Categoria: Inchieste

  • Regione Calabria, bomba contabile: 24 milioni di euro per le indennità extra dei burocrati

    Regione Calabria, bomba contabile: 24 milioni di euro per le indennità extra dei burocrati

    La Calabria, come è noto, è terra di privilegi sia per i politici, sia per i sodali interni ed esterni ai palazzi. I consiglieri regionali, ad esempio, nella propria struttura, cioè tra le caselle da riempire di nomina strettamente fiduciaria, oltre a portaborse, collaboratori vari e autisti (per i capogruppo e i membri dell’ufficio di presidenza), nominano anche dei componenti interni, ossia dipendenti del consiglio o della giunta regionale chiamati a lavorare direttamente per i politici.

    I fortunati arrivano a guadagnare di più rispetto ai colleghi perché percepiscono una indennità di struttura aggiuntiva allo stipendio che può superare i mille euro mensili. Una indennità illegittima da molti anni, ma che continua a gravare sulle tasche dei calabresi nonostante norme e giudici abbiano dato un chiaro altolà. Per questo si paventa un presunto danno erariale da 24 milioni di euro in cui gran parte degli “storici” dirigenti regionali avrebbe messo lo zampino (o, perlomeno, un visto su una determina). Ma procediamo per gradi.

    Ogni anno fiumi di soldi

    Il bilancio di previsione 2022-2024 della Regione Calabria contenuto nel Burc dello scorso 12 gennaio stanzia ben 450mila euro l’anno per tre anni per l’indennità di struttura per il personale appartenente ad altre pubbliche amministrazioni e comandato presso le strutture speciali dei politici. Sono ben 950mila gli euro annui per l’indennità di struttura del personale di ruolo del Consiglio regionale assegnato alla politica. «Il rapporto di collaborazione è correlato all’espletamento delle attività istituzionali su indicazione nominativa di ciascun titolare di struttura speciale», specifica la normativa regionale risalente al 1996 (legge regionale numero 8 e sempre la 8, ma del 2007).

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    La sede della Giunta regionale a Germaneto

    Sono un centinaio tra Giunta e Consiglio i dipendenti che vengono incasellati al seguito dei politici regionali. Postazioni ghiotte e ambite che portano a qualche problemino negli uffici regionali, tant’è che nella programmazione triennale dei fabbisogni di personale del Consiglio regionale predisposta dal dirigente Antonio Cortellaro e aggiornata al 2021 c’è scritto nero su bianco che “l’ultima rilevazione dei fabbisogni ha reso evidente che a causa del gran numero di dipendenti di categoria C assegnati alle strutture speciali, sussiste una forte esigenza, manifestata dalla gran parte dei dirigenti dell’ente, di implementare il personale di tale categoria nell’ambito delle strutture organizzative, in particolare di reclutare istruttori amministrativi e contabili. Si tratta di professionalità essenziali per quanto concerne la declaratoria delle funzioni di ogni settore”.

    Benefit anche per chi rimane fuori

    Partiamo da un paradosso: più l’inquadramento del dipendente “prestato” al politico è basso (come le categorie C che sono arrivate a scarseggiare) più alta sarà l’indennità aggiuntiva.
    Se un consigliere regionale chiama nella sua struttura un impiegato del consiglio regionale (categoria C1) che ha una retribuzione annua di circa 21.000 euro, questo prenderà una “indennità di struttura” di 11.500 euro. Un funzionario (categoria D1) con stipendio tabellare di 29.638,84 euro annui, invece, prenderà “solo” 6.456 euro di indennità. Per cui, il personale più qualificato (rispetto all’inquadramento) sarà fortemente disincentivato a dare il proprio apporto alla politica, ma ci guadagnerà comunque.

    Chi rimane fuori (e sono circa 160 unità), però, beneficerà del fondo per la contrattazione integrativa che per il solo 2021 (come da determinazione del dirigente Antonio Cortellaro del 14 dicembre 2021) è stato determinato a 900.401,66 euro. Così come performance (leggasi, premio di produttività) potrà ricevere fino a 5.627,51 euro annui, ben 2.164,43 euro in più rispetto ai 3453,08 euro che arriverebbero a prendere se non ci fosse il “prestito” dei 100 dipendenti ai politici. Insomma, mangiano tutti.

    L’indennità è illegittima… e spunta Roberto Occhiuto

    Tutto nasce, sotto la presidenza di Battista Caligiuri, dalla deliberazione 89 del 22 maggio 2001, avente ad oggetto la regolamentazione delle modalità di trattamento accessorio delle strutture speciali. In quell’occasione l’Ufficio di presidenza di allora ritenne di determinare il trattamento economico accessorio del personale addetto alle strutture speciali dipendente da pubbliche amministrazioni.

    Seguì il contratto collettivo nazionale degli enti locali del 2004 che eliminava l’indennità integrativa speciale (inglobandola nella retribuzione tabellare), ma l’ufficio di presidenza del consiglio regionale a guida Peppe Bova (con vicepresidente Roberto Occhiuto, attuale presidente della Regione Calabria), con la deliberazione 17 del 20 giugno 2005 (che risulta, guardacaso, non essere stata mai pubblicata sul Burc) decise di superare le norme del contratto collettivo nazionale, in quanto prevedeva “termini assolutamente non accettabili”. Confermò così la deliberazione del 2001, facendo muro a favore del privilegio dei dipendenti regionali “prestati” ai politici.

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    La citata legge regionale 8 del 2007 e la successiva delibera dell’Ufficio di presidenza numero 16 dello stesso anno (sempre con Bova presidente e Occhiuto vice) specifica che il trattamento economico dei dipendenti regionali “prestati” ai politici «è attribuito in misura fissa ed indipendente dalle dinamiche della contrattazione collettiva». Ciò nonostante l’articolo 40 del decreto legislativo 165 del 2001 imponga che «le pubbliche amministrazioni adempiono agli obblighi assunti con i contratti collettivi nazionali e integrativi». A conti fatti, dal 2005 ad oggi si quantifica una spesa per indennità di struttura di quasi 24 milioni di euro.

    La giurisprudenza è chiara, ma non per la Regione Calabria

    Ad intervenire sono state ben due sentenze della Corte Costituzionale. La prima, la 18 del 2013, ha specificato che il trattamento economico dei dipendenti pubblici deve essere concertato (tra Aran e i sindacati) e non imposto dalla politica. Il principio giuridico secondo cui la disciplina del finanziamento e dei presupposti di alimentazione dei fondi per il trattamento accessorio del personale regionale e della loro erogazione è riservata alle leggi dello Stato e alla contrattazione collettiva nazionale cui le norme statali fanno rinvio è stato suggellato anche dalla sentenza della Consulta 146 del 2019.

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    La Corte Costituzionale

    La Corte mette nero su bianco che «sono illegittimi i fondi aggiuntivi istituiti dalla regione in tema di trattamento economico accessorio dei dipendenti regionali, al di fuori di quanto previsto dalle fonti normative prescritte perché lesivi della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile e degli equilibri complessivi di finanza pubblica». Da ultimo, un inciso della sentenza 479 del 17 novembre 2020 della Corte d’Appello di Reggio Calabria, ha ricordato che «Il disposto imperativo del testo unico del pubblico impiego impone che il trattamento economico, fondamentale e accessorio, dei dipendenti pubblici debba trovare fonte nella contrattazione di comparto».

    Dirigenti nel caos e l’ombra della Corte dei Conti

    Il sistema è chiaro, ma la misura è colma. La rivoluzione burocratica annunciata da Roberto Occhiuto in campagna elettorale ha dovuto fare i conti anche con questa annosa questione. Già, perché il 1 gennaio con una rotazione degli incarichi dirigenziali, alle risorse umane è spuntata la dirigente Dina Cristiani.
    Rumors interni dicono che quest’ultima avesse chiesto un parere legale sulla legittimità delle indennità di struttura, rifiutandosi di firmare i contratti dei componenti interni delle strutture speciali. Cosa che effettivamente non ha fatto, fino a che non ha chiesto di essere rimossa dal suo incarico a “soli” 18 giorni dalla nomina (ufficialmente per una asserita incompatibilità con il ruolo di responsabile anticorruzione e trasparenza).

    Sta di fatto che colei che l’ha succeduta, la super dirigente Maria Stefania Lauria, confermata segretaria generale del Consiglio dopo il lungo interim, in poco più di un mese di contratti ne ha firmati almeno 15 coadiuvata dalla potente funzionaria responsabile delle strutture speciali Romina Cavaggion. A vistare gli atti ci sarebbe anche il dirigente dell’area gestione Sergio Lazzarino ed il dirigente del settore bilancio Danilo Latella. Il timore della lente di ingrandimento della Corte dei Conti è palpabile nonostante il silenzio tombale (o la copertura?) della politica, compresi i sedicenti gruppi neofiti d’aula come il M5S e lista di Luigi De Magistris.

    Regione Calabria, tanti nomi noti

    È chiaro che tutta la politica è perlomeno consapevole di ciò che accade. Tutti hanno fatto queste nomine, spesso “ereditando” nomi noti da colleghi di precedenti consiliature. Ad ereditare il componente interno dell’ex presidente del consiglio regionale Tonino Scalzo è stato l’esponente del M5S Francesco Afflitto, che ha nominato Santa Crisalli. Per il capogruppo pentastellato Davide Tavernise, invece, si rileva la nomina di Giovanni Paviglianiti, che era componente della struttura dell’ex democratico progressista (oggi sovranista) Peppe Neri.

    A fare incetta di componenti e supporti interni è il capogruppo della lista De Magistris, Ferdinando Laghi, che finora ne ha nominati quattro: Antonino Marra, Miriam D’Ottavio, Giuseppe Vita e Gabriella Maria Targoni, con quest’ultima che ha preso il posto inizialmente occupato da Vita.
    A dar supporto interno al vicepresidente del Consiglio regionale Franco Iacucci c’è l’ex assessore e consigliere regionale del Pd Carlo Guccione, che è dipendente di Palazzo Campanella, pur avendo di recente maturato un lauto vitalizio. Con lui, sempre sotto l’ala di Iacucci c’è la moglie dell’ex assessore regionale Nino De Gaetano, Grazia Suraci.

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    Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Franco Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi

    A destare attenzione è la nomina da parte della capogruppo della Lega Simona Loizzo, come supporto funzionale, di Antonia Pinneri, compagna del leghista Antonino Coco, definito dalla Dda reggina, che lo ha arrestato nell’ambito dell’inchiesta Chirone, “professionista posto al servizio dell’associazione di stampo mafioso”. Si parlava dei clan d’Aspromonte. Presente anche l’ex candidata regionale della Casa delle libertà Antonietta Giuseppina D’Angelis, nominata componente interno della forzista Katya Gentile. L’ex candidato regionale Udc, Riccardo Occhipinti, invece, è supporto funzionale interno della forzista Valeria Fedele.
    Insomma, si dovrà fare i conti con un bubbone contabile che sta per scoppiare e la politica non potrà continuare a mettere la polvere sotto il tappeto.

  • Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    Piano energetico fermo a 17 anni fa: la Calabria ai tempi del caro bollette

    In un’Italia schiacciata dal caro bollette, e tempestata dallo storytelling sulla transizione ecologica fattasi persino Ministero, è normale che le fonti rinnovabili siano sulla bocca di tutti. E siccome siamo pur sempre il Paese dei Guelfi e dei Ghibellini, nel dibattito si contrappone chi pensa che per non rischiare di fare danni all’ambiente o dare soldi alle mafie non si debba toccare nulla, a chi è convinto che dare in pasto ampie porzioni di territorio alle multinazionali dell’energia serva a evitare i rincari su gas e luce.

    I numeri delle rinnovabili

    Come abbiamo già fatto raccontando cosa stia succedendo attorno all’eolico (in mare e in terra) tra il Golfo di Squillace e i boschi del Vibonese, anche stavolta proviamo a partire dai numeri, che non sono soggetti ad interpretazioni. Le normative comunitarie e nazionali dicono che si dovrà dismettere l’uso del carbone per generare energia elettrica entro tre anni. Nel 2030 il 72% dell’elettricità dovrà arrivare dalle rinnovabili, mentre nel 2050 dovremmo essere prossimi al 95-100%.

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    Impianto fotovoltaico in aperta campagna

    Come ci si deve arrivare? Soprattutto con il fotovoltaico: a fine 2020 abbiamo 21,4 GW prodotti da fonte solare, ma secondo stime forse troppo ottimistiche si potrebbe arrivare anche ai 2-300 GW. Governo e Ue lasciano comunque aperta la porta delle importazioni e dei possibili sviluppi tecnologici di fonti finora poco adoperate come, appunto, l’eolico offshore. Per raggiungere gli obiettivi fissati al 2030 si stima che si debba arrivare a circa 70-75 GW di rinnovabili, ma a fine 2019 eravamo a 55,5 GW.

    Questi sono i dati nazionali, guardando alla Calabria invece va ricordato che produciamo oggi un enorme surplus di energia elettrica (+180%), ma siamo tra quelli che consumano più gas naturale (oltre 2,2 milioni di metri cubi nel 2020) per alimentare le centrali termoelettriche tradizionali. E rispetto al gas i rincari in bolletta c’entrano eccome. In questa situazione, con i miliardi del Pnrr a disposizione, l’impulso politico e la conseguente programmazione sarebbero come il motore e lo sterzo di un’enorme automobile che però rischia di restare a secco di benzina, cioè di fondi spendibili, per carenze tecniche e progettuali.

    Il Piano energetico calabrese risale al 2005

    Il principale strumento attraverso cui le Regioni, dagli anni della liberalizzazione del mercato energetico e della riforma del Titolo V, programmano e indirizzano gli interventi in questo settore è il Piano energetico regionale (Per), che essendo ormai indissolubilmente legato a funzioni e obiettivi di carattere ambientale negli anni è diventato Pear (Piano energetico ambientale regionale). È il Pear, dunque, che deve contenere tutte le misure relative al sistema di offerta e di domanda dell’energia sul territorio. Ma in Calabria questo strumento fondamentale non è proprio aggiornatissimo: il Pear attualmente in vigore è stato approvato dal consiglio regionale il 4 marzo del 2005.

    L’Ultimo assessore all’Ambiente

    Proprio così: mentre Guelfi e Ghibellini dell’energia duellano via social, la Calabria dell’era Covid-Pnrr è orfana di un assessore all’Ambiente – la delega è rimasta in capo a un già impegnatissimo Roberto Occhiuto – e il principale strumento di programmazione energetica è fermo a 17 anni fa, cioè a quando la Regione era guidata da Giuseppe Chiaravalloti. In verità nel 2009 sono state licenziate dalla giunta regionale dell’epoca delle linee guida per l’aggiornamento, ma «alla luce dei nuovi orientamenti comunitari in materia, dell’evoluzione del quadro normativo e dei nuovi strumenti di programmazione adottati nel corso degli ultimi anni, risultano ormai superate».

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    Il Capitano Ultimo, assessore all’Ambiente nella giunta regionale guidata da Jole Santelli

    A metterlo nero su bianco è la stessa Regione Calabria che, nell’agosto del 2020, sotto la guida di Jole Santelli e su proposta del “Capitano Ultimo”, ha dato impulso agli uffici (Dipartimento Attività produttive, Settore Politiche energetiche) per la «costituzione di un “Tavolo tecnico per l’aggiornamento del Piano energetico ambientale regionale”» che predisponga le nuove linee guida da sottoporre all’approvazione della Giunta. Quali risultati ha prodotto tutto ciò a quasi 20 mesi dalla delibera del precedente governo regionale? Nessuno.

    In attesa di Enea

    Come atti ufficiali siamo insomma ancora fermi al 2005, anche se, stando a quanto è stato possibile apprendere in via ufficiosa dagli uffici della Cittadella, nel 2018 è stato stilato un documento sulla situazione energetica regionale nell’ambito del programma europeo “Horizon” che, forse, potrebbe costituire una base abbastanza aggiornata da cui partire per redigere un nuovo Pear. Quasi sempre a fare da consulente alle Regioni per questi scopi è Enea, e proprio all’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – i cui esperti avevano lavorato anche al vecchio Piano – la Cittadella si è rivolta di recente per avere una sorta di preventivo e capire quanto possa costare la consulenza scientifica per elaborare delle nuove linee guida partendo dal documento del 2018.

    Cosa hanno fatto in Emilia e Campania?

    Poi, eventualmente, si dovrà passare anche attraverso il confronto con tutti i soggetti istituzionali e sociali interessati. Giusto per avere qualche termine di paragone, la Regione Emilia-Romagna ha in vigore il Per adottato nel 2017 che fissa la strategia e gli obiettivi per clima ed energia fino al 2030 e si realizza attraverso un Piano triennale di attuazione (Pta). Questo strumento è stato aggiornato nel 2020 ed è stato già avviato il percorso partecipato che porterà al Pta 2022-2024. Scendendo più a Sud, il Piano energetico ambientale della Regione Campania è stato approvato nel luglio del 2020.

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    L’Università della Calabria

    Unical e Comuni per abbattere i costi delle bollette

    Intanto noi restiamo impantanati nei buoni propositi e nelle dispute ideologiche che finiscono per dividere anche il fronte ambientalista tra intransigenti e possibilisti. La politica ovviamente non è da meno in quanto a verbosità e divisioni, con l’aggravante che certe posizioni sono evidentemente dettate dalla ricerca di facili consensi più che dal merito di un tema di vitale importanza, oggi e nell’immediato futuro, per ognuno di noi.
    L’Università della Calabria (Dipartimento di Ingegneria Meccanica Energetica e Gestionale) in collaborazione con sedici Comuni Calabresi (Aprigliano, Belmonte, Carlopoli, Cerzeto, Cervicati, Crotone, Francica, Galatro, Morano Calabro, Mongrassano, San Marco Argentano, Parenti , Platì, Panettieri, San Fili, Tiriolo) , ha cominciato a lavorare, con un incontro avvenuto nei giorni scorsi, alla costruzione delle prime Comunità di energia rinnovabile (Cer) con lo scopo di andare «oltre l’obiettivo di soddisfare il fabbisogno energetico delle comunità locali, abbattendo drasticamente i costi per cittadini le imprese e gli enti locali».

    Eppur qualcosa si muove

    Lunedì 21 febbraio sullo stesso tema è previsto un ulteriore incontro in Regione a cui parteciperà il presidente Roberto Occhiuto, la sottosegretaria al MiTE Ilaria Fontana, il deputato Giuseppe d’Ippolito (Commissione Ambiente) e il docente Unical Daniele Menniti. Qualcosa – complice la tempistica del Pnrr – dunque si muove. La potenziale collaborazione tra governo, Regione, Comuni e università potrebbe rappresentare un’occasione irripetibile per costruire una nuova solidarietà energetica tra le comunità locali e superare l’approccio passivo dei cittadini-consumatori.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Quanto questa impostazione improntata alla cooperazione dal basso possa essere conciliabile con il business dei colossi dell’energia, che hanno evidentemente il profitto come obiettivo ultimo, non è difficile intuirlo. Per evitare commistioni di interessi, che sotto l’ombrello della transizione energetica magari nascondono nuovi tentativi di sfruttamento dei beni comuni, servirebbero dunque, innanzitutto, una chiara volontà politica e degli strumenti pubblici adeguati di programmazione e regolamentazione del settore. Proprio ciò che, almeno finora, in Calabria manca.

  • CoRe de ‘sta città unica: tutte le strade non portano a Cosenza-Rende

    CoRe de ‘sta città unica: tutte le strade non portano a Cosenza-Rende

    Chi ricorda quella vignetta di Altan che parlando della rivoluzione diceva: «Tutti la vogliono, ma nessuno la fa»? Ecco, la città unica Cosenza – Rende – Castrolibero è come la rivoluzione, una cosa di cui tutti parlano, ma nessuno realizza. Anzi, di più: è una creatura mitologica che ogni tanto viene evocata come una promessa, oppure una minaccia. L’ultima, in ordine di tempo, ad invocarla è stata la consigliera leghista Simona Loizzo, che ha annunciato una proposta di legge per favorire l’unione tra Cosenza a Rende.

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    Sandro Principe, storico sindaco di Rende ed ex sottosegretario al Lavoro

    In realtà la Regione Calabria una legge di questa natura ce l’avrebbe già, «solo che non l’ha mai applicata», spiega Walter Nocito, docente di Diritto pubblico all’Unical.
    Quella legge per la verità è piuttosto vecchia. Risale al 2006, assai prima della Delrio e dei provvedimenti finanziari del 2014 che su base nazionale favorivano con incentivi l’unione dei comuni. Quindi, a ben guardare, forse è meglio lasciarla nella polvere dove è rimasta tutto questo tempo.

    Manna: il cosentino che tifa Rende

    A restare moderna è invece l’idea di unificare Cosenza, Rende e Castrolibero, di cui si parla sin da quando Mancini e Sandro Principe ragionavano sull’unire le due realtà urbane, che peraltro non conoscono discontinuità urbanistica.
    Ad impedire reali passaggi di unificazione furono i tempi non maturi, ma pure un marcato campanilismo che separava le due comunità. E se qualcuno immagina che quell’antica diffidenza sia stemperata si sbaglia alla grande. Il sindaco di Rende, Marcello Manna, ci tiene a precisare che «sul cammino ci sono delle difficoltà».

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    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    «Cosenza nel processo di fusione non può pesare come capoluogo, ma deve rispettare le altre identità», spiega con fermezza Manna. Già in un recente passato, davanti alla delibera della giunta guidata da Mario Occhiuto che affermava che la nuova realtà urbana si sarebbe chiamata Cosenza, aveva annunciato barricate. Ci sarebbe da ragionare sul possibile strazio psicologico di chi come Manna è cosentino doc ma anche sindaco della città vicina e che in virtù di questo suo ruolo innalza lo stendardo del campanilismo con lo stesso vigore che fu del rendesissimo Sandro Principe, quando dovendo immaginare un nome per la nuova città, partorì l’acronimo CoRe, dalle iniziali di Cosenza e Rende, dimenticando Castrolibero. O, forse, considerando che CoReCa sarebbe stato un po’ comico e vagamente balneare.

