Categoria: Inchieste

  • GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    GENTE IN ASPROMONTE | Il Sud che avanza tra la Locride e lo Stilaro

    U rigugghiu. L’argento vivo nelle vene, frutto di una rabbia da trasformare in opportunità. Mi accolgono quasi a quest’urlo i ragazzi di We are South: Giulia Montepaone, Aldo Pipicelli, Adele Murace, Guerino Nisticò, Sofia de Matteis, Raffaele Dolce, Annalisa Fiorenza, Valentina Murace, Giorgio Pascolo e Luca Napoli.
    Formano una rete che unisce gli ultimi paesi della Locride con i primi del catanzarese. Qualcosa che va oltre le cooperative o le iniziative dei singoli borghi e che cerca di fare modello e sistema.

    Che cos’è We are South

    We Are South non è solo una rete, ma un metodo di collaborazione, uno standard di qualità affiancato dall’adesione a una certa etica, l’essere partecipi e solidali.
    Resistenza. Resilienza. Coraggio. Sotto questo marchio si lavora nel rispetto delle stesse mission e vision: l’esigenza di fare comunità lavorando sui luoghi e sulle persone, il rispetto e la tutela dell’ambiente, la salvaguardia e la diffusione dei patrimoni, la cultura biologica.
    É una storia che va raccontata per due motivi: rappresenta una best practice e costituisce una cinghia di trasmissione tra le anime della Calabria.

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    La vallata dello Stilaro

    Siamo in una terra di confine, periferia della periferia, a cavallo tra Aspromonte e Serre: la valle dello Stilaro. Ma anche qui qualcosa si muove. Bivongi, Stilo, Monasterace, assieme a Guardavalle, Santa Caterina dello Ionio e Badolato sono il cuore di questo nuovo ecosistema. Lavorano insieme sotto un unico marchio per promuovere quei territori, ricucendo ferite e connettendo persone. Il loro brand nasce per facilitare le persone a riconoscere lo standard e i valori comuni, attraverso un marchio e un logo che dall’identità visiva, la forma, si proietta in sostanza.

    Lo Stilaro fa rete

    La tappa a Samo e Natile, mi aveva messo di fronte a molti interrogativi e altrettanti dubbi: il rapporto tra autentico e mitopoietico, il marketing territoriale, i legami di comunità, la resilienza e la questione femminile.
    Quando ho scoperto che nello Stilaro c’era qualcosa che rappresentava un altro passo in avanti nello sviluppo di processi di rete per la rigenerazione territoriale, sono partito per Bivongi.
    Remoto borgo di centenari che, assieme a Stilo e Pazzano, domina la vallata dello Stilaro. Bivongi è un abitato nascosto in mezzo alle ultime pendici dell’Aspromonte. Un luogo di acque termali, di cascate e di vecchie miniere. Un toponimo incerto che Rohlfs fa risalire al greco Boβὸγγες presente nel Brebion, documento greco del 1050 circa, ritrovato nella biblioteca privata dei conti Capialbi a Vibo Valentia.

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    Uno scorcio della piccola Bivongi, paese dei centenari

    Avevo preso appuntamento con Adele Murace, artigiana orafa, ambientalista, attivista, femminista e animatrice di We are South. Arrivando dalla marina e risalendo la vallata, una curva dopo l’altra, questa terra remota sembrava schiudersi con verecondia agli occhi del viaggiatore, tra il bianco abbagliante delle rocce e l’ampio greto di un fiume, un tempo navigabile, che oggi mostra le sue nudità. Era molto caldo e il verde intenso delle foreste che si arrampicavano sulla montagna circondava un borgo che sembrava appeso e sospeso tra le pendici della vallata.

