Categoria: Inchieste

  • Le tonnare perdute di Calabria. Mille anni di storia cancellati

    Le tonnare perdute di Calabria. Mille anni di storia cancellati

    Vittorio de Seta li chiamò «i contadini del mare». Il campo che coltivavano, con cura e sudore uguali a quelli che gli agricoltori riversano sulla terra, erano le acque del Golfo di Sant’Eufemia, da Pizzo a Tropea. Nelle loro fatiche, nei gesti, nel codice con cui comunicavano, perfino nei loro canti e nei soprannomi che si affibbiavano, c’era una cultura millenaria. Quella dei tonnaroti, oggi quasi del tutto perduta, materialmente abbattuta dal tempo e dalla noncuranza che, come l’acqua di mare, erode ogni cosa.

    L’isola di reti

    Eppure l’uso delle tonnare in Calabria, un ingegnoso sistema di pesca fissa e passiva, è stato praticato fino agli anni ’60 solo sul Tirreno vibonese. Il tonno rosso si pescava attraverso un articolato sbarramento di reti abilmente piazzate e divise in “isole” e “camere”. Una trappola intricata che attirava i tonni durante la loro migrazione. Rappresentava una sorta di prolungamento marino della terraferma. Una «territorializzazione del mare», diceva sempre de Seta. Poi c’erano gli edifici stabili costruiti quasi a riva in cui avveniva il deposito, la lavorazione, il ricovero dei barconi. Tutto ciò era pratica comune solo in Sicilia. Però lì i tonni arrivavano già stanchi e sfibrati, nella baia di Vibo invece erano più “freschi”. E si avvicinavano, cosa che oggi non accade più, fino a due miglia dalla costa.

    Le antiche tonnare (dal sito callipo.com)

    Tonnare in Calabria: un’economia fiorente

    Le tonnare in Calabria, di mare e di terra, hanno così dato da vivere a moltissime famiglie di Pizzo, Vibo Marina, Bivona e Portosalvo (le tre “Marinate” vibonesi), Briatico e Parghelia (alle porte di Tropea). Rappresentavano un settore importantissimo dell’economia locale, tanto che le antiche famiglie nobiliari che le possedevano le proteggevano sorvegliandole attraverso torri o addirittura castelli.

    L’indotto verso i monti

    C’è anche un altro aspetto, tutt’altro che secondario, da ricordare. Le tonnare dei paesi costieri erano inserite in dei microcircuiti economici che comprendevano anche i territori di collina e di montagna. Da lì arrivavano sale, olio e ghiaccio per la conservazione. Lì gli artigiani producevano e lavoravano reti, cordami e legname per le barche.

    Tonnara Angitola a Vibo Marina. La benedizione delle reti e dei barconi prima delle mattanze nel 1947 (collezione Cantafio)

    Tonnare in Calabria, mille anni di pesca

    Di manufatti per la pesca del tonno in quest’area si trovano tracce documentali risalenti al XI secolo. In uno dei primi privilegi concessi da Ruggero il Normanno all’Abbazia di Mileto compare l’area di Bivona. Che viene descritta, nel 1081, «… cum portu suo, ac tunnaria, et omnibus pertinentiis». Fin dalla fondazione dell’odierna Vibo diversi manoscritti riportano fatti legati alle tonnare: in un atto del 1326 il re Roberto, per prevenire incidenti, dispose che nessuno vendesse vino nell’area e nel periodo in cui era in attività la tonnara di Bivona.

    La contaminazione con i siciliani

    Questo sistema di pesca si estende dal XVI secolo, periodo a cui risalgono le prime notizie sulle tonnare di Parghelia (Bordilà), Sant’Irene e Briatico (Rocchetta), Santa Venere e Pizzo (delli Gurni). Nel XVIII secolo l’iniziativa imprenditoriale delle tonnare in Calabria è appannaggio dei nobili (De Silva y Mendoza, Pignatelli, Caracciolo) e della Diocesi. I tonnaroti di Pizzo diventano i più ricercati per tutto il golfo. E a loro si uniscono anche rais (i dominus della ciurma) e tonnaroti siciliani. Generando una contaminazione unica di tecniche e di rituali di pesca.

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    La grande ancora di tonnara portata a riva da un gruppo di 10 tonnaroti (Lomax, 1954)

    Un po’ di Sicilia in Calabria

    Nell’agosto del 1954 arrivano a Vibo Marina lo statunitense Alan Lomax e il calabrese Diego Carpitella. Mostri sacri dell’etnomusicologia, quell’anno attraversano tutta l’Italia a bordo di un pulmino Wolkswagen. E realizzano un’impresa di documentazione che diventerà una pietra miliare per il futuro studio della musica tradizionale italiana. Hanno già registrato a Sciacca i canti di tonnara. Hanno incontrato De Seta mentre documenta la pesca del pescespada a Scilla e Bagnara. Dunque si stupiscono di trovare, sullo sterrato che affianca la tonnara del borgo portuale vibonese, un pezzo di Sicilia anche nel continente.

    Alan Lomax in mezzo ai tonnaroti (1954, collezione Canduci)

    I canti delle tonnare in Calabria

    A Lomax e Carpitella si devono foto e registrazioni sonore che hanno strappato all’oblio i canti, i nomi, i linguaggi e le relazioni secolari di rais e tonnaroti. Si tratta del più corposo lavoro mai fatto sulla cultura musicale delle tonnare, in Calabria e non solo. Oggi è raccolto e approfondito in un bel volume (con cd), “Canti della tonnara”, edito da Rubbettino e curato da Danilo Gatto, con contributi di Giorgio Adamo, Sergio Bonanzinga, Danilo Gatto, Giuseppe Giordano, Anna Lomax Wood, Antonio Montesanti, Domenico Staiti, Vito Teti.

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    Onofrio Lo Presti, uno dei tonnaroti fotografato e registrato da Alan Lomax

    L’itinerario della dimenticanza

    Montesanti ha trascorso anni a ricostruire, incrociando le informazioni raccolte da Lomax con le testimonianze locali, le identità e le storie di rais e tonnaroti della zona. Proprio con lui abbiamo provato a ripercorrere le tracce delle tonnare tra Pizzo e Tropea. Un tour della dimenticanza. Perché di fatto, oggi, i segni dell’antichissima tradizione di pesca delle tonnare in Calabria sono stati spazzati via. Resta qualche fuggevole particella di memoria e dei tentativi, miseramente falliti, di dare dimora alla testimonianza di ciò che è stato.

    La più antica, dimenticata

    Partiamo proprio da Pizzo, dalla tonnara più antica. È quella della Seggiola, che secondo alcune risultanze documentali esisteva già nel 1400. Di proprietà dei De Silva y Mendoza prima, poi dei Gagliardi, è diventato un bene demaniale e, in parte, oggi l’edificio è usato da alcuni pescatori. Ma è seminascosto e dimenticato, in una piccola insenatura, con un mostro di cemento mai finito che incombe a fianco (di cui abbiamo scritto in questo controtour).

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    Ciò che rimane dell’antica tonnara della Seggiola, a Pizzo

    Il museo del vuoto

    Pare fosse uno degli angoli più belli della cittadina costiera, che invece oggi concentra molte delle sue attrattive turistiche, oltre che sul centro storico, sul vicino lungomare. Lì ha sede il “Museo del mare” che però, di fatto, delle tradizioni di pesca conserva poco più che il nome. Un tempo era la loggia dei barconi, oggi vi si fa qualche convegno e poco altro.

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    Il “museo del mare” a Pizzo

    Da pescatori a carrozzieri

    Procedendo verso Sud sul litorale pizzitano c’è l’antico stabilimento Callipo, o meglio i resti puntellati da impalcature in legno. Un ramo della famiglia, quello di Carmelo Callipo, si divise da quello che faceva capo a Giacinto (di cui invece porta il nome ancora oggi la nota azienda di prodotti ittici nata nel 1913 e tuttora attiva) e rilevò, nel Dopoguerra, la tonnara nel centro di Vibo Marina. Era stata di proprietà dei nobili siciliani Adragna d’Ali. Inaugurata nel 1865, rimase in attività solo per pochi anni dopo il passaggio di proprietà. Oggi, al suo interno, c’è una carrozzeria.

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    Il portale della ex tonnara di Vibo Marina, al cui interno oggi c’è una carrozzeria

    Lo sciopero del ’54 e la caserma di oggi

    Sempre a Vibo Marina sorgeva la tonnara Angitola. Prima dei Gagliardi e poi dei Cantafio, era proprio quella a cui giunsero Lomax e Carpitella nel 1954 nel bel mezzo di uno sciopero. Il padrone non li pagava da un anno e i tonnaroti avevano incrociato le braccia lasciando tutte le attrezzature a mare per fare pressione sul titolare. Non si sa come, ma con l’arrivo degli etnomusicologi la “vertenza” si risolse. Oggi di quella tonnara non resta nulla. Ne ricorda vagamente solo qualche forma il casermone del Comando provinciale della Guardia di finanza che è stato costruito al suo posto.

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    La caserma della Guardia di finanza a Vibo Marina, costruita dove c’era la tonnara Angitola

    Tonnare di Calabria, l’appello per Bivona

    Scendendo ancora in direzione Tropea c’è la tonnara di Bivona, che merita un discorso a parte. «Negli anni – ricorda Montesanti – tanti fondi pubblici sono stati spesi male per il suo recupero, tant’è che dopo oltre 5.200 giorni è ancora inagibile. E un nuovo finanziamento rischia di smembrarne la storia». Qualche giorno fa lo studioso ha lanciato un appello al presidente della Regione Roberto Occhiuto. Tra i firmatari Carlo Petrini, Silvio Greco, Gioacchino Criaco, Francesco Cuteri, Tomaso Montanari, Vito Teti e Silvana Iannelli.

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    La tonnara di Bivona

    Gli annunci «spacchettati»

    Il finanziamento in questione prevedrebbe «la realizzazione del Museo del Mare e della pesca». Il sindaco di Vibo, Maria Limardo, lo scorso 10 maggio ha scritto su Fb: «Che bella la nostra Tonnara! Che belli i nostri barconi! Presto torneranno a nuova vita con un importante lavoro di restauro che inizierà nel prossimo mese di giugno». Secondo i sottoscrittori della petizione decine di tavoli tecnici avrebbero invece «partorito un disastro» con quel bene monumentale «spacchettato in tre pezzetti». Si vedrà come andrà a finire. Intanto però una delle ultime tonnare di Calabria resta chiusa, anche se al Salone del libro di Torino l’amministrazione vibonese ha sostenuto di averci aperto un «centro culturale Lomax» che, al momento, non esiste.

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    L’interno della tonnara di Bivona (dalla pagina Facebook Maria Limardo Sindaco)

    Dalla Curia ai ristoratori

    Andiamo ancora avanti. È interessante la storia della tonnara di Sant’Irene a Briatico. Di epoca ottocentesca, la proprietà è passata dai Mendoza alla diocesi di Mileto. Poi dalla Curia ai privati. Che al suo posto hanno realizzato un ristorante. Oltre alla singolare evoluzione, un fattore di unicità è rappresentato dal fatto che vicino alla tonnara scomparsa ci siano i resti di una «peschiera» di epoca romana. In pochi metri millenni di storia della pesca. Cancellati.