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    CoRe, il cocktail di città in programma già ai tempi del POR 2000-2006

    La città unica di Caruso con Presila e Savuto

    Franz Caruso da parte sua, oltre a rivendicare una parte importante di questo progetto nella campagna elettorale che lo ha portato a diventare sindaco, intende difendere con forza il ruolo e l’importanza di Cosenza come capoluogo e come realtà regionale. «Nessuna volontà egemonica – assicura il sindaco di Cosenza – ma semplicemente il riconoscimento di una storia e di un peso. La nuova città non potrebbe mai chiamarsi Cosenza–Rende, come è avvenuto per Corigliano-Rossano».

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    Il sindaco di Cosenza. Franz Caruso

    A dividere i due sindaci è pure un aspetto strategico: dove far nascere il nuovo ospedale, che Manna vorrebbe vicino all’Università, idea cui Caruso è contrario. Entrambi invece convergono sull’idea di procedere per piccoli passi. Caruso guarda ad una associazione tra comuni. Pensa a un’area piuttosto vasta, in grado di coinvolgere le Serre cosentine, Mendicino, la Presila, fino addirittura a Rogliano, con i cui sindaci sta già svolgendo incontri. «Il compito che Cosenza deve svolgere in questo processo – spiega Caruso – è quello di motore di sviluppo di un’area vasta oltre la semplice area urbana, un ruolo dominante, come è fisiologico che sia e il nome di tale associazione potrebbe essere Città Bruzia».

    Tutti vogliono la città unica senza i debiti degli altri

    Parole che forse non piaceranno a Manna, che però condivide l’idea dell’associazione tra comuni come sorta di prova generale prima di un’unificazione formale. Senza dimenticare, però, le differenti condizioni di bilancio, perché «dobbiamo capire come si grava con i propri debiti sulla nuova realtà urbana».

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    Il sindaco di Castrolibero, Giovanni Greco

    Il riferimento è al catastrofico dissesto ereditato da Caruso, ma non si deve sottacere che le finanze di Rende appaiono pure esse non solidissime. Sul piano finanziario meglio di tutti sta Castrolibero, il cui sindaco Giovanni Greco appoggia l’idea di una associazione tra comuni, spiegando che la conurbazione è già nei fatti. «Era il 2016 quando il nostro comune dichiarò di essere pronto ad avviare quanto necessario per realizzare la città unica», spiega il sindaco. Aggiunge, però, che esistono dei passaggi propedeutici per favorire il processo ed evitare gli errori emersi dall’unificazione tra Rossano e Corigliano, «che hanno ancora due piani regolatori e due sistemi di tributi».

    L’esempio non proprio virtuoso di Corigliano-Rossano

    Si potrebbe pensare che le condizioni delle casse comunali e quindi dei tributi pagati dai cittadini potrebbero essere un problema. Invece no, almeno nell’immediato. Come spiega Maria Nardo, docente Unical di Economia delle aziende e delle amministrazioni pubbliche, «i comuni che si fondono possono, per la durata di cinque anni, mantenere gli stessi tributi precedenti alla fusione». Dunque all’inizio non cambierebbe nulla per i cittadini, immaginando che cinque anni siano sufficienti per riparare i danni di bilancio portati in dote nello sposalizio.

    Tuttavia è chiaro che, come avviene nelle aziende, gli attivi e passivi una volta uniti finiscono per spalmarsi su tutta la comunità. I vantaggi però sono notevoli, visto che «i trasferimenti aumentano di oltre il 60%».  La professoressa Nardo tuttavia avvisa che non è un cammino agevole. Per questo «è necessario realizzare un accurato piano di fattibilità che proietti avanti nel tempo le conseguenze di una eventuale unificazione», cosa che per esempio, non risulta che sia stata fatta per Corigliano–Rossano.

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    Il sindaco di Corigliano-Rossano, Flavio Stasi

    Sulla stessa linea torna Walter Nocito, che ricorda come «oltre al piano di fattibilità serve uno Statuto provvisorio che preceda il referendum cui saranno chiamati i cittadini». E questo è l’ultimo vero ostacolo, visto che è la Giunta regionale a decidere quale sia la maggioranza di cui tenere conto, cioè la somma totale dei cittadini chiamati al voto o le singole realtà comunali consultate. Che vuol dire decidere se ci si unisce o no.

  • Non solo Bronzi, i tesori da scoprire sotto i nostri mari

    Non solo Bronzi, i tesori da scoprire sotto i nostri mari

    La Calabria ha 800 km di costa, da queste acque sono passate navi dei Greci e dei Romani, di Garibaldi e degli Americani. Ma il mare per i calabresi ha anche un significato più ampio. È una minaccia sin dai tempi delle incursioni saracene e, al contempo, è anche una importantissima risorsa, un fattore di sviluppo. A proposito di mare, nel 2022 ricorrono 50 anni dalla scoperta dei Bronzi al largo della costa di Riace nell’ormai lontano 1972. «Si è discusso molto senza trovare un accordo su una questione che resta fondamentale: la possibilità che la coppia di statue costituisse in origine un gruppo più ampio. In realtà nulla sappiamo sulla composizione del carico», scrive Maurizio Paoletti nel libro, edito da Donzelli, Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace.

    Vestiti come dei Bronzi per Sandro Pertini

    Considerati il simbolo per antonomasia della Calabria, utilizzati a volte con esiti poco felici, hanno fatto scatenare più volte polemiche a livello nazionale. Le due statue bronzee – con particolari in argento, calcite e rame – sono tra le testimonianze più significative dell’arte greca classica. Secondo l’Istituto centrale per il restauro di Roma, furono prodotte direttamente ad Argo in Grecia nel V secolo avanti Cristo. Sandro Pertini, rimase folgorato dalla loro straordinaria bellezza e nel 1980 decise di farle esporre al Quirinale. Oggi i Bronzi sono la principale attrazione del Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria e si poggiano su basi antisismiche progettate dall’agenzia Enea.

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    La Testa del filosofo

    Il museo più visitato in Calabria

    I numeri del museo dal 2016 al 2020 parlano chiaro: qui sono arrivati quasi 900 mila visitatori. Corrispondono alla metà delle persone che negli stessi anni hanno visitato tutti i luoghi culturali gestiti dallo Stato in Calabria. Dal rimanente fasciame del relitto di Porticello (datato tra il 470/440 ed il 420 a. C), nello stretto di Messina, arrivano gli altri tesori esposti ora nella sala con i Bronzi: la Testa del Filosofo e la Testa di Basilea. Cosa c’entra la Svizzera con una scultura greca trovata in fondo al mare? Semplice: la Testa era conservata in un magazzino del museo di Basilea, dopo essere stata trafugata. Solo in seguito ritornò allo Stato italiano.

    Archeologia amatoriale

    La cosiddetta archeologia subacquea qui in Calabria nasce negli anni ’70, proprio con questi due rinvenimenti fortuiti: il relitto di Porticello e i Bronzi di Riace. «Se il rinvenimento del relitto di Porticello fu effettuato nel corso di scavi clandestini, la piaga dell’archeologia subacquea dalla quale nemmeno la ricerca terrestre è esente, quello dei Bronzi di Riace si verificò durante lo svolgimento di un’attività amatoriale, anch’esso un caso classico in questo campo di indagine», ci spiega l’archeologa Maria Teresa Iannelli.

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    Il relitto di Capo Bianco a Crotone

    Tesori sommersi: Calabria seconda solo alla Sicilia

    In realtà già nei primi anni del Novecento a Punta Scifo nel crotonese, l’archeologo trentino Paolo Orsi, con l’utilizzo di palombari, aveva rinvenuto un relitto antico. C’è comunque ancora tanto da scoprire nei fondali del nostro Mediterraneo? Gli esperti dicono di sì. Secondo la piemontese Alice Freschi, che ha condotto anni fa una serie di indagini con la cooperativa Aquarius per conto della Soprintendenza calabrese allora diretta da Elena Lattanzi, «in Italia il mare della Calabria è secondo solo alla Sicilia in termini di reperti sommersi e antichi relitti». Dalle ricerche effettuate, basate anche sulle tracce lasciate da Orsi oltre un secolo fa, si è potuto ricavare molto. Lo testimoniano le varie pubblicazioni scientifiche e alcuni musei archeologici calabresi.

    I resti del passato sepolti nei mari calabresi

    Turismo sostenibile in fondo al mare

    Il turismo archeologico subacqueo è un fenomeno in forte espansione ovunque nel mondo. E rappresenta anche un tipo di turismo sostenibile in grado di generare nei territori in cui è possibile svolgerlo un elevato ritorno economico.
    Salvatore Medaglia, ricercatore di Topografia antica presso l’Unical, spiega che «in Italia sono aperti alle visite alcuni siti archeologici subacquei. Ci si può immergere con guide appositamente autorizzate e secondo modalità specifiche. Si tratta di parchi archeologici come quello di Egnazia in cui è possibile visitare i resti sommersi del porto romano. O come nel caso di Baia, in cui alcuni diving convenzionati, con il consenso del Parco Archeologico dei Campi Flegrei, organizzano tour subacquei di grande suggestione tra le rovine di sontuose dimore d’età romana».

    Esposizione dei reperti subacquei nel Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria

    Il sentiero marino di Capo Rizzuto

    Anche in Calabria è possibile visitare siti archeologici sommersi? «Nell’Area Marina Protetta “Capo Rizzuto”, con il supporto della Soprintendenza – aggiunge Medaglia, che è anche docente di Archeologia subacquea presso l’Università della Tuscia – è attivo da alcuni anni un sentiero archeologico subacqueo, fruibile sia con l’autorespiratore sia mediante snorkeling sul relitto romano Punta Scifo D. Nella stessa area marina è pure possibile, sempre accompagnati dai diving autorizzati, visitare il relitto delle colonne romane di Capo Cimiti».

    D’altra parte «le acque crotonesi serbano una straordinaria concentrazione di testimonianze, forse quella maggiore del Mediterraneo». Medaglia, che insieme ad altri esperti ne studia da quindici anni i relitti sommersi, ricorda le centinaia di tonnellate di ceramiche e marmi che ha ammirato. Compreso «il più grande relitto lapidario di età imperiale che si conosca» a Punta Scifo D. Senza dimenticare le ultime ricerche in ordine di tempo nelle acque di Capo Rizzuto. C’è quella sul piroscafo Bengala – della flotta della “Navigazione Generale Italiana”, una delle maggiori compagnie europee dell’epoca – che naufragò lì nel 1889. O le indagini su due relitti del XVII-XVIII che «ha evidenziato la presenza di nove cannoni in ghisa, di due enormi ancore e di una bellissima campana in bronzo».

