco archeologico, inoltre, il ministero ha inserito Sibari nell’elenco dei “Grandi progetti beni culturali” stanziando tre milioni di euro nel bilancio preventivo di quest’anno. Altri importanti finanziamenti sarebbero in arrivo.

    È approdato un nuovo direttore, Filippo Demma, e il museo della Sibaritide ha aperto nuove sale multimediali in edifici mai entrati in funzione. È in corso la riorganizzazione degli spazi espositivi e, prima di sbarcare per la prima volta alla Borsa del turismo a Paestum, è stato il turno di darsi una più moderna identità visiva con logo e sito web. Lo scorso aprile i carabinieri del nucleo Tpc agli ordini di Bartolo Taglietti hanno consegnato qui oltre 600 monete recuperate con attività investigative per restituirle alla collettività in un allestimento museale. Secondo il sindaco di Cassano, Gianni Papasso, questi sono «passi in avanti rispetto all’immobilismo degli ultimi anni».

    Gli allagamenti continuano

    Ma se è fallito così miseramente Sibari di notte, è invece visitabile il parco archeologico di giorno? L’acqua minaccia lo spazio aperto al pubblico – tanto da renderlo pericoloso – e le altre zone non accessibili ai visitatori, fino a lambire lo stesso museo che è fornito di pompe per risucchiarla. «Nonostante sia fallito prima del mio arrivo qui – afferma Demma sul progetto di Barca – lo considero importantissimo per la valorizzazione e per il coinvolgimento di artisti internazionali. Ho anche intenzione di riprendere questo piano e ne ho parlato proprio con lui qui a Cassano. Il punto è questo: come faccio ad autorizzare investimenti privati se ora abbiamo il sito completamente allagato perché le pompe per l’aspirazione dell’acqua sono di 50 anni fa e le trincee drenanti non sono mai state fatte?».

    I vigili del fuoco in azione dopo l’alluvione del 2013
    La golena e la falda

    Nel report presentato dopo l’alluvione del 2013 al Senato il sindaco Papasso parlava della presenza di coltivazioni non autorizzate nella golena del fiume che hanno ostacolato il deflusso dell’onda di piena. E il Comune, infatti, ha ordinato l’eradicazione di un agrumeto di un privato. Poi ricorso al Tar e la palla passa nel 2014 per competenza al Tribunale superiore delle acque pubbliche. Barca ricorda che nel 2013, quando era a Cassano per l’allagamento del sito, era palese una situazione di utilizzo non appropriato dei terreni in quell’area. «Da quanto ne so, il decreto di rimozione del famoso agrumeto è diventato efficace solo ora».

    Gli scavi allagati
    Gli scavi sommersi dall’acqua del Crati nel 2013

    «Il problema ora non è il Crati – sostiene Demma – ma riguarda la falda acquifera tra il fiume e il canale degli Stombi. Bisogna canalizzare quest’acqua prima che arrivi sotto il parco. Vuole sapere cosa sto facendo intanto? È in atto un intervento per sostituire il sistema di pompe well-point per l’aspirazione dell’acqua nel parco del Cavallo in modo da tenerlo asciutto e in sicurezza. Poi, grazie al Pnrr, si vuole mettere in sicurezza anche il museo, che pure soffre questi problemi di allagamento, e il resto dell’area archeologica: Casa Bianca e il cosiddetto “prolungamento”». «È necessario notare – afferma l’archeologa Maria Teresa Iannelli – che i livelli più antichi dell’arcaica Sybaris e della più recente Thurii, tranne poche eccezioni non sono visibili. L’area fruibile al pubblico è relativa all’ultima e più recente fase di occupazione del sito, cioè quella della città romana di Copia».

    Non solo acqua

    In autunno perlomeno la golena del Crati non ha dato preoccupazioni, ma problemi di altro genere non sembrano mancare. Una struttura ricettiva a Casa Bianca è stata spogliata di infissi e quadri elettrici e quest’estate un deposito (non utilizzato) è andato a fuoco. «Intimidazioni inaccettabili», secondo le deputate del Movimento 5 stelle Anna Laura Orrico ed Elisa Scutellà. E lo stesso Demma raccontava soltanto qualche mese fa a Maurizio Molinari sulle pagine di Repubblica che «la polizia ha documentato come si pratichi prostituzione anche in casotti e ricoveri di fortuna all’interno di zone archeologiche»

    Il deposito incendiato nell'estate 2021
    Il deposito a fuoco nell’estate 2021
    Orario ridotto

    La pianta organica del parco archeologico di Sibari, poi, prevede 48 tra vigilanti, amministrativi e archeologi. In servizio però ce ne sarebbe solo un terzo. E anche i tirocinanti della Regione non hanno rassicurazioni per un eventuale rinnovo di contratto nel 2022. «I 23 tirocinanti, impegnati diverse ore a settimana, ci consentono di tenere aperti il parco e i musei. Senza di loro da gennaio dovrò contrarre l’orario di visita», lamentava Demma quando lo abbiamo sentito. Passato il weekend di Capodanno, la conferma con un lungo e sconsolato post su Facebook: niente proroga ai contratti da parte della Regione, ora tocca a Roma rimediare. Nel frattempo, orari ridotti per carenza di personale. «Siamo sicuri – scrive Demma – che il Ministero della Funzione Pubblica porterà rapidamente a termine le procedure e potremo festeggiare anche il rientro degli ex-tirocinanti insieme al nuovo ampliamento delle aperture. Ma purtroppo non è questo il momento».

