Categoria: Inchieste

  • GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    GENTE IN ASPROMONTE| Il polpo di pietra

    L’Aspromonte è un polpo. Guardandolo dall’alto l’impressione è quella di osservare una testa di animale da cui si diramano, a raggiera, tentacoli di roccia che si fanno strada tra le valli e le gole fino a raggiungere i due mari, lo Jonio e il Tirreno. La sensazione è sorprendente: è come vedere un animale preistorico sputato fuori dalle acque che tenta di ritornarvi. E niente più di questo gioco di rimandi tra la montagna e il mare coglie l’essenza di un territorio complesso che nasce, cresce e si sviluppa, a vari livelli, come testa di ponte sospeso tra Europa ed Africa, Oriente e Occidente.

    Queste Alpi calabresi – ultimo anello del blocco granitico-cristallino della Calabria – sono vecchie di trecento milioni di anni. Si estendono per 80.000 ettari, molti ricompresi all’interno del Parco Nazionale, e attraversano 37 comuni della Città Metropolitana di Reggio Calabria. Racchiudono ventuno Siti di Interesse Comunitario, due Zone di Protezione Speciale e ottantanove geositi censiti, suddivisi in 5 aree geografiche omogenee.
    Si tratta di una ricchezza inestimabile e sfaccettata che comprende una stupefacente biodiversità e un sincretismo culturale unico in tutto il Mediterraneo.

    Pastorizia e sequestri

    Raccontare l’Aspromonte e anche solo approcciarvisi è complesso e può sembrare un’impresa titanica. Un pezzo di territorio misterioso, spesso assurto agli onori delle cronache per malaffare all’ombra di una vita pastorale che, per secoli, si è sviluppata senza grandi cambiamenti. Se non quando, tra gli anni Settanta e Novanta, è divenuto tristemente noto come il covo impenetrabile dell’anonima sequestri calabrese che, con i suoi feroci e sanguinari rapimenti, ha accumulato il capitale da reinvestire in svariate attività illecite, prima tra tutte il traffico internazionale di stupefacenti.

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    Pietra Cappa vista dall’alto (foto Pietro Di Febo)

    Ed è allora che Pietra Cappa, monolito tra i più grandi d’Europa, geosito oggi osservato e studiato a livello internazionale come un gigante geologico dalla caratteristiche uniche, per secoli simbolo di Persefone, divinità polimorfa, venerata come candida fanciulla, come donna satura di passione, come potenza degli inferi, come luce, simbolo di vita primaverile, come tenebra, emblema di morte e sonno invernale, la mamma dei pastori e di quella cultura agro-pastorale ormai in via di estinzione, è diventato emblema di ferocia.

    La montagna dei due mari

    Oggi questa terra eletta di emigrazione, con le sue enclavi linguistiche intrise di vergogna, un versante tirrenico a tratti tropicale e lussureggiante, e uno jonico brullo, arido e più impervio, rivive. Alla stagione dei sequestri, lo Stato ha risposto anche con l’istituzione dell’area protetta nel 1989 cui è seguita quella dell’ente gestionale nel 1994.
    La montagna ha cominciato a riemergere dalle acque di quell’oscura e fitta macchia mediterranea che per anni aveva custodito i suoi mirabili segreti, fatti di terre senza tempo, riti stagionali, culti religiosi, accatastamenti culturali in cui Bisanzio si mischiava a Roma, Atene e Gerusalemme, portando fino a noi tracce di un passato remoto ancora presente.
    La sua scarsa antropizzazione, la precarietà di vie di comunicazione rimaste identiche per secoli e l’isolamento sono gli elementi che hanno tramesso in modo vivido e, nel bene e nel male, in un certo qual modo ancora attuale la conservazione di strutture sociali, schemi culturali e pattern valoriali atavici.

    L’Aspromonte che si unisce

    Tre fenomeni diversi susseguitisi in un breve lasso di tempo hanno interrotto questo processo:

    • Il boom degli anni Sessanta con l’abbandono dei centri montani che ha favorito il de-sviluppo della montagna e della sua economia;
    • Le ondate di emigrazione che, dagli anni Settanta, hanno desertificato le piccole comunità;
    • L’avvento del paradigma digitale che, dagli anni Novanta, sta globalizzando i trend della cultura di massa.

    Al tempo stesso il pattern digitale, con la sua nuova rivoluzione industriale, si è rivelato formidabile per connettere, facilitare processi, moltiplicare, diffondere, avvicinare, divulgare. Persone, territori, operatori, ricercatori, turisti, escursionisti, imprenditori si sono trovati avvicinati, semplificati nel creare reti di interesse comune, facilitati nello scambio di informazioni, nelle procedure, nelle interazioni. La tecnologia ha dato una mano accorciando la dimensione dello spazio-tempo. E questo ha favorito il fiorire comunità di scopo, dall’animazione territoriale, al turismo, alle filiere produttive che, pur con i loro passi avanti, restano ancora ad uno stadio poco più che embrionale.

    L’Aspromonte e i suoi tentacoli

    La vera natura dell’Aspromonte è riemersa: non una mera montagna, ma una rete complessa e capillare di entità, paesi, borghi e comunità che ha vissuto con, per, addosso e in prossimità del monte. A maggior ragione l’Aspromonte è un polpo: perché i suoi tentacoli di pietra che attraversano luoghi e popoli sono i nervi di ciò che Gregory Bateson (gli chiedo subito scusa) ha definito ecosistema.

    L’Aspromonte oggi è più polpo che piovra: la ribalta per il riconoscimento di Global Geopark della rete Unesco, un rinnovato interesse escursionistico, promosso dalla passione e dal febbrile lavoro delle guide ufficiali, composte da operatori del turismo montano e da professionisti della ricettività diffusa, l’attenzione verso la cultura del chilometro zero, la semplificazione dei processi di comunicazione, la mutate priorità di vita e lavoro derivate dalla pandemia, l’interesse per le isole linguistiche, rendono oggi la Regione Aspromontana meta di rinnovato interesse e terreno fertile in cui germinano la piccola imprenditoria e l’associazionismo.

    Passato, presente e futuro

    Viaggiare in Aspromonte significa andare alla scoperta di un passato che resta presente e si prepara ad essere futuro. Vuol dire scoprire le radici di chi è andato, di chi è rimasto. E, soprattutto, di chi è ritornato, categoria che viene poco osservata ma che rappresenta il grande corso che scorre sottotraccia. Dei ritornati si parla poco, ma ci sono. E sono quelli che, forse più di tutti, svolgono un lavoro di cucitura tra quel passato e questo presente.
    Si tratta di giovani tra i 25 e i 35, come Gianluca, Nicola, Andrea, Rocco, con un passato di diversi anni in giro per l’Italia o all’estero, artigiani di vini, di cucine, agricoltura e cavalli che hanno deciso di rientrare. Con la loro esperienza e il loro bagaglio, contro lo stereotipo del «vatindi, non c’è nenti», sono ritornati per investire, senza negare gli ostacoli cui andavano incontro.

    Quelli che ci credono

    Sono quelli che ci credono. E sono i protagonisti di questo movimento che c’è ma non si vede. Affiancano i restati, come Tiziana, Luca, Pasquale, Piero, Attilio, stringono alleanze: fanno come le tegole del tetto, si danno l’acqua l’un l’altro.
    Sono i protagonisti del mio racconto, sono gli enzimi di questa infrastruttura umana, culturale, del cuore, della fiducia su cui ha puntato il professor Giuseppe Bombino, già a capo dell’Ente Parco durante gli anni del suo mandato.

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    Giuseppe Bombino, ex presidente del Parco

    Sono il buono che c’è e che bisogna sostenere. Attraverso i loro occhi, le parole, le attività, l’impegno, ho costruito le puntate che si susseguiranno con diversi scopi:

    • fare una fotografia di quello che oggi sta accadendo e che in molti non conoscono;
    • riflettere sulle criticità del territorio, del rapporto con gli enti pubblici e di certe operazioni culturali;
    • riaprire il dibattito sull’annosa questione dello sviluppo delle aree interne tornata in auge con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.

    L’Italia interna è quella fatta di quasi 4.000 comuni, il 58,8% della superficie nazionale, popolata da circa 13,4 milioni di persone. L’Aspromonte ne è pienamente parte. E quando ho deciso di iniziare questo viaggio l’ho fatto con questo spirito di scoperta e ricerca: alla volta di territori, popoli, uomini e donne partiti, restati o ritornati.

  • Asp alla sbarra: di nuovo in aula il “Sistema Cosenza”

    Asp alla sbarra: di nuovo in aula il “Sistema Cosenza”

    Bilanci falsificati e assunzioni clientelari all’Asp di Cosenza, riparte il processo. L’esistenza di un presunto “sistema” di corruttele nell’azienda sanitaria ha portato dirigenti, funzionari e commissari della sanità calabrese al banco degli imputati. Ad accendere i riflettori sulle presunte anomalie amministrative sono state le centinaia di segnalazioni (su delibere, determine, contenziosi, atti ingiuntivi, soccombenze, fatturazioni ai privati) partite dal collegio sindacale.

    L’organo di controllo dal 2015 al novembre 2018 era composto da: Sergio Tempo in rappresentanza della Regione Calabria; Santo Calabretta (Ministero dell’Economia e delle Finanze); Sergio De Marco (Ministero della Salute); Nicola Mastrota, responsabile Ufficio Bilancio dell’Asp Cosenza. Tempo, unico dei membri del collegio a non essere confermato nel suo incarico dalla Regione Calabria allora guidata da Mario Oliverio, in qualità di presidente aveva puntualmente trasmesso i verbali con relativi rilievi sulle problematiche contabili alla Regione, al Mef, al Ministero della Salute e alla direzione dell’Asp di Cosenza. Venne però ignorato.

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    La cittadella regionale di Germaneto

    Asp Cosenza, i verbali del collegio dei revisori

    I revisori del collegio sindacale dell’Asp di Cosenza, nei loro rilievi, mostravano preoccupazione per i 575 milioni di euro di debiti (su un valore della produzione di 1 miliardo e 200 milioni di euro) con crediti per almeno 80 milioni di euro che non erano stati cancellati per «evitare un più consistente risultato economico negativo».
    Voci (falsamente) in attivo che nel 2016 lievitano fino a diventare 94 milioni di euro. Nel bocciare il bilancio 2015 il collegio sindacale allertò gli organi competenti che all’Asp di Cosenza «la perdita sistemica degli ultimi bilanci di esercizio, – si legge nelle conclusioni della relazione del 29 maggio 2017 – denota squilibri strutturali del bilancio, in grado di provocare nel tempo il dissesto finanziario, se l’Ente non sarà in grado di adottare le misure necessarie».

    Mesi dopo il collegio, nel verbale n. 5 del 20 aprile 2018 rileva la persistenza al 31/12/2015 dello squilibrio finanziario, già rilevato nell’esercizio 2014, «in contrasto con una sana e ordinata gestione, situazione del tutto inconciliabile rispetto agli obiettivi di rientro programmati dal piano sanitario regionale».
    L’allarme con le dimostrazioni «dell’esistenza di una crisi irreversibile di liquidità» è ribadito nella Relazione al Bilancio Consuntivo del 2016 sul quale esprime parere contrario all’approvazione.

    Allo stesso modo, rilevando al 31 dicembre 2017 gli stessi squilibri finanziari del passato, il collegio sindacale sollecita approfondimenti «al fine di scongiurare il rischio della duplicazione di pagamenti e/o pagamenti non dovuti». E denuncia come l’Asp di Cosenza non sia in grado «di identificare con certezza la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati». Un’incertezza che «espone la stessa al rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo pagamento». E si ripercuote ancora oggi, inevitabilmente, sulle capacità di garantire ai cittadini prestazioni sanitarie adeguate.

    Indagati dirigenti di Regione Calabria e Asp Cosenza

    Nessuno però sembrò accorgersi di quanto stesse succedendo ai piani alti dell’Asp di Cosenza, «perché non erano state scaricate le mail» (è la tesi difensiva di uno degli imputati). Poi, però, gli approfondimenti investigativi della Guardia di Finanza coordinata dalla Procura di Cosenza diedero uno scossone. Il 5 febbraio 2021 sei tra dirigenti e funzionari dell’Asp bruzia e della Regione Calabria si videro applicare la misura del divieto di dimora (3 in Calabria e 3 a Cosenza). Nove, invece, gli avvisi di fissazione dell’interrogatorio a seguito del quale il gip Manuela Gallo decise di interdire dai pubblici uffici 7 indagati per un anno e altri due per sei mesi.

    Al termine delle indagini, nel novembre 2021, gli iscritti nel registro degli indagati furono 18. Le accuse a vario titolo per loro erano: abuso d’ufficio, falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici. Per 15 è arrivato il rinvio a giudizio nel processo ancora in corso presso il Tribunale di Cosenza. La prossima udienza si terrà il 14 aprile.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Tra gli imputati, con il trascorrere del tempo, qualcuno è andato in pensione. Altri continuano a lavorare tra l’Asp di Cosenza e la Regione Calabria, ricoprendo ruoli simili a quelli che li hanno condotti alla sbarra.
    In teoria, non si potrebbe agire diversamente. I dirigenti sotto processo possono solo essere cambiati di ruolo, ma non rimossi. Altrimenti, in caso di assoluzione, spetterebbe loro un risarcimento.

    Le assunzioni anomale all’Asp di Cosenza

    Fidanzate privilegiate. Le relazioni sentimentali intrattenute, secondo la Procura di Cosenza, avrebbero favorito due donne assunte a tempo indeterminato negli uffici dell’Asp con la qualifica di dirigente. Si tratta di Giovanna Borromeo e Cesira Ariani. La prima è la compagna dell’ingegnere dell’Asp di Cosenza Gennaro Sosto. La Procura aveva richiesto anche per lui la sospensione dai pubblici uffici. Il gip ha rifiutato e Sosto, in seguito, è risultato estraneo ai fatti oggetto d’inchiesta. Borromeo fu prelevata dalla graduatoria di Catanzaro e nominata dirigente amministrativo all’Asp di Cosenza.