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    Tecnologie all’avanguardia targate 3D Research, spin-off targata Unical

    L’impresa spin-off nata all’Unical

    Praticamente un paradiso sott’acqua ancora in attesa di essere portato a galla. E che è possibile vedere, dunque, solo grazie a strumentazioni digitali e immersioni autorizzate. In questo campo la tecnologia ricopre un ruolo rilevante. Siamo andati allora a trovare all’Università della Calabria l’azienda spin-off 3D Research Srl che ha progettato, tra l’altro, dei tablet subacquei utili ai divers e videogiochi per gli smartphone.

    Si tratta di una realtà con 15 dipendenti nata nel dipartimento di Ingegneria Meccanica, Elettronica e Gestionale che lavora nel campo della valorizzazione e della tutela dei beni culturali. Fabio Bruno, professore associato di Virtual and Augmented Reality, guida un team di tecnici e ingegneri provenienti dall’Unical che ha praticamente rivoluzionato il modo di intendere queste antiche bellezze. Un’eccellenza tutta calabrese che si sta facendo valere in giro per l’Europa, partecipando a progetti di rilievo internazionale. Ecco cosa ha raccontato al nostro giornale.

     

  • Quattro ospedali in una montagna di guai

    Quattro ospedali in una montagna di guai

    Forse non tutti conoscono Nardodipace e, probabilmente, molti ne hanno sentito parlare per una banalizzazione mediatico-statistica che alla fine degli anni ’80 ne fece il «paese più povero d’Italia». Al di là delle etichette, è in realtà un paese simbolo delle aree interne. È l’ultimo Comune della provincia di Vibo e i suoi 1400 abitanti si dividono tra l’abitato principale, a 1000 metri di altezza, e 4 frazioni. Alcune contrade distano più di 30 km dal centro. Che a sua volta è lontano altri 20 km da Serra San Bruno, dove c’è l’ospedale più vicino. C’è gente, dunque, che per arrivarci deve fare almeno un’ora di auto, su strade dissestate che in inverno sono ricoperte di ghiaccio e neve.

    Da Nardodipace a Serra San Bruno, ore per un’ambulanza: l’esposto del sindaco

    Sempre che ce l’abbia, un’auto, che sia in grado di guidarla e che non stia tanto male da non poter raggiungere l’ospedale con mezzi propri. In quel caso la sorte dovrà essere clemente: l’unica ambulanza a disposizione per decine di migliaia di utenti potrebbe essere impegnata in un’altra emergenza e dunque metterci un bel po’ ad arrivare. È successo a una docente che proprio in una classe di Nardodipace si è accasciata a terra per una crisi ipertensiva ed è stata soccorsa dopo ore: non era presente in paese nemmeno il medico di base, così dopo l’episodio, approdato sulla stampa nazionale, il sindaco Antonio Demasi ha addirittura presentato un esposto ai carabinieri. Si è sempre parlato della necessità di una seconda ambulanza e in teoria ci sarebbe ma, in pratica, la si può utilizzare solo per trasporto sangue, dimissioni di pazienti Covid o consulenze specialistiche.

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    L’ospedale di Serra San Bruno

    Da qualche mese è arrivato un medico in più, così al Pronto soccorso tutti i turni sono coperti. Per assicurare la presenza h24 si è fatto ricorso alle prestazioni aggiuntive – che costano all’Asp 1 euro al minuto – ed è capitato anche che qualcuno avesse un malore dopo un turno di 20 ore. Per il resto, in un ospedale in cui c’erano molti reparti attivi e addirittura si partoriva, oggi ci sono una ventina di posti letto di Medicina e altrettanti di Lungodegenza. La Chirurgia quasi non esiste: c’è un solo medico che fa Day Surgery ed è vicino alla pensione. Poi un solo anestesista per le urgenze e un solo medico anche per la Dialisi. Nessuno per la Radiologia, da dove i referti vengono trasmessi a Vibo con annessi disagi e ritardi.

    Gli altri ospedali di montagna

    Una situazione analoga a quella di Serra la si riscontra anche negli altri tre ospedali montagna, classificati come tali nei decreti dei vari commissari ad acta e su cui da oltre vent’anni aleggia lo spettro della chiusura. Quello che al momento sembra più attrezzato è il presidio di San Giovanni in Fiore, che ha comunque subìto un forte ridimensionamento e non è certo privo di criticità. Tanto che di recente è stata lanciata una petizione online  che è già oltre le 1500 sottoscrizioni.

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    L’ospedale di San Giovanni in Fiore

    San Giovanni in Fiore sta oltre i 1000 metri e gli ospedali più vicini sono a Crotone e Cosenza, tra i 50 e i 60 km. I suoi 17mila abitanti – ma contando i limitrofi l’utenza arriva a 30mila persone – hanno a disposizione un Pronto soccorso con 5 medici e una decina di anestesisti che ruotano in convenzione con l’ospedale di Crotone. Ci sono tre ambulanze ma non sempre hanno un medico a bordo. Poi 20 posti letto di Medicina e un reparto di Lungodegenza nuovo ma mai aperto. Soprattutto – e qui sta la differenza rispetto agli altri ospedali di montagna – c’è un reparto di Chirurgia che, a breve, dovrebbe tornare operativo con l’arrivo di un medico da Crotone e gli avvisi di mobilità per garantire il personale necessario.

    Acri e Soveria Mannelli

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    L’ospedale di Acri

    Ad Acri, che è un po’ più in giù come altitudine ma che è tra i 4 il Comune più popoloso, c’è il Pronto soccorso con la turnazione di 4 medici e, anche qui, un solo anestesista-rianimatore per le urgenze. Ci sono poi 16 posti letto Covid, destinati per lo più a pazienti non gravi che arrivano già da altri ospedali, ma è chiaro che la gestione dei percorsi dedicati impegna non poco il settore dell’emergenza. Sono attivi i 20 posti letto di Medicina e altri 10 in Dialisi, ma la Chirurgia è sostanzialmente ferma.

    A Soveria Mannelli c’è la guardia attiva di 4 anestesisti e un medico per ogni turno di Pronto soccorso, ma c’è una sola ambulanza. La Medicina ha 22 posti, altri 4 sono in Lungodegenza. Mentre in Chirurgia, anche qui, si fa solo Day Surgery. L’ospedale del Reventino è al centro di un caso perché, nel dossier inviato ad Agenas dalla Cittadella con gli interventi da finanziare con il Pnrr, è stato previsto nei locali dell’attuale presidio un Ospedale di comunità. La nuova impostazione, votata più all’assistenza territoriale, difficilmente si concilierebbe con l’esistente, ma al Comitato Pro Ospedale di Soveria sono arrivate rassicurazioni sulle possibilità di modifica, anche perché solo un nuovo Dca potrebbe modificare la configurazione di ospedale di montagna.

    Il Pronto soccorso dell’ospedale di Soveria Mannelli

    Scopelliti, Loiero e gli ospedali di montagna

    La politica non ha comunque mai mancato di utilizzare questi territori come bacini elettorali, non risparmiando promesse puntualmente smentite dai fatti. Ciò ha generato negli anni diversi movimenti civici di protesta iniziati con Peppe Scopelliti, destinatario di dure contestazioni ai tempi della famigerata chiusura di 18 ospedali e del ridimensionamento di quelli di montagna, che però secondo una previsione iniziale partorita già all’epoca di Agazio Loiero erano destinati alla chiusura.

    Gli epigoni di Scopelliti sui territori si producevano in annunci che davano addirittura come imminente l’attivazione non solo di reparti di Chirurgia h24 ma anche di qualche posto letto di Terapia sub intensiva. Tutte cose mai avvenute. Ma il commissario ad acta nominato dal governo Renzi, allora targato Pd, è riuscito a fare anche peggio. La rete ospedaliera disegnata da Massimo Scura per la montagna prevedeva una dotazione identica a quella precedente, andando però oltre in relazione alla costruzione dei “nuovi” ospedali. L’attivazione di quello di Vibo, per esempio, secondo Scura dovrebbe assorbire completamente tutti i posti letto presenti in provincia.

    Oliverio sconfessato

    Le manifestazioni partite dalla montagna hanno mobilitato migliaia di persone. E c’è sempre stato chi, come l’allora segretario regionale del Pd Ernesto Magorno e l’ex presidente della Regione Mario Oliverio, andava rassicurando i territori su cose che non poteva in realtà garantire. Nel 2015 il “decreto Scura” sulla riorganizzazione ospedaliera è arrivato anche sul tavolo del Presidente della Repubblica con un ricorso dei comitati montani finanziato da raccolte fondi tra i cittadini. Il ricorso è poi arrivato al Tar, che lo ha rigettato, facendo emergere che la giunta Oliverio, a parole critica verso Scura, nei fatti si era costituita in giudizio contro i comitati e in appoggio al commissario.

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    Massimo Scura e Mario Oiverio visitano un ospedale calabrese

    Basta farsi un giro tra Nardodipace e Serra San Bruno, o salire fin nel cuore della Sila e del Reventino, per rendersi conto di quanto le rivendicazioni di queste popolazioni non siano neanche avvicinabili a quelle di chi pretende l’ospedale sotto casa. Non si invocano nemmeno più i punti nascita, per altro chiusi da tempo anche in ospedali più grandi come quello di Soverato. Si pretenderebbe quel poco che è previsto in provvedimenti mai attuati, come gli anestesisti e gli altri medici necessari per una gestione adeguata delle emergenze. E poi dei reparti di Chirurgia che non siano solo ambulatori in cui si rimuove qualche verruca.

    Un caso che riguarda il 58% dei calabresi

    Questi ospedali di frontiera sono l’unico avamposto sanitario, e dunque di garanzia di diritti primari nonché di minima civiltà, per migliaia di persone delle aree interne. E quando parliamo di aree interne ci riferiamo al 78% dei Comuni calabresi e al 58% degli abitanti della regione. Che si vedono spogliati di ogni servizio e devono pure sorbirsi, ciclicamente, la retorica della lotta allo spopolamento e dell’attrattività dei borghi. Meriterebbero una pur minima, ma reale, rappresentanza politica. Magari capace di fare meno passerelle e di pretendere risposte da Catanzaro e da Roma. Dall’assunzione del personale necessario alla modifica del decreto ministeriale che fissa gli standard ospedalieri in massimo 3,7 posti letto ogni 1000 abitanti. Altrimenti saremo costretti ancora a lungo a sopravvivere tra le tragedie delle «decine di Mesoraca» – tanto per citare non un passante, ma Roberto Occhiuto – che ci sono in tutta la Calabria.