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    Il luogo dove sorgeva la tonnara di Sant’Irene a Briatico. Ora c’è un ristorante e, a pochi metri, la «peschiera» romana

    Secoli, torri e selfie

    Nello stesso paese c’era anche la tonnara della Rocchetta. Di proprietà dei Bisogni, le ultime notizie risalgono alla fine del 1600. Poi diventò uno zuccherificio, quindi (a fine Ottocento) una vetreria. Ne sono rimasti dei ruderi nascosti dall’erba alta. E anche qui, poco distante, ci sono i resti di una «peschiera» romana su cui i ragazzini si fanno dei selfie a like garantito. L’ultima traccia (perduta) era a Parghelia, dove un villaggio turistico conservava solo il toponimo, fino a quando non ha cambiato nome. Ma anche le torri che sorvegliavano le tonnare sono diventate altro. Quella di San Pietro di Bivona, a guardia dell’antica tonnara che non esiste più, è un immobile privato. La torre Marzano a Vibo Marina è stata in parte demolita durante la costruzione delle case popolari.

    Il tonno non si fida più di noi

    Ora, è chiaro che questi sistemi di pesca nel Vibonese sono scomparsi perché il tonno rosso non arriva più qui. La Calabria non ha quote di pesca nella ripartizione europea. Le principali aziende lavorano e vendono tonno a pinna gialla. E quel poco di “rosso” che trattano lo acquistano per lo più da Campania e Sicilia.

    Chi guarda indietro e chi perde la memoria

    Intanto, per esempio, in Sardegna (a Stintino) e nel Sud della Spagna (Andalusia) si sta studiando il ripristino delle tonnare fisse perché è un sistema molto più ecosostenibile della pesca distruttiva a predazione. Mentre delle tonnare, nella Calabria della retorica dei borghi e delle bandiere blu, delle tradizioni da tramandare e dell’identità-culturale-da-valorizzare, non si conserva quasi più neanche la memoria.

  • Ponte di Calatrava, raddoppia il conto da pagare?

    Ponte di Calatrava, raddoppia il conto da pagare?

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    Il ponte di Calatrava potrebbe abbattersi sul Comune di Cosenza. Non fisicamente, ma con un salasso che metterebbe k.o. le già disastrate casse dell’ente. Cimolai Spa, l’azienda che lo ha costruito, ritiene che il suo credito nei confronti di Palazzo dei Bruzi non sia affatto esaurito. E chiede altri 19,2 milioni di euro per il lavoro fatto. Raddoppierebbe così il conto da saldare per il più grande inno alla grandeur cosentina, un gioiello architettonico che, a detta di molti, ora come ora collega il nulla al niente.

    Mancini, Calatrava e l’Europa

    Tutto ha inizio a cavallo tra il vecchio e l’attuale millennio. Alla guida del Comune c’è il primo sindaco eletto direttamente dai cosentini: Giacomo Mancini. È lui a siglare a inizio maggio del 2000 nel teatro Rendano l’intesa con Santiago Calatrava, vincitore di una selezione tra progettisti che lo vede imporsi su altri grandi nomi dell’ingegneria civile.

    Mancini e Calatrava al Rendano

    L’architetto e ingegnere spagnolo è già una star in patria e all’estero, ma il ponte cosentino sarà – meglio, dovrebbe essere – la prima opera a sua firma in Italia. Dal Rendano parte la prima sfida di Palazzo dei Bruzi, quella alle ovvietà. «La committenza», riportano i resoconti ufficiali di quella serata, ha voluto e avrà «un ponte che colleghi Cosenza con l’Europa», con buona pace dei cartografi e della tettonica a zolle così poco inclini alla retorica da aver già piazzato qualche millennio prima la città nel Vecchio Continente.

    Le ultime parole famose

    Passano un paio di mesi dalla première al Rendano e nel Salone di rappresentanza del municipio arriva pure la presentazione del plastico del ponte. Le fanno da contorno i primi dettagli tecnici e gli annunci dell’allora assessore all’Urbanistica – e di lì a breve sindaca – Evelina Catizone. Traendo forse ispirazione dal collega di Giunta ed esperto conoscitore delle volte celesti Franco Piperno, Catizone dichiara che «i tempi di realizzazione potranno essere contenuti fra un anno e mezzo e due anni. I costi: 16 miliardi (di lire, nda) per il solo ponte, 34 se si vorranno realizzare anche le opere di complemento, piazza e viali di collegamento alla città compresi».

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    Evelina Catizone insieme a Franco Piperno

    In quelle parole, cariche di ottimismo, si nasconde il segreto per rispettare il cronoprogramma e sconfiggere lo scetticismo generale. Basta infatti calcolare gli anni in questione come se fossimo su Giove, pianeta che per completare tutto il suo giro intorno al Sole impiega oltre 4.300 giorni terrestri. E che ha pure un satellite che si chiama Europa. Se la committenza avesse voluto collegare Cosenza a quello tramite il ponte di Calatrava tutto tornerebbe. E a un costo irrisorio per un’opera così audace.
    Secondo il meno confortante calendario gregoriano in uso dalle nostre parti tra quell’annuncio di metà estate del 2000 e il taglio del nastro, invece, di anni tocca contarne quasi una ventina. E il conto da pagare, già più salato del previsto, adesso rischia di schizzare – per restare in tema – alle stelle.

    Il tempo se ne va

    In omaggio alla tradizione italiana, infatti, nonostante l’opera «stia per passare alla fase esecutiva» a settembre 2001, per aggiudicare l’appalto toccherà attendere l’autunno del 2008, quando il successore di Catizone, Salvatore Perugini, è già a metà del proprio mandato da sindaco. I lavori, stando agli atti, dovranno durare 877 giorni (terrestri, nda). Ad occuparsene, questo l’esito della gara, sarà proprio la già citata Cimolai, colosso delle costruzioni in acciaio.

    Oltre ad aver già lavorato con Calatrava e il suo studio, l’azienda di Pordenone può oggi vantare nel proprio curriculum di aver partecipato «alla ricostruzione di Ground Zero a New York, al recupero sottomarino della nave Concordia e, tra le tante altre attività, ai lavori del New Safe Confinement di Chernobyl». A Cosenza non le tocca rimediare a disastri simili, per fortuna. Ma anche sulle sponde del Crati non mancheranno le tragedie – la morte di Raffaele Tenuta, operaio di una ditta impegnata in un subappalto – né le polemiche, come accaduto per un’altra opera progettata da Calatrava in Italia nel frattempo.

    Il ponte di Calatrava e i fondi Gescal

    Se a Venezia si scivola (e non solo), a Cosenza fa discutere il denaro utilizzato – o, meglio, la sua provenienza – per realizzare il ponte, il cui montaggio vero e proprio è partito solamente nel 2014 con un altro sindaco ancora, Mario Occhiuto, insediatosi tre anni prima. È Sergio Pelaia a sollevare il polverone dalle colonne del Corriere della Calabria. Già da tempo il giornalista ha rivelato con una serie di articoli che per anni la Regione ha fatto un uso allegro dei fondi Gescal. Cosa sono? Soldi detratti dalle buste paga dei dipendenti pubblici con l’impegno di realizzarci case popolari. Quel fiume di denaro, però, è finito disperso in mille rivoli, molti dei quali con l’edilizia popolare pare abbiano ben poco a che vedere.

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    Mario Occhiuto alla riapertura del cantiere del ponte di Calatrava (foto Ercole Scorza)

    Nell’elenco delle spese discutibili, si scopre a poche settimane dall’inaugurazione, ci sarebbero pure quasi 6 degli oltre 19 milioni di euro usati per costruire il ponte di Calatrava e le opere accessorie, il cui unico rapporto col sostegno a chi vorrebbe un tetto tutto suo a basso costo si concretizzerà tempo dopo nell’offrire saltuario riparo a qualche clochard.

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    Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021

    Paradosso nel paradosso, parte dei fondi Gescal legati davvero alle attività dell’Aterp è stata al centro di un’inchiesta che ha visto protagonisti anche più o meno grandi nomi della politica calabrese, quali Pino Gentile e Antonino Daffinà. Una storia tutta vibonese, quest’ultima, che si è chiusa poche settimane fa per gran parte degli imputati con l’equivalente giuridico dei tarallucci e vino: la prescrizione. A Cosenza invece, nonostante qualche protesta degli attivisti locali per il diritto alla casa, per liquidare la questione Gescal-Calatrava si è optato per una soluzione diversa. Altrettanto efficace, ancora più rapida: il tutto va bene, madama la marchesa.

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    Una simbolica protesta a Cosenza: 100 casette di cartone sul ponte di Calatrava per criticare l’impiego dei fondi Gescal

    Cimolai va all’attacco

    Il ponte di Calatrava, oggi intitolato a San Francesco di Paola, all’attenzione di un tribunale c’è finito lo stesso però, anche se finora non se n’è accorto nessuno. A luglio del 2019 Cimolai si è rivolta a quello di Catanzaro chiedendo che il Comune di Cosenza risponda davanti ai giudici di tutto ciò che l’azienda ritiene abbia provocato un «andamento anomalo dei lavori». L’elenco delle doglianze è lungo, ben 35 differenti riserve espresse su altrettanti avvenimenti. Le valutazioni dei singoli danni subiti a causa di quelle presunte anomalie vanno da circa 6mila a quasi 6 milioni di euro. Senza contare gli eventuali interessi maturati nel frattempo, sommandole tutte si sfiorano i venti milioni extra richiesti a Palazzo dei Bruzi.

    Un peso notevole nella stima delle perdite ha il lunghissimo stop ai lavori dovuto alle bonifiche del terreno che ha ospitato il cantiere. Il rinvenimento di ordigni bellici e rifiuti pericolosi nell’area ha impedito per anni a Cimolai di dare il via al montaggio della struttura e costretto la ditta a tenere per tutto quel tempo i componenti del ponte – che nel frattempo aveva costruito – chiusi nei capannoni in attesa di poterli portare a Cosenza. Ma non mancano i rilievi relativi a perizie di variante in corso d’opera, aumenti dei costi dovuti allo slittamento dei lavori, presunte discrepanze col progetto messo a gara. E poi, ancora, contestazioni sulle attività extracontrattuali che non sarebbero state retribuite a dovere, il fermo forzato e improduttivo di macchinari e personale tra un’interruzione e l’altra, finanche l’allagamento del cantiere durante una piena del Crati nel 2016.

    Il Comune di Cosenza si difende

    A Palazzo dei Bruzi, però, sono sicuri del fatto loro, pronti a smontare le accuse punto per punto. Reputano di aver sempre agito nel rispetto delle norme e degli accordi. Le richieste di Cimolai sarebbero quindi pretestuose e infondate dal punto di vista giuridico. L’ammontare dell’eventuale risarcimento, poi, del tutto sproporzionato rispetto a quello dell’appalto originario. Se davvero l’azienda avesse subito danni di tale portata, rilevano in municipio, avrebbe potuto esercitare il suo diritto alla risoluzione del contratto a lavori ancora in corso. Invece Cimolai ha continuato ad affrontare il rischio d’impresa per anni, salvo poi tornare a battere cassa a Cosenza qualche mese dopo la consegna del ponte di Calatrava.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Alcuni ritardi, inoltre, sarebbero da addebitare ad altri soggetti coinvolti, come le Ferrovie dello Stato o la Provincia. In vista del processo il Comune ha anche assunto poche settimane fa un consulente tecnico, l’ingegnere Francesco Mordente, per far valere le proprie ragioni in aula.

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    Una parte dell’atto da cui emergono la causa in corso tra Cimolai e il Comune e l’ammontare del contenzioso

    Di generazione in generazione… in generazione?

    Il 26 gennaio 2018, giorno della faraonica cerimonia inaugurale cofinanziata dall’ancora amichevole Cimolai, Santiago Calatrava definì la sua creatura un ponte che «collega due generazioni: il sindaco Mancini, per il quale l’ho progettato, e il sindaco Occhiuto che è riuscito a portarlo a termine». Il verdetto di Arianna Roccia, giudice della Sezione specializzata per le imprese, servirà a chiarire se collegarle a una terza: quella che per finire di pagarlo dovrebbe sborsare quanto o più delle altre due messe assieme.