    I dati sugli ingressi del 2019 nei musei statali in Calabria

     

    Già prima della pandemia, in base ai dati ufficiali, non si rischiavano assembramenti di turisti. Il flusso in entrata nel 2019, in attesa dei numeri sul 2021, parla di 13 mila ingressi. Corrispondono al 3,4% del totale delle persone che nello stesso anno hanno visitato musei, castelli e siti archeologici gestiti dallo Stato in Calabria.
    Per crescere come merita al parco archeologico servono maggiore attenzione e un interesse concreto delle istituzioni. Il grande progetto per Cassano Jonio prenderà vita grazie all’autonomia o sarà il bis di “Sibari di notte”?

  • Circo o intrigo internazionale? Se il Cosenza piace ad oligarchi e mafia dell’Est

    Circo o intrigo internazionale? Se il Cosenza piace ad oligarchi e mafia dell’Est

    Il magnate uzbeko e la società londinese, il giornalista spagnolo e il faccendiere italiano: sembra una storiella di quando eravamo bambini e invece sono (alcuni) dei presunti protagonisti che dalla notte prima della vigilia di Natale rimbalzano tra i muri di Cosenza, raccontando dell’interesse di un potente oligarca nei confronti della squadra di calcio della città, da anni nelle mani del “re dei rifiuti”, Eugenio Guarascio. Una storia urlata da un piccolo sito sportivo napoletano e lievitata piano piano, rimbalzando sui social e sui media tradizionali fino ad arrivare sulla scrivania del patron rossoblu, che ha bollato tutto sotto la voce boutade.

    Una storia che mischia nomi altisonanti, personaggi più che chiacchierati e funambolici appalti per “l’allargamento” del porto di Gioia Tauro o il waterfront di Lamezia. In attesa che le ruspe uzbeke spianino San Ferdinando per fare posto all’allargamento dello scalo, la storia della vendita del Cosenza, giorno dopo giorno, si arricchisce di nuovi improbabili elementi, in un caravanserraglio felliniano dove ormai mancano solo Gradisca e Saraghina.

    https://www.youtube.com/watch?v=KkG-5Icd-zs

    L’oligarca

    In questa spystory dai contorni un po’ pecorecci, il ruolo da assoluto protagonista spetterebbe a Alisher Usmanov, quasi settantenne oligarca di origine uzbeka con un patrimonio stimato di 17 miliardi di dollari e un passato recente in club che hanno fatto la storia del football come l’Arsenal. Emerso da una prigione sovietica dopo sei anni di condanna (poi cancellata dal governo Putin), Usmanov si ritaglia un posto al sole con il nuovo regime.

    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin
    Alisher Usmanov insieme a Vladimir Putin

    Dirigente di primo piano di Gazprom, magnate dell’industria, alfiere della scherma e filantropo, Usmanov è stato a lungo sotto i riflettori dei media inglesi per le sue condotte più che spregiudicate negli affari, finendo anche sul taccuino dell’ex presidente Trump, a cui l’ala più oltranzista dei repubblicani si era appellata per ottenerne la messa all’indice. Famoso per avere un pessimo rapporto con la stampa non allineata, Usmanov avrebbe messo sul piatto 12 milioni di euro in tre tranche per ottenere il controllo del 90% del Cosenza Calcio.

    L’ufficio stampa del gruppo del magnate uzbeko, però, ha tenuto a precisare con un’email alla nostra redazione che «le informazioni che indicavano Alisher Usmanov come possibile acquirente del club del calcio italiano Cosenza non corrispondono alla realtà. Il signor Usmanov non prende in considerazione né l’acquisto del club specificato, né di un altro club in Italia».

    Calcio moderno

    Partner di questa trattativa, ad andare dietro alle mille voci di questa strana vicenda, sarebbe la Devetia Limited, esempio paradigmatico della nuclearizzazione del calcio moderno. La società in questione, con base a Odessa, fu protagonista, in partnership con la inglese Media Sport Investment, della scalata al Corinthians, antica roccaforte brasiliana della “democratia” cantata da Socrates (l’ex stella della Selecao e leader anarchico della Fiorentina di prima anni ’80), e finita suo malgrado a vendersi e ricomprarsi giocatori che restavano di proprietà di Devetia e Msi.

    Le future stelle Carlos Tevez e Javier Mascherano passano dal Corinthians al West Ham United: è il primo grande (e sospetto) affare della Msi nel mondo del calcio
    Le future stelle Carlos Tevez e Javier Mascherano passano dal Corinthians al West Ham United: è il primo grande (e discusso) affare della Msi nel mondo del calcio

    A rappresentare questa oscura società di intermediazione calcistica ci sarebbe poi – così racconta lo screenshot di una presunta pec inviata al rappresentante del Cosenza per confermare l’interessamento all’acquisto da parte del magnate Usmanov – l’avvocato Roberto Rodríguez Casas: già protagonista nelle tormentate trattative per il passaggio di mano di Malaga e Real Murcia ad altrettanti miliardari dell’est, il legale spagnolo è una vecchia conoscenza della giustizia iberica.

    Nel 2011 finì agli arresti in una storia di riciclaggio di denaro proveniente dal business della droga sulle piazze della movida madrilena. Secondo gli investigatori sarebbe stato lui – difensore dell’uomo considerato a capo della mafia bulgara nella capitale spagnola –  il punto di contatto con uno dei boss del narcotraffico.

    La lettera di Rdriguez Casas che attesterebbe la veridicità della trattativa
    La lettera di Rodríguez Casas che attesterebbe la veridicità della trattativa
    Il circo

    A confondere le acque ci sono poi una serie di link che da qualche giorno girano tra i cronisti di mezza Calabria. Vecchi articoli online in cui si parla di Guarascio come partner della Devetia con cui sarebbe in affari già dal 2014, oscuri blog spagnoli in cui si riferisce di un fantomatico processo a Odessa contro Campisano e Guarascio, del quale la magistratura locale avrebbe chiesto l’estradizione all’autorità giudiziaria italiana.