  • Più bio, meno bar: lavoro in Calabria, chi si è arricchito e chi è rovinato

    Più bio, meno bar: lavoro in Calabria, chi si è arricchito e chi è rovinato

    «Con tutti questi contagi e la paura di infettarci, stavolta il lockdown ce lo siamo imposto da soli». Amara è la considerazione del tabaccaio in uno dei vicoli del centralissimo Corso Mazzini a Cosenza. Prima della pandemia la sua attività dipendeva anche, ma non solo, da tabagisti e ludopatici. In queste settimane sono le uniche creature che vede comparire davanti al bancone. Ma se le dipendenze sono resilienti, le altre forme di consumo cedono il passo. Strade deserte, abbassate le saracinesche, pub semivuoti, dalle 8 di sera viaggiano soprattutto bici e motorini dei rider, mentre qualche pattuglia della polizia rovista tra i pochi locali aperti per scovare avventori sprovvisti del fastidioso green pass. »È come se la gente avesse frequentato un corso di formazione accelerato per consumare a distanza», medita sconsolato il titolare di uno dei pochi negozi di calzature superstiti.

    Dalla soppressata al sushi

    Nel giro di due anni sono mutati gli stili di vita. Non più soltanto i ragazzi, ma intere famiglie calabresi, come milioni di altre nel mondo occidentale, sono passate dalla soppressata al sushi, comprano su internet, divorano serie TV sulle piattaforme digitali, praticano fitness in casa, lavorano e studiano davanti al PC. Le nuove attività trainanti sono l’e-commerce, il food delivery, l’e-learning, l’infotainment. Fuori da monitor e display, tutto sembra destinato a sparire o a traslocare in periferia. Se ne sono accorti i gestori di cinema, teatri e piscine, ma soprattutto i commercianti degli storici negozi di abbigliamento nei principali centri urbani: chiusi, falliti, assorbiti dai franchising che spuntano ovunque.

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    Un rider effettua una consegna a domicilio

    Lavoro e pandemia

    Il coronavirus ha contribuito tanto a cambiare il volto delle attività lavorative in moltissime città e nei loro dintorni. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista Regional science and urban economics sulle conseguenze economiche della pandemia, di cui sono coautori Augusto Cerqua e Marco Letta, ricercatori del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche della Sapienza di Roma, in alcune zone della Calabria e di altre regioni meridionali i posti di lavoro sarebbero addirittura in crescita. «Se vogliamo capire la rilevanza di questi dati – spiega Cerqua – dobbiamo saperli interpretare. Siamo pervenuti a tale conclusione osservando le differenze quantitative tra la situazione com’è e quella che ci aspettavamo che si sarebbe verificata se il coronavirus non fosse piombato nelle nostre vite. In sostanza, abbiamo confrontato i numeri degli occupati nei settori dei servizi e delle manifatture dopo il primo anno di Covid con le aspettative che avevamo nel 2019 per la fine del 2020 se la pandemia non fosse mai avvenuta».

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    Augusto Cerqua, coautore insieme a Marco Letta dello studio pubblicato su Regional science and urban economics

    La sorpresa: Calabria meglio del previsto

    In effetti eravamo abituati a veder crescere il lavoro al centro-nord, mentre nel sud, in base alle indicazioni degli anni precedenti, si prevedeva un ulteriore calo dei livelli occupazionali. Nelle zone più periferiche, di solito si perdono posti perché chi le abita tende a emigrare. «Invece, in alcune aree la pandemia ha in parte frenato questi fenomeni migratori. Inoltre – aggiunge Cerqua – i sussidi concessi dal governo hanno incentivato i posti di lavoro. In Calabria si è verificato in media un lieve calo, ovviamente soprattutto nei servizi e nel turismo, ma rispetto alle previsioni è andata molto meglio della media italiana. È diventato difficile operare in tutte quelle attività che richiedono contatti tra tante persone, come hotel, stabilimenti balneari, ristoranti, bar, e in generale tutti gli esercizi commerciali. Al contrario, chi poteva lavorare da casa è stato meno danneggiato dal punto di vista occupazionale ed economico. Soprattutto sono state penalizzate le aree che esportano. Ne ha risentito moltissimo chi esportava in Russia e altri Paesi dell’est. Nella prima fase pandemica è diminuito il trade in generale, anche all’interno dell’Europa, perché si era diffusa una paura che il contagio potesse viaggiare anche con gli oggetti».

    Periferie alla riscossa

    Tuttavia, a differenza del passato, questa crisi non viene dal manifatturiero. Se la confrontiamo con la grande recessione, quando le più danneggiate furono le aree povere e le manifatture, stavolta ne hanno risentito, ma non tanto quanto i servizi. «La nostra analisi riguarda i territori, non i singoli individui. Chi non ha il paracadute – precisano i due studiosi – è stato pesantemente colpito. Eppure, determinati settori sono cresciuti. Pensiamo al farmaceutico. E dal punto di vista geografico, si sono arricchite le aree non turistiche. Potrebbero beneficiare di questa situazione le zone periferiche. C’è stata infatti una riscoperta delle località più remote, una tendenza a uscire dalle città, abitare in case con giardino, vivere in siti più aperti. Ecco perché potrebbe scaturirne una tendenza a rivitalizzare i territori periferici».

    Il lavoro in Calabria dall’inizio della pandemia

    La Calabria nello studio pubblicato su “Regional science and urban economics”. I differenti colori si riferiscono al divario tra i posti di lavoro che si prevedevano, prima della pandemia, per il dicembre 2020, e i dati concreti che si sono poi registrati. In rosso scuro le zone dove la riduzione dei posti di lavoro ha superato il 10%, in giallo le aree con un ribasso sotto il 2,5%, in verde le aree dove i livelli di occupazione si sono mantenuti stabili o si è rilevata una crescita.

    In Calabria la mappa tracciata dallo studio effettuato dai due economisti censisce 44 sistemi locali del lavoro, cioè aggregazioni di centri abitati che l’Istat disegna sulla base del fatto che tendenzialmente la maggior parte delle persone vi lavora e vive. Sono quindi gruppi di Comuni scelti in base agli spostamenti lavorativi dei residenti. Stando ai dati elaborati dai due studiosi, Cosenza e zone limitrofe fanno registrare – 2% di occupati nei servizi e circa + 2% nel manifatturiero. Lamezia subisce un bel calo trainato dai servizi: -6,5%, mentre la manifattura esprime un aumento del 3,5%, Reggio Calabria –4% nei servizi e +1,4% nelle manifatture. Fanno registrare segni positivi anche Bovalino, Bianco e Melito Porto Salvo. Gioia Tauro addirittura +8% sul manifatturiero, rispetto alle stime di quel che sarebbe successo senza Covid. Corigliano-Rossano -3% in entrambi i settori. Cassano allo Ionio e Cirò Marina -4% sui servizi. Catanzaro come San Giovanni in Fiore e Scalea: impatto nullo perché le due voci si equilibrano, Soverato –2%, Paola –1%. Tropea è andata peggio di tutti: calo nei servizi pari a -8,5%.

    Un futuro diverso

    Cosa consigliare dunque alle piccole imprese fallite e ai commercianti rovinati da queste due annate terribili? Quelli che sono ancora in grado di provare a risollevarsi, in quali settori potrebbero investire? Gli autori della ricerca hanno pochi dubbi: «Non crediamo che ci sarà un ritorno alle città. Chi potrà, preferirà vivere nelle aree esterne ai grandi e medi centri. In ufficio, invece di andarci cinque giorni a settimana, ci si recherà magari una o due volte. In tanti lavoreranno in una città ma vivranno in un’altra. Prima della pandemia tutto ciò era meno praticabile. I servizi di food delivery oggi si trovano nei grandi centri urbani, ma presto saranno allargati alle aree marginali. I settori che potranno beneficiare dei nuovi stili di vita e consumo saranno quelli legati alle produzioni biologiche. Stiamo assistendo a un forte focus sulle fonti di energia e sull’economia sostenibile. Col PNRR ci sarà un’accelerata su questi temi. Quindi, in prospettiva, aprire un bar nel centro di Cosenza non parrebbe una grande idea».

    Quanto durerà?

    Rimangono da capire la durata e la qualità delle nuove occupazioni generate dalla pandemia. Cioè se alcuni sistemi locali galleggino in virtù dei contratti a tempo determinato e degli occupati stagionali, occasionali, saltuari. Sono queste le forme del lavoro riconteggiate all’infinito, com’è abitudine dei recenti governi d’impostazione neoliberista, esperti nel truccare il pallottoliere pur di fare bella figura. Se è abbastanza chiaro quali siano i soggetti che si stanno arricchendo, non è difficile immaginare che in diverse zone della Calabria gli investimenti nei settori in crescita provengano anche dai residui salvadanai della vecchia rendita fondiaria riconvertita e dalle inesauribili casse della multiforme malavita nostrana. Ma tra i commercianti c’è anche chi prova a rialzarsi sulle proprie gambe. Con dignità.

  • Credito killer, diecimila imprese calabresi a rischio

    Credito killer, diecimila imprese calabresi a rischio

    Iniziamo con una cifra poco rassicurante: sono poco più di 10mila le imprese calabresi con seri problemi di credito.
    Tradotta in percentuali, questa cifra sembra piccola perché equivale al 5,6% delle attività in crisi in Italia. In realtà è un dato allarmante, se lo si paragona al resto del Sud, dove la percentuale di imprese con crediti in sofferenza è il 4,8%, e al sistema Paese, dove arriva al 4,5%.
    In questo caso, il Covid non c’entra, perché questi dati sono fermi alla fine del 2019.
    Ma sono gli unici disponibili provenienti da fonte autorevole, cioè il Rapporto sull’economia della Calabria pubblicato da Bankitalia lo scorso giugno.

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    Le notizie cattive non si fermano qui, purtroppo: la percentuale delle aziende con crediti in sofferenza nel 2019 è superiore dell’80% a quella censita nel 2007, che si attestava al 3,7%, con circa 5.200 imprese nei guai.
    Ma anche allora la Calabria aveva la sua brava maglia nera, sia rispetto al Sud, dove il dato era del 3,2%, sia rispetto al resto del Paese, dove oscillava attorno al 2,8%.
    Segno che le grandi crisi finanziarie iniziate nel 2008 hanno colpito tutta l’Italia in maniera più o meno grave, ma hanno affossato la Calabria, dove la struttura imprenditoriale è fatta in larghissima parte di imprese di dimensioni ridotte o minuscole.

    Tutta colpa del credito?

    I dati elaborati da Bankitalia provengono da Infocamere e dalla Centrale dei rischi. Il che, in parole povere, significa che le imprese censite sono considerate “cattive pagatrici”.
    Ma non è tutta colpa loro, anzi. «Il problema», spiega Franco Rubino, ordinario di Economia aziendale all’Unical, «è dovuto soprattutto alle pessime condizioni del credito, che mettono in ginocchio le attività».
    La dichiarazione di Rubino conferma in pieno l’analisi di Bankitalia, secondo cui «la Calabria è tra le regioni con la peggiore qualità del credito».