    La (nuova) vita di Adele

    Al mio arrivo Adele mi ha accolto con un gran sorriso, dandomi il benvenuto. Durante i primi contatti al telefono mi aveva accennato del suo impegno a 360 gradi. E, soprattutto, di questa necessità di raccontare queste terre con uno spirito diverso, nuovo, lontano dal senso di vergogna e di inferiorità che i suoi stessi abitanti avevano fatto proprio.
    «Avevo capito che la narrazione, un nuovo storytelling poteva contribuire a cambiare la percezione negativa, il senso di arrendevolezza e la prostrazione che molti di noi hanno interiorizzato. Sul mio canale Instagram avevo realizzato la rubrica SudProud: interviste per raccontare storie di riscatto e di vittoria dei calabresi e diventare esempio per tutti noi. Avevo ragione. Dopo i primi video i miei follower locali avevano iniziato a scrivermi. Tutti dicevano la stessa cosa: grazie per gli esempi che ci hai mostrato. Se ce l’hanno fatta loro, posso farcela anche io».

    Adele è una ritornata: «Ho vissuto qualche anno al nord dove ho lavorato in fabbrica e aziende. Il senso di malessere che provavo mi ha riportato a casa dove ho costruito la vita che desidero. Oggi sono un’artigiana orafa, ho la mia azienda, mi auto-gestisco e questo mi permette di potermi anche muovere sul territorio».
    Adele, come gli altri membri di We are South, non è solo una partiva IVA che ha deciso di investire nella sua terra.

    Tartarughe, consultori e bimbi a scuola

    È una donna che combatte per salvaguardarla e promuoverla: «Sono impegnata sul territorio perché credo che sia imprescindibile. Durante la pandemia abbiamo costituito il gruppo WWF Stilaro Vibo Valentia, sollecitati da chi ci diceva che, con ogni probabilità, le Caretta Caretta venivano a nidificare anche alla nostra marina. Mancava però un monitoraggio strutturato che confermasse la teoria, poi risultata vera. Quell’anno trovammo venti nidi. Oggi, dal gruppetto sparuto che eravamo, siamo in cinquanta: tuteliamo gli ecosistemi marini, quelli montani e quelli dunari. Parte delle mie battaglie è dedicata alle donne e alla condizione femminile nella Locride. Ho promosso la riapertura del consultorio di Bivongi e continuo a lottare per la piena applicazione della legge 405. E si sa che istruzione, sanità e infrastrutture forniscono le condizioni minime per vivere nelle aree periferiche».

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    Alla ricerca delle Caretta Caretta

    Nel documento appena approvato dalla Regione per la riprogrammazione della rete sanitaria territoriale il consultorio di Bivongi entrerebbe nel cosiddetto “modello spoke” assieme a tutti gli altri 6 consultori della Locride: 36 ore settimanali lavorative garantite coperte da ostetrica, assistente sociale e oss. Non sono previsti però psicologi né ginecologi: «Avanzeremo queste proposte di modifica, cui anche Occhiuto ieri ha aperto, e chiederemo la disposizione di strumentazione di prevenzione».
    Ma la sanità non è tutto. «L’ultimo autobus che parte da Bivongi esce alle 16.30 mentre l’ultimo che entra arriva alle 21. Il prossimo anno la scuola elementare non aprirà perché ci sono solo 4 bambini. Come cittadini, non comprendiamo i limiti a una collaborazione tra paesi attigui per salvare la presenza di un servizio così importante in tutti e tre».

    We are South: tutti insieme appassionatamente

    U rigugghiu di Adele è lo stesso sentimento di cui a turno mi parlano Guerino, Annalisa, Giulia e Aldo ed è quello che ha impresso un’accelerazione definitiva ai loro progetti di vita. Perché, mi dice, «ho imparato negli anni che, se ognuno fa la sua parte, l’entusiasmo può essere contagioso. Si chiama legge dell’attrazione e il territorio sta rispondendo bene».
    Uniti sotto un unico brand che raffigura i Bronzi di Riace, stanno ricostruendo sulle macerie dell’abbandono e della sfiducia, ognuno con le proprie competenze.