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    Cosenza, un momento della cerimonia d’inaugurazione del ponte di Calatrava
  • Siccità in Calabria: il peggio deve arrivare

    Siccità in Calabria: il peggio deve arrivare

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    Siccità in Calabria: l’emergenza ancora non c’è, ma sicuramente siamo in preallarme.
    Nel suo bollettino di maggio, l’Osservatorio Siccità del Cnr-Ibe ha aggiunto la Calabria tra le regioni che possono registrare nel breve periodo un grado di siccità severo-estremo. Mancano le piogge dei mesi primaverili che, insieme a quelle autunnali, contribuiscono a ricaricare i corsi d’acqua.

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    Ramona Magno, responsabile dell’Osservatorio siccità

    «In Calabria, per ora, non c’è un allarme», spiega a I Calabresi Ramona Magno, responsabile dell’Osservatorio Siccità.
    Però occorre monitorare i segnali: «Da inizio anno, il deficit si attesta intorno al 30-35%». Una mancanza significativa, ma lontana dai livelli raggiunti in certe zone del Nord. In Piemonte, ad esempio, ci sono stati più di 100 giorni consecutivi senza pioggia.
    L’attenzione deve rimanere alta, perché avremo, molto probabilmente, un’estate rovente, che potrebbe contribuire alle carenze idriche: «I nostri modelli, e anche quelli europei, sono abbastanza concordi nello stimare che questa sarà un’estate più calda e un po’ più secca della media. Ma ancora non ci sono certezze».

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    La Sila innevata

    Siccità: pioggia e neve salvano la Calabria

    Nonostante tutto, «la Calabria, come più o meno tutte le regioni meridionali, è stata più fortunata perché in inverno e in autunno delle precipitazioni ci sono state», continua Magno.
    La siccità è influenzata da tanti fattori. Quelli che conosciamo meglio sono le precipitazioni e la temperatura. «Poi risultano utili altri indicatori indiretti, come quelli che usiamo noi da satellite, in cui vediamo lo stato della vegetazione quando ci sono precipitazioni scarse e temperature alte», spiega ancora Magno.

    Importante, anche, la presenza della neve, che da noi non è mancata. Anzi, le montagne calabresi ne hanno accumulato una quantità tale da riuscire a ricaricare le falde acquifere. Ciò che non è avvenuto per il Po.
    «La Calabria si è salvata dalla siccità anche perché il centro-est del Mediterraneo ha avuto diverse nevicate nell’inverno. Il fatto che la Calabria sia un po’ più esposta a queste perturbazioni che vengono da oriente – quindi più fredde – ha aiutato».
    Ma è un equilibrio comunque delicato. L’aumento delle temperature in tutto il Mediterraneo porta una diminuzione delle precipitazioni totali annuali.

    Occhio ai fiumi

    Sul lungo periodo, va monitorata la capacità dei corsi d’acqua, per capire l’impatto di tutti questi fattori: «Quando cominciano a essere intaccate proprio le risorse idriche, allora vuol dire che il problema dura già da un po’», precisa Magno.
    Secondo il report settimanale sulle risorse idriche dell’osservatorio Anbi, i livelli della diga di Monte Marello sono in linea con gli anni precedenti.
    Diversa la situazione del bacino Sant’Anna a Isola Capo Rizzuto. Le alte temperature causate dalle ondate di calore hanno favorito l’evaporazione dell’acqua: è ai livelli più bassi da 7 anni a questa parte.

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    Il bacino Sant’Anna di Isola Capo Rizzuto

    Piove meno, piove più forte

    Non solo piove meno: piove anche in modo diverso. I cambiamenti climatici rendono più frequenti e intense anche le cosiddette bombe d’acqua.
    «Osserviamo spesso periodi sempre più lunghi in cui non c’è pioggia, o ce n’è molta meno del normale, intervallati da momenti in cui le precipitazioni arrivano tutte insieme, concentrate in uno spazio», spiega ancora Magno.
    Queste piogge rendono l’accumulo dell’acqua più complicato, perché mettono le infrastrutture sotto stress. Provocano danni, smottamenti, disagi.
    Tutto succede per lo più in estate. «Su scala annua, in Calabria, come in buona parte del Meridione, diminuisce il totale delle precipitazioni. Tuttavia, è una tendenza che non registriamo in tutte le stagioni», racconta Roberto Coscarelli dell’Istituto di Ricerca per la Protezione idrogeologica del Cnr e responsabile della sede di Crotone.

    Le piogge di quest’estate

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    Roberto Coscarelli

    D’estate, prosegue Coscarelli, si tende a un lieve incremento delle precipitazioni: «I temporali estivi diventano più frequenti. Le proiezioni delle ultime settimane per l’estate in corso prevedono proprio questo: lunghi periodi senza pioggia, anche con temperature molto elevate, intervallati da periodi brevi di piogge intense, che spezzano il buon tempo estivo».
    In generale, sia per le piogge brevi ed intense, sia per i lunghi periodi secchi, si dimezzano quasi i tempi di ritorno: «Un evento, ad esempio, che succedeva mediamente una volta ogni cinquanta anni, adesso accade ogni venticinque».

    I danni all’agricoltura

    È vero che la siccità ancora non ci colpisce a fondo, tuttavia alcune zone iniziano a sentirne gli effetti. La costa jonica è la più delicata, da questo punto di vista.
    «Alcuni territori, soprattutto quelli della fascia ionica, sono notoriamente più prossimi all’aridità e alla desertificazione, anche per le loro caratteristiche climatiche e idrologiche», specifica Coscarelli.
    Non è un caso se il settore agricolo arranca. Coldiretti lamenta da qualche tempo problemi nella produzione ortofrutticola calabrese.

    Un campo riarso dalla siccità

    «La siccità ha fatto registrate una caduta di fiori e frutti negli uliveti. La media regionale del danno si attesta al 10%, mentre la costa jonica a tratti raggiunge picchi di perdite che superano il 60%», riporta un comunicato sulle condizioni dell’agricoltura in tutte le regioni d’Italia. Le coltivazioni più esposte sono quelle di olive, frutta e ortaggi.

    Siccità: anche la rete idrica fa la sua parte

    Buona parte dell’acqua che utilizziamo in casa e per irrigare si disperde, a causa delle condizioni delle tubature.
    In tutta Italia sprechiamo un terzo dell’acqua che passa dalle reti di distribuzione. Ed è proprio al Sud che le infrastrutture sono più fatiscenti.
    «Bisogna sempre fare un conto fra quello che arriva attraverso le precipitazioni e quello che si disperde prima dell’uso. Quindi bisogna essere anche parsimoniosi e cercare di ottimizzare l’utilizzo della poca risorsa», raccomanda Magno.

    Emergenza idrica: autobotti in azione a Reggio

    La prova del fuoco

    L’eventuale peggioramento della siccità nella Regione rischia di aggravare un altro problema: gli incendi.
    I terreni più secchi e le alte temperature rischiano di rendere i roghi più indomabili e ampliano le aree bruciate. Le piante stesse potrebbero diventare più vulnerabili con meno acqua a disposizione.
    Sia Coscarelli sia Magno insistono su un punto: sfatiamo il mito dell’autocombustione. È un fenomeno molto raro e, specie sul territorio nazionale, alquanto improbabile.

    Un canadair in azione durante i roghi della scorsa estate

    «L’innesco dipende sempre dalla mano dell’uomo. La propagazione invece è propiziata dalle condizioni climatiche». Cioè, dalle temperature molto elevate, dai venti, e poi dall’aridità e dalla scarsa umidità di un terreno.
    Coscarelli ha pochi dubbi: «Chi innesca questi roghi, sa benissimo quali sono le condizioni climatiche più opportune per estenderli e fare più danni».

    Prevenire la siccità: chi lo fa e chi dorme

    Ogni disaster movie inizia con gli scienziati ignorati dalla società. L’emergenza idrica non fa eccezione.
    Da anni, la comunità scientifica chiede disperatamente ai politici di tutto il mondo di prepararsi al peggio.
    E, ricorda ancora Magno, chi ha voluto si è preparato prima: «In questi giorni si parla di quanto si sta facendo a livello comunale, provinciale e regionale. Ed emerge a malapena solo ora che alcune regioni si erano già mosse».
    Altri, invece, continuano a oscillare da un’emergenza all’altra, refrattari alla pianificazione. Che invece è fondamentale per affrontare i cambiamenti climatici. «Bisogna monitorare la situazione e cercare di essere pronti a intervenire prima che i danni siano eccessivi, come ora succede a Nord, dato che questo è un fenomeno che scende di latitudine».

    In attesa del piano acqua

    Per ora, le Regioni spingono affinché l’esecutivo dichiari il prima possibile lo stato di emergenza. La ministra per il Sud e la coesione territoriale Mariastella Gelmini, ha detto che da sei mesi lavora insieme ai governatori a un “piano acqua”, di cui ancora non si conoscono i dettagli.
    Per i prossimi mesi, non è escluso che possano essere imposti razionamenti idrici in alcune parti d’Italia. Tanti Comuni calabresi, nel frattempo, emettono ordinanze per evitare gli sprechi.
    Bisogna prepararsi a un futuro difficile, dove l’acqua sarà un bene da gestire con cura. Secondo i dati delle Nazioni Unite, dal 2000 sono aumentati del 29% il numero e la durata delle siccità, con un bilancio di 650mila morti dal 1970 al 2019. Un bambino su quattro vivrà in aree con estrema carenza d’acqua entro il 2040.

  • Mare da bere? Il potenziamento del depuratore può attendere

    Mare da bere? Il potenziamento del depuratore può attendere

    In questi giorni avremmo dovuto assistere all’inizio dei lavori di potenziamento del depuratore di Paola. Un progetto ambizioso: 4 milioni di euro sono stati investiti per migliorare l’impianto esistente, in località Pantani, e per allacciare 8 zone della città alle reti fognarie. Tutto rimandato.
    In teoria, è quasi tutto pronto: il progetto prevede di aumentare la portata dell’impianto da 38mila a 50mila abitanti equivalenti. La gara d’appalto è stata vinta dalla Mansueto Snc, che si occuperà sia della gestione che della manutenzione del depuratore di Paola. C’è già l’ok a progetto esecutivo e relative modifiche. Eppure, è ancora tutto fermo.

    Cinque anni senza autorizzare il depuratore di Paola

    Sullo sfondo, ci sono le elezioni comunali, che ancora devono vedere un vincitore. Al primo turno c’è stata la batosta per il sindaco uscente, Roberto Perrotta, che non è riuscito ad arrivare al ballottaggio per pochi voti. Il 25,2% non è bastato per garantirsi un posto al secondo turno. Il prossimo 26 giugno saranno Emira Ciodaro e Giovanni Politano a sfidarsi per ottenere la poltrona di primo cittadino.
    Sul depuratore di Paola, quindi, ci sarà una nuova amministrazione a prendere le decisioni. E ci sono ancora delle questioni rimaste in sospeso.

    Il lungomare di Paola

    Il Comune non ha l’autorizzazione per lo scarico delle acque reflue del depuratore. «Scaricano, ma l’autorizzazione non c’è. La richiesta è del lontano 2017», racconta Chiara Polizza, referente locale della associazione Mare Pulito, che si è confrontata con l’amministrazione sul progetto.
    Il Comune ha presentato ben 5 anni fa la domanda alla Provincia per l’impianto esistente. Sostiene di non aver mai ricevuto una risposta. Non è un dettaglio di poco conto: senza un’autorizzazione vera e propria, non si capisce chi dovrebbe fare le analisi delle acque reflue, fondamentali per capire le performance del depuratore.