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    Franco Rubino, ordinario di Economia aziendale all’Unical

    Ma da cosa dipende questa qualità “bassa”? Senz’altro dai tassi d’interesse eccessivi che, come abbiamo già raccontato su I Calabresi, toccano il 6,7%. Cioè più del doppio del Nord.
    Tutto questo, spiega ancora Rubino, «si traduce in una difficoltà di accesso al credito doppia», che può peggiorare proprio per le aziende in sofferenza.
    E non è da escludersi che dietro tassi così alti si celino forme più o meno larvate di usura bancaria.

    Usura e banche, missione impossibile

    È difficilissimo, tuttavia, capire quando dai tassi elevati ma a norma di legge si arriva a forme di usura vere e proprie.
    Il problema può essere di decimali, perché tutto ciò che supera il Taeg (il Tasso annuo globale effettivo, calcolato su tabelle elaborate periodicamente dal Ministero dell’economia), anche di uno zerovirgola, diventa usura. E in questo caso, il problema cambia, perché si va sul penale.
    Perciò è impossibile censire a priori l’usura bancaria, che emerge solo in seguito a denuncia del debitore.

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    Fernando Scarpelli, responsabile provinciale di Cosenza dell’Associazione per la difesa degli utenti dei sevizi bancari

    Ciò non toglie che i casi possono essere più alti di quanto non si creda, spiega Fernando Scarpelli, avvocato e responsabile provinciale di Cosenza dell’Adusbef, l’Associazione per la difesa degli utenti dei sevizi bancari: «In un anno difendo in media oltre venti debitori vessati», spiega Scarpelli. E l’alto numero di risultati positivi, più che un complimento al professionista, indica un’altra cosa: vincere una causa contro un istituto di credito non è difficile perché le condizioni con cui sono concessi i crediti risultano eccessive. Già: «La differenza tra un mutuo concesso con un tasso variabile, che tende ad alzarsi, e una pratica di usura bancaria può essere minima». Solo che, nel secondo caso, finisce sotto i rigori della legge, nel primo no. Ma per il debitore vessato non cambia nulla.
    Peggio che andar di notte per le piccole imprese, che arrivano a pagare il 9,6% per un fido. In questo caso, prosegue Scarpelli, «i debiti si “incagliano” davvero per poco: bastano centomila euro o poco meno e si viene segnalati alla Centrale dei rischi».

    Morire di debiti

    Il dato più devastante riguarda la morte delle aziende in sofferenza. Secondo Bankitalia, in cinque anni oltre il 40% delle imprese segnalate alla Centrale dei rischi chiude i battenti o, peggio, fallisce. Del restante 60% solo un terzo esce dalla sofferenza. In pratica, solo 2mila aziende sulle 10mila prese a campione di Bankitalia riesce a risanarsi.
    E le altre? Tirano a campare per cinque anni e passano da un creditore all’altro, perché nel frattempo le banche, per ripulire i propri bilanci, vendono i propri crediti. E non sono somme piccole: nel 2020, sempre secondo Bankitalia, le banche hanno ceduto o “cartolarizzato” crediti in sofferenza per un totale di 428 milioni di euro. Una cifra enorme, paragonata al Pil della Calabria, che nello stesso periodo perdeva l’8%, attestandosi sotto i 30 miliardi.

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    La morale della favola è chiara: se non fosse stato per questi tassi alti, molte imprese potrebbero reggere. Perché, rivela sempre Bankitalia, la capacità di sopravvivenza delle imprese in crisi è comunque superiore alla media nazionale e la capacità di ripresa è uguale al resto d’Italia.
    Tutto questo, ovviamente, prescinde dal Covid, che ha dato la mazzata, provocando una contrazione immediata delle imprese del 3,2% nel periodo caldo della pandemia e aumentando la mortalità delle piccole imprese artigiane e terziarie.
    In questo caso, è difficile accollare al credito tutte le responsabilità, perché molte aziende, soprattutto nella ristorazione, hanno semplicemente chiuso per mancanza di lavoro.

    Accesso al credito

    Avere sofferenze bancarie significa trovarsi nella classica situazione del cane che si morde la coda: più si hanno debiti meno credito si può avere e, soprattutto, è più difficile rinegoziare i fidi e i mutui. Con risultati devastanti: nel 2020 è emerso che circa il 44% delle imprese reggine aveva problemi enormi nell’accendere linee di credito.
    Va da sé che, a prescindere dalle moratorie e dalle misure di soccorso predisposte per affrontare la pandemia, questa situazione rischia di avere solo uno sbocco. L’usura. Ma in questo caso, si passa dall’analisi economica alla cronaca giudiziaria…

  • Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Da Rosarno a San Ferdinando: il Far West del lavoro nero in Calabria

    Ammassati nella tendopoli a San Ferdinando o nel campo di contrada Russo a Taurianova. Ospiti dell’accampamento container di Testa dell’Acqua a Rosarno o dei tanti casolari abbandonati tra gli aranceti della Piana di Gioia: dalla rivolta dei migranti del 2010 poco o niente è cambiato, con i nuovi insediamenti (più o meno) abusivi, che si sono sovrapposti ai vecchi, mutuandone le stesse dinamiche. Una situazione grave, sostanzialmente immutata nel tempo e incancrenita da inefficienze e sprechi. Una situazione che si lega, inevitabilmente, con il mercato del comparto agricolo – che della manodopera migrante, nella Piana, si serve per sopravvivere – divenuto a sua volta un vero e proprio Far West fatto di caporalato e sfruttamento, norme cervellotiche e finanziamenti a pioggia.

    La rivolta di Rosarno del 2010

    Le battaglie solo annunciate

    Sono tra sei e settemila (anche se un censimento accurato non è mai stato realizzato) i lavoratori migranti che nella stagione della raccolta convergono nelle campagne alle spalle del porto di Gioia Tauro. E se anche i numeri si sono parzialmente ridimensionati nei due anni di pandemia, sono sempre i lavoratori africani a sostenere l’intero comparto, fatto, in questo pezzo di Calabria, di una proprietà più che atomizzata, costituita da migliaia di minuscole aziende a conduzione familiare.

    Micro appezzamenti di uno, massimo due ettari di estensione, divisi tra filari di agrumi e kiweti, per aziende – circa 13 mila in totale – che non riescono a creare rete e che, in genere, sopravvivono con ricavi che somigliano a mance. Quelle delle grandi aziende di produzione di succhi, che pagano per i frutti, in molti casi raccolti direttamente a terra, meno di dieci centesimi al chilo. E quelle delle catene della grande distribuzione, che comprano attraverso aste al ribasso arance e mandarini destinate al consumo e pagate ai produttori tra i 20 e i 25 centesimi al chilo. Va un po’ meglio con i kiwi, che riescono a ritagliarsi un prezzo vicino agli 80 centesimi.

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    Frutta e verdura in esposizione all’interno di un supermercato

    Una decina di anni fa, le associazioni di categoria (Confagricoltura e Coldiretti) avevano annunciato – con tanto di convegno in grande stile e annessa sfilata di trattori – una battaglia campale su due fronti: da una parte il prezzo minimo al chilo da ottenere dalle multinazionali che si riforniscono nella Piana, dall’altra la percentuale minima di succo da inserire nelle bevande. Una rivoluzione che avrebbe fatto bene all’intero settore. Passati gli anni, di quella battaglia su cui si sarebbe dovuta riscrivere la nuova economia agricola della Piana, resta solo qualche poster ingiallito dal tempo, ma di risultati neanche a parlarne.

    Far West

    E se la parcellizzazione esasperata della proprietà agricola non aiuta, a complicare ulteriormente le cose per uno dei settori che in passato era stato la forza di questo territorio ci sono una serie di regole legate al mercato del lavoro agricolo che sembrano essere state scritte per facilitare il lavoro nero. Regole che fissano a 102 il tetto massimo per le giornate lavorative per ogni ettaro di terra che possono essere frazionate a più lavoratori e che possono essere regolarizzate nei giorni successivi all’effettiva prestazione resa.

    Un meccanismo controverso che, anche a causa della antica carenza di ispettori del lavoro, favorisce la mancata contrattualizzazione dei raccoglitori che, quando va bene, riescono a farsi mettere in regola solo per poche giornate al mese. Il resto, raccontano le innumerevoli operazioni della Procura, finisce sul “mercato” delle attestazioni lavorative false. Un mercato illegale così esteso (sfruttato principalmente per ottenere benefici pensionistici) che diventa difficile anche solo provare a quantificarlo. A pagarne il prezzo, ovviamente, i migranti, che di questa Babele sono l’anello più debole. La mancata o, nel caso migliore, la parziale contrattualizzazione, favorisce infatti il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in nero, con i braccianti africani costretti per bisogno ad accontentarsi di salari più che dimezzati rispetto alla norma.

    In strada per salari decenti

    Una deriva che, sul campo, è contrastata dalle associazioni di volontariato e dal cosiddetto “sindacato di strada” che la Flai Cgil mette in campo da anni nel tentativo di informare i lavoratori di San Ferdinando e dintorni rispetto ai loro diritti. Tra le complanari di campagna alla ricerca dei braccianti che attendono il “caporale” di turno o all’esterno delle aziende agricole, durante le poche pause dal lavoro, Rocco Borgese e i suoi colleghi del sindacato, passano le giornate a tentare di convincere i lavoratori a non piegarsi ai salari da fame che gli vengono proposti.

    Un servizio su base volontaria (a cui si aggiunge quello di assistenza legale e sanitaria) portato avanti anche da due lavoratori africani che si perpetua tre volte a settimana e che è riuscito anche a raccogliere i primi frutti. Ma che rappresenta, purtroppo, solo una goccia nel mare in un’emergenza lavorativa che si ripercuote anche sulla possibilità di affittare una normale abitazione. Fatta salva una consistente sacca di razzismo e diffidenza infatti, molti dei migranti non riescono ad affittare un alloggio decente proprio a causa della precarietà del loro lavoro. Nessuno (o quasi) è disposto ad affittare loro un casa vera e, di conseguenza, insediamenti abusivi e baraccopoli più o meno regolarizzate sono spuntate come funghi in tutti i comuni della Piana.

    Nuova chiusura per San Ferdinando

    Sorto qualche giorno dopo e a distanza di poche centinaia di metri dalla baraccopoli sgomberata dopo un blitz dell’ex ministro dell’interno Salvini, l’accampamento nato nel retroporto continua ad essere uno dei punti di riferimento per la forza lavoro africana che nelle stagioni della raccolta si concentra sul territorio da tutta Italia. Ufficialmente dismessa dall’estate del 2021 (ma ancora popolata da circa 500 persone che ci vivono in condizioni subumane), la tendopoli di San Ferdinando dovrebbe avere i giorni contati. Nelle settimane passate infatti il Prefetto di Reggio ha annunciato la futura chiusura del sito: chiusura che però resta condizionata all’intervento della Regione, che dovrebbe dare il via alla riconversione in foresteria di una delle tante strutture industriali abbandonate presenti in zona.