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    Giulia Montepaone

    Guerino, badolatese, restato, cresciuto a pane e politica, rappresenta la memoria storica della vallata e ha una lunga militanza nei movimenti dal basso.
    Valentina, ritornata nel 2020 per affiancare il padre nella gestione dei vitigni eroici di famiglia, un passato come top manager del Marriot di Venezia, ha deciso di mettere a frutto l’esperienza maturata trasmettendo un metodo organizzativo per rafforzare percorsi di turismo etico.
    Aldo, restato, è un disegnatore e un grafico, ha creato il logo della rete e gestisce una nota pagina social con cui divulga proverbi calabresi. Giulia, botanica, è impegnata nella difesa dei sistemi dunari e botanici.
    Annalisa, albergatrice e ristoratrice, ha resistito alle minacce del racket. «Il pilastro di legalità che non ha mai mollato e che continua a rimettersi in gioco», sottolinea Adele. «Andiamo da Guerino», mi esorta.

    Piccolo è bello, ma serve una strategia

    Dalla montagna, scendiamo al mare dove lui ci aspetta. «Oggi questo isolamento, questa marginalità, può diventare punto di forza. Ma, attenzione, pensare di ripopolare un paese interno per come era è una mera masturbazione intellettuale. Invece con diverse attività, strategie, progetti i borghi possono essere resi vivibili sia per chi ancora ci risiede, sia per chi potrebbe venirci. Servono però piani strategici nazionali e internazionali. Quelli tanto sbandierati durante il periodo pandemico. Tutto fumo e niente arrosto.

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    Guerino Nisticò

    Guerino è un fiume in piena: «L’Italia è tutta una questione meridionale. Anzi è la questione meridionale di una nuova questione europea. Noi siamo il sud del sud dell’Europa. Sotto la presidenza Oliverio fu presentato il progetto Crossing per la ripopolazione dei borghi: 136 milioni di euro per un fallimento totale. Ora ci si riempie la bocca di PNRR. Sulla misura A (420 milioni da ripartire tra Regioni e Province Autonome, ndr) il comune di Gerace ha ottenuto un finanziamento di 20 milioni di euro. Per la misura B (580 milioni su base nazionale da dividere tra 229 borghi, ndr) sono stati stanziati 11 milioni di euro da suddividere per 133 progetti. Ma di che cosa stiamo parlando?!?».

    Aree interne e finanziamenti

    Secondo le linee guida del Governo, Gerace sarebbe stato scelto come borgo “pilota” a rischio abbandono. Una sorta di laboratorio in cui sperimentare per ricalibrare o riapplicare. La questione delle aree interne rappresenta in effetti un vero vaso di Pandora. Fabrizio Barca, da ministro, aveva intuito l’importanza del tema e aveva elaborato la Strategia Nazionale per le Aree Interne, poi resa strutturale dal collega Provenzano. La nuova programmazione 2021-2027 inserisce nella strategia 56 nuove aree che si vanno ad aggiungere alle 67 del settennato precedente: 1904 Comuni e una popolazione di più di 4 milioni e mezzo di persone. A questo si aggiunguno i 15 milioni per il 2023 previsti dalla cosiddetta “legge salva borghi.

    Per le aree interne, la Calabria vanta un ampliamento: a quelle già presenti, tra cui la Jonio–Serre riconfermata nella nuova programmazione, se ne sono aggiunte altre. Tra queste quella del Versante Tirrenico Aspromonte. La Regione, tramite il Dipartimento Programmazione, stabilisce criteri e linee guida degli interventi assegnando la competenza sui bandi ai diversi settori di pertinenza: turismo, mobilità, ecc. Un tema che va inserito in una più generale analisi della capacità di spesa dei fondi europei, per cui la Calabria non ha mai brillato.

    L’Ue non basta

    Il documento presentato dall’ISTAT Vent’anni di mancata convergenza sulle politiche di coesione per il Sud fotografa un peggioramento generalizzato del sistema-Italia con picchi negativi al Sud e in Calabria. Un dato che, affiancato alle recenti tendenze demografiche, «fa presupporre che invecchiamento e spopolamento possano in futuro contribuire ad ampliare i divari in termini di reddito con il resto d’Europa». Secondo la Commissaria UE alle Politiche Regionali Ferreira «da sola la politica di coesione non può guidare lo sviluppo di un’intera regione o di un paese». Traduzione: servono investimenti pubblici nazionali.
    Bisogna migliorare «la capacità dei beneficiari e degli enti intermedi di pianificare gli investimenti, costruire linee progettuali e svolgere procedure di gara» In proposito, «nel quadro finanziario 2021-2027 vengono stanziati 1,2 miliardi di euro per lo sviluppo delle capacità amministrative e l’assistenza tecnica che si concentra interamente sui beneficiari e sugli organismi di attuazione nel Sud».