    Ariani invece era la dolce metà dell’allora dirigente generale Raffaele Mauro. Questi avrebbe indotto la commissione esaminatrice, da lui stesso costituita, a  conferirle l’incarico di responsabile dell’UOS Risk Management e governo clinico su proposta di Remigio Magnelli (direttore delle Risorse Umane dell’Asp di Cosenza) e previa verifica da parte di Fabiola Rizzuto quale responsabile del procedimento. Il tutto, però, «individuando criteri di selezione indebitamente discriminatori».

    Alle loro discusse nomine si aggiunge quella di Maria Marano, che pur non essendo laureata in Medicina ha ricoperto l’incarico di responsabile dell’unità Ausili e Protesi. Un ruolo che le ha consentito di firmare (e far firmare) anche gli impegni di spesa e il rilascio delle autorizzazioni per la fornitura di pannoloni, cateteri, traverse, materassi antidecubito, letti ortopedici, ecc..

    I bilanci falsificati all’Asp di Cosenza

    Sui bilanci 2015–2016–2017 dell’Asp di Cosenza, secondo la Procura, il “Sistema” si sarebbe attivato per attestare «falsamente fatti dei quali l’atto era destinato a provare la verità». Tra questi appaiono gli accantonamenti nel fondo rischi e la situazione di cassa rilevabile dalla sezione Disponibilità liquide dello Stato patrimoniale.
    In più, per garantirsi l’impunità, gli imputati avrebbero alterato (o fatto alterare) alcune voci di bilancio. Avrebbero utilizzato una serie di giroconti eseguiti al solo scopo di alleggerire artatamente la voragine delle perdite. E trucchetti, se confermati, ai limiti del puerile: 7 milioni di euro in rosso trasformati in “denaro disponibile” cancellando il simbolo meno davanti alla cifra.

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    Il nodo dei bilanci dell’Asp di Cosenza

    Intanto la mancata approvazione dei bilanci consuntivi relativi agli anni 2018, 2019, 2020 e 2021 pesa come un macigno sulla contabilità dell’Asp di Cosenza. Che è quella più vasta della Calabria, quindi influenza la rendicontazione finanziaria della sanità dell’intera regione. Un concetto, questo, cristallizzato anche nelle intercettazioni captate durante le indagini: in una conversazione tra indagati gli inquirenti registrano la frase «se sballa Cosenza, sballa tutto», quasi i due presagissero un’apocalisse contabile.

    Dal canto suo, il nuovo commissario Antonio Graziano, in sella da maggio 2022, lo scorso settembre ha affermato di aver stornato debiti fittizi e crediti fasulli riuscendo così ad approvare il bilancio di previsione 2023, con tanto di avanzo di gestione.
    I conti però non tornano ai revisori. L’attuale collegio sindacale nel verbale ricco di omissis del 21 dicembre 2022 «in riferimento al Bilancio di Previsione anno 2023, esprime parere non favorevole, per come già evidenziato per i precedenti bilanci dal precedente Collegio».

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    Il nuovo commissario dell’Asp di Cosenza, Antonio Graziano

    I revisori, nel verbale, ricordano che «l’Azienda risulta sprovvista dei Bilanci relativi agli esercizi 2018/2019/2020/2021». E che «l’adozione dei predetti Bilanci è inscindibilmente propedeutica e collegata alla sistemazione e/o rimodulazione di importanti poste di bilancio, in particolare quelle debitorie». Ergo, hanno bocciato il documento contabile «non ritenendo le previsioni attendibili, congrue e coerenti col Piano di attività 2023, con i finanziamenti regionali nonché con le direttive impartite dalle autorità regionali e centrali».

    Gli imputati del Sistema Cosenza

    Nel frattempo il commissario Graziano continua a rimpinguare l’Asp procedendo con le 450 assunzioni annunciate. Ironia della sorte, a firmare bilanci e assunzioni sono, in parte, gli stessi imputati del Sistema Cosenza. Nei loro confronti, riferendosi in particolare a Remigio Magnelli, Fabiola Rizzuto e Maria Marano, il commissario Graziano nutre estrema fiducia: «Sono validissimi professionisti che lavorano, se ci sarà una sentenza ne prenderemo atto. Siamo garantisti. Collaborano con l’Asp di Cosenza, non hanno ricevuto promozioni, sono nello staff, non abbiamo altre risorse».

    Degli indagati che operano ancora nell’Asp bruzia solo le posizioni di Elio Pasquale Bozzo (direttore del distretto sanitario Cosenza–Savuto) e Alfonso Luzzi (collaboratore amministrativo professionale del settore Risorse Umane del distretto di Rossano) sono state archiviate. L’unico per il quale, invece, non è stata accolta la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Mariangela Farro è l’ex commissario ad acta della Sanità calabrese, il generale Saverio Cotticelli.

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    Il generale Cotticelli
    • Raffaele Mauro

      Nato a Cosenza, classe 1954. Medico specializzato in Medicina Legale e Psichiatria, direttore generale dell’Asp di Cosenza negli anni 2016 -2017 -2018, nonché nei primi mesi del 2019. Attualmente a processo con l’accusa di abuso d’ufficio per la vicenda che riguarda i falsi precari dell’Asp di Cosenza assunti pochi giorni prima delle elezioni regionali del 2014 che ha portato al rinvio a giudizio di 142 indagati.

      Posizione attuale: Raffaele Mauro è in pensione dall’aprile 2019. Attualmente lavora in qualità di libero professionista in Lombardia, come psichiatra, in strutture ospedaliere attraverso le cooperative. Come ex direttore generale dell’Asp di Cosenza, non potrebbe, infatti, per legge operare per almeno tre anni nelle strutture accreditate con la stessa azienda sanitaria.

    • Luigi Bruno

      Nato a Cosenza, classe 1961. Laureato in Economia e Commercio con master in Management dei servizi sanitari. È stato direttore del personale e Responsabile Dirigente dei Rapporti Istituzionali del Centro di Riabilitazione socio/sanitaria Fondazione “Istituto Papa Giovanni XXIII” di Serra d’Aiello fino al 2006 quando la clinica lager fu oggetto di un blitz della Guardia di Finanza che svelò le condizioni inumane nelle quali versavano gli ospiti a fronte di circa 100 milioni di euro scomparsi nel nulla.
      Direttore amministrativo dell’Asp di Cosenza negli anni 2016 -2017 -2018.

      Posizione attuale: Oggi Luigi Bruno lavora a Cirò Marina in una casa di cura privata.

    • Francesco Giudiceandrea

      Nato a Rossano, classe 1963. Medico specializzato in Medicina Legale, cugino dell’ex consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea, è stato direttore sanitario dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza negli anni 2016-2017-2018.

      Posizione attuale: Dal 2018 Francesco Giudiceandrea è tornato a lavorare nella Medicina Legale ed è attualmente dirigente medico della struttura dipartimentale Medicina Legale ex ASL 3 Rossano.

    • Maria Marano

      Nata a San Gallo, in Svizzera, classe 1963. Ha conseguito il diploma di laurea in Giurisprudenza nel 1992 e dal gennaio 1994 lavora come collaboratore amministrativo all’Asp di Cosenza.

      Posizione attuale: Oggi, Maria Marano è responsabile amministrativo referente per il distretto Jonio Nord, responsabile dell’ufficio Risorse Umane di Trebisacce e lavora nella direzione generale dell’Asp di Cosenza in via Alimena. «È nel mio staff», afferma il commissario straordinario Antonio Graziano. «Si occupa – spiega – di problematiche legate al personale, alle procedure di affidamento di gare, fa il lavoro che ha sempre fatto, ma non fa più Ausili e Protesi».

    • Giovanni Francesco Lauricella

      Nato a Palermo, classe 1953. Direttore dell’U.O.C. Affari legali e contenzioso pro-tempore dell’Asp di Cosenza in carica fino all’agosto 2020. Avvocato noto alle cronache per l’inchiesta sulle “Parcelle d’oro” dell’Asp di Cosenza, nell’ambito della quale è stato assolto. Le indagini – dalle quali emersero oltre 400 incarichi esterni (in tre anni circa 800mila euro) affidati dall’Asp di Cosenza all’avvocato Nicola Gaetano, assolto in Appello – coinvolsero anche Andrea Gentile, figlio dell’ex senatore e sottosegretario Antonio Gentile nonché ex parlamentare in quota Forza Italia insediatosi alla Camera dopo le dimissioni di Roberto Occhiuto per incompatibilità con il ruolo di presidente della Regione Calabria.

      Posizione attuale: Dal settembre 2020 è in pensione.

    • Antonio Scalzo

      Nato a Cosenza, classe 1962. Dermatologo, specializzato anche in Medicina Legale, è stato direttore sanitario dell’Asp di Cosenza dal 2005 al 2010. Per anni direttore dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale Medicina Legale successivamente nominato direttore facente funzioni dell’UOC Cure primarie dei distretti Valle Crati e Cosenza. Dal 1993 al 2010 ha fatto parte e presieduto le commissioni per l’invalidità dell’Asp di Cosenza.

      Posizione attuale: Oggi è in pensione. Antonio Scalzo possiede il 95% della società Autismo Domani che gestisce nell’ex convento Ecce Homo di Dipignano di proprietà del Comune la “Casa di riposo San Pio” in subconcessione dalla società Villa San Pio della moglie Antonella Lorè. Quest’ultima nell’ottobre 2021 quando la struttura fu attenzionata per la morte di un anziano ospite caduto da una finestra sporse denuncia affermando che la firma sul contratto di affidamento fosse artefatta.

    • Carmela Cortese

      Nata a Castrovillari, classe 1956. Medico, specializzata in Medicina del Lavoro, Igiene e Sanità pubblica. Per circa 20 anni ha ricoperto la carica di direttrice del Servizio di Prevenzione, Igiene e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro del Pollino – Ionio ed è stata direttrice del dipartimento Prevenzione e Igiene pubblica dell’Asp di Cosenza.

      Posizione attuale: Dal 2020 è in pensione. Appare nella lista dei medici consulenti tecnici d’ufficio del Tribunale di Castrovillari, ma senza alcun incarico attivo.

    • Remigio Magnelli

      Nato a San Pietro in Guarano, classe 1959. Laureato in Scienze economiche e sociali con master in Diritto del Lavoro e Pubblica Amministrazione. Torna ad essere direttore dell’Unità Operativa Complessa Gestione Risorse Umane dell’Asp di Cosenza a partire dal 2013 dopo aver ricoperto l’incarico negli anni precedenti. A causa di atti firmati nel 2008 in qualità di dirigente dell’UOC Risorse Umane dell’Asp di Cosenza ha subito una condanna a un anno di reclusione diventata definitiva nel 2019 per falso in atto pubblico. La vicenda riguardava l’assunzione all’Asp di Cosenza di Michele Fazzolari. Quest’ultimo ebbe l’incarico di stabilizzare circa 430 precari dell’azienda sanitaria bruzia, tra i quali anche se stesso, operazione dalla quale scaturì un’inchiesta della Procura di Cosenza che coinvolse anche Antonio Scalzo.

      Posizione attuale: Oggi è direttore del dipartimento amministrativo e direttore Affari Generali dell’Asp di Cosenza, nonché referente del commissario straordinario Graziano. Quest’ultimo lo definisce «una persona in gamba, un valido professionista, sta lavorando correttamente».

    • Fabiola Rizzuto

      Nata a Cosenza, classe 1961. Avvocato, dirigente amministrativo dell’Asp di Cosenza. Dal 2005 è stata responsabile dell’Unità Operativa Semplice Gestione Giuridica del Personale.

      Posizione attuale: Oggi è responsabile dell’area giuridico economica della Gestione Valorizzazione Sviluppo Formazione Risorse Umane del distretto Cosenza-Savuto. Di fatto sembrerebbe le sia stato affidato il ruolo del coimputato Remigio Magnelli e ricopra attualmente la carica di facente funzioni della UOC Gestione Risorse Umane. Il commissario straordinario dell’Asp di Cosenza Antonio Graziano afferma: «Fa il suo lavoro, con dignità ed onore».

    • Aurora De Ciancio

      Nata a Montalto Uffugo, classe 1955. Laureata in Scienze Politiche. Direttore dell’UOC Gestione Risorse Economiche Finanziarie dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza dal 2013. Ha ricoperto anche la carica di commissario Asp Cosenza per un breve periodo. Di recente la Procura di Cosenza, nell’ambito di un’altra inchiesta che riguarda i doppi pagamenti di fatture in favore di privati convenzionati con il sistema sanitario regionale, ne ha chiesto il rinvio a giudizio insieme al noto imprenditore cosentino Francesco Dodaro e alla moglie Valeria Greco per un credito da circa 450mila euro ritenuto fittizio vantato dalla Medical Analisi Cliniche di Cosenza.

      Posizione attuale: Da luglio 2022 è in pensione.

    • Nicola Mastrota

      Nato a Mormanno, classe 1975. Laureato in Economia Aziendale e Scienze Politiche. Responsabile dell’Unità Operativa Semplice Bilancio e programmazione economica dell’ASP di Cosenza. Si è occupato: del Piano triennale della prevenzione della corruzione e della trasparenza 2019 – 2021; di documenti e allegati del bilancio consuntivo; dei dati relativi alle entrate e alla spesa dei bilanci consuntivi; di documenti e allegati del bilancio preventivo.

      Posizione attuale: È ancora in servizio all’Asp di Cosenza quale collaboratore amministrativo professionale, presta servizio in un ufficio amministrativo di Trebisacce.

    • Bruno Zito

      Nato a Catanzaro, classe 1964. Zito è un manager che è stato dirigente generale del dipartimento Organizzazione Risorse Umane della Regione Calabria e direttore generale reggente del dipartimento Salute della Regione. La prima nomina al dipartimento Tutela Salute arriva nel 2013 su proposta dell’allora assessore al Personale, Domenico Tallini. Per quest’ultimo la magistratura ha di recente richiesto la condanna a 7 anni e 8 mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del processo Farmabusiness.

      Coinvolto nel caso Lo Presti (responsabile del Dipartimento Tutela Salute e del Servizio di Emergenza della Regione Calabria arrestato con l’accusa di turbata libertà del procedimento di scelta del contraente), viene assolto perché il fatto non sussiste, dopo essere stato accusato di falso ideologico e abuso d’ufficio.
      Riporta invece una condanna della Corte dei Conti, per danno erariale, per aver autovalutato le proprie performance nel 2011 e nel 2013 attribuendosi punteggi altissimi. Grazie ad essi aveva conseguito la massima indennità di risultato incassando indebitamente oltre 30mila euro.