    Il blog spagnolo che parla dei presunti legami in Brasile tra Guarascio e gli ipotetici acquirenti del Cosenza
    Il blog spagnolo che parla dei presunti legami in Brasile datati 2014 tra Guarascio e gli ipotetici acquirenti del Cosenza: il dettaglio sul presidente del Cosenza, però, da una verifica alla cache sarebbe stato aggiunto solo di recente al post

    Secondo quanto si legge nei resoconti firmati con il nome del giornalista televisivo madrileno Ramon Fuentes – che sui social informa i suoi follower ogni volta che si soffia il naso e che retwitta compulsivamente ogni suo pezzo, meno, ovviamente, quelli che parlano di Guarascio e del Cosenza – i due sarebbero a processo (in Ucraina) per una presunta combine durante Pordenone–Cosenza e, testimone d’accusa, sarebbe Oleg Patakarcishvili, che della Devetia sarebbe il padre padrone.

    Lo stesso blog spagnolo pochi giorni prima di Natale riporta la notizia di un'inchiesta a Odessa sulla partita Pordenone-Cosenza
    Lo stesso blog spagnolo pochi giorni prima di Natale riferisce di un’inchiesta a Odessa sulla partita Pordenone-Cosenza

    Un circo senza senso in cui è finito di tutto, anche una telefonata surreale, poi rimossa da Youtube, tra un rappresentante del Cosenza Calcio e i presunti rappresentanti del gruppo acquirente. Un circo dentro cui fa la sua figura anche il faccione di «Fernando del gruppo d’investitori Devetia», alias Fernando Martinez, che da sabato sera gira su Youtube con un video degno di Terry Gilliam.

    Capello laccato e albero sullo sfondo, “Fernando del gruppo ecc” si rivolge direttamente al popolo, aizzandolo contro «Guaracho» e minacciando di portate a supporto delle sue tesi, testimoni «che hanno vinto la Champions e che non sono dilettanti come questo Guaracho». Un video che è un capolavoro di nonsense e che mischia «i lavori del porto di Lamezia che fruttano 3000 posti», presunte trattative con le squadre di mezzo pianeta e pistolotti di real politik sul marcio che gira nel calcio e dentro cui il suo gruppo, legittimamente, si pregia di prosperare.

    Il precedente

    Un circo da cui ci si aspetta, da un momento all’altro, un nuovo elemento che tenga alta l’attenzione su quello che succede attorno al Cosenza. Un circo su cui non è ancora calato il sipario e che ricorda da vicino la vicenda della scalata alla Lazio che Giorgio Chinaglia, oltre 15 anni fa, portò avanti a forza di bordate contro la dirigenza che «non voleva mostrare le carte». Nel 2006, il tribunale di Roma determinò l’arresto di “Long John”.

    L’ex bandiera della Lazio e della nazionale era stato messo a capo di un fantomatico gruppo di miliardari dell’est che volevano allungare le mani sulla squadra della capitale, subentrando a Lotito, che quella squadra l’aveva presa dal crack Cragnotti e la cui luna di miele con la tifoseria biancoceleste era già finita da un pezzo. Una storia paradossale che, un paio di anni dopo, si arricchì di una nuova indagine della digos che dimostrò come dietro al fantomatico gruppo dell’est ci fossero i soldi dei Casalesi in combutta con criminali del calibro di Fabrizio “Diabolik” Piscitelli, giustiziato qualche anno dopo in un parco di Roma sud con un colpo alla nuca.

  • Natale di sangue: perché alle ‘ndrine piace uccidere durante le feste

    Natale di sangue: perché alle ‘ndrine piace uccidere durante le feste

    Una faida iniziata nel periodo di Carnevale. Un omicidio avvenuto nel giorno di Natale. Una strage in un giorno simbolo delle ferie estive. Nulla è fatto a caso.  Giorni di festa. Che, però, devono diventare giorni di sangue. E rimanere, per sempre, giorni di lutto. Nella ‘ndrangheta la simbologia conta. Conta molto. La ‘ndrangheta vive di riti, di tradizioni. Non solo per mantenere alto il senso di fascinazione nei confronti degli affiliati, ma anche per colpire i nemici. Si spiegano così i numerosi delitti che coincidono con le festività.

    Le faide

    Le faide sono le guerre che si instaurano tra cosche del medesimo paese o di paesi diversi. Guerre che possono durare anche per diversi anni e che non risparmiano nessuno, anche se il tempo passa, inesorabilmente. La ‘ndrangheta non dimentica mai: «Nel territorio della provincia di Reggio Calabria la faida di Cimino ha causato quasi cinquanta morti, quella di Cittanova sessantacinque, quella di Laureana di Borrello una trentina, tra cui una bambina di nove anni, la faida di Botticella ha mietuto sessanta vittime. Altre faide con decine e decine di morti si sono avute a Gioia Tauro, a Sant’Ilario, a Siderno, a Roghudi, a Bova, a Locri», scrivono Mario Andrigo e Lele Rozza nel volume Le radici della ‘ndrangheta per Nutrimenti Edizioni.

    La faida di San Luca

    Quella più famosa, però, trova il suo culmine il 15 agosto del 2007 a Duisburg, in Germania, quando sul suolo tedesco restano in sei, crivellati di colpi. Una mattanza che si inquadra nella sanguinosissima faida di San Luca iniziata nel 1991 per un banale scherzo di Carnevale. Storicamente, infatti, quella lunga di sangue viene fatta iniziare il 10 febbraio del 1991, allorquando un gruppo di giovani legati ai clan Strangio e Nirta, detti “Versu”, in occasione delle festività di Carnevale, lanciò delle uova contro il circolo ricreativo ARCI, gestito da Domenico Pelle, uno dei “Gambazza”. Un’onta. Resa ancor più grave dal fatto che quelle uova sporcarono, tra l’altro, anche l’auto di uno dei Vottari.