    La cittadella regionale di Germaneto

    Dopo un’analisi di contesto la Regione Calabria ha deciso di investire per lo più sui progetti per l’invecchiamento attivo. Alcune fonti mi hanno confermato che i progetti di aging e telemedicina, su cui investe SNAI Calabria, sono risultati vincenti. La logica rispecchia la conformazione della popolazione delle aree interne, per lo più anziana, su cui si è deciso di investire (1.200 milioni su fondi PNRR) attivando progetti di assistenza capaci di incentivare un’economia basata sull’alleanza tra giovani e anziani.

    Il sistema Badolato

    Si tratta di uno dei modelli possibili. Guerino mi dice che a Badolato da anni esiste un sistema rodato: case a 1 euro e accoglienza degli stranieri. Il borgo è rinato grazie al turismo residenziale a alla comparsa di nuovi nuclei familiari. È stata scongiurata la chiusura della scuola. «We are South lavora in questa direzione. Questo gruppo che abbiamo creato, si innesta su percorsi attivi da tempo. Il nostro innato senso di accoglienza e ospitalità facilita e aiuta certi percorsi di incoming. Siamo esperti in turismo relazionale e puntiamo all’internazionalizzazione di questi territori. Il confronto con l’altro può aiutare questi luoghi a evolvere il proprio modo di pensare e di pensarsi. Ci sono storie simili alla nostra in tutta la Calabria: un processo che si è velocizzato negli ultimi 5 anni».

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    Badolato, uno dei paesi nella rete We are South

    Salutato Guerino ci spostiamo da Annalisa, la prima a immaginare un filo che unisse tutti i paesi di questo progetto assieme ad Adele: «Siamo partite con i mercatini di Natale e poi tutto è venuto da sé». Annalisa è albergatrice e ristoratrice e membro del consorzio GOEL. 67 ettari all’interno del parco archeologico dell’antica Kaulon affacciati sul promontorio di Punta Stilo a un passo da dove, nel 2012, Francesco Scuteri, “l’archeologo scalzo”, Direttore del Museo di Arte contemporanea di Bivongi, ha ritrovato il mosaico del drago, delfino e ippocampo, uno dei più grandi e importanti dell’età greca.

    «Collaboravamo già per la vendita degli agrumi, ma ho aderito al consorzio nel 2013 dopo il secondo attentato incendiario del 2012 che ha distrutto il tetto e il primo piano del nostro agriturismo». Sospesi a picco sul mare in questo luogo ucciso e rinato sette volte, mi pare di avere davanti lo spirito di un’araba fenice magnogreca. Annalisa non si è mai arresa.

    Bio, attentati e solidarietà

    «Produciamo tutto quello che vendiamo, anche il pane e la pasta realizzati con farine calabresi. Faccio il bio dal 2013. Dei sette attentati subiti, due sono stati devastanti: nel 2015 è stato dato a fuoco il capannone con tutta l’attrezzatura, trattore compreso. GOEL ci ha aiutato facendo letteralmente da scudo. Stare all’interno di una cooperativa ti scherma. Non sei più solo. Sono stati loro a spingerci a raccontare la nostra storia. Abbiamo poi creato fondo, anche con piccole donazioni, che consentisse alle vittime del racket di ripartire, perché la difficoltà maggiore delle vittime è ricominciare. Finché non terminano le indagini l’assicurazione non risarcisce. Siamo arrivati a 70.000 euro».

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    Annalisa Fiorenza

    Il rogo risaliva al 31 ottobre di quell’anno e abbiamo deciso che a dicembre avremmo inaugurato il nuovo trattore acquistato con la Festa della Ripartenza. Ci sono stati anche due ministri. Questa reazione cosi forte ha evidentemente spiazzato. Non c’è stato più alcun attentato. Quello che mi ha lasciato l’amaro in bocca è che a sostenerci sono venuti da fuori, perché sul territorio si ha paura. Abbiamo comunicato che è possibile trasformare il dolore in una storia vincente. Ed è l’esempio che cerchiamo di veicolare anche con We are South».