      Posizione attuale: Bruno Zito è oggi dirigente del settore 5 della Regione Calabria: Fitosanitario, Caccia, Pesca, Feamp (Fondo europeo per la politica marittima, la pesca e l’acquacoltura), Punti di entrata Porto di Gioia Tauro e Corigliano.
      Il settore che dirige è articolato in 5 unità operative: Affari generali e Gestione del personale, Fitosanitario e vivaismo, Patrimonio ittico e Pesca, Patrimonio Faunistico e Caccia, Porto di Gioia Tauro.

    • Vincenzo Ferrari

      Nato a Catanzaro, classe 1974. Commercialista e Revisore Contabile, dirigente della Regione Calabria dal 2008. Ha ricoperto tale incarico al dipartimento Tutela della Salute e Politiche sanitarie, settore area Economico – Finanziaria, servizio “Gestione FSR, Tavoli di monitoraggio”; al settore Programmazione Economica, servizio “Controllo dei Bilanci e delle aziende del SSR”.
      In forze al dipartimento Tutela Salute della Regione Calabria è stato inoltre dirigente dei settori “Gestione FSR, Bilanci aziendali, Contabilità”; “Controllo di Gestione, Monitoraggio Flussi Economici, Patrimonio, Beni e Servizi”.
      Inoltre nel dipartimento Organizzazione, Risorse Umane e Controlli della Regione Calabria è stato dirigente del settore Provveditorato Economato, Bollettino Ufficiale, Polizia Urbana.

      Le sue principali mansioni e responsabilità riguardavano: la gestione del Fondo Sanitario Regionale, controllo delle movimentazioni dei relativi capitoli di bilancio e verifica della copertura finanziaria della spesa sanitaria; trasferimento mensile delle risorse finanziarie alle aziende del SSR; verifica e controllo dei documenti contabili (bilanci preventivi e consuntivi) delle Aziende Sanitarie ed Ospedaliere; analisi sul controllo dei Collegi Sindacali; monitoraggio e controllo degli acquisti di Beni e Servizi effettuati dalle Aziende del SSR; valutazione dei fabbisogni di acquisto e determinazione delle tipologie di beni e servizi da sottoporre a gara centralizzata tramite la Stazione Unica Appaltante regionale; gestione del patrimonio immobiliare disponibile delle Aziende del Servizio sanitario regionale.

      Posizione attuale: La Giunta regionale all’unanimità, con deliberazione n. 507 della seduta del 22 novembre 2021, ha assegnato Vincenzo Ferrari al dipartimento Presidenza della Regione Calabria.

    • Massimo Scura

      Nato a Gallarate (VA), classe 1944. Ingegnere con master in Formazione per direttori generali e Managerialità integrata, ex direttore generale delle aziende sanitarie di Siena e di Livorno è stato commissario per il Piano di rientro dal debito sanitario della Calabria dal 2015 al 2018. Sindaco del Comune di Alfedena, in provincia dell’Aquila, quando è stato nominato commissario alla sanità calabrese, all’età di 71 anni, era già in pensione e sostituì il generale della Guardia di Finanza Luciano Pezzi.

      Posizione attuale: In pensione.

    • Antonio Belcastro

      Nato a Cotronei, classe 1959. Laureato in Scienze Economiche e Sociali. Ex direttore generale del Dipartimento Salute della Regione Calabria, è stato dirigente regionale responsabile dell’emergenza Covid in Calabria.
      Negli anni ha ricoperto la carica di direttore generale, direttore amministrativo e commissario straordinario dell’Azienda Ospedaliera Mater Domini di Catanzaro, di direttore amministrativo dell’Azienda Ospedaliera Pugliese – Ciaccio di Catanzaro, di direttore generale e direttore amministrativo dall’Azienda Ospedaliera di Cosenza.

      Nel corso della propria carriera ha insegnato Amministrazione dei Servizi socio-sanitari; Organizzazione e Programmazione sanitaria; Ordinamento Amministrativo e attività della Pubblica Amministrazione; Finanziamento dei sistemi sanitari all’Università Magna Graecia di Catanzaro e Programmazione e controllo delle Aziende Ospedaliere all’Università della Calabria.

      Posizione attuale: Oggi è alle dipendenze dell’Azienda Ospedaliera Pugliese – Ciaccio di Catanzaro, ma in aspettativa fino al 28 febbraio.

    Maria Teresa Improta

  • Condannate alla maternità? La storia difficile della 194 in Calabria

    Condannate alla maternità? La storia difficile della 194 in Calabria

    La maternità non è un destino e neppure una tappa obbligata per ogni donna, magari per ricevere l’etichetta di “vera donna” un uomo.
    Si può essere donna senza essere madre e, viceversa, chi ha figli non è solo mamma: le due identità non sono perfettamente sovrapponibili.

    Per la destra conta solo la maternità

    Eppure, il rapporto tra donne e maternità sembra inscindibile.
    Almeno per una parte politica. Infatti, se si osservano i programmi elettorali del 2022 dei tre principali partiti di destra italiani, è facile notare che si parla di donne solo in riferimento alla loro funzione familiare e materna.
    Nulla di nuovo.

    Da dee a maledette

    Nel 1949 Simone de Beauvoir pubblicava Il secondo sesso, uno studio rigoroso in cui si ripercorre la storia della condizione femminile.
    Nel saggio de Beauvoir racconta quella che potremmo definire la “maledizione della maternità”.
    Fintanto che gli uomini vivevano in comunità nomadi la donna godeva di prestigio sociale proprio in virtù della sua capacità procreatrice, grazie alla quale era avvicinata alla terra e a Madre Natura. Col formarsi delle prime comunità stanziali, però, la maternità fu la causa principale per la quale la donna iniziò ad essere relegata nella sfera domestica. Col passaggio dall’età della pietra all’età del bronzo la “maledizione” prese forma.

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    Simone de Beauvoir

    Homo faber e femina natura

    L’uomo iniziava a dedicarsi alla manifattura e si emancipava dalla natura e diventava fabbricatore del suo stesso mondo.
    Si affermò quello che de Beauvoir definiva “homo faber”: un soggetto che scopre la causalità e la razionalità a discapito del sistema mitico-rituale che accostava la donna alla Dea-Madre.
    La donna, non diventando compagna di lavoro per l’uomo, inizia a essere percepita come qualcosa che è altro da sé. In sintesi, l’uomo diventava un animale culturale mentre la donna continuava ad esser considerata solo natura. La donna, esattamente come la natura, doveva esser controllata a partire proprio dalla libertà riproduttiva.

    La maternità secondo Pro Vita

    Negare alle donne la libertà di scegliere trasforma la maternità in una “maledizione” o in una condanna. Nel 2023 continuiamo a lottare anche per questo.
    È il 7 marzo: mancano poche ore alla Giornata internazionale per i diritti delle donne e per le strade di Catanzaro compaiono cartelloni dell’associazione Pro Vita & Famiglia.
    Sui manifesti si legge: «difendiamo il diritto di non abortire» e si parla di migliaia di donne costrette ad abortire in Italia con l’hashtag #8marzo. Si tratta di una retorica non dissimile da quella del presidente del Consiglio Giorgia Meloni che, invece, parla di tutela sociale della maternità.

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    Un manifesto dell’associazione Pro Vita & Famiglia a Catanzaro

    Aborti in calo grazie alla contraccezione

    L’aborto in Italia è un problema urgente? E in Calabria?
    I dati raccolti dal Sistema di sorveglianza epidemiologica raccontano che dal 1983 le interruzioni volontarie di gravidanza (ivg) sono in costante diminuzione.
    Tra il 1982 ed il 1983 le ivg furono circa 230mila, nel 2020 si sono ridotte a meno di 70mila ed il tasso di abortività, tra le donne in età fertile dai 15 ai 49 anni, è passato dal 17,2 per mille al 5,4 per mille.
    Ciò è stato possibile grazie alla contraccezione. L’Italia, inoltre, è tra i paesi europei occidentali in cui si ricorre meno all’ivg. Sono le cittadine straniere in Italia, semmai, ad essere statisticamente più a rischio di ricorrere all’aborto.

    La maternità secondo la legge 194

    Pro Vita parla di donne costrette ad abortire, argomento ripreso in più occasioni anche dalla Chiesa e dal Papa. Ma è davvero così facile abortire?
    La legge 194 del 1978 regola la materia e si occupa della tutela sociale della maternità e dell’interruzione volontaria della gravidanza per garantire il diritto a una procreazione cosciente e responsabile.
    La legge offre alle donne la libertà di scegliere e, nel caso in cui volessero interrompere la gravidanza, di accedere a delle cure mediche e ad un aborto sicuro.

    Maternità e aborto: il consenso della donna

    L’articolo 18 dichiara esplicitamente che chiunque cagioni un’interruzione di gravidanza senza il consenso della donna sarà punito con la reclusione da 4 a 8 anni. La legge che regola l’aborto, quindi, libera già le donne dalla coercizione di dover per forza tenere o meno il figlio.
    Pro Vita, ma anche l’attuale governo, parlano di due principali ragioni per cui si presume che alcune donne siano costrette ad abortire: violenza da parte del partner o motivi economici.

    Un manifesto per l’autodeterminazione delle donne

    Violenza e problemi economici

    Nel primo caso si guarda al dito e non alla luna: invece di pensare a piani di azione per tutelare le donne che subiscono violenza all’interno della propria relazione, si attacca la libertà di tutte di scegliere ricorrendo ad una retorica che, nei fatti, demonizza l’aborto.
    Se non ci sono dati certi sugli uomini che costringono le compagne ad abortire, infatti, sappiamo che durante la gravidanza e dopo il parto aumenta il rischio che si ripresentino comportamenti violenti da parte di partner già violenti.
    Nel secondo caso, quando si parla di fattori economici, si potrebbe sempre dare piena attuazione alla 194. Nell’articolo 2 della legge, infatti, si dichiara che i consultori possono anche aiutare la maternità difficile dopo la gravidanza.

    I consultori per la maternità in Calabria

    Ma qual è la salute dei consultori in Calabria? I dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità fotografano una situazione apparentemente non troppo tragica, rispetto al resto del Paese. Infatti, in Italia c’è in media un consultorio ogni 20mila abitanti, in Calabria ce n’è uno ogni 29mila.
    In concreto, però, la situazione calabrese è più complessa.
    Benché alcuni consultori risultino aperti, in realtà non erogano alcun servizio o di fatto sono inattivi.

    Il consultorio di Locri

    I casi limite in regione

    In un articolo dello scorso dicembre de Il Post, si legge del consultorio di Rosarno aperto per la sola presenza di un membro del personale amministrativo.
    Poi ci sono casi in cui i consultori sono soggetti a chiusure e riaperture cicliche, riaperture che in genere avvengono in seguito e proteste condotte da gruppi e associazioni, come a Celico e a San Giovanni in Fiore.

    I problemi dei consultori

    Le chiusure sono spesso causate dal mancato ricambio del personale che, magari, va in pensione. Tra i problemi dei consultori, infatti, rientra la carenza di personale che si traduce anche in un sovraccarico di lavoro. A questo si aggiunge la mancanza di macchinari. Poche settimane fa, per esempio, il collettivo femminista cosentino Fem.In ha occupato il consultorio dell’Unical perché sprovvisto di un ecografo, e non è il solo consultorio in regione col medesimo problema.

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    La protesta delle Fem.In all’Unical

    Troppi obiettori

    Il diritto all’ivg, almeno, è tutelato in regione? All’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza i 13 ginecologi sono tutti obiettori e sono tali anche 24 ostetriche su 26. Un solo medico, per una popolazione di 70mila abitanti, pratica l’ivg nell’Ospedale offrendo una “prestazione a gettone”.
    Attraverso questa pratica gli ospedali tamponano la carenza di personale pagando alcuni medici ad ore. A livello regionale la situazione è la seguente: in poco più del 50% di tutte le strutture presenti sul territorio calabrese è possibile praticare l’ivg. Ma oltre il 65% dei ginecologi in servizio è obiettore di coscienza, ad essi si aggiunge un ulteriore abbondante 60% di personale non medico egualmente obiettore.

    Aborto: un diritto a rischio

    Bastano solo i numeri per notare, senza pregiudizi ideologici, che la vera urgenza è garantire alle donne il diritto di abortire o meno.
    A dover essere tutelata è, ancora una volta, la libertà di poter scegliere. Ma ripetiamo: i dati sui consultori e sugli obiettori di coscienza raccontano di istituzioni che non mettono le donne nella condizione di poter scegliere, lasciando che la 194 sia più un diritto formale che non sostanziale.

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    Uno striscione di protesta delle Fem.In all’Unical

    Una legge ancora da attuare

    Se si vogliono ulteriormente diminuire gli aborti, più che sulla possibilità di scelta si potrebbe continuare a investire risorse ed energie sulla contraccezione e sull’informazione.
    L’articolo 15 comma 2 della 194 ricorda che «le regioni promuovono (inoltre) corsi ed incontri ai quali possono partecipare sia il personale sanitario ed esercente le arti ausiliarie sia le persone interessate ad approfondire le questioni relative all’educazione sessuale, al decorso della gravidanza, al parto, ai metodi anticoncezionali e alle tecniche per l’interruzione della gravidanza». Che sia forse il caso di preoccuparsi di più dell’effettiva e totale attuazione della legge che tutela sia la maternità che l’interruzione volontaria di gravidanza?

    Francesca Pignataro

  • Sesso malato: l’allarme c’è, ma non si dice

    Sesso malato: l’allarme c’è, ma non si dice

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    Nel 2017, il 56° Congresso nazionale dell’Associazione Dermatologi Ospedalieri lanciava l’allarme sull’aumento delle infezioni sessualmente trasmesse (MST): HIV, sifilide, gonorrea, condilomi, patologie funginee, ecc. Dal 2000 in Italia la sifilide è aumentata del 400%. Il notiziario dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) sull’aggiornamento delle nuove diagnosi da HIV e AIDS al 31 dicembre 2021 segnala una costante diminuzione delle infezioni dal 2012.