    Il tempo corre

    Un’altra questione irrisolta è quella della manutenzione, che fino almeno al 30 settembre prossimo sarà sotto le mani della Ecotec, la società che ha gestito il depuratore di Paola fino a questo momento e che ha ottenuto una nuova proroga del contratto. «Però il Comune voleva implementare il lavoro della Ecotec con la nuova ditta assegnataria dei lavori». Così come andrà deciso chi deve fare le analisi delle acque (e con quale frequenza) del depuratore di Paola.

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    Salvo miracoli, è difficile pensare che i lavori possano partire durante l’estate. «Il processo di attivazione di una linea richiede 4 settimane. La depurazione è un processo naturale, sono batteri che mangiano la parte organica, la trasformano in minerale. Per avere una colonia di batteri che soddisfi il fabbisogno, bisogna avere il tempo di farli crescere. È un processo che va attivato per tempo» ci spiega Luigi Sabatini, co-presidente del comitato scientifico di Legambiente.
    Per ora, la situazione sul Tirreno cosentino è di calma apparente. Il mare è pulito, anche se ci sono già stati i primi avvistamenti delle chiazze marroni in alcune spiagge, a Paola come nel resto del territorio della provincia.

    Il depuratore di Paola e l’interventismo regionale

    Lo stesso Roberto Occhiuto si è mostrato attento alla situazione del depuratore di Paola. Ad aprile, durante un punto stampa con i giornalisti, il presidente della Giunta regionale l’aveva citata, insieme a Fuscaldo, come città particolarmente problematica, dove «forse anche edifici pubblici non sono collettati. Un inquinamento che non è arginabile nemmeno dal buon funzionamento dei depuratori».
    Per quest’estate, non si vedono rivoluzioni in vista. «Io spero che si riuscirà ad avere un mare almeno per il 40-50% più pulito», aveva dichiarato il presidente.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Però, da quando si è insediata la nuova giunta, la Regione ha incarnato un nuovo interventismo sul tema, e in generale sulla salvaguardia dell’ambiente.
    Lo scorso 17 marzo, la Regione ha preso in mano la gestione dei fanghi da depurazione nei comuni più in difficoltà sulla fascia tirrenica, tra Tortora e Nicotera. L’ultimo intervento “muscolare” è del 17 giugno. Con un’ordinanza, Occhiuto ha deciso che il Corap dovrà sovrintendere la gestione di 14 impianti, fino al prossimo 30 settembre.
    Il commissario Sergio Riitano gestirà i depuratori di:

    • Nocera Terinese
    • San Lucido
    • Ricadi
    • Fuscaldo
    • Pizzo
    • Tropea
    • San Nicola Arcella
    • Belvedere Marittimo
    • Guardia Piemontese
    • Sangineto
    • Belmonte Calabro
    • Parghelia
    • Zambrone
    • Briatico

    In queste strutture la Regione ha «accertato il mal funzionamento di sezioni impiantistiche deputate alla depurazione delle acque reflue con la conseguente compromissione del processo di trattamento e con conseguente pericolo per la salute umana e per l’ambiente». Occhiuto ha annunciato ulteriori dettagli sull’ordinanza per la mattina di lunedì 20 giugno.

    La caccia agli abusivi

    Per prendere il toro per le corna, la Regione ha rafforzato i controlli sui corsi d’acqua, sia con l’aiuto di Arpacal, sia con la stazione zoologica Anton Dohrn, con cui ha  stipulato una convenzione per la tutela del mare e delle coste calabresi, a novembre 2021.
    Durante l’anno c’è stata la mappatura di corsi d’acqua, scarichi, vari siti inquinati. «La Regione Calabria, attraverso Arpacal ha recentemente attivato un piano di rafforzamento per il monitoraggio delle acque superficiali e sotterranee. Quest’ultima attività consentirà una classificazione delle acque sotterranee della Calabria secondo quanto previsto dalla Direttiva Acque», ci ha raccontato Michelangelo Iannone, direttore scientifico di Arpacal.

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    Uno scatto relativo all’operazione Deep

    Il fermento ha portato a nuovi interventi delle forze dell’ordine, per colpire gli scarichi abusivi o irregolari. Lo scorso 24 marzo è stata la volta della operazione Deep. I carabinieri hanno messo i sigilli a 5 impianti nelle province di Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia.
    Un mese dopo, gli inquirenti si concentrano sulla provincia di Reggio Calabria, con l’operazione Deep 1. I Carabinieri hanno controllato 48 strutture in provincia di Reggio Calabria, dichiarandone irregolari 14. Per tre di queste è scattato il sequestro, insieme ad un impianto di sollevamento (a Campo Calabro) e a un canale di collegamento delle acque reflue (Sant’Agata del Bianco). Le operazioni Deep 2 e Deep 3 hanno continuato su questa falsariga.

    Avanti piano

    I passi avanti sono evidenti, ma ci vorrà molto tempo e lavoro per avere un quadro preciso. E, come sottolineato dal generale Salsano alla Gazzetta del Sud, non basta la repressione. Continuare a potenziare il monitoraggio renderà più facile individuare i siti problematici. Michelangelo Iannone, presentandoci i dati, ci ha raccontato che su 102 impianti controllati dai tecnici dell’Agenzia nel 2021, «oltre un terzo è risultato irregolare per la mancata conformità dei parametri sia chimici che biologici». Di questi, 11 sono nella provincia di Cosenza.

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    Anche sui comuni non collettati non sono stati fatti grandi passi avanti dai tempi dell’ultima procedura di infrazione europea contro l’Italia sul trattamento delle acque reflue. In Calabria ci sono quasi 150 centri che hanno zone scollegate dalla rete fognaria, stando ai dati del Commissario Straordinario Unico per la Depurazione.
    La Calabria è l’unica Regione dove persino il capoluogo ha delle parti di città non coperti dalla rete fognante. Avremmo dovuto metterci in regola nel lontano 2005, ma non è successo.

    I fanghi spariti e la manutenzione inesistente

    La Calabria è piena di «impianti fermi, impianti da efficientare, ed impianti inesistenti». Ci ricorda Sabatini, citando il caso del depuratore di Pizzo Calabro, in località Carcarella: una delle strutture commissariate dalla Regione. «Da 5 anni monitoro la situazione dei depuratori. Per me, non è cambiato nulla. Quello che c’era nel 2016, c’è nel 2022. Ci sarà qualche piccola novità, come Priolo, che è riuscito a sistemare qualche impianto. Ma niente che stravolge la situazione attuale»
    Quelli che ci sono, potrebbero fare molto di più: «Su una capacità totale di 3 milioni di abitanti equivalente, viene servito 1 un milione di abitanti, l’acqua dovrebbe essere ottima, ma non è così».

    Un’altra incognita è quella dei fanghi prodotti della depurazione. Nel senso che i dati sono quasi inesistenti. Le città li comunicano a macchia di leopardo, quando non mancano del tutto. Sul sito della Regione, i dati dei report provinciali sono aggiornati al 2017. E, senza dati costantemente aggiornati e accessibili, non si può valutare a fondo le condizioni di un impianto. I fattori da valutare sono tanti, così come le cose che possono andare storte.
    I fanghi incastrati nelle tubature degli impianti contribuiscono a renderli più inefficienti. Dalle ultime inchieste è emerso che oltre 22mila tonnellate di scarti stanno bloccando gli impianti di tutta la Regione.

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    La manutenzione è un altro dei punti focali: dovremmo aver imparato la lezione, dopo anni di malagestione in tutto il territorio. «Tutti i comuni dichiaravano quantità di fanghi inferiore rispetto a quello che ci aspetta dalla letteratura scientifica. Per ogni metro cubo di acqua trattata dovrebbe uscirne fuori 2 kg di fanghi», ci spiega Sabatini.
    Il sistema attuale, ad esempio, non incentiva allo smaltimento regolare dei fanghi. Chi se ne occupa, di solito, riceve un pagamento forfettario, che non è legato alla quantità di fanghi che vengono lavorati: «Fingere di depurare bene aiuta a risparmiare. I fanghi devono essere pagati in base alla misura».
    Legambiente propone da tempo di non affidare allo stesso soggetto la gestione e la manutenzione dell’impianto. Una scelta che viene fatta spesso, per semplicità, ma che carica di spese e lavoro un solo soggetto.

    Il peso dell’acqua inquinata

    Sappiamo che è un problema vasto, che non riguarda solo gli scarichi abusivi. In mezzo ci stanno infrastrutture fatiscenti, progetti mai finiti, paesi non collegati alla rete fognaria, impianti dimensionati male, e altri che non dividono il trattamento delle acque nere e quelle bianche. E una diffusa insensibilità verso ciò che ci circonda, e che ci tiene in vita.
    Stare a contatto con l’acqua contaminata è sempre un rischio. In particolare, ingerirla può far insorgere delle malattie gastrointestinali. «Importante in termini di possibili ricadute sulla salute può essere la presenza di sostanze in grado di interferire col sistema endocrino, specialmente nelle acque potabili», spiega Iannone. Un fattore monitorato costantemente dall’Arpacal è quello legato alla presenza di metalli pesanti, «alcuni dei quali sono causa riconosciuta di patologie neurologiche».

    I contaminanti, poi, possono finire nel cibo che mangiamo. «Metalli pesanti, sostanze come PFAS, pesticidi ed altre vengono continuamente monitorate, sulla base delle indicazioni dettate dalla legge, proprio allo scopo di mettere in evidenza l’eventuale presenza di tali inquinanti, con il fine ultimo di identificare e rimuovere la causa dell’inquinamento», precisa ancora Iannone.
    Poi, ci sono le evidenze economiche. Un turismo che plana, ma non decolla mai. Non è un caso se, come riportato dal Sole 24 Ore il 15 giugno, il Sud, in generale, è la macro regione dove ci sono meno turisti. Mancano sia i viaggiatori interni, che esterni. E se il trend è in risalita, è difficile pensare che possa avere un impennata in tempi brevi, se le infrastrutture sono queste.

  • Il lavoro quando c’è: nero e irregolare a Cosenza

    Il lavoro quando c’è: nero e irregolare a Cosenza

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    La polemica è stagionale come certi lavori: non appena arriva l’estate partono le lamentele di vari imprenditori contro il Reddito di cittadinanza.
    Alle quali si sono aggiunte, quest’anno, le perplessità sul Salario minimo, approvato da poco dall’Ue e a cui l’Italia dovrà adeguarsi.
    La domanda vera è: queste misure servono? E quanto?
    Di sicuro i dati che vengono dall’altro fronte, quello dell’impresa, non sono il massimo.

    Calabria maledetta?

    I casi eclatanti non mancano, da noi. E di alcuni I Calabresi hanno già dato ampio resoconto.
    Mancano, semmai, statistiche complete attendibili che diano il polso della situazione.
    Detto altrimenti: quanti sono i casi di sfruttamento, di lavoro nero “totale” o di lavoro “grigio”?
    Ancora: quanti sono i casi di evasione, assicurativa e contributiva, ai danni dei lavoratori? Ottenere questi dati è difficilissimo, per una serie di ragioni.
    La prima si chiama omertà: spesso il lavoratore è “colluso” col suo capo. E non sempre perché ne subisce il ricatto: la vita del “padrone”, in Calabria, può essere difficile come quella dei suoi dipendenti.