    Inizia tutto in quel modo. I giovani vengono anche puniti con una sonora dose di “legnate” come si dice in gergo. Tutto sembra finire lì. Ma, in realtà, è solo il principio, perché successivamente, in nome di quel sentimento di vendetta che nella ‘ndrangheta è sacro, un altro gruppo di giovani dei Nirta-Strangio, venuti a conoscenza dell’accaduto, incontrarono un affiliato ai Vottari. Questi, spaventato, incominciò a sparare uccidendo due giovani del gruppo, Francesco Strangio, 20 anni, Domenico Nirta, 19 anni, e ferendone altri due. Vista l’estrema gravità dell’azione, il clan dei Vottari decise che l’autore degli omicidi avrebbe dovuto andarsene per sempre da San Luca e dai paesi limitrofi. Egli verrà comunque ucciso presso il comune di Bovalino, dove aveva trovato rifugio temporaneo. La lunga scia di sangue è ormai innescata.

    L’omicidio di Maria Strangio

    Una mattanza che sembra rimanere silente per alcuni anni. Fino alla nuova esplosione, quindici anni dopo il primo evento. E, anche in questo caso, la data ha un certo significato. Il 25 dicembre 2006 viene uccisa Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, reale obiettivo dei sicari, il quale, invece, si salverà. La faida così ricomincia dopo un lungo periodo di pausa. Giovanni Luca Nirta si è sempre professato innocente rispetto alle accuse che lo indicano come un capo carismatico della ‘ndrangheta.

    In varie interviste si è dipinto come un umile agricoltore. Addirittura, in una delle scorribande in terra calabra, anche il massmediologo Klaus Davi, per anni consigliere comunale a San Luca, ha incontrato il presunto boss. Che lo ha fatto accomodare in casa, offrendogli un caffè. Senza, però, voler parlare di ‘ndrangheta. Eppure, per gli inquirenti è un soggetto apicale della ‘ndrangheta di San Luca. Circa un anno fa ha finito di scontare la condanna a 12 anni di reclusione per associazione mafiosa rimediata nel processo “Fehida”. Che ha ricostruito proprio gli ultimi episodi della faida di San Luca.

    La strage di Duisburg

    L’eccidio di Duisburg è la risposta all’omicidio di Maria Strangio, fortuito ma lavato ugualmente col sangue. Tra i morti in Germania anche un giovane, appena diciottenne, Tommaso Venturi, cui fu trovato addosso un santino bruciacchiato di San Michele Arcangelo, segno, probabilmente, della recente affiliazione, avvenuta in concomitanza con la maggiore età, festeggiata nella notte.

    strangio-giovanni
    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Una strage che, nel corso degli anni, gli inquirenti calabresi ricostruiranno, portando a condanne definitive. Tra cui quella di Giovanni Strangio, punito col carcere a vita perché considerato la mente del commando entrato in azione nel giorno di Ferragosto. Strangio verrà arrestato il 12 marzo del 2009 in Olanda, a Diemen, piccolo centro vicino ad Amsterdam.

    L’omicidio Bruzzese

    Date che contano. Che diventano sfregio. Siamo nel 2018. Assassinato nel giorno di Natale anche Marcello Bruzzese, cinquantunenne di origine calabrese. Freddato nel garage sotto casa, in una stradina del centro storico di Pesaro. Un agguato in puro stile mafioso, forse un avvertimento per colpire il fratello di Girolamo Biagio Bruzzese, ‘ndranghetista, diventato nel 2003 collaboratore di giustizia dopo aver tentato di uccidere il capocosca: le sue testimonianze hanno permesso ai magistrati di conoscere i legami tra la cosca Crea e alcuni politici locali.

    L’omicidio Bruzzese a Pesaro

    Proprio alcune settimane fa, magistratura e forze dell’ordine hanno eseguito alcuni arresti, convinti di aver chiuso il cerchio sulla vicenda. È servito il lavoro di tre Dda, Reggio Calabria, Brescia e Ancona per ricostruire ciò che è accaduto nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. La vittima era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.

    Il significato

    In tutti i casi, quindi, le date non sono scelte a caso. Rimanendo sulla faida di San Luca: l’inizio, Carnevale del 1991, l’omicidio di Maria Strangio, Natale 2006, la strage di Duisburg, Ferragosto 2007. Tutti eventi verificatisi in corrispondenza di alcuni giorni di festa. «Secondo l’etnologo Vito Teti, la vendetta in un universo arcaico rappresentava il tentativo di ristabilire l’ordine sconvolto da uno spargimento di sangue», scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso ne La malapianta.

    gratteri-nicola_sorriso
    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    «Nell’orizzonte tradizionale, la regola del sangue che chiama sangue è stata spesso assunta, anche in maniera strumentale, per legittimare comportamenti cruenti nella ‘ndrangheta. Si può pertanto capire perché nei giorni di festa, o nei giorni dedicati ai defunti, quando il ricordo è più opprimente e fondante, si ricorra talora a comportamenti rammemoranti. Nella logica di alimentare il ricordo attraverso il dolore, la vendetta praticata nei momenti festivi (in un contesto mediterraneo ma anche in tante altre società tradizionali) assume un valore rituale e altamente simbolico» scrivono ancora il procuratore di Catanzaro e il giornalista ed esperto di ‘ndrangheta.