    Tuttavia, pur se su base nazionale, alcuni dati fanno riflettere: dal 2015 aumentano le persone cui viene diagnosticata tardivamente l’infezione HIV e nel 2021 più di 1/3 delle persone affette scopre di esserlo per la presenza di sintomi o patologie correlate, a fronte di un aumento della proporzione di malati di AIDS che lo apprende nei pochi mesi prima del suo sviluppo. In questo contesto la Calabria è virtuosa: è tra le ultime in Italia per contagi e infezioni, ma una di quelle che esporta di più in termini assistenziali (il 25% dei casi).

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    La sede dell’ISS

    Parlare oggi di MST, dopo due anni di pandemia in cui screening ed attenzioni sanitarie sono state tutte rivolte al Covid, è più complicato. Lo confermano sia l’ISS, sia i medici ascoltati. Si può affermare che, almeno per quanto riguarda HIV, dopo il ventennio ‘80 e ‘90 e la lotta all’epidemia di AIDS, i contagi si sono abbattuti tanto da far destinare i fondi della comunicazione sociale ad altre problematiche come l’obesità. Eppure, sia a livello nazionale che locale, le ricerche raccontano di un’attenzione calata: di MST si parla pochissimo. Non esistono campagne di prevenzione, non si fa comunicazione. Ciò ha fatto in modo che le diagnosi siano nella maggior parte dei casi tardive e sottoporsi ai test tutto meno che un’abitudine.

    HIV e sifilide: il caso della città dello stretto

    Reggio Calabria è un caso esemplare. Al reparto di Malattie infettive del Grande Ospedale Metropolitano dicono che nel biennio tra il 2018 e il 2019 hanno registrato un’impennata di infezioni di HIV e sifilide specie nei giovani dai 25 anni in su. Pur trattandosi spesso di pazienti omo-bisessuali, l’incidenza degli etero è aumentata. Una recente pubblicazione di Microbiologia dello stesso presidio, che indaga l’andamento delle infezioni da sifilide nel periodo pre-pandemico e pandemico da COVID-19, certifica un andamento costante delle infezioni, già aumentate nel biennio precedente. La ricerca mostra anche che, nella stragrande maggioranza dei casi, il test è stato fatto in strutture private e il trattamento terapeutico effettuato con un passaggio a livello ambulatoriale, ospedaliero. Chi mastica l’argomento, conosce le relazioni che sussistono tra sifilide e HIV: la prima, soprannominata anche “autostrada per HIV”, tende ad aprire una breccia nel sistema immunitario e a rendere più facile il contagio.

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    Il GOM di Reggio Calabria

    A dare uno spaccato della situazione è il dottor Alfredo Kunkar: «A fronte di una maggiore libertà di costumi sessuali, l’affermarsi di una maggiore promiscuità vissuta con troppa leggerezza rappresenta la prima causa di questa situazione. Unendo a ciò l’assenza di una cultura della prevenzione, il quadro è chiaro. Se è vero che la sifilide fino a qualche anno fa sembrava superata, il suo ritorno, anche in fasce della popolazione non costituite da categorie fragili (tossicodipendenti, prostitute, ecc.), ma dai cosiddetti “insospettabili”, abbinata ad una maggiore incidenza dell’HIV, dovrebbe aprire una riflessione sul tema, soprattutto tra i più giovani. Il fatto che ci sia poco dibattito e poca prevenzione, che a scuola non si parli di educazione sessuale, ha creato una percezione erronea di ciò che implica averci a che fare e su come affrontare terapie contro le infezioni sessuali».

    Consultori solo a Catanzaro e Cosenza

    Il medico chiarisce ulteriormente la situazione: «Tra i ragazzi si è radicata la convinzione, ad esempio, che di AIDS non muoia più e che le infezioni HIV siano curabili. La medicina ha fatto passi da gigante dalla grande emergenza degli anni ‘80, ma ricordiamoci che la severità di una patologia dipende dalla condizioni dei singoli e dal fatto che la diagnosi venga effettuata ad uno stadio già avanzato dell’infezione, ovvero che l’HIV sia degenerato in AIDS. Altro elemento importante: quando entrano in terapia, molti non hanno ben chiaro che si tratta di un trattamento a vita. Sono convinti che sia transitorio, ma così non è. Quando scoprono la verità hanno contraccolpi psicologici rilevanti che, in caso di richieste dei pazienti, affrontiamo appoggiandoci al reparto di psichiatria dell’ospedale. La paura più grande dei pazienti è legata allo stigma, specie in ambito professionale».

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Per la provincia di Reggio, inoltre, a differenza che per Catanzaro e Cosenza, non esistono consultori territoriali che si occupino di MST. Secondo Santo Caridi, direttore sanitario dell’ASP di Reggio, il problema riguarda due aspetti: la scarsità di fondi e la mancanza di programmazione.

    Papilloma, una buona notizia c’è

    Secondo la dottoressa Francesca Liotta, direttrice sanitaria di Polistena, i dati disponibili sono solo una faccia della questione: «Temo si tratti di dati parziali. Credo che il sommerso sia molto più cospicuo. Nel nostro ospedale non abbiamo registrato casi negli ultimi due anni, ma sappiamo per certo che la popolazione non è abituata a fare screening regolari. Le analisi per infezioni sessuali che effettuiamo sono prevalentemente fatte post ricovero per altre patologie e vengono richieste dai reparti intensivi. Capita che ci siano pazienti che arrivano lamentando alcune sintomatologie e che però si rifiutino di approfondire le indagini, anche in caso di sospetto HIV.

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    Un vaccino contro il papilloma virus

    L’arrivo del coronavirus, poi, ha avuto il suo peso. Aggiunge Liotta: « Non scordiamoci che il Covid ha cambiato l’ordine delle priorità. L’emergenza pandemica ha fatto sì che l’attenzione verso altre criticità diminuisse anche nella percezione della popolazione. Le faccio un esempio: nel mio presidio ci siamo resi conto che c’è una grossa incidenza da infezioni funginee. Siamo invece a buon punto con la campagna di vaccinazione contro il Papilloma Virus, l’HPV». Rispetto al Papilloma anche nel presidio di Locri e a Reggio la copertura vaccinale è alta. È una buona notizia, perché l’HPV può aprire la strada ad ulteriori infezioni sessuali.

    Cultura e prevenzione

    Tutti concordano nel sottolineare un’assoluta mancanza di informazione e di cultura della prevenzione. «Compresa una mancanza di compliance – dice Cosimo Infusini, patologo e responsabile del settore Microbiologia clinica dell’ospedale di Polistena – con i medici di famiglia». Servirebbero due elementi fondamentali: budget da investire e sinergie da sviluppare. Per il primo aspetto, sia a livello ministeriale che di presidi locali, le coperture mancano. Quanto al secondo, investire a scuola, fin da quando la popolazione diventa sessualmente attiva, abbatterebbe la soglia di rischio, creando più consapevolezza e un impatto economico e sociale meno violento. Liotta batte molto su questo punto: «Oltre alle famiglie e alle scuole deve migliorare l’impegno di tutto il tessuto associativo dei territori. Una maggiore sensibilità e attenzione aiuterebbero molto. È un tema che riguarda in generale la saluta pubblica».

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    Farmaci utilizzati nelle terapie antiretrovirali

    Il problema di una scarsa cultura sanitaria, riguarda anche la PrEP, la terapia pre-esposizione a base di farmaci antiretrovirali che scherma dall’HIV in caso di rapporti occasionali non protetti. Se in alcune Regioni (Toscana ed Emilia Romagna) la PrEP è a carico dei sistemi sanitari regionali senza costi per gli utenti, la Calabria non la prevede. È sì disponibile nelle farmacie, ma sotto prescrizione medica e a pagamento. Anche di questo si parla troppo poco, perché è vero che la PrEP difende da infezioni HIV ma non dal resto. Elemento non sempre chiaro: Uutilizzare la PrEP non protegge da tutto, elemento spesso ignorato. E il suo uso continuativo può portare a disfunzioni renali. I farmaci utilizzati sono gli stessi dati in terapia ai sieropositivi, ma con un dosaggio più blando. Questo significa che, se hai rapporti non protetti, puoi evitare l’HIV, ma sei esposto a tutto il resto», chiarisce Kunkar.

    PrEP e post-esposizione: rafforzare il counseling infettivologico

    Secondo l’infettivologo Carmelo Mangano, esperto in HIV, «dovrebbe essere ampliata la possibilità di offrire la profilassi pre-esposizione o quella post-esposizione dopo un rapporto a rischio, accompagnandole con un counseling infettivologico per l’utilizzo dei chemioterapici antiretrovirali. Servirebbe non solo un facile accesso al servizio di diagnosi ma anche un facile accesso territoriale di cura, al netto dell’offerta ospedaliera che andrebbe riservata agli acuti critici, offrendo un servizio di qualità e di utilità pubblica».

    «Sul nostro territorio prosegue Mangano – ci sono gli attori qualificati ed esperti in Prevenzione, si tratta di comprendere in termini di politica sanitaria il problema relativo alla necessità di profilassi delle MST creando anche un ambulatorio di riferimento, oltre al laboratorio diagnostico dell’ASP Polo Nord di Reggio. Assieme a campagne di sensibilizzazione sull’uso dei contraccettivi per ogni tipo di rapporto si potrebbero ridimensionare le spese e offrire un servizio migliore per gli utenti che, sempre più frequentemente, chiedono prestazioni sanitaria specifiche per le MST».

    La testimonianza: vivere con l’HIV tra stigma e pregiudizi

    «Sono sieropositivo da gennaio 2016, o per lo meno è quando l’ho scoperto. Sono andato a fare gli esami perché, avendo notato strani sintomi fisici, come mal di gola, rush cutanei, ingrossamento dei linfonodi, ho cercato informazioni su forum dedicati e da lì ho iniziato a prendere consapevolezza. A mia memoria non avevo avuto comportamenti sessuali a rischio, ma può essere che fossi già infetto. Nel 2007, 11 anni prima, infatti mi era stata diagnosticata la sifilide. Non avevo mai pensato prima di fare il test. Non sono andato in ospedale, ma in una struttura privata territoriale. Successivamente ho rifatto le analisi in ospedale e ho iniziato la terapia. Sono stato fortunato perché non sono mai sceso sotto gli 800 CD4/ml, che sono le sentinelle della solidità del sistema immunitario. Un sieronegativo ne ha una soglia base di 1000.

    Sono entrato in terapia a meta febbraio 2016. L’impatto è stato terribile. Prima di prendere la prima pillola ho pianto a lungo: ero consapevole che la mia vita sarebbe cambiata. Il primo anno è stato duro perché ero spaventato, ma ho iniziato a studiare e informarmi su Hivforum.info, la piattaforma più aggiornata dal punto di vista della ricerca e delle testimonianze. Mi è servito tempo per metabolizzare. L’ospedale di Reggio non mette a disposizione un’equipe di supporto psicologico per chi fa questo accesso. È vero che Malattie Infettive collabora con Psichiatria ove necessario, ma ne faccio una questione di metodo: non è il paziente a dover chiedere il supporto, ma la struttura a dover fornire fin da subito il supporto psicologico. Dal confronto con pazienti che si curano altrove so che in altri contesti, come Milano, Firenze, Roma, le cose funzionano diversamente.

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    Ho passato momenti di paura, ma per vincerla bisogna informarsi. Studiare e capire aiuta anche la propria postura psicologica. L’HIV non è una malattia, ma un’infezione cronica che può trasformarsi in patologia se non viene trattata. Sono arrivato a pensare che è meglio l’HIV che un cancro al pancreas. Ad oggi la terapia ti consente una vita normale, anche di avere figli senza mettere in pericolo la loro salute o quella della madre. Certo, vivo in terapia vita natural durante, ma ho la stessa aspettativa di vita dei sieronegativi. Ho conosciuto persone la cui diagnosi era arrivata mentre avevano un livello di CD4 di 4/ml, il che significa sistema immunitario distrutto. Con un mese di trattamento sono tornate a livelli quasi normali.

    Ad oggi nessuno sa di me, tranne la mia famiglia, perché lo stigma è ancora alto: l’ignoranza instilla pregiudizio. Manca parlare di MST, di contraccezione, di prevenzione. La mia famiglia ha reagito bene, anche se il colpo è stato duro. Io mi controllo costantemente e loro sono sempre informati sulle mie condizioni. Ho deciso di non dirlo alla mia ragazza. La mia carica viremica è pari a zero e non ho obblighi giuridici. Potrebbe insorgere un obbligo morale, ma è un tema che andrà affrontato quando e se decideremo di costruire un percorso di vita comune.

    Di certo c’è che in tutti questi anni mi sono state fatte solo una TAC e una risonanza magnetica: il problema della sanità di seria A e di serie B esiste. Le persone sieropositive come me che vivono in contesti più ricchi hanno altri tipi di servizi, a partire dal fatto che hanno praticamente il loro infettivologo personale. Una cosa che qui a Reggio non ho mai visto, forse anche per una organizzazione del reparto che potrebbe essere migliore.
    Bisogna fare educazione sessuale, parlare, diffondere cultura. Ricordiamoci una cosa: i sieropositivi monitorati non mettono in pericolo nessuno. Non c’è motivo di avere paura. È ora di sradicare questo stigma».

  • Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Cosenza, quattro soldi per gestire il Castello Svevo

    Un intero castello svevo in affitto a meno di 500 euro al mese può sembrare roba da Totò Truffa ’62, eppure a Cosenza potrebbe andare davvero così. A Palazzo dei Bruzi, infatti, hanno deciso di cercare nuovi inquilini per il maniero ultrasecolare che domina la città dall’alto di colle Pancrazio. E il prezzo richiesto pare proprio di quelli da non lasciarsi sfuggire.

    Castello Svevo: quante polemiche a Cosenza

    La storia recente del Castello Svevo di Cosenza è costellata di polemiche. Dopo un periodo – erano gli anni ’90 del secolo scorso – in cui si alternano matrimoni a iniziative pubbliche, la struttura resta a lungo abbandonata a se stessa. I ragazzini si intrufolano arrampicandosi lungo una delle torri, a proprio rischio e pericolo, alla ricerca tra le cadenti mura secolari di un riparo da occhi indiscreti. Si va avanti così a lungo, finché – sindaco Salvatore Perugini – il Comune decide di restaurare quello che resta il più importante monumento cittadino insieme al Duomo.