    In seguito ad un vertice tra i sindaci di Gioia e San Ferdinando (Rosarno è guidata da una terna prefettizia in seguito all’arresto del sindaco Idà) e i funzionari regionali, la scelta è caduta sui capannoni dell’ex Opera Sila, lo stabilimento per la trasformazione delle olive da anni in rovina e già utilizzato dai lavoratori africani come rifugio improvvisato, prima dello scoppio della rivolta. L’area, di proprietà della Regione, necessita però di un radicale intervento di bonifica e trasformazione e i tempi di realizzazione del progetto non saranno brevi. Così, in attesa della riconversione dell’opificio regionale si naviga a vista, con progetti in corso d’opera che, per tamponare l’emergenza, ripropongono l’uso di moduli abitativi temporanei (leggi container) o si appoggiano a fondi di garanzia di matrice assistenzialistica che finora non hanno riscosso risultati apprezzabili.

    Le case fantasma da tre milioni di euro

    Sullo sfondo, rimangono le palazzine nuovissime costruite alla periferia di Rosarno grazie ai quasi 3 milioni di euro di fondi per l’emergenza migranti e ancora in attesa di assegnazione. Restano disabitate, in contrada Torricelle, ennesimo monumento incompiuto all’inefficienza amministrativa calabrese. Sostanzialmente completate da tre anni, le palazzine (4 padiglioni in tutto capaci di ospitare comodamente 250 persone) avrebbero bisogno degli ultimi lavori di rifinitura e del collettamento alla rete fognaria cittadina. Un progetto nato tra le polemiche e che sembra essersi smarrito a un passo dal traguardo, soffocato da vecchie e nuove baraccopoli.

  • Dalla tarantella alla trap, passando per il neomelodico: come cambiano i “canti di malavita”

    Dalla tarantella alla trap, passando per il neomelodico: come cambiano i “canti di malavita”

    Certamente canzoni del genere non le vedremo mai in corsa per la vittoria del Festival di Sanremo. Né i videoclip e i film che con esse si accompagnano rimarranno nella storia del cinema e della tecnica registica. Ma tutto si può dire tranne che non riscuotano successo. Sono quelle che, storicamente, vengono definite i “Canti di malavita”.

    I canti di malavita

    Negli anni si è passati da fisarmoniche e organetti, con ritmi che ammiccano alla tarantella calabrese, alle canzoni neomelodiche. E, soprattutto negli ultimi anni, alla musica rap e alla sua derivazione, la trap. Quel mix tra batteria cupa e sintetizzatori. E anche i supporti sono cambiati. Se un tempo, a Polsi, dove a inizio settembre si celebra la festa della Madonna della Montagna, le bancarelle che vendono i cd – e, in alcuni casi, persino le musicassette – con i “canti di malavita” sono tra le più diffuse, oggi questi capolavori li ritroviamo spesso su YouTube e sui social. Dove fanno il pieno di like e interazioni.

    Ma il cliché è quello di sempre. E può essere assimilato ai corridos in voga nel Centro e nel Sud America, soprattutto negli ambienti legati al narcotraffico. Modelle, ballerine, cantanti, attrici. Insieme a soldi, auto di lusso (rigorosamente blindate), droga, alcolici e soldi. Tutto questo appare sempre in questi videoclip che circolano su internet e che fungono da vera e propria propaganda dei cartelli della droga. Qui, invece, gli “eroi” sono i boss, i carcerati, gli ergastolani. Nei corridos si ostenta la vita da nababbi dei narcos, mentre nei “canti di malavita”, ci si pone come uomini pii e devoti, vessati dai cattivi, da combattere e rifuggire: lo Stato e le forze dell’ordine (gli sbirri).

    “Figli da gente”

    L’ultimo brano in ordine di tempo si intitola Figli da gente ed è la colonna sonora dell’omonimo film, le cui riprese sono in corso in provincia di Crotone. Ma l’autore, il 24enne Tony Lena, fa ancora di più, unendo, a detta di taluni, due culture, come quella camorrista e quella ‘ndranghetista. L’autore, infatti è campano e la canzone immortalata in un videoclip che sta facendo il giro del web è in lingua napoletana. Ma viene citata espressamente Cirò Marina, nel Crotonese, strizzando l’occhio alla criminalità organizzata. Con capigliature, vestiti e atteggiamenti da guappi napoletani, i protagonisti tentano di conquistare l’ascoltatore. Il videoclip si snoda per le vie della località marittima, tra pistole, scene di spaccio e fughe rocambolesche proprio dagli “sbirri”.

    Un videoclip che ha registrato migliaia di visualizzazioni su YouTube, prima di essere rimosso. Ma adesso è riapparso tramite un altro canale. Tutto è stato denunciato anche dalla senatrice del Gruppo Misto, Margherita Corrado. Ex esponente del Movimento 5 Stelle, componente della Commissione Parlamentare Antimafia, Corrado ha parlato di “pubblicità negativa”. Proprio la Commissione presieduta da Nicola Morra starebbe seguendo la vicenda. Peraltro, già da tempo è stato depositato un disegno di legge proprio per l’introduzione, nel codice penale, del delitto di istigazione e apologia della criminalità. Ma dal giugno 2020 giace arenata in Commissione Giustizia.

    I testi delle canzoni

    Già, perché si tratta di pura propaganda. Un po’ stantia, forse. Ma pur sempre propaganda. Anche Figli da gente non brilla per innovazione perché non si discosta troppo dai luoghi comuni propri della cultura criminale. Il riferimento è a una terra povera, con poche, pochissime, opportunità Addò si campa ccù niente recita la canzone. Per il paroliere, i “figli da gente” sono, infatti, quelli che “rischiano ‘a vita ppe chesta città, chi ha perso ‘nu pate, chi aspetta nu frate ca sta carcerato e vo turna’ ad abbraccia’”. Persone che vivono sempre sul filo, perché devono difendersi dai blitz delle forze dell’ordine: Chi ‘a notte non duorme ‘ccu chella paura ca so vanno a piglia”. Tra un pensiero e l’altro per i carcerati, che, comunque, non vengono mai abbandonati dall’obolo delle cosche. Così come si raccontava, miticamente, in un’altra canzone di qualche tempo fa.

    “Pe’ guagliune ‘e l’Aemilia”

    Qualche mese fa, infatti, era emersa, altrettanto prepotentemente, la canzone Pe’ guagliune ‘e l’Aemilia, scritta proprio per dare conforto a chi era rimasto coinvolto in una delle inchieste più grandi sulla ‘ndrangheta al Nord. Il processo “Aemilia”, appunto. Scaturito dal blitz con cui i Carabinieri, nel gennaio 2015, arrestarono oltre 300 persone accusate di aver fatto parte di un’organizzazione criminale, capeggiata dal boss di Cutro – anche in questo caso in provincia di Crotone – Nicolino Grande Aracri. Che spadroneggiava su mezza Calabria, parte dell’Emilia e della Lombardia e aveva ramificazioni all’estero. In quel caso, l’idea fu del cantante neomelodico Gianni Live, che rilasciò il proprio brano e il proprio videoclip ancora una volta su YouTube. E, ancora una volta, fu un grande successo.

    L’odio verso i pentiti

    Se Figli da gente si concentra sulle sofferenze della detenzione, il testo del brano di Gianni Live è quasi totalmente incentrato sui pentiti, gli “infami” che, con le loro “cantate” inguaiano gli uomini d’onore. Che, ovviamente, nei testi sono sempre uomini giusti e retti, nonché mariti amorevoli e padri esemplari. Da sempre, gli “infami” e i “tragediatori” della ‘ndrangheta sono nel mirino. Ma con questi testi l’odio raggiunge livelli elevatissimi: “Nui ca ci mettimmu ‘o core dinta ‘e lettere… arret’ a ‘sti cancelli pensann’ ‘a liberta’” (Noi che mettiamo il cuore dentro le lettere… dietro a questi cancelli pensiamo alla libertà), quindi l’attacco al processo: “Ppe colpa d’u pentito nui stamm’a pava’… int’a stu processo Aemilia ‘ncuollo a nui hanno raccuntato nu par ‘e strunzate… c’hanno cundannat’” (Per colpa di un pentito noi stiamo pagando dentro a questo processo Aemilia addosso a noi hanno raccontato un paio di stronzate ci hanno condannato”).

    I tempi cambiano?

    Negli affari e nel modo di relazionarsi con il potere, la ‘ndrangheta cambia ed evolve continuamente. Per quanto concerne i riti e le tradizioni, invece, resta sempre simile a se stessa. Sono passati quasi vent’anni dai fatti cristallizzati nell’inchiesta “Pettirosso”, condotta contro la cosca Bellocco, una delle famiglie più potenti della ‘ndrangheta. In quell’indagine è possibile rintracciare e leggere un componimento dedicato al boss Gregorio Bellocco. Una canzone dal titolo eloquente – “Circondatu” – che è il racconto di una fuga, avvenuta nel 2003, allorquando i carabinieri fanno irruzione in un bunker situato ad Anoia, in provincia di Reggio Calabria. Al momento dell’arresto, due anni dopo rispetto all’epico racconto, il ritrovamento all’interno del covo di un compact disk dal titolo “Penzeri di nù latitanti”.

    Oltre il business

    Raramente si tratta di denaro. Dietro queste opere c’è quasi sempre un aspetto ideologico. Quasi pedagogico del crimine. Anche se alcuni anni fa, due persone sono state anche condannate dal Tribunale di Reggio Calabria per le minacce agli attivisti dell’ex Museo della ‘Ndrangheta (oggi Osservatorio sulla ‘ndrangheta), che da anni ha una sede in un immobile confiscato alle cosche e si muove come un avamposto di aggregazione in un quartiere periferico e degradato.

    Nel maggio 2012 i due si sarebbero presentati presso la sede del Museo dichiarandosi “autore” e “manager-produttore” dei cd “I canti di malavita” per chiedere maggiori informazioni sull’utilizzo che il Museo della ‘ndrangheta fa delle canzoni all’interno di laboratori didattici per lo studio del linguaggio della ‘ndrangheta. Rivendicavano, con minacce i propri diritti d’autore per l’uso delle loro opere. Hanno trovato solo una denuncia e una condanna.

    Il menestrello Otello Profazio

    I tempi, allora, forse non cambiano. In un’altra inchiesta contro le cosche di ‘ndrangheta, denominata “All inside”, emerse come gli uomini e le donne della famiglia Pesce, appartenente al gotha della criminalità organizzata calabrese, comunicassero con i detenuti (ricevendo anche messaggi dagli stessi) attraverso la trasmissione di determinate canzoni. E, allora, più le cose cambiano, più restano le stesse. Forse non saranno più gli strumenti musicali, le grida, i rumori di Polsi, tra tarantelle, organetti, tamburelli sotto l’egida di un “mastru i ballu”. Ma questi “canti di malavita” continuano ad avere quel ruolo di sempre.