    Simbologia e religione

    La simbologia, soprattutto se si interseca con la religione, ha un ruolo predominante nei comportamenti, anche di natura criminale, messi in atto dalla ‘ndrangheta. Nelle strategie della criminalità, nelle usanze, niente è fatto a caso. La mafia – e, in particolare, la ‘ndrangheta – sceglie di uccidere soprattutto in date rilevanti che spesso coincidono con festività religiose. Oppure in ricorrenze importanti per il soggetto da eliminare. Non è un caso ad esempio che molti omicidi avvengano nel giorno dell’onomastico o del compleanno della vittima. I killer della mafia talvolta commettono i propri omicidi in luoghi sacri. Come nell’uccisione di Domenico Vallelunga, il boss dell’omonima cosca di Serra San Bruno, Vibo Valentia, assassinato davanti al Santuario dei Santi medici Cosmo e Damiano, a Riace.

    È solo uno dei tanti, possibili, esempi. Delitti, uccisioni, aggravati dal fatto di aver profanato un luogo di culto, di aver macchiato col sangue la terra consacrata. Fatti, ovviamente, in piena antitesi con il manto di religiosità con cui si copre, spesso e volentieri, la criminalità organizzata. E così, dunque, avviene anche per i cosiddetti casi di “lupara bianca”, in cui una persona viene uccisa. E il suo corpo fatto sparire. Seppellito in qualche lontana campagna, oppure sciolto nell’acido. Un modo vale l’altro affinché le famiglie non possano piangere il proprio congiunto. Oltre alla morte, dunque, vi è un altro tipo di punizione, parimenti crudele, per i sopravvissuti.

  • Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Trasversale delle Serre, l’incompiuta che ha più anni che chilometri

    Per “tagliare” quattro curve e realizzare un tratto di strada di appena un km c’è voluto l’esercito. Negli anni scorsi gli abitanti delle Serre si erano abituati a vedere i ragazzi con il mitra e la mimetica mandati in questo lembo della Calabria centrale a combattere una guerra che di sicuro non era la loro. Quel tratto, oggi completato dopo enormi ritardi e con modalità assimilabili alla diga di Mosul in Iraq, è uno dei simboli della Trasversale delle Serre, una strada di cui si parla da più di mezzo secolo. E che tra le tante incompiute calabresi assume contorni ormai mitologici.

    L'esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre
    L’esercito sul cantiere della Trasversale delle Serre (Foto Salvatore Federico, 2016)
    Oltre mezzo secolo, meno di 40 km

    Dovrebbe collegare, in circa 56 km, la costa tirrenica e quella jonica, da Tropea a Soverato, passando per l’entroterra serrese. Non è certo un’opera facile, costellata com’è di gallerie e viadotti. Ma pur essendoci stata nell’ultimo decennio una qualche accelerazione, questo termine rappresenta senza dubbio un eufemismo. Le parti completate oggi misurano circa 37 km e questi chilometri non sono nemmeno consecutivi.

    Una mappa dei tratti realizzati finora
    Una mappa dei tratti realizzati finora

    Siamo pur sempre nella periferia di due province della Calabria (Catanzaro e Vibo) dove ogni cosa sembra più difficile che altrove. Comunque qualche giorno fa il presidente della Regione Roberto Occhiuto l’ha menzionata tra i temi affrontati in un incontro con il ministro delle infrastrutture Enrico Giovannini e anche questa è una notizia. Chissà però se entrambi sanno quanto i loro omologhi in passato abbiano promesso e tagliato nastri vagheggiando uno sviluppo che, nel frattempo, deve aver sbagliato strada.

    Promesse bipartisan

    Non avrebbe potuto perdersi, per esempio, il defunto Altero Matteoli quando, nel febbraio del 2011, per inaugurare due tratti (8 km in tutto) affiancato da Peppe Scopelliti arrivò qui non in auto ma in elicottero. Nell’immaginario locale, poi, più che le parole è rimasta impressa l’improbabile camicia con cui Mario Oliverio si presentò nell’agosto del 2015 accompagnato dall’immancabile stuolo di tecnici e politici che gli illustravano le ben poco progressive sorti dell’infrastruttura.

    In ogni metro della Trasversale delle Serre c’è una quota di retorica e buone intenzioni difficilmente quantificabile. Al di là dell’ironia, ognuno dei politici menzionati e sicuramente molti altri – ci si può inserire anche l’ex parlamentare Giancarlo Pittelli – si è mosso e ha poi messo il cappello sulla “sua” quota di soldi pubblici destinati all’opera. Che in totale potrebbe avere un costo che si aggira attorno ai 600 milioni euro, ma fare una stima compiuta è difficile. Almeno quanto capire se questa, dopo l’incontro Occhiuto-Giovannini, possa essere davvero la volta buona, come l’Anas sostiene da tempo.

    Una storia iniziata nel 1966

    D’altronde si trova traccia della Trasversale delle Serre in atti ufficiali già dal 1966, quando il Comitato regionale per la programmazione economica propose di realizzare una strada «a scorrimento veloce» che collegasse la zona ai due mari. Due anni dopo l’amministrazione provinciale catanzarese inserì l’opera nell’“Asse di riequilibrio territoriale” ma per arrivare al primo appalto si dovette aspettare fino al 1983 (3 km tra Vazzano e Vallelonga). Seguì un altro lungo stop fino a quando, nel 1997, partirono i lavori tra Chiaravalle e Gagliato con grande soddisfazione dell’allora Sottosegretario di Stato ai Trasporti Giuseppe Soriero (governo Prodi), che piazzò se stesso con sfondo di piloni su un memorabile manifesto in cui dichiarava lo sviluppo del territorio ormai inesorabilmente avviato.