    We are South: l’unione fa la forza

    Ospitalità, tutela, valorizzazione e promozione dei territori, riconversione della rabbia in opportunità rappresentano ormai i topoi che, tappa dopo tappa, ricorrono. Ma, in questo caso, We are South sviluppa quanto fatto sia a Natile, sia a Samo. I ragazzi hanno capito che l’unione fa la forza, che occorre mettere in rete i borghi e che, per ottenere risultati, è imprescindibile coinvolgere le comunità. Solo attraverso questo passaggio le reti si rafforzano, le economie nascono e si trasformano in ecosistemi di crescita. Ed è solo così che una qualsiasi forma di brand diventa autentica e incarna quello che Guerino chiama lo spirito del luogo.

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    Un altro scorcio di Bivongi

    «Qualche tempo fa, a Bivongi, fu avviato il progetto albergo della longevità: furono realizzati 40 posti letto, un ristorante e un’enoteca con standard da 4 stelle. La comunità non era pronta, le infrastrutture e l’apparato politico nemmeno. Ad oggi rimane davvero poco di quel sogno. Noi possiamo fare il nostro, come stiamo dimostrando. Ma c’è bisogno di coraggio politico».
    È lo stesso messaggio che mi ha indirizzato Monsignor Bregantini: le persone, le reti, le imprese, le comunità, il terzo settore possono fare molto. Ma serve una regia politica chiara, coraggiosa, visionaria. Quella che ad oggi in Calabria e in Italia continua a latitare.

  • Camigliatello, il mistero degli alberi numerati

    Camigliatello, il mistero degli alberi numerati

    Sul piazzale dell’ingresso agli impianti di risalita di Camigliatello –  fermi,  tra l’altro, per il consueto e irrisolto problema del collaudo dei cavi – ci sono numerosi alberi alti anche oltre venti metri. Su molti di essi qualcuno ha tracciato un numero con della vernice rossa. Generalmente questa procedura prelude a un solo destino: qualcuno abbatterà quegli alberi. Solo che nessuno, tra le autorità presumibilmente competenti (Ente Parco, Regione e Comune) è stato in grado di spiegare quale sarà il destino di ben 39 pini silani.

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    Il corso principale di Camigliatello Silano

    Il sindaco di Spezzano, nel cui territorio ricade l’area interessata, in una frettolosa telefonata ha rapidamente scaricato la responsabilità sulla Regione.
    Più disponibile a fornire spiegazioni, tuttavia insufficienti, è stato il direttore dell’Ente Parco, Ilario Treccosti. Al telefono ha chiarito che non può «essere informato su tutto», ipotizzando anche che gli alberi numerati siano quelli non destinati all’abbattimento. I sopravvissuti, in pratica. Poi ci ha invitati a scrivere una mail al Parco.
    E qui è partita la battaglia delle Pec.

    Gli alberi di Camigliatello e la battaglia delle Pec

    Una prima mail certificata l’abbiamo inviata al Parco il 21 giugno, restando senza risposta. Una seconda invece, anch’essa del 21, ha avuto come destinatario il settore “Parchi e Aree naturali protette” della Regione Calabria, da cui non abbiamo avuto repliche.
    Il dipartimento “Territorio e Tutela dell’ambiente”, sempre della Regione, il 29 ci ha risposto a sua volta affermando che «In riferimento alla Pec in oggetto si fa presente che la richiesta pervenuta non è di competenza dello scrivente settore».

    La cittadella regionale di Germaneto

    Dalla Pec del settore “Agricoltura e forestazione”, invece, ci spiegano che la nostra richiesta di informazioni «si trasmette per competenza e per opportuna conoscenza». Destinatario della trasmissione è il dipartimento “Territorio e Tutela dell’ambiente”. Lo stesso, cioè, che aveva negato ogni competenza quando lo abbiamo contattato. Visto, invece, che l’Agricoltura non ha coinvolto il dipartimento “Politiche della montagna, Foreste, forestazione e Difesa del suolo” abbiamo evitato di distogliere anche gli uffici in questione dal loro duro lavoro con una email.