    I cantieri edili sono spesso luoghi-simbolo dello sfruttamento

    La seconda è dovuta all’inefficienza: gli uffici che dovrebbero vigilare, il più delle volte, non sono attrezzati a dovere, soprattutto a livello di organico.
    Tuttavia, qualche numero da cui partire c’è . Poco, ma quanto basta per mettere un piccolo punto fermo. E capire se siamo o no una terra maledetta.

    Lavoro nero e non solo: un anno di evasioni

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    La sede dell’ispettorato

    I dati dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza sono piuttosto parziali. Innanzitutto perché riguardano il solo 2021.
    Poi perché riflettono l’attività dell’ufficio, cioè tutti i casi che i funzionari conoscono in seguito a denunce o ispezioni.
    Eccoli.
    In tutto il territorio provinciale di Cosenza lo scorso anno ci sono state 492 richieste d’intervento, cioè denunce dei lavoratori.
    Sempre nello stesso periodo, sono emersi 434 casi di lavoro irregolare. Ovvero il cosiddetto lavoro “grigio”.
    I casi di lavoro completamente nero sono, invece, più ridotti: 273.
    A questo punto, arriviamo al girone peggiore: i lavoratori in nero che percepiscono il Reddito di cittadinanza. I casi denunciati nel 2021 sono solo 14.
    Ancora: nello stesso periodo, l’Ispettorato ha emesso 236 Diffide accertative (in pratica l’equivalente dei decreti ingiuntivi) per crediti vantati dai lavoratori.
    Il dato più grosso riguarda l’evasione assicurativa e contributiva, che arriva a 2.101.721, 94 euro.
    I casi risolti sono 737. Come valutare questi dati?

    La pagella di Cosenza

    Per quanto parziali, i dati sono gravissimi, perché incidono su un territorio enorme e problematico.
    La terza provincia d’Italia ha un tasso di disoccupazione altissimo (si parla di circa 58mila disoccupati per il 2021 e un tasso del 50% tra gli under 30), che di suo spinge alla fuga.
    Di più, questi dati emergono da un sistema economico essenzialmente terziario, in cui anche il bar sotto casa a gestione familiare è un’azienda.
    Ciononostante, i casi emersi nel 2021 restano pochi, come ammettono per primi proprio dall’Ispettorato.
    È il momento di specificare meglio ciò che si è detto prima sulle inefficienze, reali e presunte, di chi dovrebbe tutelare i lavoratori.

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    Lavoratori in protesta contro lo sfruttamento

    Ispettorato azzoppato

    Si è già detto che i dati raccolti sono il frutto delle denunce dei lavoratori oppure delle ispezioni.
    Ma che verifiche può fare un ufficio spaventosamente sotto organico? Il fabbisogno di personale dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza oscilla attorno alle cento unità, tra ispettori e funzionari.
    La disponibilità effettiva è quasi la metà, quindi del tutto insufficiente. Peggio ancora se si considerano anche le attività di polizia giudiziaria (ad esempio nell’infortunistica) che gravano sull’ufficio.
    Non a caso, la scorsa primavera i dipendenti dell’Ispettorato sono scesi in piazza per denunciare che tra le tante emergenze del lavoro c’è anche la loro.
    I dati sono veri, ma stimati in difetto: quelli reali potrebbero arrivare a quattro volte tanto.

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    La manifestazione degli ispettori del lavoro a Cosenza

    Il Reddito è un rimedio?

    Un rimedio no, fanno sapere gli addetti ai lavori, che ammettono per primi che il Rdc è stato un mezzo fallimento.
    Tuttavia, resta un palliativo.
    Stesso discorso per il Salario minimo, di cui desta perplessità il fatto che è pensato su base oraria.
    Si prepara un’altra estate di polemiche. Poi, finite le esigenze stagionali, tutto tornerà più o meno a posto.
    Resta una domanda: quante saranno le irregolarità o le evasioni del 2022?

  • Cosenza globale: il quartiere multietnico a due passi dal centro

    Cosenza globale: il quartiere multietnico a due passi dal centro

    Kasbah, borgo, villaggio: il quartiere dell’autostazione è un mondo a sé rispetto al resto di Cosenza. Contenitore di storie e di vite, migranti e stanziali. All’alba, nel silenzio della città che ancora dorme, il quartiere si sveglia prima degli altri tra i rumori dello scarico della merce, le saracinesche che si alzano e il furtivo guardarsi intorno di chi ha trascorso la notte sulle panchine e sa che deve dileguarsi prima che arrivi il primo autobus carico di pendolari.

    Il buongiorno multietnico dell’autostazione di Cosenza

    Una pattuglia della polizia è all’ennesimo giro di controllo e avanza lenta tra le corsie ancora deserte. Nel Buongiorno si intrecciano le lingue. Ognuno ringrazia il suo dio. Il bar sforna cornetti, prepara i primi caffè e comincia svogliatamente a popolarsi. Davanti al money transfer prende forma la mesta processione di chi è in attesa di un aiuto economico da familiari lontanissimi e chi conta i soldi che oggi invierà a casa.

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    Crocevia di storie e persone: l’autostazione di Cosenza

    Il cinese Chang diventa Ciccio 

    In una città in cui i pochi turisti restano incompresi e ci si affida ai gesti per comunicare, il paradosso è che qui i negozianti, anche i più anziani, si sono assicurati un repertorio di frasi per interagire in inglese con clienti di tutte le nazionalità. Nella dimensione comunitaria del borgo i nomi, quelli impronunciabili, si reinventano in chiave cosentina. E così Kaunadodo, che arriva dal Mali, per qualche bizzarra associazione diventa Tonino, mentre Chang che è cinese, per tutti è Ciccio. Il tempo è scandito da arrivi e partenze. I ragazzi nordafricani con i dreadlock, belli come statue, si mischiano agli studenti che a partire dalle sette scendono dai bus in arrivo dai paesi della provincia, incrociano le badanti col velo che tornano a casa dalle notti trascorse ad accudire gli anziani.

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    Mamma africana con il suo bambino tra le corsie dell’autostazione di Cosenza

    Degrado o luogo come un altro?

    I viaggiatori di passaggio vanno ad acquistare nei bazar gestititi dai cinesi, la comunità araba mangia il kebab dall’egiziano e fa la spesa nelle macellerie halal e nei supermercati che vendono prodotti internazionali. Le ragazze nigeriane si sistemano le treccine con i cosmetici acquistati all’african shop. Qui acquistano prodotti specifici per la loro pelle e trucchi che valorizzano l’incarnato. Ci sono sguardi indignati e sguardi indulgenti. Per alcuni questa babele è causa di degrado e criminalità, per altri è un luogo come un altro.

    I cosentini non si sentono al sicuro

    Il dato di fatto è che i residenti non si sentono al sicuro. Nei condomini quasi tutti hanno potenziato sistemi di allarme e telecamere. «Guardi qui», Anna mostra il suo cellulare, «24 ore su 24 controllo dal mio telefono cosa accade davanti alla porta di casa. Se c’è qualcuno un beep mi avverte. Viviamo così, con la paura costante di rientrare nel portone o nel parcheggio e trovare qualche malintenzionato». I palazzoni che fanno da cintura intorno all’autostazione sono edifici eleganti con appartamenti di metrature smisurate rispetto agli standard attuali. Ogni amministrazione comunale che si è succeduta ha promesso il trasloco delle corsie dei bus con il loro pesante carico di inquinamento atmosferico. «Argomenti buoni solo in campagna elettorale – sbotta una signora davanti al supermercato – ormai abbiamo smesso di crederci. Questo era un quartiere di famiglie, professionisti, negozi. Adesso abbiamo spazzatura, traffico, degrado, prostitute, ubriaconi e risse».

    Autostazione Cosenza: l’amicizia possibile e il compare cinese

    I nomi sui citofoni, cancellati e sovrascritti, dicono qualcosa della geografia di questi condomini multietnici in cui al profumo del soffritto preparato dalla vecchietta del primo piano si mescola l’odore dell’aglio dell’adobo filippino. Arriva su, fino al quinto piano, dove incontrerà le note speziate del pollo in padella affondato nel riso basmati della tradizione pakistana. È tutto un dualismo, un alternarsi, passato e presente, nuovo e antico, prossimità e lontananze. Molti negozi storici resistono, convivono muro e muro con i negozi che aprono come funghi per assecondare le esigenze della popolazione multietnica che gravita intorno all’autostazione. Certe volte i rapporti si trasformano in amicizia, un commerciante cinese ha dato al figlio il nome di un collega italiano e gli ha chiesto di battezzarlo. Certo non è sempre così, ci sono situazioni di conflitto sempre sul punto di esplodere. Bande rivali che ogni tanto seminano il panico.

    «Sono i ragazzi cosentini a darmi fastidio»

    «Questo è un porto – dice un esercente che non vuole esporsi e chiede di restare anonimo – e nei porti si sa, arriva di tutto: la gente per bene e i disperati. Ma se vuole saperlo a me danno più fastidio gli italiani, i cosentini, i ragazzi che ho visto crescere nel mio quartiere e che oggi sono diventati degli sbandati. Mi presentano la tessera del reddito di cittadinanza e pretendono non la spesa ma i soldi. È una continua richiesta, snervante, ossessiva. Gli rispondo: ma c’è scritto banca sull’insegna? Che rabbia. Certe volte sono costretto a chiudere prima, è l’unico modo che ho per sfuggire. A questo siamo arrivati».

    Nel “porto” cosentino c’è tutto un flusso di migranti in partenza e in arrivo, che segue le rotte del lavoro o della sua ricerca, dalla raccolta nei campi alla vendita ambulante. E c’è un indotto cospicuo, di cibo e servizi, dalle ricariche telefoniche al trasferimento di denaro, dal parrucchiere specializzato nelle acconciature afro al disbrigo pratiche burocratiche e interpretariato.

    La vecchia trattoria si trasforma in supermercato multietnico

    «Quando ho aperto, i miei colleghi mi guardavano male. Mi accusavano di aver reso questo posto più pericoloso perché frequentato dagli stranieri. Oggi devono riconoscere che sono stato un imprenditore lungimirante. Avevo visto lungo«. Massimo De Luca ci è cresciuto tra le corsie dell’autostazione, dove gestisce un supermercato di prodotti internazionali “I cinque continenti”. Oggi vende tapioca e aringhe essiccate negli stessi spazi in cui suo padre, negli anni ’60 serviva ai tavoli della sua trattoria i viaggiatori che arrivavano a Cosenza con la littorina, quella col portapacchi sul tettuccio. «C’erano diverse trattorie in questa zona ed erano una tappa obbligatoria per i pendolari. Venire a Cosenza significava godere della gioia di mangiare un piatto caldo prima di ripartire».

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    Tra gli scaffali di “Cinque continenti”

    Serve uno sforzo notevole per immaginare questo posto e ricostruire lo scenario completamente diverso che ruotava intorno alle corsie della stazione degli autobus: l’alimentari-trattoria Scarpelli, il deposito del pastificio Amato, Forgione Calzature, il Paradiso dei Piccoli, il Salone del lampadario. L’ultimo ad abbandonare la sua storica sede è stato Giordano il Musichiere, mentre la trattoria De Luca ha cambiato pelle e si è adeguata ai tempi. Prima Conad Margherita e poi supermercato multietnico. «Tutto è iniziato quando ho cominciato a vedere che la clientela si stava modificando – racconta De Luca – . Cinesi e filippini mi richiedevano dei prodotti, ho cominciato ad ordinarli, poi ho capito che la mia strada era proprio quella di differenziarmi, di rendermi indipendente”.