    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Un opuscolo del 1968 sulla Trasversale
    Cittadini allo scontro

    Tanto avviato che, oggi, la strada realizzata, sul lato vibonese, va da Serra San Bruno a Vallelonga, pochi chilometri per poi fermarsi e ricomparire con un breve tratto tra le campagne di Vazzano e l’imbocco dell’autostrada. Sul versante jonico va invece ininterrottamente dalla cittadina della Certosa fino a Gagliato. Lì finisce: c’è un muro invisibile su cui si scontrano, giusto per non farsi mancare nulla, le rivendicazioni di due gruppi di cittadini. Quelli che abitano proprio le contrade tra Gagliato e Satriano, contrari al progetto – rimodulato da Anas rispetto a uno originario più complesso e costoso – che vedrebbe loro espropriati un bel po’ di terreni, e quelli del Comitato “50 anni di sviluppo negato” che invece spingono perché almeno si completi quest’ultimo, breve tratto che consentirebbe di arrivare dalle Serre a Soverato in circa venti minuti.

    Il malcontento dei cittadini
    Il malcontento dei cittadini
    Costi e tempo aumentano

    Si sono susseguite riunioni di sindaci, dibattiti, interventi sulla stampa e cartelli piantati sul ciglio della strada. Ma ancora è tutto fermo e chi tragga vantaggio da simili lungaggini è difficile stabilirlo. Certo fa specie ciò che la Guardia di finanza qualche tempo fa ha segnalato alla Corte dei conti: un potenziale danno erariale di oltre 56 milioni di euro emerso dopo un monitoraggio durato tre anni sull’appalto che riguarda il tratto vibonese, aggiudicato nel 2005 per un importo di circa 124 milioni di euro e concluso dopo 13 anni spendendone oltre 191. Il risultato è che i tempi contrattuali si sono dilatati del 300% con «un incremento pari al 46% circa dell’importo dei lavori».

    Fiamme e pallottole

    Quella della Trasversale delle Serre non è certo solo una storia di proteste, lungaggini burocratiche e costi lievitati. Nell’aprile del 2015 un capocantiere fu arrestato perché accusato di essere tra i responsabili delle intimidazioni subìte dalla sua stessa azienda. Ne emerse «un solido rapporto fiduciario» tra il capocantiere e alcuni «esponenti di pericolose organizzazioni criminali intenzionate ad affermare il loro potere sul territorio».

    Nella notte tra il 12 e il 13 ottobre 2014 le fiamme distrussero diversi mezzi di quel cantiere e il geometra che aveva denunciato il fatto trovò un bossolo calibro 12 sotto il tergicristallo dell’auto. Poi qualcuno gli telefonò dicendo: «Se non ve ne andate la prossima volta le cartucce saranno piene, per te e i tuoi colleghi». A fare quella telefonata, secondo quanto emerse dall’inchiesta dei carabinieri di Serra San Bruno, sarebbe stato proprio il capocantiere poi arrestato.

    Pentiti e Servizi segreti

    In una relazione consegnata al governo nel 2007 i Servizi segreti segnalavano che tra «le proiezioni imprenditoriali/collusive della ’ndrangheta» c’era il settore dei lavori stradali. E che, in questo ambito, c’erano «soprattutto» quelli di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, della Statale 106 e della Trasversale delle Serre. Che le ‘ndrine della zona abbiano banchettato sui lavori della Trasversale lo ha rivelato l’inchiesta “Showdown 3”. Un pentito, Gianni Cretarola, che ha raccontato molti retroscena della seconda “faida dei boschi” e ha parlato del «grande business della Trasversale».

    Secondo Cretarola «tutto l’ambiente ‘ndrangheta» era coinvolto nelle decisioni sui grandi appalti: agli imprenditori veniva imposto di pagare il 3% che veniva poi diviso tra le ‘ndrine del luogo. Anche il pentito vibonese Andrea Mantella ha raccontato di presunti legami tra la ‘ndrangheta locale e un noto politico della zona per «raddrizzare questi grossi imprenditori, che venivano dal Nord» e piazzare gli escavatori e il calcestruzzo del clan sui cantieri della Trasversale delle Serre.

  • Non solo Tik Tok, gli influencer calabresi che spaccano sul web

    Non solo Tik Tok, gli influencer calabresi che spaccano sul web

    Che fine ha fatto Salutandonio? Nel suo ultimo post su Facebook, l’ex bambino fenomeno del web, masticato ed espulso dal tritacarne dei social, dopo un lungo silenzio riappare sorridente e in forma, appoggiato a un suv scintillante. «Niente è impossibile», recita la didascalia. Marco Morrone, 126mila follower gran parte dei quali impegnati a lapidarlo nei commenti, è tornato.

    Gavino l’influencer

    Se c’è un posto in cui la porta del successo è aperta a tutti, quello è il web. Sbirci dentro e trovi un party affollatissimo di personaggi, ma l’accento calabrese lo riconosci da lontano. «Non smetterò mai di ringraziarvi per il sogno che mi state facendo vivere». La citazione è di Gavino Piredda, 20 anni, 71mila follower su Instagram e 815mila su Tik Tok, praticamente una celebrità della rete. E così San Lucido, piccolo comune del tirreno cosentino, seimila abitanti quattro case e un forno, diventa grazie a lui il centro del mondo, perché il mondo è quello dei social network. Gavino sogna di entrare nel cast di “Amici”, balla e canta, ma l’x factor risiede forse in qualcos’altro, è quella variabile che traina i follower, che fa di un semplice video postato dalla propria cameretta o dal cortile sotto casa un trend, condiviso e virale.

    influencer-calabresi-i calabresi
    Gavino Piredda
    I soliti odiatori

    Appena parte la “live” ovvero la condivisione di un video in diretta, è un tripudio di connessioni e poi di commenti: saluti, domande e naturalmente molte critiche, che sono quasi sempre direttamente proporzionali alla popolarità. «Le persone mi criticano senza conoscermi, si basano sul personaggio che vedono sul web, nella vita fuori dai social non è che sono diverso, ma sono un ragazzo sia serio che divertente» si racconta Gavino. Ecco, gli odiatori.