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    Gianluca Gallo, assessore regionale all’Agricoltura

    Una Pec, per non farci mancare nulla, l’abbiamo mandata pure all’assessore Gallo. Certo, non apre lui stesso la posta, ma qualche suo assistente l’avrà pure trovata e letta, senza però degnarsi di fornire alcuna spiegazione. In questa specie di matrioska di competenze e ruoli, abbiamo mandato Pec pure a Calabria Verde. Anche lì la posta certificata deve risultare un seccante impiccio.

    Chi martella taglia

    Ma il bello viene adesso. Perché se numerare gli alberi vuol dire probabilmente segnare quelli da tagliare – o da salvare, secondo l’ipotesi di Treccosti – quanto si vede a Camigliatello è piuttosto bizzarro.
    Il modo corretto per realizzare il taglio di alberi in area boschiva è quello di procedere alla “martellatura”. È una pratica che impone l’apposizione di un sigillo col simbolo dell’Ente che ha scelto quanti e quali alberi abbattere, tramite appunto la martellatura da fare alla base del tronco dell’albero. Tutto questo al fine di conoscere sempre chi lo ha tagliato. Senza tale sigillo “martellato” adeguatamente dove tutti possano trovarlo, il taglio potrebbe essere opera di chiunque.

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    Uno degli alberi senza martellatura a Camigliatello

    Attorno a questi alberi numerati a Camigliatello fioriscono le ipotesi. Qualcuno parla di salvaguardia delle macchine poste sotto gli alberi, sulle quali d’inverno potrebbero cadere ammassi di neve. Altri sostengono si tratti di un semplice allargamento del parcheggio stesso. Non manca nemmeno chi con un’alzata di spalle assicura che ogni tanto qualcuno traccia numeri sui tronchi, ma poi nessuno li taglia davvero.
    Se però questa volta dovesse accadere, non sapremo mai chi l’ha deciso.

  • Galera ingiusta: continua il record calabrese

    Galera ingiusta: continua il record calabrese

    Ingiuste detenzioni e relativi indennizzi: arriva l’ennesimo record della Calabria.
    Ecco i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati allo scorso maggio: su circa 27 milioni di euro erogati da tutte le corti d’Appello italiane nel 2022, 11,5 milioni provengono dai distretti di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma Reggio resta imbattibile, coi suoi 10milioni e mezzo e rotti.
    Questi numeri raccontano un’ulteriore realtà giudiziaria problematica della regione. Negli ultimi 4 anni, secondo il dossier, la Calabria ha sempre avuto il podio per i risarcimenti delle ingiuste detenzioni. E questo nonostante criteri di accesso più restrittivi.
    A dirla tutta, di questo problema I Calabresi si sono accorti quasi due anni fa. Con relativo corredo di polemiche e repliche, anche altolocate.

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    Detenuti

    Ingiuste detenzioni: i motivi del record in Calabria

    Infatti, non basta più una sentenza di assoluzione definitiva in un procedimento giudiziario all’interno del quale si è subito un periodo di detenzione (in carcere o domiciliare). Oltre l’assoluzione, occorre dimostrare che l’arresto non era necessario e che con il proprio comportamento non si è motivato alcun provvedimento cautelare definitivo.
    Diverso è il discorso degli errori giudiziari veri e propri, che seguono un altro iter. L’ingiusta detenzione non può portare a più di 516mila euro di indennizzo a differenza dell’errore giudiziario che invece non ha limiti massimi.
    Detto altrimenti: l’ingiusta detenzione risarcisce le persone che dopo aver subito una privazione della libertà in fase cautelare, sono state prosciolte o assolte nel merito o arrestate senza requisiti.