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    Otello Profazio

    Anche una canzone popolare, intitolata “Ndrangheta, Camorra e Mafia”, scritta e interpretata dal cantautore Otello Profazio, assai noto a Reggio Calabria e nella sua provincia, pone grande risalto sulla meticolosità con cui, negli anni, siano state approntate le regole su cui si basa gran parte della forza della ‘ndrangheta:Lavuraru trint’anni sutta terra, pi fondari li reguli sociali, leggi d’onori di sangu e di guerra leggi maggiori, minori e criminali…” (traduzione: “Hanno lavorato trent’anni sotto terra, per fondare le regole sociali, leggi d’onore di sangue e di guerra, leggi maggiori, minori e criminali”).

    Canzoni e valori popolari

    La forza della ‘ndrangheta, dunque, si è sempre manifestata nella sua eccellente capacità di strumentalizzare valori popolari in cui chiunque, anche il personaggio più lontano, geograficamente e ideologicamente, dalle cosche e dalla mentalità mafiosa. Una peculiarità che non è sfuggita all’antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani: «I valori che la mafia dice di avere sono quelli della dignità individuale, dell’onore, del rispetto della “parola”: una serie di valori analoghi a quelli della cultura popolare. Il problema è che, mentre i valori della cultura popolare sono realmente perseguiti, voluti, come forme di autorealizzazione, i valori mafiosi sono “detti” per acquisire consenso, e vengono vissuti in maniera però truffaldina, perché servono per coprire il comportamento violento». E anche la musica, in questo senso, svolge un ruolo fondamentale. Come una formula di iniziazione o celebrativa, con titoli emblematici come Sangu chiama sangu, I cunfirenti, Omertà, Cu sgarra paga, Appartegnu all’onorata, Ergastulanu, Mafia leggi d’onuri. Forse non ascolteremo nemmeno queste al Festival di Sanremo…

  • Sergio Abramo, l’eterno “sindaca” che voleva essere governatore

    Sergio Abramo, l’eterno “sindaca” che voleva essere governatore

    Nel suo celebre romanzo d’esordio, Triste, solitario y final, Osvaldo Soriano narra di uno Stan Laurel (Stanlio) che ingaggia l’altrettanto noto investigatore Philip Marlowe affinché scopra perché nessuno lo faccia più lavorare. Ecco, abusare del già citatissimo titolo di quel libro può aiutare a rendere l’atmosfera in cui si consuma l’epilogo istituzionale del più volte sindaco di Catanzaro Sergio Abramo. Che altra metafora si può d’altronde usare per uno che sembrava intramontabile, che nel suo curriculum inserisce il megaconcerto di Vasco Rossi a Catanzaro, che ha nella gallery del Comune una foto con Patti Smith, che pur non arrivando a un metro e sessanta è stato il centravanti della nazionale italiana dei sindaci?

    Per descriverlo non serve molto di più di quanto non abbia detto lui stesso nella lunga parabola iniziata, anche se lo ricordano ormai in pochi, come papabile candidato a sindaco del centrosinistra negli anni ’90. E proseguita come acclamato uomo-del-fare poi incoronato pluricampione del centrodestra.

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    La strana coppia Sergio Abramo e Patty Smith

    Il tour «veni trovami» con Riccardo Iacona

    Nel suo ultimo messaggio di auguri da primo cittadino, quello di Capodanno, ha richiamato «tanti momenti ed emozioni» vissuti con la fascia tricolore, ma non ha nascosto la speranza di «essere ricordato, tra pregi e difetti, come il sindaco che ha dato un volto nuovo al capoluogo». Certo Catanzaro era molto diversa nel 1997, quando vinse le elezioni per la prima volta con un largo consenso confermato, con il 70%, nel 2001.

     

    Certo oggi neanche lui è lo stesso di quando le impietose telecamere di Riccardo Iacona immortalarono – rendendolo davvero immortale – il suo modo strapaesano di fare campagna elettorale. «Tutt’appast?» e «veni trovami» entrarono nell’immaginario collettivo, come le strette di mano e i baci seriali che dispensava agli elettori per le vie della città. Non serviva aggiungere altro al saluto, alla garanzia della sua presenza proprio nel momento in cui ci si aspettava che fosse presente e a disposizione.

    I tormentoni di Sergio Abramo

    All’epoca non era solo un politico ma un imprenditore quotato. Con le sue «7-8 società» riusciva a garantire un’occupazione a «circa 2700 lavoratori», tanto da far dire all’autore di Presa Diretta che «Sergio Abramo è un po’ come gli Agnelli a Torino». Lui si schermiva e aggiungeva orgoglioso di non essere iscritto a nessun partito. Eppure negli anni le tessere non gli sono mancate. Così come le frasi-tormentone che gli sono scappate più volte in pubblico.

    Agli annali restano espressioni, rivolte a cittadini spesso esasperati per le più svariate e serie ragioni, come «a ‘mmia non mi dissaru nenta» e «ti cercavi voti io?». Così com’è agli atti, anche delle forze dell’ordine, la baruffa scoppiata davanti alla sede della Provincia con uno degli esponenti della sua maggioranza: si rinfacciavano reciprocamente certi giochetti elettorali che fecero perdere al centrodestra, all’esordio della riforma Delrio, la guida dell’ente. Più recente, ma altrettanto gustosa, è la caricatura che Ivan Colacino fa del «sindaca» esasperando la sua dizione piuttosto “aperta”.

    https://www.facebook.com/ivancolacino82/videos/5203928802972980

    Tutt’altra storia rispetto agli ultimi rantoli del consiglio comunale destinato a rinnovarsi nella prossima primavera. Già qualche giorno prima di Natale lui stesso minacciava di «staccare la spina» di fronte a una scena abbastanza decadente: in aula è stata sfiorata la rissa non per questioni importanti per la città, bensì per l’abbigliamento di un assessore contestato da un consigliere.

    I primi saranno gli ultimi

    Un motivo ci sarà se l’ultimo “Governance Poll” di Noto per Il Sole 24 Ore ha piazzato Sergio Abramo in coda tra i sindaci calabresi con un -14,4% rispetto al 64,4% delle elezioni del 2017. Proprio lui, che è sempre stato tra i sindaci con il più alto gradimento su scala nazionale, già nel 2020 aveva mostrato un calo fermandosi al 51esimo posto. Oggi diventato il 70esimo (su 105).

    È evidente che i problemi sono tanti e le emergenze infinite. Si sa che governare non paga e il potere logora anche chi ce l’ha. Ma forse anche lui aveva pensato a un finale diverso – sempre che abbia mai pensato a un finale – quando, da rampollo di una famiglia di artigiani della tipografia, si affacciava alla politica. Maturità scientifica e corsi di management alla Bocconi, nel 1993 era presidente dei giovani industriali calabresi e nel 1996 entrava nella Giunta nazionale di Confindustria. Un anno dopo arrivava la prima elezione a sindaco, dopodiché diventava anche presidente di Anci Calabria.

    La maledizione di Palazzo Campanella

    Nel 2005 il coronamento della carriera doveva essere la presidenza della Regione, a cui si era candidato con il centrodestra, ma è stato sconfitto da Agazio Loiero, l’unico riuscito a strappare al centrodestra anche il capoluogo con la vittoria (2007) di Rosario Olivo. L’avvento di Peppe Scopelliti alla Regione (2010) gli ha portato in dote un paio di anni da presidente di Sorical. Dopo dei quali (2013) è tornato al posto a cui sembra destinato per diritto divino: sindaco di Catanzaro per la terza volta.

    Quella attuale è la quarta. Nel frattempo (2016) ha lasciato l’azienda di famiglia ed è diventato (2018) anche presidente della Provincia. Proprio l’ente intermedio un tempo preso a modello di buona amministrazione è oggi il suo principale cruccio. La Provincia è sull’orlo del default e rischia di non riuscire a pagare nemmeno lo stipendio ai dipendenti: ha un disavanzo – dovuto al peso di alcuni derivati risalenti al 2007 – di 12 milioni all’anno.

    Gettonopoli

    A Palazzo de Nobili, al netto del sarcasmo sull’intitolazione dell’edificio dopo le diverse inchieste che lo hanno investito, l’aria non è più mite. Il centrodestra è diviso in mille rivoli avvelenati e ci vorrà un intervento romano per individuare il suo successore. Intanto c’è l’onta, benché presunta, del consiglio comunale più indagato d’Italia con i due filoni dell’inchiesta “Gettonopoli” riuniti in un unico troncone processuale che coinvolge 19 consiglieri.

    Queste ombre non lo hanno neppure sfiorato, ma pure politicamente di recente per lui non c’è stata neanche una gioia. «Quando vado in Regione – ha assicurato – non si muove nulla senza il parere di Catanzaro». Intanto negli ultimi due anni il centrodestra ha vinto due volte le Regionali, ma né Jole Santelli né Roberto Occhiuto hanno dato soddisfazione alla sua ambizione mai celata di entrare da amministratore anche all’ultimo piano della Cittadella.

    Dalla Lega a Toti

    È passato, nel giro di pochi mesi, dalle simpatie (ricambiate) per la Lega all’autoconferma in Forza Italia, per approdare subito prima delle Regionali alla creatura centrista di Toti e Brugnaro. Nemmeno il passaggio a “Coraggio Italia” gli ha però giovato: il suo candidato al consiglio regionale, Frank Santacroce, è rimasto fuori perché sorpassato dal vibonese Francesco de Nisi.

    Sergio-Abramo-I-Calabresi
    Sergio Abramo con Luigi Brugnaro, leader di Coraggio Italia

    Anni di amore-odio col suo grande elettore Mimmo Tallini alla fine non sono serviti al grande salto. Altrettanto altalenanti sono state le sue relazioni con le grandi famiglie imprenditoriali di Catanzaro. Prima, fino al terzo mandato, erano tutti con lui. Poi qualcosa si è rotto, pare a causa di autorizzazioni comunali a supermercati che hanno incrinato certi monopoli. Così parte dell’élite degli affari ha finito per appoggiare alcuni suoi avversari. Puntualmente sconfitti nelle urne.

    Il delfino è Polimeni ma sta con Mangialavori

    Il suo uomo ombra più vicino, negli anni, è stato il capo ufficio stampa del Comune Sergio Dragone, che però a gennaio del 2019 si è dimesso per ragioni «personali». Era lui il vero pontiere con Tallini. Oggi il delfino più quotato è Marco Polimeni, presidente del consiglio comunale che ambisce ad essere il suo successore. E che intanto, per sicurezza, si è accasato con il senatore/coordinatore forzista Giuseppe Mangialavori.

    Abramo (al centro) con Baldo Esposito (primo da sinistra) Baldo Esposito e Marco Polimeni (secondo da destra)

    Tra pochi mesi Sergio Abramo non sarà più sindaco e decadrà automaticamente anche da presidente della Provincia. Un po’ solitario lo è sempre stato, ma ha avuto dietro, intorno e sotto un bel po’ di cortigiani che oggi cercano protezione altrove. Quanto possano rivelarsi tristi e finali i prossimi passaggi della sua lunga avventura politica lo si scoprirà a breve. Si tratta pur sempre di un navigato goleador. A cui però nessuno, dopo vent’anni di gloria, pare voler offrire più neanche uno scampolo di partita nel campo della politica che conta.