    Da Serra Pedace con furore
    La presilana Regina Rosycalabra

    Regina.rosycalabra, spumeggiante cinquantenne di Serra Pedace, 26mila follower su Tik Tok, nei suoi video è quasi sempre impegnata a replicare alle offese che le vengono rivolte («Parla in italiano, buzzurra!», «Lavandaia» solo per citarne due), ma lei questo angolo di successo lo ha costruito proprio sulla capacità di restare impermeabile agli insulti, ai quali – nel suo accento silano che rende tutto più preciso, diretto, appuntito – risponde senza mai perdere la calma e con un saluto che è ormai il suo segno distintivo: «bongio’».

    Eletto influencer più seguito di Calabria

    Di tutt’altro tenore i commenti rivolti a Filippo Lombardo, reggino, 28 anni, modello con un passato da fashion blogger, eletto nel 2019 “l’influencer più seguito in Calabria”. Foto patinate, ciuffo scolpito a colpi di lacca, abiti e ambientazioni che inscenano una quotidianità fatta di lusso, viaggi, scatti “rubati” a momenti di intimità o riunioni di lavoro. La Calabria è solo uno dei tanti sfondi che incorniciano le foto e le stories, ma sul lungomare di Reggio o avvolti dal candore dei paesaggi innevati della Sila ci sono gli sprazzi più autentici della vita del fashion influencer.

    Il ginecologo di Polistena

    Tra le star calabresi del web c’è anche un ginecologo, è il dottor Giuseppe Lupica noto come Peppe893, 28 anni e un seguito da record: 230mila follower su Instagram e Tik Tok. Originario di Polistena, ma in forze al policlinico di Bari, nei suoi video sfoggia il camice da chirurgo e un sorriso rassicurante, utilizza i social per fare informazione su tabù e pregiudizi intorno al sesso e alla gravidanza. E sul web è diventato una star. «C’è tanta ignoranza in materia medica. – dice – Con i miei tips voglio dare indicazioni base che naturalmente non possono sostituire una visita. Ma c’è bisogno di diffondere contenuti corretti e si può fare anche via social in modo diverso dal solito. E con una figura del medico magari inconsueta, ma adatta ai tempi moderni».

    Il calvo catanzarese dal cuore tenero

    Da Catanzaro, Pomiro84, 453mila seguaci su Tik Tok, ha conquistato il suo pubblico facendo autoironia sulla sua testa pelata. «Ma dici a me?» è la frase tormentone con cui apre ogni video in cui spesso è in compagnia di sua figlia. Un calvo dal cuore tenero, tra una battuta e un’altra lancia messaggi condivisibili sull’importanza di accettare i propri difetti perché, dice, «nessuno è perfetto ma dobbiamo svegliarci ogni mattina orgogliosi di essere come siamo». Lo fai per i soldi? Gli chiede qualcuno durante le dirette live, «no, quello che guadagno su Tik Tok – chiarisce – lo regalo ai miei nipotini così comprano qualche giocattolo e se vogliono mi offrono una pizza».

    influencer-calabresi-i calabresi
    Pomiro84
    Calabria food porn

    C’è chi però un piedino dentro la pubblicità ce lo mette volentieri e allora da semplice passatempo, il web può rivelarsi vantaggioso anche economicamente. L’esperto è Wladi Nigro, cosentino, un ragazzone barbuto in stile Cannavacciuolo, ottima forchetta ma soprattutto grandi doti imprenditoriali poiché ha fatto della sua passione per il cibo un brand: Calabria food porn. Partiamo dai numeri: seguito da 13.400 persone su Facebook, 39mila su Instagram e 5.200 su Instagram. Le gallerie fotografiche delle sue pagine social trasudano olio, cipolla, peperoncino, ‘nduja, crema al pistacchio, perché Wladi – un diploma all’Alberghiero e una laurea in Scienze Turistiche – ha trovato la sua personalissima “chiave” per veicolare i sapori calabresi: entra nelle cucine, fotografa, mangia, recensisce e fa venire voglia di assaggiare, comprare, visitare.

    influencer-calabresi-vlad-i calabresi
    Vlad creatore di Calabria Food Porn mentra addenta un “cuddrurieddru”, il fritto cosentino della vigilia dell’Immacolata
    Noemi da Vibo

    Glitter, paillettes e un accento inconfondibilmente calabrese che marca le T senza contegno: Noemi Spinetti da Vibo Valentia, ha 25 anni ma è già una veterana del web. Ha 139mila follower su Tik Tok, 41mila su Instagram, è giovane, sveglia, anche simpatica. La scrittura dei suoi testi non è mai banale: così si passa dagli stereotipi sui calabresi alla promozione del territorio (Palmi, Badolato, Reggio Calabria, Tropea, Camigliatello) con qualche incursione a scopo promozionale nei ristoranti e nei locali.

    Blow Dry, benvenuti al Sud

    Il filone ormai collaudato delle differenze tra Nord e Sud è quello scelto da Manuel Spizzirri in arte Blow Dry che ha un canale Youtube con 149mila iscritti e 56mila seguaci su Tik Tok. Le gag hanno un impianto visto e rivisto negli ultimi tempi: la mamma del Nord contro la mamma del Sud, per esempio. Un tema che evidentemente piace al pubblico dei social, a giudicare dai like.

    La Diletta Leotta di Cosenza

    Nel mare magnum delle pagine dedicate al calcio, una ventata di glamour e competenza calcistica arriva da Eleonora Cristiani, la Diletta Leotta cosentina, 11mila follower su Facebook, seimila su Tik Tok e 76mila like, attraverso i social propone la sua rubrica “Oltre il 90esimo” in cui intervista a fine partita i tifosi rossoblu, raccogliendo i commenti a caldo – e ovviamente senza filtri, pure troppo – dei tifosi in uscita dallo stadio.

    https://www.facebook.com/TifoCosenza/videos/201954145211690

    Pancio, tutto sesso e gag

    È calabrese, precisamente di Gioia Tauro, il Pancio nome d’arte di Andrea Panciroli, comico nato sul web, che è videomaker, autore, regista e montatore dei suoi lavori. Con numeri di tutto rispetto: la pagina Facebook conta quasi due milioni di seguaci, 629mila su Instagram, 101mila su Tik Tok: un vero fenomeno. Sesso, droga e paradossi nelle sue gag create ad arte titillando tic e manie comuni per poter essere condivise e diventare virali con l’aiuto degli hashtag.