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    Una delle sale del Castello dopo ill restauro

    I lavori cominciano poco prima della fine del mandato del primo cittadino, nel 2008, ma per vederli completati tocca attendere parecchio. L’inaugurazione risale infatti al 2015, col nuovo sindaco Mario Occhiuto. A caratterizzarla, tanto entusiasmo e le immancabili lamentele. Fanno discutere gli infissi metallici utilizzati per le finestre del castello, ultramoderni rispetto alle mura circostanti. Poi, al ricordo degli osceni innesti in cemento armato realizzati negli anni ’80, di infissi non si parla quasi più.

    Il mostro sulla collina

    A tenere banco resta l’abominevole ascensore giallo paglierino realizzato su uno dei lati del cortile interno. Difficile immaginare qualcosa di più antiestetico in un contesto simile, tanto più alla luce delle giustificazioni date all’esplodere delle polemiche sull’impianto elevatore. Secondo il Comune, l’ascensore garantirebbe alle persone con disabilità motorie l’accesso ai piani superiori dell’edificio. Peccato che il tragitto da percorrere per raggiungere l’impianto sia impraticabile per qualcuno in sedia a rotelle. Hanno promesso di modificarlo, ipotizzato di abbatterlo, ma l’ascensore resta lì, come un esame proctologico a storia e panorama.

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    L’ascensore del Castello Svevo visto dall’esterno

    Neanche mille euro al mese

    Alle diatribe architettoniche i giornali di Cosenza aggiungono presto quelle sulla concessione del Castello Svevo. A occuparsi di valorizzare l’immobile dopo il restauro saranno, infatti, tre privati, dopo che la Regione ha messo a gara, cofinanziandola, la gestione della struttura. La Cittadella mette il 60%, circa 175mila euro; altri 155mila li sborsa la Svevo Srl, la società creata dagli imprenditori Sergio Aiello, Pietro Pietramala e Gianpaolo Calabrese per partecipare al bando regionale.
    Per i tre, poi, c’è il canone da versare al Comune di Cosenza, proprietario del Castello Svevo da fine ‘800, per i successivi cinque anni (e ulteriori, eventuali, due in caso di proroghe). Ammonta a circa 960 euro al mese.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Un intero castello normanno svevo, già dimora dello stupor mundi Federico II, “in affitto” al prezzo di un magazzino in un quartiere popolare di Cosenza non può passare sotto silenzio. Tanto più se a riscuotere l’affitto è un ente indebitato fino al collo. L’accordo sembra a molti fin troppo vantaggioso per la Svevo. Questa, in pratica, versa il canone (e paga le bollette) solo per «l’utilizzo degli spazi posti al piano terra ed al primo piano dell’immobile denominato “Castello Normanno Svevo”, per mq 227,22».

    Castello: gli obblighi della Svevo e quelli del Comune di Cosenza

    Il resto (enorme) resta a carico dello stesso municipio che lo ha fatto andare in malora nei decenni precedenti. E che ora, da contratto, dovrebbe pure scontare dal canone i costi per sorveglianza e pulizia degli altri spazi, apertura e chiusura, guardaroba, personale, attività promozionale in occasione di eventuali iniziative organizzate o autorizzate dal Comune stesso. Gli incassi, invece, vanno tutti alla Svevo, che gestisce le visite e organizza parecchie iniziative con biglietti che vanno dai 2 euro del ridotto per minorenni ai 20 per gli spettacoli teatrali o i concerti. E per i soliti 960 euro ha diritto, sulla carta, ad avere gratis anche la Villa Vecchia e il Cinema Italia qualora voglia organizzare qualcosa anche lì.

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    Il cinema Italia-Tieri

    Sembra un affare, eppure si scopre che di quattrini in municipio ne arrivano ben pochi. Se ne accorge… Gianpaolo Calabrese, che nel frattempo ha lasciato la società con Aiello e Pietramala per accomodarsi sulla poltrona da dirigente del Settore Cultura proprio a Palazzo dei Bruzi. Anche la (si suppone, non troppo difficile) scoperta di Calabrese interessa i cosentini per poco però. Il chiacchiericcio si concentra sulle sue illustri parentele – è nipote del Procuratore capo della città – e quanto abbiano influito sull’incarico ottenuto, più che altro. Del castello svevo si parla soprattutto per mostre, sfilate, concerti e festival, salvo sporadiche diatribe sui social in occasione di eventi con degustazioni enogastronomiche che gli accordi col Comune di Cosenza parrebbero invece vietare.

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    Una degustazione all’interno del Castello

    Un accordo per estinguere il debito

    Nonostante la Svevo presenti un malloppo di fatture da scomputare dal canone che supera di poco i 160mila euro, l’equivalente di 14 anni e mezzo di canone, Palazzo dei Bruzi batte ancora cassa agli “inquilini morosi” però. Si arriva così, con l’attuale amministrazione, a un nuovo accordo: la Svevo, che avrebbe dovuto lasciare a giugno 2022, gestirà ancora il castello fino a marzo 2023; in cambio verserà al municipio 14.400 euro di arretrati, l’equivalente di una quindicina di mensilità.

    Con marzo ormai alle porte, però, è tempo di trovare un nuovo gestore per il maniero tornato a nuova vita dopo il restauro. Così il Comune si è messo ufficialmente alla ricerca di un nuovo concessionario. Sebbene il municipio continui a non navigare nell’oro, questa volta rischia di incassare ogni mese ancora meno di quello che si prevedeva pagasse il vecchio gestore. La base (al rialzo) da cui si partirà per le offerte è meno della metà della cifra stabilita all’epoca per la Svevo. Se prima il canone annuo era di 11.523,60 adesso «l’importo a base di rialzo è il seguente: euro 5.000,00 (tremila,00)» (sic). La concessione, invece, dura sei anni.

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    I Bocs Art all’epoca in cui venivano ancora utilizzati come residenze artistiche temporanee

    Cosenza, punto e a capo: il castello svevo a metà prezzo

    C’è di nuovo che stavolta bollette e pulizie (anche degli spazi esterni) toccherà pagarle a chi si aggiudicherà la gestione della struttura. E niente Villa Vecchia o Cinema Italia per il vincitore: in compenso, potrà realizzare «almeno due eventi annuali, dalla durata di due giorni l’uno» ai Bocs Art sul Lungofiume, oggi moribondi a pochi anni dalla loro nascita. Basterà tenere aperto il castello almeno 250 giorni l’anno per un minimo di 6 ore al giorno e blindare l’accordo col Comune, in caso di vittoria, con una fideiussione pari al 10% dell’importo contrattuale. Che, salvo poco probabili rialzi monstre dei contendenti, potrebbe essere pari a poche centinaia di euro al mese. E poi dicono che i prezzi degli immobili sono alle stelle…

  • Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    «Ma è sicuro di quel che dice?», chiede Remo Smitti, pm della Procura di Venezia.
    «Sicurissimo dottore, sono ottant’anni che faccio la guerra al mio cognome», risponde il teste.
    L’interrogato è Pietro Buffone, vecchia gloria della Democrazia cristiana, non solo calabrese. È il 23 novembre 1999. Siamo sempre a Venezia, in Corte d’Assise, dove si svolge un dibattimento delicatissimo, su un mistero “minore”, ma non per questo meno tragico della storia repubblicana.
    Tra gli incriminati, c’è una figura eccellente: Zvika Zarzevsky, più conosciuto come Zvi Zamir, ex capo del Mossad. Sullo sfondo, un disastro areo: il caso Argo 16.

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    L’aereo Argo 16 sulla pista

    Argo 16: uno schianto a Marghera

    È l’alba del 24 novembre 1973. L’Argo 16, un bimotore Douglas C47-Dakota in dotazione al 306° gruppo del 31° stormo dell’Aeronautica Militare.
    L’aereo è decollato da poco dall’Aeroporto “Marco Polo” di Venezia per raggiungere la base Nato di Aviano. Ma poco sopra Porto Marghera, a Mestre, succede qualcosa.
    Il velivolo perde quota, urta un lampione e precipita verso le strutture della Montedison.
    Evita per un soffio gli enormi serbatoi di combustibile dello stabilimento petrolchimico e si schianta sull’ingresso del Centro elaborazione dati della Montedison: il muso dell’aereo sfonda l’atrio e devasta gli uffici. Un pezzo della fusoliera si stacca nell’impatto e finisce nel cortile, dove demolisce venti auto parcheggiate.

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    L’ex capo degli 007 israeliani Zvi Zamir

    Lo strano incidente di Argo 16

    In quest’incidente terribile perdono la vita i quattro membri dell’equipaggio: il colonnello Anano Borreo, capo-equipaggio, il tenente colonnello Mario Grande, secondo pilota, e i marescialli Aldo Schiavone e Francesco Bernardini rispettivamente motorista e marconista.
    Ma è davvero un incidente? Secondo l’Aeronautica Militare, che ordina un’inchiesta frettolosa, sì. Ma c’è chi nutre seri dubbi: il deputato missino Beppe Niccolai, che deposita un’interrogazione scritta al Ministero della difesa il 10 agosto 1974.
    Seconda domanda: cosa c’entra Pietro Buffone in questa vicenda?

    Pietro Buffone: il sottosegretario dei segreti

    In quel periodo terribile, Buffone è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo di Mariano Rumor, che gli conferma l’incarico rivestito nel precedente governo Andreotti.
    Il deputato calabrese non è un sottosegretario qualsiasi, ma vanta un piccolo record: è il primo a gestire la delega ai Servizi segreti, fino ad allora riservata ai presidenti del Consiglio.
    Sull’argomento, Buffone è un esperto, visto che ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sul Sifar, il Servizio militare, che in quegli anni si chiama Sid, e sa vita, morte e miracoli dei nostri 007. Soprattutto, ne conosce i peccati.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    L’antefatto: terroristi palestinesi in Italia

    Il 5 settembre 1973 emerge una strana notizia: i nostri Servizi segreti sventano un attentato contro un areo di linea della El Al, la compagnia di bandiera israeliana.
    Il bersaglio reale degli attentatori sarebbe Golda Meir, la premier israeliana in visita in Italia.
    Grazie a una soffiata del Mossad, gli agenti segreti ammanettano cinque arabi, legati a Settembre Nero, l’organizzazione terroristica palestinese interna all’Olp di Yasser Arafat. Due di loro hanno il passaporto algerino e, su pressione di Gheddafi, vengono messi in libertà provvisoria il 30 ottobre.
    Il giorno successivo vengono “esfiltrati” in Libia. Li trasporta l’Argo 16, che fa un breve scalo a Malta, prima di portarli a destinazione.
    Oltre ai due libici, a bordo ci sono quattro funzionari del Sid, tra cui il capitano Antonio Labruna e il colonnello Stefano Giovannone.

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    Il generale Gianadelio Maletti

    Intermezzo: rivalità nei Servizi

    Tra i peccati delle nostre barbe finte uno è particolarmente grave. Anzi mortale: la rivalità interna.
    Il capo del Sid, nella prima metà degli anni ’70, è il generale dei Bersaglieri Vito Miceli, che si distingue per uno spiccato filoarabismo e per la vicinanza a Gheddafi.
    Il numero due del Sid è il generale Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D e acerrimo rivale di Miceli.
    Maletti è il collegamento tra gli israeliani e il Sid. Questa schizofrenia dei nostri servizi trova un equilibrio nel 1973, grazie a una spregiudicata operazione condotta da Aldo Moro.

    Il lodo Moro

    Stefano Giovannone, uomo di fiducia di Moro e capocentro del Sid a Beirut, è l’uomo chiave del lodo Moro, un accordo di diplomazia parallela (cioè fuori dai canali diplomatici ufficiali) e asimmetrica (cioè tra uno stato e organizzazioni non statali).
    Il contenuto dell’accordo è semplice ed efficace: l’Italia avrebbe tutelato gli uomini dell’Olp e questi si sarebbero astenuti dal fare attentati sul nostro territorio. Come, ad esempio, quello del 17 dicembre del 1973.

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    Aldo Moro

    L’attentato di Fiumicino

    Sono quasi le 13 del 17 dicembre 1973. Cinque palestinesi entrano nel terminal di Fiumicino e si mettono a sparare all’impazzata.
    Uccidono due uomini e raggiungono un Boeing 707 della Pan Am. Vi gettano dentro una bomba al fosforo e due granate. L’esplosione uccide trenta passeggeri, tra cui quattro italiani.
    Poi, gli attentatori salgono a bordo di un altro aereo: un Boeing 737 della Lufthansa diretto a Monaco. Prendono sei ostaggi e lo dirottano. Dopo un volo rocambolesco, l’aero atterra a Kuwait City, dove i cinque tornano in libertà.

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    L’attentato di Fiumicino

    Argo 16: il processo

    L’Argo 16 è un areo che scotta: non trasporta solo agenti segreti e presunti terroristi arabi. Ma si occupa soprattutto dei membri di Gladio, l’organizzazione Stay Behind italiana: li porta periodicamente a Poglina in Sardegna, dove c’è il loro centro d’addestramento.
    Anche per questo particolare utilizzo dell’Argo 16, l’“incidente” di Porto Marghera è al centro di dietrologie dure a morire. Soprattutto perché su questa vicenda non ci sono chiare verità giudiziarie.
    Il primo magistrato a occuparsene è il giudice istruttore Carlo Mastelloni, che mette sotto inchiesta Zvi Zamir, il suo braccio destro Asa Leven e 22 ufficiali della nostra Aeronautica.
    Il teorema di Mastelloni è inquietante: sono stati gli Israeliani.

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    Il magistrato Carlo Mastelloni

    Buffone il superteste

    Illuminante, al riguardo la testimonianza di Buffone, che conferma le dichiarazioni del generale della Guardia di Finanza Vittorio Emanuele Borsi.
    L’ex sottosegretario traccia un nesso inquietante tra il fallito attentato di Ostia, il disastro dell’Argo 16 e la strage di Fiumicino.
    Secondo quanto gli avrebbe confidato Maletti, il responsabile di questo intrigo sarebbe stato Miceli.
    Miceli avrebbe liberato i due libici, nonostante il contrario avviso di Maletti. E l’Argo 16 sarebbe stato sabotato dagli israeliani per ritorsione.
    Sempre Miceli avrebbe dato l’assenso all’attentato di Fiumicino, come risposta agli israeliani.