    Dopo filippini e cinesi con l’istituzione dei i centri di accoglienza legati allo Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati) sono arrivati i nordafricani, tantissimi. Ragazzi e ragazze, intere famiglie. Hanno un disperato desiderio dei profumi e dei sapori dei loro paesi d’origine: il cibo è il ponte che tiene saldi i legami, li ancora alle loro origini. «Qui c’è un movimento di persone incredibile – spiega De Luca – puoi averne contezza solo se lo vivi come me dall’interno». E non solo nordafricani, cinesi, filippini. «Argentini, venezuelani, brasiliani sono in forte aumento. E non dimentichiamo il flusso degli studenti Erasmus».

    Quasi tutti bravi ragazzi, poche teste calde e qualche amico

    De Luca difende la multietnicità dell’autostazione. «Sono quasi tutti bravi ragazzi, a parte qualche sporadica testa calda. Mai avuto un problema nel mio negozio: entrano, comprano, pagano. E spendono anche nei negozi intorno, non solo qui. Dobbiamo vedere la presenza dei migranti come una risorsa, non come un problema». De Luca critica però la gestione dell’area: «Per contrastare il degrado non serve togliere i servizi. È stata eliminata la sala d’attesa, hanno tolto le panchine. A cosa è servito?».

    Ciccio Caruso è diventato adulto dietro il bancone di generi alimentari che gestisce fin da quando era un ragazzo. Il suo core business sono i panini imbottiti, è riuscito a convertire alla schiacciata piccante anche i suoi amici cinesi del vicino ristorante orientale. Ma è anche amico dei ragazzi arabi che gestiscono il piccolo market halal alla sua sinistra. «Siamo tutti sulla stessa barca – scherza – alla fine andiamo oltre la nazionalità e la lingua. Siamo colleghi e in qualche caso anche amici».

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    arabo e italiano: due lingue che si mescolano all’autostazione di Cosenza

    Serve un posto di polizia permanente

    Per Caruso la questione da affrontare riguarda l’afflusso di pendolari. «Gli autobus arrivano nelle corsie dell’autostazione già vuoti, fanno scendere i viaggiatori, in particolare gli studenti prima di arrivare qui. Questo per me significa perdere la parte più cospicua dei miei potenziali clienti. Bisogna migliorare i servizi – dice – rendere quest’area più accogliente e quindi più sicura, magari con un presidio permanente delle forze dell’ordine».

    Quando gli ultimi autobus abbandonano le corsie, restano cumuli di spazzatura, gli ambulanti trascinano la merce verso casa. Si sentono le risate di un gruppo di ragazzi fermi sul muretto con una birra in mano. Il lampeggiante annuncia un nuovo stanco giro di perlustrazione. È tutto a posto. O almeno così sembra.

  • In Calabria arrivano i taser, ma è una buona notizia o no?

    In Calabria arrivano i taser, ma è una buona notizia o no?

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    Nella fondina di poliziotti, carabinieri e finanzieri calabresi potreste notare qualcosa di diverso. Un’arma in più: delle grosse pistole gialle, che possono sparare due elettrodi collocati su dei piccoli dardi. Al momento dell’impatto, i muscoli del soggetto colpito si contraggono, impedendone i movimenti per qualche secondo.

    Dal 6 giugno, il taser è a disposizione – in un numero limitato – delle forze dell’ordine di Gioia Tauro, Tropea, Cirò Marina, Soverato, Roccella Ionica, Paola e Sellia Marina.
    Non sono i primi agenti ad averlo. Già dal 23 maggio, i taser sono entrati a far parte dell’equipaggiamento dei loro colleghi di Catanzaro, Cosenza e Locri. E dal 31 maggio, il governo ha autorizzato la sua distribuzione alle forze di polizia di Crotone, Corigliano-Rossano, Vibo Valentia, Lamezia Terme, Melito di Porto Salvo e Rende.

    Queste pistole vengono viste soprattutto come un buon deterrente verso i violenti: secondo i sostenitori e le aziende che le producono, contribuiscono ad aumentare la sicurezza degli agenti e dei civili.
    Tra entusiasmi e sbrodolamenti, quello che manca è un dibattito serio ed informato sulla questione. I taser sono armi non letali, ma non sono esenti da rischi per l’incolumità delle persone che subiscono la scossa.

    Le prove balistiche finite male

    Le pistole ad impulsi elettrici sono comunemente note come taser a causa del principale player sul mercato.
    La Taser International è stata l’azienda più nota per la produzione di queste armi. Esiste ancora, ma ha cambiato nome in Axon nel 2017. Ed è proprio lei a fornire l’arma agli agenti italiani.
    La sperimentazione del taser a livello nazionale ha avuto una storia complicata. Se n’è parlato per la prima volta nel 2014, con Angelino Alfano come ministro dell’Interno e Matteo Renzi Presidente del Consiglio. Con la conversione in legge del decreto Stadi, venne autorizzata la prima sperimentazione.

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    L’allora ministro Salvini al centro nazionale di specializzazione e perfezionamento al tiro VIII Reparto Mobile

    Ma è nel 2018, con Salvini al Viminale, che l’iter è partito per davvero. L’acquisto dei taser era stato inserito persino nel contratto di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle, per la formazione del Conte I. A luglio di quell’anno, 30 taser sono stati distribuiti alle forze dell’ordine di 11 città, per iniziare la sperimentazione.

    https://www.facebook.com/salviniofficial/videos/348241469201928

    Il 21 luglio 2020 arriva il primo stop. Le prove balistiche non sono andate bene. I dardi non avrebbero avuto la giusta precisione, e tendevano a staccarsi dal cavo elettrico. Problematiche che mettevano a repentaglio l’incolumità dei civili e degli agenti.
    Ai tempi, il dipartimento della polizia di Stato aveva spiegato in una nota che «sono state riscontrate delle criticità relative alla fuoriuscita dei dardi, che hanno dato risultanze non conformi alle previsioni del Capitolato tecnico». Una circolare del ministero ordina il ritiro dei dispositivi già dati agli agenti. Axon aveva protestato molto, ritenendo le sue armi conformi alle specifiche tecniche del bando di gara.

    Il 23 febbraio 2021, l’ex Taser International viene esclusa da un nuovo bando. Oltre ai già noti problemi tecnici, emersero nuove criticità, secondo quanto riportato da L’Espresso: dalle fondine sbagliate, alla mancanza di istruzioni in italiano.
    Il giorno dopo è il Viminale a sbloccare la situazione. Invece di istituire un nuovo bando, si sceglie una procedura negoziata: sarà l’offerta economica più vantaggiosa ad essere decisiva. Partecipano le tre aziende che hanno partecipato ai bandi precedenti, ma è di nuovo Axon ad avere la meglio.

     

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    Una schermata del sito della Axon

    Il taser è uno strumento sicuro?

    Il mese dopo arriva l’acquisto di 4.482 pistole TX2 della Axon per la sperimentazione in 14 città metropolitane. Tra queste c’è Reggio Calabria, il primo centro calabrese in cui Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza hanno i taser in dotazione.
    A parte il Silp, che ha denunciato la troppa fretta nell’implementare i taser, la maggior parte dei sindacati di polizia hanno espresso la loro soddisfazione.

    In Calabria, Gianfranco Morabito, segretario provinciale del Sindacato Italiano Unitario Lavoratori Polizia (Siulp) a Catanzaro, ha accolto favorevolmente la cosa: «L’utilizzo e la distribuzione di tale dispositivo eviterà il rischio del contatto diretto con l’antagonista fuori controllo, inibendone la furia aggressiva e dando il tempo necessario a contenerlo». Sulla stessa falsariga la reazione di Sergio Riga, segretario provinciale del Sap di Catanzaro.

    La destra canta vittoria

    Sia a livello locale che nazionale, è stata soprattutto la destra a cantare vittoria. Domenico Furgiuele, deputato calabrese della Lega, lo ha definito «uno strumento di non violenza che ha dato ottimi risultati».
    Come ha spiegato il sottosegretario Molteni, «l’utilizzo operativo del taser è stato avviato lo scorso 14 marzo e sta seguendo un cronoprogramma serrato», compreso della formazione degli agenti.

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    Molteni e Salvini

    L’intenzione è quella di estendere la dotazione a tutti i reparti delle forze dell’ordine «uno strumento indispensabile per tutelare l’incolumità e la sicurezza degli operatori delle forze di polizia, un’arma di difesa e non di offesa, di sicurezza e non di violenza, un deterrente straordinario per i nostri agenti di polizia».
    Quello che non emerge spesso nel dibattito è quanto il taser sia rischioso per chi lo subisce. Nonostante i proclami sulla sicurezza, “non letale” non significa priva di rischi.

    Eccessi di violenza

    Nel 2007, una commissione dell’ONU li aveva equiparati a strumenti di tortura, che violano la Convenzione contro la Tortura delle Nazioni Unite. Un modello diverso da quello attualmente in dotazione in Italia.
    Negli anni, sono molte le voci che si sono alzate contro queste armi, dalle associazioni, ai centri di ricerca, fino alle redazioni di alcuni giornali, che con il loro lavoro hanno documentato i dubbi, gli incidenti, le morti sospette.

    Uno degli aspetti messo più in risalto dagli attivisti è che la pistola ad impulsi elettrici renderebbe le forze dell’ordine più propense ad utilizzarla quando non ce ne sarebbe il bisogno. «Proprio per la sua minore letalità può essere usata con eccesso di disinvoltura», spiegava ad Huffpost Riccardo Noury, portavoce italiano di Amnesty International.

    Quella disinvoltura che ha spinto Alex Galizzi, consigliere leghista della Regione Lombardia, a provarlo su sé stesso.
    Nel video, Galizzi dice convinto: «Non è un’arma». Ma non è vero. Per la legislazione italiana, infatti, è un’arma propria, soggetta alla regolamentazione sulle armi. Questo vuol dire che solo chi ha un porto d’armi può acquistarla, e non può essere portata in giro per strada.

    Tutto quello che non sappiamo sui taser

    È difficile dire che si è fatto tutto con la massima sicurezza possibile, come fa il sottosegretario Molteni, quando non esistono nemmeno studi scientifici e clinici sui pericoli delle scosse elettriche dei taser sulle persone.
    Come ha evidenziato uno studio portato avanti dal Dipartimento di Igiene e Sanità Pubblica dell’Università della Sapienza, a Roma, è stata la stessa Axon a commissionare più della metà delle ricerche. Un enorme problema di conflitto di interesse.

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    La Sapienza di Roma

    Sappiamo però che ci sono dei rischi. Le scariche del taser possono causare aritmia cardiaca a delle persone sane.
    Anche in questo caso, però, sono i soggetti più fragili ad avere la peggio, e ad essere più esposti a rischio di arresto cardiaco e di una possibile morte improvvisa.
    In particolare, a rischiare di più sarebbero i cardiopatici, le persone che fanno uso di droghe, o chi si sottopone a sforzi fisici prolungati (ad esempio, come chi scappa da un inseguimento della polizia). Inoltre, i pacemaker rischiano di subire delle interferenze.

    Arma letale

    Infine, la mortalità. Nel 2019, un’inchiesta di Reuters aveva svelato un dato allarmante: 1081 americani sarebbero morti tra il 1983 al 2018 a causa delle scariche dei taser della polizia. La maggior parte sono morti nei primi anni 2000. A subire le conseguenze sono state soprattutto le comunità afroamericane.

    Uno studio del Criminal Justice Service della Standford University era arrivato alla conclusione che la maggior parte della popolazione non poteva essere soggetta alle scariche del Taser. L’arma può essere usata in sicurezza solo «su individui in salute che non sono sotto l’effetto di droga e alcol, non sono in stato di gravidanza e non soffrono di disturbi mentali, a patto che il soggetto riceva una scossa standard della durata di cinque secondi su una delle aree del corpo approvate».
    Condizioni che un agente non può di certo garantire in situazioni di emergenza.