    Annibaluzzo, inventore di storie sui cessi

    Una passione di famiglia quella per il web, stando alle fonti che attestano che Annibale Astio, nome d’arte Annibaluzzo, – 107 mila follower su Instagram e 7000 su Tik Tok, da Cutro in provincia di Crotone – è il cugino del Pancio. La partecipazione al programma Ciao Darwin lo ha consacrato star del web. Si definisce “comico e muratore” ma anche “inventore di storie sui cessi” che effettivamente sono spesso presenti nella scenografia dei suoi video realizzati sui cantieri.

    Gioca con Martex

    Ma il vero fenomeno calabrese del web non usa il dialetto e non ingurgita (o almeno non lo fa nelle dirette) cibo piccante. Sta seduto su una poltrona ergonomica e parla il linguaggio sconosciuto ai più del mondo dei videogiochi. Si chiama Simone Martello, in arte Martex, vive a Lamezia, ha 28 anni e sul web fa numeri da capogiro: ottocentomila iscritti al suo canale Youtube, 122mila follower su Instagram. Martex è un gamer, ovvero un giocatore professionista che trascorre ogni giorno diverse ore collegato e intrattiene il suo pubblico mentre supera i livelli di un videogame svelando segreti, bug e trucchi. E, visti i numeri, non è solo un passatempo ma un lavoro che può essere anche molto remunerativo.

    Faccia da bravo ragazzo

    Ha aperto il suo canale nel lontano 2007 quando era poco più che un bambino. La fama è arrivata con i video su Fortnite con cui spopola sul web. Nel 2018, per festeggiare i suoi 50mila iscritti, ha realizzato una live streaming di tre ore giocando on line con i suoi fan. Per intenderci, quando è ospite di eventi o fiere ha davanti la fila di chi gli chiede un autografo o una foto. Faccia da bravo ragazzo neanche troppo nerd, linguaggio misurato e mai sopra le righe, la sua forza, dice, è l’autenticità.

    «Cerco sempre di lasciare un messaggio positivo a chi mi segue – ha detto in una intervista – sono cosciente di rivolgermi ad un pubblico così giovane che può essere condizionato e fuorviato facilmente». Martex parla da influencer, dall’alto dei suoi numeri, seguito e apprezzato da bambini e adulti. Ma come ogni influencer che si rispetti, le storie e le foto postate su Instagram svelano anche dettagli della sua vita privata: l’amore per il nipote e quello per la sua fidanzata a cui è legato da ben 11 anni.

    Profumo di videogioco con DodoBax

    Martex non è il solo influencer calabrese ad occupare un posto nell’olimpo dei gamer professionisti, accanto a lui troviamo DadoBax, nome d’arte di Corrado Cozza, 26 anni, di Rende. Il suo canale Youtube aperto nel 2012 conta 158mila iscritti (300mila visual) e su Instagram a seguirlo ci sono 12mila persone. Corrado è laureato in ingegneria informatica e ha da sempre una passione viscerale per i videogiochi che adesso si è evoluta in un lavoro, visto che collabora con importanti network. Tre gli scopi che si prefigge: arrivare a tutti, anche a chi non conosce i videogiochi, con un linguaggio facile e accessibile sia ai bambini che agli adulti; approfondire alcuni argomenti sfatando luoghi comuni che girano sul web e infine trasmettere la sua passione per i videogames. «Bisogna sentire il videogioco come se fosse un profumo – dice – come se fosse una musica. Sentirlo sulla pelle».

    Ans..ia da cinema

    Nasce dall’amore per le consolle anche la carriera di Antonello Santopaolo, cosentino, 27 anni, in arte Ans: oltre 12mila seguaci su Instagram. Studia da influencer e si sta specializzando nelle interviste ai doppiatori dei videogames più popolari. Occhi azzurri e capelli biondo cenere, nei suoi post mostra anche la sua passione per attori del cinema italiano come Paolo Villaggio e Ugo Tognazzi. Passato, presente e futuro che dialogano, come sempre nel web. E anche nella vita.

    La fashion influencer Rossella

    L’influencer della porta accanto si chiama Rossella Dattolo, vive a Rende, frequenta l’Unical e ha 49mila seguaci su Instagram e 4300 su Tik Tok. I suoi post sono una girandola di outfit griffati e, letta attraverso le stories, la sua vita assomiglia a quella di tante altre colleghe metropolitane che si fotografano negli ascensori dei grattaceli, pronte ad andare a divorarsi il mondo là fuori. Sono i dettagli – nelle foto meno costruite – che riportano al tepore di casa di una adolescente, con le sue fragilità e le sue imperfezioni. I due piani della realtà e dei suoi surrogati si alternano davanti e dietro gli schermi dei telefonini, nello sforzo – anch’esso funzionale all’accumulo di follower – di apparire autentici.

    Ciao Omar

    Forse ci era riuscito Omar Palermo, in arte YouTubo anche io, morto d’infarto a soli 42 anni ad agosto. Ingurgitava cibo per trattenere il suo pubblico e intanto si raccontava tra le righe, con pacatezza, imbarazzo, gentilezza. Alla fine di ogni abbuffata ringraziava la sua community per avergli tenuto compagnia, merendina dopo merendina è scivolato via.