    Il processo finisce in niente

    Alla fine, il processo naufraga dietro la classica sequenza di insufficienze di prove, che per il codice di Procedura penale, entrato in vigore poco prima di Tangentopoli, equivale alla formula piena.
    Zamir e gli altri imputati la fanno franca, anche perché il segreto di Stato massacra l’istruttoria di Mastelloni. Tutto questo sebbene Maletti e Cossiga confermino, l’anno successivo le dichiarazioni di Buffone.

    Argo 16 e i documenti distrutti

    Il 29 gennaio scorso si è celebrato in sordina il decimo anniversario di Buffone, spentosi ultranovantenne nella sua Rogliano.
    Il caso Argo 16 è solo uno dei dossier su cui l’ex big ha messo le mani. Di molti altri non si sa nulla perché, una volta ritiratosi a vita privata, Buffone ha distrutto ogni documento.
    Nulla da nascondere a livello personale, ci mancherebbe. Solo il senso dello Stato di cui ha dato prova una persona in guerra perenne col proprio cognome.
    Una guerra vinta.

  • Agricoltura, è allarme rosso: milioni di fondi europei a rischio

    Agricoltura, è allarme rosso: milioni di fondi europei a rischio

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    Milioni stanziati e agricoltori trepidanti, dopo aver presentato progetti e aver anticipato spese.
    Ora un erroraccio rischia di mandare parecchie aspettative in fumo, a dispetto di alcuni proclami trionfali della Regione. L’allarme e il potenziale scandalo finora sono rimasti sottotraccia. Forse perché le associazioni di categoria sperano che il problema rientri al più presto. O forse perché ai piani alti della cittadella di Germaneto si tenta di correre ai ripari senza troppi clamori.

    Calabria e agricoltura, tanti fondi in ballo

    L’acronimo più di moda è Pnrr. Come tutti gli outfit all’ultimo grido, ha messo in secondo piano tutto il resto, compresi i fondi Por e, per quel che riguarda l’agricoltura, Psr.
    Quest’ultimo acronimo sta per Piano di sviluppo rurale e ha uno scopo ben preciso: iniettare liquidità nell’agricoltura attraverso vari progetti a cui gli imprenditori del settore partecipano in cofinanziamento.

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    La cittadella regionale di Germaneto

    In parole povere, anticipano parte dei finanziamenti per essere compensati dalla Regione non appena si mettono all’opera.
    Ma quanti soldi ballano attorno ai Psr? Non proprio spiccioli.
    Lo confermano i comunicati con cui l’Assessorato all’agricoltura della Regione ha diramato i pagamenti più recenti

    Pagamenti milionari

    Il primo pagamento, di fine novembre, riguarda il Kit (così in burocratese si chiama la tranche di pagamento) 3 del 2022.
    Ben 44.283.348, 31 euro distribuiti a più di 46mila agricoltori calabresi.
    Anche dicembre sembra partito bene: il Kit 4 ha erogato 33.535.212, 41 euro a 13.754 beneficiari.
    Altri Kit di dicembre hanno sbloccato fondi vari. Pure in questo caso non sono spiccioli.
    Il primo liquida 6.607.219, 09 euro a 513 imprese, per bandi che risalgono a prima del 2022.
    Il secondo distribuisce altre due sostanziose tranche, entrambe anticipazioni per il 2022.
    La prima è di 8.925.470, 47 euro che vanno a 2.071 aziende beneficiarie. La seconda, 1.075.853, 45 euro, va a 175 imprenditori.

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    I fondi Psr hanno un peso enorme per l’agricoltura in Calabria

    A cosa servono davvero i Psr

    È il momento di tirare le somme, da cui si ricavano alcuni elementi utili.
    Il primo: ogni kit di pagamento oscilla, in media, da 20 a 40 milioni complessivi.
    Il secondo: le cifre sono senz’altro milionarie, ma divise per il numero di beneficiari, si riducono a spiccioli. Detto altrimenti, sono la classica boccata d’ossigeno per la sopravvivenza di imprese di dimensioni medio-piccole.
    Terzo elemento: l’elevato numero di beneficiari è indice di un’economia, quella calabrese, che si basa un po’ troppo sull’agricoltura, più che altro per la latitanza degli altri settori.

    Detto altrimenti: laddove, anche nel resto del Sud, l’agricoltura è il 2% del Pil, da noi pesa più del doppio.
    Tutto ciò fa capire come questi fondi siano vitali e come la loro mancata o ritardata distribuzione rischi di mettere a repentaglio la Calabria. Il pericolo, purtroppo, si è verificato.

    Agricoltura: i controlli sui fondi in Calabria

    Per distribuire i fondi Psr, la normativa prevede un meccanismo articolato di controlli, che sono affidati a società specializzate in base a una gara.
    La società privata, esternalizza l’assistenza tecnica. In pratica, esegue i controlli sulle aziende già riconosciute meritevoli di finanziamento e dà parere favorevole. In altre parole: le varie aziende comunicano lo stato di avanzamento dei lavori relativi ai progetti finanziati, la società verifica e invia il “visto si paghi” al Dipartimento agricoltura della Regione che, a sua volta, ordina all’Arcea, l’ente pagatore, di liquidare le somme.
    Ma che succede se la società non è in regola? La domanda non è astratta, perché in Italia l’inghippo c’è sempre. E in Calabria è capitato.

    La raccolta delle fragole

    Il controllore

    L’inghippo è emerso grazie al decreto 16193 dello scorso 10 dicembre, firmato da Antonio Giuseppe Lauro, il responsabile del procedimento di selezione della società incaricata dei controlli, e da Giacomo Giovinazzo, il dirigente del Dipartimento agricoltura della Regione.
    Ad approfondire la vicenda, viene da ridere. Vediamo perché.
    Per individuare il controllore, la Regione indice una prima gara, la numero 8182941 dell’8 luglio 2021. Ma questa gara non si svolge, perché nell’agosto successivo il Dipartimento agricoltura si riorganizza, probabilmente in vista delle imminenti elezioni regionali. Quindi è tutto da rifare.

    La gara è indetta l’11 febbraio scorso. L’11 luglio successivo escono i partecipanti. Sono una società, Cogea Srl con sede a Roma, e due Ati (associazioni temporanee d’impresa). La prima è costituita da Deloitte Consulting Srl più Consendin Spa. La seconda raggruppa tre società: Lattanzio Kibs Spa, Meridiana Italia Srl e Ptsclass Spa.
    Lo spiegamento di forze si giustifica per il tanto lavoro da fare e per il compenso: poco meno di dieci milioni (9.799.462 euro) per cinque anni. Vince Cogea lo scorso 19 ottobre. Praticamente, in zona Cesarini. Ma non passa un mese che Deloitte fa ricorso al Tar. E iniziano i guai.

    Il pasticcio e lo scandalo

    Le accuse di Deloitte non sono proprio irrilevanti. Secondo la società perdente, Cogea avrebbe creato gli atti della precedente gara annullata e poi li avrebbe riproposti tal quali alla Regione.
    Quest’ultima, quindi, non avrebbe fatto il bando da sé, ma sulla base di un documento di un privato.
    E, ad analizzare il documento, regolarmente pubblicato sul sito della Regione, le cose risulterebbero come sostiene Deloitte: nelle proprietà del file si apprende che l’autore è Cogeco. Di più: la data di creazione del file e quella di ultima modifica coincidono.

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    Galeotto fu un pc…

    La risposta della Cittadella è ferma, ma non forte abbastanza: il file, sostiene il responsabile unico del procedimento, è stato formato su un pc della Regione, ma convertito in pdf su un pc di Cogea, che si trovava in un ufficio delle Regione.
    Cogea, a sua volta, risponde che di quel pc non sa nulla perché l’aveva dismesso.
    Non è il caso di approfondire, anche perché col decreto del 10 dicembre la Regione ha provveduto ad annullare la gara vinta da Cogea in autotutela.
    Quindi nessuno risponderà a una domanda banale: visto che tutti i programmi Word prevedono la conversione dei documenti in pdf, possibile che solo la Regione non abbia un programma di videoscrittura aggiornato?

    Il problema

    Ancora la situazione non è esplosa. Ma l’annullamento del bando può provocare molti problemi. Vediamone alcuni.
    Innanzitutto, che succede ai pagamenti in corso o da approvare? Ora che il controllore non c’è, chi prende il suo posto? In teoria, dovrebbero farlo gli uffici della Regione. Ma sono attrezzati?
    Secondo problema: che succede ai pagamenti già approvati da Cogea e non ancora liquidati? Vengono congelati fino a nuova gara? Oppure verranno sanati in qualche modo?
    Terzo problema: che accadrà ai pagamenti già liquidati?
    La contestazione è dietro l’angolo, perché se il Tar dovesse confermare il ricorso di Deloitte, emergerebbe un solo dato: Cogea non doveva trovarsi lì.

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    Gianluca Gallo, assessore regionale all’Agricoltura

    Fondi fermi, il pericolo per l’agricoltura in Calabria 

    In ogni caso, si annuncia un pessimo Natale per tutti gli imprenditori che hanno anticipato somme per avviare i progetti.
    In attesa di capire che pesci prenderà la Regione, in particolare l’assessore all’Agricoltura Gianluca Gallo, è sicuro che si accumuleranno ritardi, che colpiranno tutto il settore agricolo con danni di non pochi milioni di euro a migliaia di aziende.
    L’allarme, al momento, è strisciante. Ma, fanno capire alcune associazioni di categoria (ad esempio la Cia) potrebbe esplodere da un momento all’altro. E quando certi allarmi esplodono, vuol dire che la catastrofe è vicina.

  • Addio zona rossa: la Presila lascia Gagarin per Conte e Meloni

    Addio zona rossa: la Presila lascia Gagarin per Conte e Meloni

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    Addio compagno Gagarin. Adesso è il tempo di tovarišč Conte. Segno dei tempi e della turbopolitica. Macella, trita e inghiotte tutto: storie, appartenenze, colori. Nessuno, però, ha mai avuto il coraggio di rimuovere e cambiare il nome della piazza intitolata al cosmonauta russo. A Pedace, oggi frazione di Casali del Manco, una cosa del genere potrebbe ancora provocare una sollevazione popolare.

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    Fausto Gullo, antifascista e ministro (foto bibliotecagullo.it)

    Nel cuore della rossa Presila di Fausto Gullo e Cesare Curcio il colore dominante è il giallo. Nelle ultime elezioni politiche il Movimento 5 Stelle ha raggiunto il 46,1 % alla Camera. Il Pd si è fermato al 13,28 %, tallonato da Fratelli d’Italia con il 12,81%.
    Le destre sono pronte per la spallata alle prossime amministrative. Dove i grillini fanno sempre fatica a sfondare. Un copione già visto pure altrove quando si parla di crisi della sinistra.

    Presila zona rossa: Ingrao fuggiasco a Pratopiano di Pedace

    Pedace ha rappresentato per la sinistra calabrese un simbolo. Qui fu nascosto Pietro Ingrao, in fuga dai fascisti. Una storia di resistenza in un Sud dove non erano tanti ad opporsi al regime di Mussolini. Uno dei pochi fu Cesare Curcio, meccanico specializzato. Tenne con sé Ingrao, futuro presidente della Camera, nei boschi di castagne a Pratopiano. Oggi ha raccolto il suo testimone ideale il figlio Peppino, attivista e scrittore, raccoglitore di storie di briganti.

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    Pietro Ingrao a Pedace prima e dopo la caduta del regime fascista. In alcune foto compare Cesare Curcio

    È ancora lì la casa dove fu nascosto il dirigente del Partito comunista italiano. L’hanno trasformata in una suggestiva abitazione di montagna. Basta salire poche centinaia di metri e un’altra costruzione ospita un piccolo museo familiare. Con gli atti parlamentari del padre eletto parlamentare del Pci e poi morto troppo presto. Foto, carte, documenti. Uno dei piccoli tesori nascosti. Non lontano in linea d’aria da San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta, dove morì Gioacchino da Fiore.

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    Peppino Curcio, storico e attivista (foto Alfonso Bombini)

    Il Pd governa con Fratelli d’Italia

    La memoria è un esercizio difficile. Consente di capire – o, almeno, provarci – perché sono cadute storiche roccaforti della sinistra. Sesto San Giovanni e Sant’Anna di Stazema su tutte. Passate a destra. Figuriamoci se questo non può succedere a Casali del Manco. Comune, tra l’altro, dove un primo cittadino del Pd governa con un assessore di Fratelli d’Italia.

    Sul punto Peppino Curcio, già candidato a sindaco del M5S, ha le idee chiare: «L’inciucio ha un suo peso». È un ritorno alle «politiche di prima, quelle del mettersi d’accordo per fini elettorali». Ne ha pure per il Movimento Presila Unita, a suo dire «rivelatosi una succursale del Partito democratico».

    Parole che Peppino Curcio pronuncia nella casa museo di Fausto Gullo a Macchia. Un condensato di storia e aneddotica: appunti del ministro dei contadini, ricordi catalogati di uno dei padri costituenti, carte del processo Valpreda (difeso dall’illustre giurista). Senza dimenticare quella lettera di Togliatti che ringrazia Gullo per il dono ricevuto: deliziosi fichi calabresi.

    I timori dell’ex segretario provinciale del Pd

    Persino Luigi Guglielmelli, ex segretario provinciale del Pd, ha il timore che l’assalto al fortino Presila possa andare a segno prima o poi: «Mi auguro che il prossimo primo cittadino di Casali del Manco non sia di centrodestra, ma non è scontato». I motivi? «C’è una grande frammentazione della sinistra e del M5S, non vedo in campo un percorso unitario».

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    Luigi Guglielmelli, ex segretario provinciale del Pd di Cosenza

    Non deve meravigliare più di tanto il fenomeno delle liste civiche «che racchiudono – puntualizza Guglielmelli, oggi nella direzione regionale del partito – tutto l’arco costituzionale, è molto diffuso dappertutto». Ultimo tabù ancora in piedi? «Anche nelle formazioni civiche con presenze di centrodestra il sindaco è sempre stato iscritto al Pd».

    I tempi sono maturi per il centrodestra

    Chi è convinta che Casali del Manco sia vicino ad essere conquistato dal centrodestra è Emma Staine, militante della Lega che, poco tempo dopo aver parlato con I Calabresi,  è diventata assessore regionale nella Giunta di Roberto Occhiuto: «I tempi sono maturi. Negli ultimi 5 anni ci siamo affermati scardinando determinati dogmi e luoghi comuni che volevano la Presila rossa». Ormai da quattro anni il partito di Salvini – spiega – «è stabile dall’8 al 10% raggiungendo picchi del 15 alle Europee affermandosi lo scorso anno a Celico come prima forza alle regionali».