  • [VIDEO] Uffici vuoti a Bruxelles, ma la Regione Calabria paga lo stesso

    [VIDEO] Uffici vuoti a Bruxelles, ma la Regione Calabria paga lo stesso

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    Nessuno probabilmente se n’è accorto ma il bergamotto, che è certamente un prodotto DOP (denominazione di origine protetta), da maggio 2019 è diventato anche DOT, di origine toscana.

    CLICCA SULL’IMMAGINE IN APERTURA PER GUARDARE IL VIDEO

    Al numero 14 di Rond Point Schuman – nel cuore del quartiere Ue di Bruxelles – si trova l’edificio dove hanno sede molti enti e uffici di rappresentanza delle Regioni italiane. Ed è stata proprio la Regione Toscana a concedere alle associazioni Profumi di Calabria e Calabresi in Europa, la grande sala convegni all’ottavo piano dello stabile. La sala utilizzata per un evento di promozione del bergamotto.

    La Regione Calabria a Bruxelles

    Eppure la Regione Calabria a Bruxelles ha un suo spazio nello stesso edificio e continua a pagare un consistente canone di locazione per i suoi uffici. Non li usa e non si fa vedere lì da tempo.

    Di recente anche I Calabresi ha provato a visitare la sede. Ma chi lavora lì ci ha confermato che quegli spazi sono chiusi e inattivi da diverso tempo. Una vicenda che restituisce il mancato legame della Calabria con il cuore delle istituzioni europee. Una regione che adesso si trova ad affrontare tra mille incertezze la sfida del Pnrr.

  • Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

    Matti da slegare: i prigionieri del silenzio a Reggio e Girifalco

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    Segregati in casa o rinchiusi in manicomio, in Calabria come altrove. Nel ‘900 le famiglie dei “matti” avevano poche alternative. Dovevano tenerli nascosti, rassicurare i condomini, sfuggire agli sguardi e alle occhiate compassionevoli. Oppure internarli. Non si era ancora imposta la necessità di un linguaggio meno incline alla barbarie. Non si discuteva se fosse più giusto chiamarli disabili, diversamente abili o persone con disabilità. Li definivano “spastici”, “handicappati”, “anormali psichici”. Questi termini coprivano un arco ampio di casi, dalla sindrome di Down al ritardo mentale, passando per le menomazioni fisiche e i disturbi della personalità. Addirittura qualcuno scambiava ancora le sofferenze cerebrali per possessioni demoniache.

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    Reggio Calabria: l’Istituto di rieducazione per anormali psichici, manicomio cittadino (foto Rosario Cassala)

    «Ti chiudo a Girifalco»

    Il paesino di Girifalco, a partire dalla seconda metà dell’800, divenne così un’antonomasia. Se Gorgonzola è sinonimo di formaggio e Verona evoca l’amore di Giulietta e Romeo, «ti chiudo a Girifalco» in Calabria voleva dire che non stavi bene con la testa e rischiavi di finire in manicomio. Oggi lo stigma del disagio psichico rimane. Chi ne soffre, tende a dissimulare. E i suoi parenti lo circondano con una silenziosa cappa protettiva.

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    Girifalco, un internato e un cane sdraiati nel cortile della struttura (foto Rosario Cassala)

    Eppure il clima intorno alle patologie psichiatriche sembra in parte mutato. Il merito è dei tanto vituperati anni Settanta: il decennio del “Vogliamo tutto” e dell’insurrezione contro i poteri dello Stato impose anche conquiste civili e diritti inediti: lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’interruzione di gravidanza. E la legge 180 del 1978, che poi ha portato alla chiusura dei manicomi.

    La Calabria da manicomio di Lombroso

    «La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere», scrisse Franco Basaglia, padre della rivoluzione nell’ordinamento negli istituti psichiatrici.

    In Calabria il manicomio di Girifalco fu istituito nel 1881, quando le teorie di Cesare Lombroso si stavano radicando nel resto del Paese: la forma del cranio dei calabresi, le arcate sopraccigliari, l’irregolarità del volto e degli zigomi sarebbero segni evidenzianti la nostra natura di “razza criminale”. Lombrosiani furono i direttori del manicomio. A esso lo storico Oscar Greco ha dedicato un’opera monumentale, I demoni del Mezzogiorno (Rubbettino Editore).

    «Quando avviai la ricerca nell’archivio di Girifalco – spiega Greco, docente universitario di Storia contemporanea – provai sensazioni forti. Mi ritrovai tra le mani le cartelle cliniche, quindi la vita delle persone, le ingiuste detenzioni, gli assurdi principi lombrosiani in base ai quali furono internati tanti uomini e in particolare moltissime donne che di folle non avevano niente. Furono recluse solo perché non accettavano la condizione di madre, angelo del focolare e tutto ciò che nella cultura maschilista dell’epoca le relegava in una condizione di subalternità. In più, da calabrese prima ancora che da studioso, rimasi sbigottito dinanzi alle descrizioni aberranti delle caratteristiche somatiche dei malati».

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    In manicomio a Reggio Calabria si finiva pure per la propria identità non conforme alla morale comune (foto Rosario Cassala)

    La legge Basaglia e il lager calabrese

    Potrà sembrare strano, ma all’epoca erano proprio le convinzioni protosocialiste a ritenere valida questa catalogazione sociale di impronta razzista. La ricerca di Greco sta adesso riguardando la fase finale dell’esperienza di Girifalco, quella della sua chiusura. «Ci sono dei chiaroscuri. La legge Basaglia – prosegue Greco – affidava alle Regioni il compito di provvedere ai loro cosiddetti pazzi. Possiamo immaginare la Regione Calabria, con ancora l’eco della rivolta di Reggio, quali provvedimenti adottò negli anni successivi al 1978. Praticamente nessuno! Nel 1992 un deputato dei Verdi, Edo Ronchi, effettuò delle ispezioni. A Girifalco non lo lasciarono entrare, lui chiamò i carabinieri ed entrò con i militari nel manicomio. Scoprì un lager».

    Una vita da pazzi

    Da quel momento iniziò un «doloroso percorso di chiusura. Si rimossero le sbarre dalle finestre, però – continua Greco – mancava il personale che si occupasse di questi pazienti. Il manicomio non era più una struttura provinciale, bensì terra di nessuno. Si assistette a fughe e suicidi. Oggi sono rimasti circa 20 pazienti, perlopiù anziani. Alcuni di loro, quattro per la precisione, erano presenti già ai tempi dell’approvazione della legge Basaglia. Sono ormai istituzionalizzati in quel luogo. Per loro il tempo è stato scandito dai cicli dei diversi direttori. Quando con la memoria ripercorrono il passato, identificano ogni periodo con la qualità dei pasti nel refettorio, se si mangiasse meglio o peggio.

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    Nel cortile del manicomio di Reggio Calabria (foto Rosario Cassala)

    Fuori da lì non hanno più parenti. Se uscissero, chi se ne prenderebbe cura? Non concepiscono una vita diversa da quella della clinica psichiatrica, perché le loro esistenze si sono svolte al suo interno. Hanno perso una dimensione della libertà, anche se mi chiedono come si stia fuori. Un paziente, in particolare, mi dice spesso che i veri pazzi siamo noi, quelli che viviamo all’esterno, nel cosiddetto mondo dei normali».

    Il paese della follia

    Un ulteriore radicale cambiamento di scenario potrebbe avvenire dal prossimo 1° luglio, quando a Girifalco aprirà la Residenza Esecuzione Misure Sicurezza, attigua all’ex manicomio. In Calabria ce n’è già una.
    «C’è grande attesa. Su questo tema – chiarisce Greco – la comunità è spaccata. Girifalco tiene molto a essere riconosciuto come paese della follia. E ne va orgoglioso. Anche in anni precedenti alla Basaglia, promosse un inedito modello di integrazione. La Rems è diversa. Non ci sono i pazzi “buoni”, bensì quelli potenzialmente “cattivi”, provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che si sono macchiati di crimini. È un carcere a tutti gli effetti, un’istituzione totale. Grandi sbarre, recinzioni altissime, videosorveglianza. Gli abitanti di Girifalco hanno dovuto accettare questo tipo di struttura e sperano che, come è già avvenuto un secolo fa col manicomio, la Rems possa diventare anche un’occasione di lavoro».

    Lo stereotipo capovolto

    Questo Comune ha saputo ribaltare i pregiudizi regnanti intorno al disagio psichico. Sin dall’inizio, infatti, la direzione del manicomio favorì la coesistenza dei pazienti col resto della popolazione e un percorso terapeutico fondato sulle porte aperte e sull’ergoterapia, cioè il trattamento basato sul lavoro collettivo. «È un paese che vive – conclude lo storico – e si è costruita una sua identità nel rapporto con la follia. Ha pure istituito un premio letterario che ha scelto la pazzia come tema. È stato ideato dallo scrittore Domenico Dara.
    I suoi primi romanzi, per esempio Appunti di meccanica celeste (Nutrimenti Edizioni), sono ambientati a Girifalco. È la sua Macondo».

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    Un uomo rinchiuso a Girifalco mostra i suoi appunti (foto Rosario Cassala)

    Prigionieri del silenzio

    Un eccezionale lavoro di ricerca sulle immagini e i corpi è stato realizzato da un altro calabrese, il fotografo Rosario Cassala. Negli anni Ottanta produsse un reportage negli istituti calabresi che all’epoca si chiamavano ancora di “igiene mentale”. In quello di Reggio, tanto per citare uno dei nomi delle pazienti, fu ricoverata da giovane persino la mistica Natuzza. Cassala ha voluto guardare negli occhi gli internati.

    «In un manicomio – racconta il fotografo – sono entrato per la prima volta da bambino. C’era un mio zio ricoverato. Contro il volere di tutti, lo andai a trovare. Ci ritornai perché avevo avuto l’impressione che a queste persone mancasse l’anima, che fossero state private della dignità. In tutti questi anni ho mantenuto riservate le foto, perché alcune riviste le pubblicarono in modo strumentale, ripetendo la solita lamentazione retorica sulla Calabria degradata. Fingevano di non sapere quanto in realtà sia più complessa e vasta la problematica del disagio psichico. Così mi decisi a far sparire queste fotografie. Dopo 37 anni ho iniziato a tirarle fuori. Ormai rientrano nel patrimonio storico. Parlano da sole».

    Uno spettacolo che non si dimentica

    All’epoca in cui entrò nelle strutture psichiatriche, assistette a scene traumatizzanti. «Soffrii tantissimo. C’erano persone – spiega Cassala – che mangiavano le proprie feci, altre legate mani e piedi ai letti di contenzione. Sebbene avessero questi comportamenti anomali, mi soffermai molto sulla loro serietà. Diversi pazienti si trovavano in manicomio non perché soffrissero davvero di un disagio psichico. Erano senza famiglia oppure avevano litigato con qualcuno, erano andati in escandescenze e così li avevano buttati lì.

    Mia nonna fu molto forte, riuscì a riportare fuori mio zio, suo figlio. Ma fu uno dei pochi. Quando continuai ad andare dentro, lui era stato ormai dimesso. Avrei potuto darmi pace: ormai il problema che avevamo in famiglia, era risolto. Invece continuai a recarmi in quei luoghi. La mia vita è rimasta segnata da quell’esperienza. Ma non me ne sono pentito. Sono orgoglioso di essere riuscito a rendere evidenti quelle persone nella loro corporeità, rispettandole».