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    Emma Staine, assessore regionale alle Politiche sociali e ai Trasporti

    Zona rossa e memoria corta

    Uno spostamento spiegato anche in termini di «perdita della memoria storica di un luogo». Fausto Gullo, Cesare Curcio e il sindaco Rita Pisano «purtroppo sono figure che interessano soprattutto gli studiosi». Francesco Scanni, ricercatore di Scienze Politiche all’Università di Teramo e attivista di Voci in Cammino, fa notare «la distanza fra queste personalità di grande valore e il ceto politico attuale». Perché «non basta avere avuto cittadini così illustri, resta un obbligo ricordarli, riconoscerne l’importanza e trasmettere l’insegnamento alle generazioni future».

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    Francesco Scanni, ricercatore universitario a Teramo e attivista di Voci in Cammino (foto Alfonso Bombini)

    L’antipasto del totonomi

    L’attuale maggioranza in consiglio comunale tenterà di restare in sella in vista delle amministrative del 2024. Probabilmente cambiando il candidato a sindaco. Che non dovrebbe essere l’attuale primo cittadino Nuccio Martire. Uno tra gli ex sindaci di Trenta e Casole Bruzio, Ippolito Morrone e Salvatore Iazzolino, potrebbe decidere di scendere in campo. Così come l’ex primo cittadino di Pedace, Marco Oliverio. Defilato ma attento si muove l’ex consigliere regionale, tornato nel Pd dopo la sbornia De Magistris, Giuseppe Giudiceandrea. Il centrodestra osserva con attenzione. Se le divisioni a sinistra resteranno ferite aperte, il tempo di conquistare l’ex roccaforte rossa è davvero arrivato. E Gagarin sarà costretto a farsene una ragione.

  • MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

    MAFIOSFERA| Quale ruolo ha la ‘ndrangheta nel traffico di migranti?

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    La criminalizzazione degli sbarchi e della solidarietà ha un effetto collaterale molto pericoloso: offre una opportunità di lucro a gruppi oltremare che sulla disperazione dei rifugiati ci ha messo su un intero business. Pagano tra i 6.000 e i 12.000 dollari americani, più o meno la stessa cifra in euro, per imbarcarsi dalla Turchia verso l’Italia. Sono cittadini iracheni, iraniani, afghani, siriani. Il problema non è soltanto trovare i soldi, tanti, per imbarcarsi, ma affidarsi al mare su velieri, natanti, imbarcazioni più o meno solide non importa, guidate da chi si compra la loro afflizione a caro prezzo.

    Ne arrivano 40 un giorno, 115 un altro, 650 un altro, ogni settimana, ogni mese. Senza tregua, sulle coste della Calabria, a Crotone come a Roccella Ionica. In aumento nel 2022 (non solo in Calabria, ma anche in Puglia, in Sicilia, e nel resto d’Europa), decine di migliaia di derelitti pagano cifre da capogiro per viaggi della speranza che non hanno forse più.

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    Palazzo del Viminale, sede del Ministero dell’Interno

    I porti di accoglienza sono tutti uguali visti dal mare, ma alcuni sono più uguali degli altri: sono più vicini, più adatti allo sbarco. Spetta al Ministero dell’Interno accordare lo sbarco, su richiesta dell’imbarcazione e in base ai trattati internazionali sull’individuazione del porto sicuro scelto anche in base alle esigenze operative dell’accoglienza. Dovunque avvenga lo sbarco, avviene comunque indisturbato da altre ingerenze criminali. Nonostante le cifre, nonostante la stabilità del mercato, nonostante si arrivi in terra di mafia, non sembra esserci spazio per nessun altro, in quelle che sono reti transnazionali di sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

    Migranti in casa della ‘ndrangheta

    Sembra difficile da credere che in certe zone della Calabria, dove ci sono clan di ‘ndrangheta molto attivi, si muova un mercato illegale così lucrativo in cui di ‘ndrangheta non c’è ombra. Eppure «allo stato non sono emersi legami tra trafficanti di esseri umani e esponenti di criminalità organizzata di tipo mafioso; questo è quanto emerge dalle indagini arrivate a dibattimento finora», osserva la dottoressa Sara Amerio. Sostituto procuratore della Repubblica presso la Procura Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, Amerio si occupa, tra l’altro, di indagini in materia di traffico di migranti e di tratta di esseri umani.

    Mediterraneo: la rotta orientale e quella centrale

    In certi quartieri di Istanbul, lo si sa se si chiede nel giro, è possibile prendere contatti con un’organizzazione criminale che può portare chi paga in Europa, principalmente in Grecia e in Italia, ma a seconda del network, anche via Albania Ci si trova a Istanbul come luogo di partenza, ma il viaggio inizia molto prima, i mediatori sono in Iran, Iraq, e dove altro serve. Questi individui sono iraniani e curdi, ma anche russofoni, provenienti da Russia, Ucraina, Turkmenistan, Uzbekistan. Network a volte diversi da quelli della gente che poi partirà, ma facilmente riconoscibili nel loro presentarsi come società di servizi.

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    Una barca a vela carica di migranti intercettata dalla Guardia di Finanza al largo delle coste calabresi

    Si curano della logistica, dei bed and breakfast per aspettare il giorno della partenza, si prendono passaporti e cellulari dei ‘clienti’ per evitare problemi. I mezzi di navigazione sulla rotta mediterranea orientale sono solitamente in buone condizioni, a motore o a vela, per la cui conduzione sono indispensabili delle competenze. Gli scafisti sono addestrati e sono parte dell’organizzazione criminale. Si viaggia spesso sottocoperta e di solito bisogna portarsi del cibo a parte.

    Diversa invece è la rotta mediterranea centrale, dalla Tunisia per esempio, che trasporta dall’Africa al sud Italia/Europa. Costa meno, a volte 3000-5000 euro, ma si rischia di non arrivare mai: la navigazione è molto precaria, i natanti non sono pensati per quelle acque. Ma in fondo i trafficanti, nella loro accertata disumanità, non assicurano l’arrivo da vivi: «Se ci sono problemi buttateli in mare», dicevano i presunti trafficanti nelle intercettazioni dell’indagine siciliana Mare Aperto.

    Via dalla Calabria

    Reti transnazionali, fitte ed articolate, nell’ambito delle quali ciascun componente è deputato a compiti specifici: reclutamento dei migranti da trasferire; organizzazione del loro viaggio in Turchia; reperimento delle imbarcazioni e dei conducenti; addestramento di quest’ultimi; gestione delle finanze del viaggio; acquisto delle imbarcazioni; pagamento degli scafisti e così via. Una volta arrivati a Roccella Jonica o a Crotone o direttamente sulle spiagge di Brancaleone o di Isola Capo Rizzuto – dove molto spesso non intervengono nemmeno le ONG di soccorso – chi sbarca viene intercettato dalle autorità, schedato e spedito via; pochi rimangono in Calabria, pochi vogliono rimanerci, molti vanno verso il nord, Italia ed Europa.

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    Ombre che dal mare si frangono sulle spiagge per poi tornare ad essere ombre sul territorio. Il porto di sbarco non può essere deciso a priori; quindi, fare pronostici su dove si arriverà non è possibile. All’arrivo – in Calabria, come altrove – il network criminale ha spesso concluso il suo operato. Anche quando ci sono soggetti legati alla rete criminale sul territorio italiano, di solito delle stesse nazionalità dei trafficanti, costoro sono di passaggio o di supporto alla logistica futura.

    Traffico di migranti: non c’è spazio per la ‘ndrangheta

    Ecco, quindi, perché non c’è spazio per la ‘ndrangheta. Non appena tocca il territorio, il mercato del traffico di migranti chiude le porte. All’arrivo può poi attivarsi un altro tipo di mercato: alcune organizzazioni di trafficanti continueranno ad offrire – tramite cellule italiane – ulteriori servizi fintanto che i migranti possano raggiungere i luoghi di destinazione. Ma i soldi – tanti – rimangono all’estero, la logistica è gestita dall’estero; i contatti tra cellule straniere ed eventuali cellule italiane dell’organizzazione è pure gestita dall’estero; e i traffici via mare, si sa, non si controllano soprattutto quando la destinazione è incerta.

    Non c’è spazio per i clan mafiosi del territorio perché questo mercato non riguarda il territorio. Non c’è spazio per le ‘ndrine nemmeno qualora volessero offrire servizi, perché non ci sono servizi da offrire avendo questi network criminali il controllo dei vari nodi a monte. E non c’è spazio nemmeno per la protezione mafiosa, quella tassa di signoria territoriale che a volte qualche clan può imporre agli stranieri che vogliono attivarsi sulla propria zona, dal momento che il luogo di sbarco non solo è imprevedibile (rimane appunto una decisione ministeriale su richiesta dell’imbarcazione), ma anche qualora fosse prevedibile, non offre margini di manovra estorsiva (non esiste cioè alcuna “protezione” possibile una volta avvenuto lo sbarco).

    Affari paralleli

    Indagini tra i distretti di Reggio e Catanzaro hanno confermato alcuni interessi mafiosi sulle cooperative impiegate nel soccorso in mare, e sulle strutture di ricezione così come anche sotto forma di caporalato di quei migranti soccorsi che rimangono sul territorio. Li, il giro di denaro e l’ingerenza sul territorio attirano i clan su mercati illeciti non direttamente legati allo sbarco e ai traffici di migranti, ma a essi collegati.

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    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando

    Ma prendiamo ad esempio operazione Ikaros, a Crotone, nel 2021 diretta dal sostituto procuratore Alessandro Rho. Anche in questo caso, che non riguarda gli sbarchi ma riguarda una manipolazione del sistema di ricezione dei richiedenti asilo, nonostante il lucro sull’immigrazione clandestina partisse da residenti nel crotonese (italiani e stranieri), la ‘ndrangheta non si trova. Anzi, il network in questione prescinde totalmente dal territorio e appare completamente smaterializzato. Si legge nell’ordinanza di custodia cautelare: «ciascuno dei sodali secondo le proprie competenze conferisce la propria opera» per partecipare a «un gruppo che per quanto operante in un ambito più vasto nel quale assume di riconoscersi« eventualmente ha una forma «a rete», senza capi e senza gerarchie.

    Il mercato dell’asilo politico

    Avvocati, pubblici ufficiali, mediatori culturali, così come di due appartenenti alla Polizia e in servizio nella Questura di Crotone (uno dei due poi assolto perché estraneo al sistema, anche se pareva conoscerlo), facevano parte di due sodalizi criminali che procuravano documenti falsi attestanti residenze fittizie e false assunzioni di soggetti per lo più di nazionalità curdo irachena. I “clienti” dall’Iraq (identificati grazie a mediatori) pagavano oltre mille euro (in media) per tale documentazione al fine di attivare una procedura di richiesta di asilo politico a Crotone e a Catanzaro. Una volta convocati dalle questure, costoro arrivavano in Italia con visto turistico e areo di linea per l’udienza, per poi ottenere il nuovo status di residenza.

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    Richiedenti asilo politico manifestano in strada

    Era facile “fingersi” rifugiati appena sbarcati, pernottare qualche giorno a Crotone, vista la presenza sul territorio di strutture come il CARA Sant’Anna che quotidianamente ospita centinaia di richiedenti asilo. Ma la scelta di Crotone è legata a ragioni che hanno a che fare più con le note carenze delle istituzioni locali che con la capacità criminale dei soggetti coinvolti. In Ikaros, l’assenza di controlli da una parte, e la presenza di una struttura fluida e reticolare dall’altra che prescindeva da qualsiasi ‘touch down’ sul territorio, ha fatto si che l’attività illegale non richiedesse quella protezione territoriale solitamente necessaria ai sodalizi criminali, e che di solito è offerta dalle mafie.

    Soldi all’estero e contatti da evitare: è il mercato, bellezza

    Anche qui poi, i soldi stanno all’estero, meglio che stiano all’estero. Si legge nell’ordinanza l’appello di uno dei sodali “in Italia Western Union no!”. Inoltre, da non dimenticare la generale riluttanza dei gruppi mafiosi nostrani a ‘collaborare’ seppur per fini illeciti con le forze dell’ordine e la comprensibile riluttanza di “professionisti della legalità” e colletti bianchi a entrare in combutta con gruppi mafiosi che normalmente portano con sé un rischio maggiore di essere indagati dalle procure antimafia (oltre che dalle procure ordinarie). In questo caso, comunque, più che nei traffici per mare, viene da chiedersi se l’assenza della ‘ndrangheta sia voluta, consapevole, o banalmente il risultato del funzionamento del mercato che, ancora una volta, è sospeso – e non ancorato – sul territorio.

    Troppi riflettori sui migranti per la ‘ndrangheta

    Il traffico di migranti e in generale i mercati illeciti a esso collegati, sfruttano il territorio ma quasi mai lo ‘scelgono’; così anche la ‘ndrangheta potrebbe avere varie ragioni per non ‘scegliere’ questo mercato o quantomeno per accettare pacificamente di esserne esclusa. L’immigrazione clandestina e la manipolazione del sistema di ricezione sono temi molto politicizzati. Ad ogni crisi attirano politici, giornalisti, magistrati e osservatori da mezzo mondo sulle coste e nei porti del Sud. Temi così caldi rischiano di esporre i mafiosi a ulteriore scrutinio, soprattutto in Calabria, dove già l’attenzione alla ‘ndrangheta è molto alta.

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    Una parte dei 300 migranti sbarcati nei mesi scorsi a Roccella in attesa sulla banchina del porto

    Lungi dall’essere una questione di onorabilità (rimane moralmente difficile giustificare le barbarie di questi traffici e mercati in nome di lucro), come qualcuno potrebbe pensare, il traffico di migranti, anche quando si proietta in Calabria, rimane centrato altrove, faccenda di altri, per altri gruppi criminali. E che tutto questo ci ricordi una lezione fondamentale. Nemmeno la ‘ndrangheta, la mafia più ricca e potente d’Italia (e non solo) sa, può o vuole entrare in alcuni mercati non di sua competenza; nemmeno la ‘ndrangheta può controllare tutti i mercati illeciti sul proprio territorio.

  • Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Lo sviluppo che non c’è: l’area di Saline Joniche, tra ‘ndrangheta e truffe dello Stato

    Soffiano ancora i venti della rivolta di Reggio Calabria, quando si parla per la prima volta del porto di Gioia Tauro, che avrebbe dovuto rappresentare l’affaccio sul mare del Quinto centro siderurgico, un sogno svanito al pari delle altre promesse contenute all’interno del cosiddetto “Pacchetto Colombo”: le Officine Grandi Riparazioni e la Liquichimica di Saline Joniche.

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    La zona del Quinto centro siderurgico durante i lavori del 1976 (foto Michele Marino)

    Oggi di quell’opera non resta che uno scheletro che costeggia la SS106, la “strada della morte”. Uno scenario in cui si sarebbe potuta girare la serie Chernobyl: quel pilone altissimo e, attorno, ruderi, capannoni e paludi.
    Saline Joniche è lo specchio dello sviluppo che non c’è in Calabria. Con la devastazione del territorio ancora lì, come monito, a distanza di decenni. E a nessuno con i tanti, tantissimi, fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è venuta in mente un’idea per provare a rilanciare quell’area in provincia di Reggio Calabria.

    La stagione dei grandi appalti

    I Moti di Reggio
    I Moti di Reggio

    Agli inizi degli anni Settanta, conclusi i giorni della rivolta, venne la stagione dei grandi appalti. Un fiume di finanziamenti pubblici inondò Reggio e provincia per la realizzazione di alcune grandi opere. Tra queste, la Liquichimica, il V Centro Siderurgico ed il raddoppio della tratta ferrata Villa S. Giovanni-Reggio Calabria. La prospettiva degli insediamenti industriali e l’esecuzione di alcuni lavori costituiranno quindi il casus belli tra il gruppo emergente della ’ndrangheta, che annoverava nuove leve che sarebbero entrate nella storia della criminalità, e la vecchia generazione che aveva la necessità di riaffermare palesemente il proprio prestigio.

    Da un lato ci sono uomini come i fratelli De Stefano, ma anche Pasquale Condello e Mico Libri; dall’altro ’Ntoni Macrì e don Mico Tripodo. Sono tutti interessati ad opere che non verranno, di fatto, mai realizzate. O che, comunque, non porteranno alcun effettivo beneficio al territorio. Ma alle cosche sì. Grazie a quelle “truffe” governative, la ’ndrangheta si arricchisce e fa il salto di qualità.

    Antonio Macrì

    La crescita della cosca Iamonte

    L’area di Saline Joniche sarà solo un enorme affare per i clan. Come spesso è accaduto in passato. Come spesso accade ancora oggi. Tra gli anni ’60 e gli anni ’70 le cosche calabresi non sono ancora egemoni nel traffico internazionale di droga. Ma proprio attraverso quei denari riusciranno a costruire il proprio futuro. La ‘ndrangheta come la conosciamo oggi è così anche grazie a quei grandi affari. Emblematica, in tal senso, l’ascesa del gruppo Iamonte, una famiglia di macellai assurta oggi al Gotha della criminalità organizzata calabrese. Anche grazie all’affare della Liquichimica e delle Officine Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato.

    Ne parla, in particolare, il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, uno dei primi e più importanti pentiti della storia della ‘ndrangheta: «[…] La cosca Iamonte è cresciuta attraverso gli appalti della Liquichimica e del porto di Saline Joniche… Ulteriore fonte di arricchimento è poi derivata dalla costruzione dell’Officina riparazione treni sita in Saline Joniche. In sostanza la famiglia Iamonte riceveva tangenti dall’impresa Costanzo di Catania, che è risultata aggiudicataria dell’appalto per la costruzione dell’officina di cui sopra. La tangente veniva pagata grazie all’intervento di Nitto Santapaola e Paolo De Stefano…»

    La droga a Saline Joniche

    Ma il canale ben presto si allarga. Proprio al traffico di droga. La merce che giungeva a Saline Joniche, suddivisa in partite, non era diretta a Iamonte, bensì all’organizzazione De Stefano-Tegano e a quelle di Nitto Santapaola, di Domenico e Rocco Papalia di Platì e dei Calabrò di San Luca. Perché far sbarcare la droga, e in alcune circostanze anche delle armi, proprio a Saline? Natale Iamonte riusciva a ottenere una copertura da parte delle forze istituzionalmente preposte al controllo del porto. Poi, a fronte della “base logistica” fornita, percepiva da tutti i destinatari della merce una percentuale. O in sostanza stupefacente, come nel caso di Nitto Santapaola, o in denaro contante.

    Nitto Santapaola

    Ancora dal racconto di Barreca: «Successivamente il clan Iamonte instaurò un binario proprio e autonomo con Nitto Santapaola in funzione del traffico di stupefacenti […]». Santapaola, quando aveva necessità di individuare coste “sicure” per i suoi traffici non esitava a utilizzare quel territorio sotto il controllo completo della cosca Iamonte. Come infatti ha dichiarato, il 27 novembre 1992, Barreca: «[…] Per quanto concerne il traffico di stupefacenti Natale Iamonte e i figli rifornivano buona parte della provincia di Reggio Calabria e di Milano. La droga arrivava via mare, con navi provenienti dal Medio Oriente che attraccavano nel porto di Saline Joniche».

    Il rapimento Di Prisco

    In questo contesto si incastra il rapimento del giovane napoletano Giuseppe Di Prisco. È il 1976, quelli sono gli anni d’oro della ’ndrangheta con i sequestri di persona. Ma quello di Di Prisco è diverso. Viene effettuato non tanto per il riscatto – che alla fine venne pagato: 180 milioni – quanto per costringere la madre del ragazzo, la baronessa Maria Piromallo Di Prisco a piegarsi. A cedere, cioè, per una cifra identica alla parte di terreno di sua proprietà su cui doveva sorgere la Officina Grandi Riparazioni delle Ferrovie dello Stato. A mettere in atto il rapimento, la cosca Iamonte di Melito Porto Salvo.

    È la stessa baronessa a raccontarlo nel processo che vede imputato e condannato Natale Iamonte. La donna conferma di essere proprietaria dei terreni in Saline Joniche, oggetto di esproprio per dar vita ai due impianti. La Di Prisco si era opposta all’esproprio connesso alla realizzazione della Liquichimica in quanto le venivano formulate offerte imprecise e generiche. Non si era mai giunti alla determinazione della cifra e aveva dato incarico di fare opposizione. La donna avrebbe ricevuto visite di personaggi che si qualificavano rappresentanti dell’Ente ferrovie. Che talvolta le offrivano somme elevate e altre le avanzavano non molto velate minacce («peggio per lei se…» o «meglio per lei se accetta»).

     

    Offerte (più o meno adeguate) e minacce (più o meno esplicite), prima di passare alle vie di fatto. Mandante del rapimento sarebbe proprio Natale Iamonte, il vecchio patriarca della famiglia. Il sequestro di Giuseppe Di Prisco, uno studente ventiduenne, avviene il 22 settembre 1976, poco dopo mezzanotte. In quel momento il ragazzo si trovava nei pressi dell’ingresso della sua proprietà insieme a un amico ad ascoltare musica in macchina.

    L’auto venne ritrovata il giorno successivo in zona pre-aspromontana. Seguirono settimane di trattative e di incontri con intermediari. La richiesta iniziale di riscatto era di due miliardi. All’improvviso i sequestratori abbassarono la richiesta e si accordarono per il pagamento di una cifra di 180 milioni. Il padre del ragazzo, l’avvocato Massimo Di Prisco, pagò l’11 dicembre 1976 lungo una strada che gli era stata indicata, quella che da Melito Porto Salvo sale a Gambarie. Successivamente, vi fu un periodo di silenzio e il ragazzo non venne rilasciato. Fino alla data del 3 gennaio del 1977, quando avvenne la liberazione.

    I motivi del sequestro

    Il collaboratore di giustizia Filippo Barreca parla di un sequestro “anomalo”. Era stato «architettato da Natale Iamonte ed è stato portato a termine dai fratelli Tripodi, i quali sono uomini di Natale Iamonte». Tutto finalizzato ad addomesticare i Di Prisco per far sì che cedessero la loro proprietà. La Liquichimica doveva sorgere ad Augusta, ma era stata spostata per volere di politici importanti in Calabria. Lo Stato aveva stanziato migliaia di miliardi e l’azienda non era destinata a funzionare.

    Natale Iamonte
    Natale Iamonte

    Stando al racconto di Barreca, l’obiettivo del sequestro era quello di conseguire «l’esproprio del terreno. In poche parole, subito dopo il sequestro, il tutto fu sbloccato, mi riferisco agli anni 1976, perché il sequestro avvenne nel 1976 e subito dopo la liberazione dell’ostaggio il tutto fu appianato e quindi iniziarono i lavori per la prosecuzione dello stabilimento della Liquichimica di Saline Joniche». L’altro importante collaboratore degli anni Novanta, Giacomo Lauro, racconta del ruolo degli Iamonte sul sequestro: «Proprio fatto apposta per usufruire di quei terreni dove poi le Ferrovie dello Stato, mi ricordo sempre la frase, “si cambia…”».

    La morte dell’ingegnere Romano

    A rendere la storia della Liquichimica ancora più oscura e inquietante è la morte dell’ingegnere Romano, allora direttore del Genio Civile di Reggio Calabria, che stilò una perizia in cui sconsigliava l’uso di quel terreno perché altamente instabile. La perizia, infatti, sparì e i lavori proseguirono. Il direttore si oppose ma poi morì in uno strano incidente stradale. La sentenza racconta di una «zona grigia fatta di politica, ’ndrangheta e massoneria».

    Dell’accaduto parla anche il collaboratore di giustizia Barreca: «Nelle more di questo fatto si era verificato un episodio: l’uccisione fu fatta passare come un banale incidente, l’uccisione del capo del genio civile Romano. In buona sostanza, il Romano aveva ostacolato con una relazione, perché si era verificato uno smottamento, la prosecuzione dei lavori per via del terreno su cui era sorta la Liquichimica. Si trattava di un tecnico di alta professionalità, che poi fu sostituito». Al posto di Romano arriva un altro tecnico che Barreca definisce «molto malleabile». L’intreccio tra poteri, evidentemente, ottiene il proprio obiettivo.

    La politica

    Quelle Officine le volevano tutti. La ‘ndrangheta e Cosa nostra – con Iamonte e Santapaola, per il tramite dell’impresa Costanzo – così come i politici della zona, socialisti soprattutto. Ma servivano anche alle Ferrovie. Anche stavolta emergono i presunti legami tra mondi che, tra di loro, non avrebbero dovuto dialogare.
    Ci vorranno anni per accendere i riflettori sulla potenza della ‘ndrangheta in Calabria. E sui legami tra la criminalità organizzata e il mondo istituzionale. Nel 1993, i parlamentari Girolamo Tripodi e Alfredo Galasso presentano in Commissione Antimafia una relazione di minoranza sulla ’ndrangheta e sul caso Calabria. Lo spunto è l’eclatante omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, il reggino democristiano, Lodovico Ligato, assassinato nell’estate del 1989.

    https://www.youtube.com/watch?v=AEMy9oT9_kQ

    Per i due esponenti politici il movente del delitto Ligato non sarebbe riconducibile a un semplice scontro tra cosche per la conquista del potere., ma a uno scontro politico per la conquista dei fondi pubblici. Un delitto oscuro che vedrà il quasi totale silenzio della Democrazia Cristiana, sebbene Ligato fosse «uno di loro», come dirà Oscar Luigi Scalfaro. Trame oscure quelle della Democrazia Cristiana in quegli anni.

    L’uomo forte in Calabria è il deputato cosentino Riccardo Misasi, anch’egli indagato per associazione mafiosa dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. Misasi, peraltro, non è l’unico politico di rango a essere indicato (venendo comunque prosciolto) per rapporti con la ’ndrangheta. Il “leone socialista” Giacomo Mancini  viene menzionato dal collaboratore Giacomo Lauro, con riferimento alla vicenda della Liquichimica di Saline Joniche e ai presunti collegamenti con la cosca di Melito Porto Salvo. Un altro collaboratore, Giuseppe Scopelliti, accosta invece il nome di Mancini al casato dei Piromalli di Gioia Tauro. Cosca, se possibile, ancor più potente della famiglia Iamonte. Tutte accuse che non troveranno alcuno sbocco giudiziario.

    Saline Joniche, l’ultima idea prima del buio

    Oggi l’area di Saline Joniche è quell’ecomostro che chiunque, da un cinquantennio a questa parte, è abituato a vedere quando percorre la SS 106 jonica. Non uno straccio di sviluppo. Né imprenditoriale, né turistico. Chilometri e chilometri di paesini a volte poco abitati, di nulla e di scempi ambientali. L’ultimo tentativo di usarla per qualcosa è di alcuni anni fa. Un colosso svizzero – la SEI Repower – si era messa in testa di costruirci una centrale a carbone. Proprio quando, già da tempo, un po’ ovunque quella fonte di energia scompare, dismessa, sostituita con qualcosa di più sostenibile, l’unica idea per la Calabria riportava indietro di decenni.

    Protesta contro il carbone a Saline Joniche
    Protesta contro il carbone a Saline Joniche

    Una campagna marketing per propugnare l’ecologia di quel progetto. Come se esistesse il “carbone pulito”. Contro quella centrale, infatti, si espresse per mesi il grosso della popolazione calabrese. In particolare quella reggina. Fu, soprattutto, uno sparuto gruppo di cittadini di quelle zone, costituitisi in un comitato spontaneo, a sfidare, anche legalmente davanti alla giustizia amministrativa, quel colosso. Una battaglia che appassionò tutti e che costrinse, alla fine, anche la Regione (che aveva parere vincolante) a schierarsi contro il progetto. Il caso più scolastico della vittoria di Davide contro Golia.

    Neanche stavolta però, con i soldi del Pnrr sul tavolo, qualcuno ha pensato di ridare decoro a quella zona e alla sua popolazione. Che immagina qualcosa di diverso per un’area che è l’emblema dei fallimenti e degli imbrogli della politica. Ma, soprattutto, del degrado calabrese e del disinteresse di cui “gode” la regione a livello nazionale.