    I Basaglia di Cosenza

    In giro per la Calabria non sono poche dunque le sensibilità come quelle dello storico Oscar Greco e del fotografo Rosario Cassala, maturate in anni di approccio diretto. Pochi sanno, per esempio, che nel secolo scorso, tra i primi a inquadrare questa problematica con lo sguardo dell’amore, del rispetto e della dignità umana, furono Piero Romeo e Padre Fedele Bisceglia. Molto conosciuti, a Cosenza e oltre, per il loro ruolo di leader del tifo organizzato, per i viaggi solidali in Africa e il sostegno fattivo agli indigenti, sinora non è mai stato approfondito l’approccio al disagio mentale che ebbero all’interno della mensa dei Poveri, sorta negli anni Ottanta su corso Mazzini a Cosenza e poi trasferita nei pressi del santuario del Crocifisso. Oltre a un piatto caldo e a un letto per non trascorrere la notte all’aperto, nell’Oasi Francescana tantissime persone fragili trovarono amicizia, ascolto, accompagnamento.

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    Un uomo ricoverato a Girifalco (foto Rosario Cassala)

    Piero aveva un album delle loro fotografie. Lo custodiva con scrupolosa riservatezza. E tra uno scatto e l’altro, inseriva la propria immagine e quella di tanti altri suoi amici, concittadini che presumevano di essere “normali”. Ai volontari e agli ultrà cresciuti intorno a lui, ai pochi che le mostrava, amava ripetere che dietro ognuna di quelle foto c’erano delle storie umane profonde. E che di ogni persona bisognava imparare a interpretare il linguaggio e le richieste. Guai a farsi beffe di loro: «Il confine è sottile. Lo oltrepassiamo ogni giorno. E nemmeno ce ne accorgiamo».

     

    Tutte le immagini dell’articolo sono tratte dal reportage “Prigionieri del silenzio – Viaggio nei manicomi calabresi” di Rosario Cassala. Si ringrazia l’autore per averne concesso l’utilizzo.

  • Inchieste e politica: tra assoluzioni e “patenti” di perseguitati

    Inchieste e politica: tra assoluzioni e “patenti” di perseguitati

    L’ultimo caso è quello di Sandro Principe e di tutti gli altri imputati politici dell’inchiesta “Sistema Rende”. Un flop clamoroso che riapre l’eterna disputa tra garantismo e pugno duro. Soprattutto quando nelle inchieste giudiziarie finiscono sindaci, consiglieri comunali o regionali, persino parlamentari.

    Un Principe senza più trono

    Per decenni uomo forte della politica di Rende, per anni sindaco, Sandro Principe, già deputato socialista, coinvolto nell’inchiesta della Dda di Catanzaro denominata, appunto, “Sistema Rende”. Siamo nel 2016 quando quel terremoto scuote la politica cosentina. Oltre a Principe, coinvolto anche un altro ex sindaco, Umberto Bernaudo, nonché gli assessori Pietro Ruffolo e Giuseppe Gagliardi. Tutti accusati, a vario titolo, di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso.

    Principe e Manna nel loro più celebre duello televisivo, divenuto di culto a Cosenza e Rende

    Quell’inchiesta, di fatto, chiuse una lunga, quasi infinita, stagione politica di centrosinistra a Rende, considerata da sempre una roccaforte socialista, aprendo le porte all’era del centrodestra di Marcello Manna, peraltro oggi invischiato nella brutta storia di presunta corruzione giudiziaria con il giudice Marco Petrini.

    Quanto all’inchiesta “Sistema Rende”, invece, proprio un paio di giorni fa, il Tribunale di Cosenza ha assolto tutti gli imputati di quel clamoroso caso giudiziario. La parte politica, accusata di essere in combutta con la ‘ndrangheta, ottiene l’assoluzione in blocco con la formula “per non aver commesso il fatto”. Per Principe, la Procura aveva chiesto 9 anni di reclusione e via via a scendere condanne per tutti gli altri.

    L’eterna lotta tra garantisti e “manettari”

    Un caso del genere ha fatto, ovviamente, ritornare in auge la disputa tra le posizioni più oltranziste nella lotta alla ‘ndrangheta e alle sue collusioni con i “colletti bianchi” e quell’ala che, da sempre, spinge per una visione più garantista delle cose. E che, anzi, invoca riforme strutturali della magistratura e dell’intero sistema giustizia.

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    Enza Bruno Bossio (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Tra queste, una delle posizioni più note è quella di Enza Bruno Bossio, parlamentare del Pd e moglie dell’ex vicepresidente della Giunta Regionale, Nicola Adamo. Nel congratularsi con Principe per la vittoria giudiziaria, Bruno Bossio non manca di rilanciare uno dei suoi cavalli di battaglia: «Anche questa vicenda ci insegna quanto sia utile, urgente e necessaria una profonda rivisitazione del potere giudiziario e del sistema della giustizia. A quante sofferenze, a quante ingiuste detenzioni dobbiamo ancora assistere?», si chiede.

    L’assoluzione di Mimmo Tallini

    Temi che, evidentemente, sfondano portoni aperti in Forza Italia. Appartiene ormai al mito la lotta di Silvio Berlusconi contro le “toghe rosse”. Posizioni rimbalzata nelle ultime ore con la pesante richiesta di condanna nei confronti dell’ex premier per il caso Ruby Ter. Ma, ancor prima (e, ovviamente, con le dovute proporzioni) per il caso di Mimmo Tallini.

    Quella di Principe, infatti, è solo l’ultima delle assoluzioni che le cronache definiscono “clamorosa”. A metà febbraio, l’ex presidente del Consiglio regionale della Calabria, Mimmo Tallini, è stato assolto nel processo “Farmabusiness” dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e scambio elettorale politico-mafioso.

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    Domenico Tallini (Forza Italia) ai tempi in cui presiedeva il Consiglio regionale

    Dopo essere scattata la custodia cautelare, la Dda di Catanzaro aveva portato a processo Tallini e chiesto una condanna a 7 anni e 8 mesi di reclusione nel processo incentrato sui presunti illeciti nella vendita all’ingrosso di farmaci di cui si sarebbe resa responsabile la cosca di ‘ndrangheta dei Grande Aracri di Cutro. Ma Tallini è stato assolto “perché il fatto non sussiste”.

    Se cittadinanza e politica abdicano alla magistratura

    Eterna lotta tra garantismo e giustizialismo. Ma anche una eterna deresponsabilizzazione di politica e cittadinanza che, ormai da decenni, tanto a livello locale, quanto a livello nazionale hanno scelto di delegare scelte e comportamenti da assumere alla magistratura, conferendole ruolo e importanza che la Costituzione non le assegna.

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    Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri (foto Tonio Carnevale)

    La cittadinanza, spesso incapace di esprimere un voto libero, coraggioso e indipendente, si fa scudo tramite la magistratura e tramite figure iconiche come Nicola Gratteri, per deresponsabilizzarsi, per avere con manette e condanne quella “pulizia” che potrebbe promuovere nella cabina elettorale.

    La classe dirigente, incapace di emendarsi, che tiene nei propri ranghi soggetti politicamente impresentabili, emarginandoli (magari temporaneamente) solo quando hanno le manette ai polsi, senza effettuare una selezione e, men che meno, un ricambio.

    Lo spauracchio della giustizia

    Emblematico, in tal senso, quanto accaduto alcuni anni fa a Cosenza, allorquando 17 consiglieri comunali firmarono le dimissioni dal notaio, paventando imminenti problemi giudiziari per l’allora sindaco Mario Occhiuto. Misure restrittive che, come la storia ha dimostrato, non sono mai arrivate. E con l’ex sindaco del capoluogo bruzio che, al momento, è uscito indenne praticamente da tutte le inchieste penali a suo carico.

    Mario Occhiuto e Mario Oliverio a Palazzo dei Bruzi

    La giustizia, quindi, come (spesso becera) arma di contesa politica. Speculare a quanto accaduto a Cosenza il caso del grande “nemico” di Occhiuto, l’ex governatore Mario Oliverio, ancora oggi imputato e scaricato dal Partito Democratico dopo i primi coinvolgimenti in inchieste giudiziarie.

    Il caso Caridi

    Quello tra ‘ndrangheta e politica è un rapporto inscindibile. La storia lo dimostra chiaramente. E, però, le assoluzioni di politici si moltiplicano. Nel luglio 2021, un altro episodio eclatante. L’assoluzione dell’ex senatore Antonio Caridi, nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato a Reggio Calabria contro la masso-‘ndrangheta.

    Antonio Caridi in Senato

    Caridi era accusato di essere lo strumento attraverso cui la componente occulta della criminalità calabrese avrebbe infiltrato le istituzioni, da quelle locali fino al Senato della Repubblica, appunto. A suo carico, diverse dichiarazioni di collaboratori di giustizia e anche le immagini che lo ritraevano entrare nella casa storica della cosca Pelle a Bovalino.

    Ma è stato assolto in primo grado “perché il fatto non sussiste” dopo essersi consegnato nel carcere romano di Rebibbia a seguito del voto favorevole di Palazzo Madama sulla sua carcerazione. Poi un anno e mezzo di detenzione in carcere, il lungo processo, con la richiesta di condanna a 20 anni di reclusione e l’assoluzione, per ora di primo grado.

    Femia e Cherubino, assolti dopo anni di detenzione

    Ma i due casi più inquietanti arrivano entrambi dalla Locride. Il primo riguarda l’ex sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, Rocco Femia, arrestato dalla Polizia di Stato nel maggio 2011, con l’operazione “Circolo Formato”. Secondo l’accusa, Femia sarebbe stato il candidato sindaco sponsorizzato dai Mazzaferro nelle elezioni del 2008. È stato assolto nel marzo 2021, dopo aver trascorso cinque degli ultimi dieci anni in carcere.

    Rocco Femia

    Poco più di un anno dopo, il 6 aprile scorso, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha assolto dall’accusa di associazione mafiosa l’ex consigliere regionale Cosimo Cherubino nell’ambito del processo “Falsa politica” nato da un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria contro la cosca Commisso di Siderno. Arrestato nel 2012 e trascorsi 4 anni in carcere, nel 2016, in primo grado, Cherubino era stato condannato a 12 anni dal Tribunale di Locri. I giudici d’appello lo hanno assolto “perché il fatto non sussiste”.

    Cosimo Cherubino

    I simboli che cadono

    Indagini spesso svolte in maniera approssimativa che portano a clamorosi errori giudiziari o, possibilità altrettanto grave, consegnano “patenti” di perseguitati a chi, forse, non la meriterebbe. Così, quindi, viene meno agli occhi di tanti la fiducia nella magistratura, per anni considerata l’unico argine allo strapotere delle cosche. A proposito di simboli che cadono.

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    Mimmo Lucano ascolta i giudici mentre lo condannano a 13 anni e 2 mesi di pena

    Casi a parte sono quelli di due sindaci icone di lotte molto sentite in Calabria. Il primo è quello di Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace. Il suo processo d’appello è iniziato da pochi giorno dopo la dura condanna di primo grado, che ha suscitato sdegno e indignazione a livello nazionale.

    E, infine, la vicenda di Carolina Girasole, ex sindaco di Isola Capo Rizzuto, ritenuta una delle roccaforti della ‘ndrangheta. Per anni, Girasole verrà considerata un simbolo della politica che lotta contro la criminalità organizzata. Poi gli arresti domiciliari proprio con l’accusa infamante di connivenza con le ‘ndrine. Girasole verrà assolta definitivamente dalla Cassazione, dopo il ricorso presentato dalla magistratura inquirente, che ha insistito sebbene fosse stata già assolta sia in primo che in secondo grado.

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    Carolina Girasole