    Errori giudiziari

    Invece, l’errore giudiziario riguarda il merito: ad esempio, può riguardare una persona condannata in via definitiva e incarcerata per un tot periodo ma che, a seguito di processo di revisione della Cassazione, è assolta da ogni accusa.
    In entrambi i casi, la corte d’Appello stabilisce l’entità del risarcimento. Tuttavia, nel caso dell’errore giudiziario si istruisce un vero e proprio procedimento di risarcimento danni della persona contro lo Stato.

    La Corte d’Appello di Catanzaro

    Ingiuste detenzioni: i numeri in Calabria e non solo

    Il report sottolinea come in generale i casi negli ultimi 5 anni siano rimasti più o meno stabili ma solo nei numeri generali. «La serie storica dei valori totali del numero dei procedimenti sopravvenuti negli anni 2018-2022 mostra una sostanziale stabilità, ad eccezione forse dell’anno 2021 per il quale si registra il valore più contenuto. I distretti più significativi quanto ad entità numerica sono quelli di Napoli, Reggio Calabria, Catanzaro e Roma. I distretti maggiormente significativi quanto ad entità di importi sono invece: Bari limitatamente ai primi tre anni, Catania, Catanzaro, Napoli, Palermo, Reggio Calabria e Roma. Il maggiore fra tutti quanto ad entità è quello di Reggio Calabria, con un importo medio annuo di oltre 7 milioni di euro dal 2018 al 2022».

    Ingiuste detenzioni in Calabria: Reggio batte tutti

    Ma la Corte d’Appello di Reggio Calabria nel solo 2022 ha erogato 10.312.205 euro e Catanzaro 871.942 euro. In tutto, 11.184.187 euro su un totale in Italia di 27 milioni di euro, quasi la metà. Il distretto di Reggio ha un doppio record: l’erogazione delle somme maggiori nel Paese e la media più alta per singolo indennizzo (114.580 euro, più del doppio della media nazionale, 50mila euro). Il distretto di Palermo, secondo in classifica, ha erogato 3milioni e mezzo di euro. Per quanto riguarda la media degli indennizzi per ingiuste detenzioni solo il distretto di Sassari supera i 100mila euro insieme a Reggio Calabria (114mila), tutti gli altri distretti italiani sono molto al di sotto.

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    Detenuti nel carcere di Reggio Calabria

    Conclusioni

    Si legge ancora dossier: «Le percentuali delle ordinanze di accoglimento (definitive e non) e dei rigetti si equivalgono approssimativamente, mentre molto residuali risultano le definizioni per inammissibilità».
    Inoltre, «per ciò che riguarda le ragioni poste alle base degli accoglimenti definitivi classificate secondo il dettato normativo si è visto che esse derivano, con riferimento all’anno 2022, nella maggior parte dei casi (76,8%) da sentenze di proscioglimento irrevocabile e, nei restanti casi (23,2%), da illegittimità dell’ordinanza cautelare» Per l’entità delle riparazioni, dai dati forniti del Mef risulta che: l’importo complessivamente versato a titolo di riparazione per ingiusta detenzione nell’anno 2022 risulta pari 27.378.085 di euro ed è riferito a 539 ordinanze con le quali le Corti di Appello hanno disposto il pagamento delle somme; tale importo è di entità simile a quello versato nell’anno 2021 ( 24.506.190 di euro) ed entrambi risultano comunque di entità significativamente inferiore rispetto agli importi versati nel triennio precedente (2018-2020), con una media annua pari a circa 38.000.000 di euro.
    I numeri complessivi risultano in calo ovunque, tranne che a Reggio, dove si è passati da circa 6 milioni nel 2021 a oltre 10 milioni nel 2022, a differenza di Catanzaro dove da 2 mln di euro si è scesi a circa 800mila euro.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    GENTE IN ASPROMONTE | Quarant’anni di guerra ai bracconieri

    «Ancora, a distanza di anni, non capisco come si potesse sparare dalle terrazze e dai balconi della città migliaia di colpi contro i falchi pecchiaioli e di come non venisse attivato un servizio di garanzia dell’ordine pubblico. Questura e Prefettura dov’erano?».
    Quegli spari stridevano con ciò che Nino Morabito, dirigente di Legambiente e ambientalista reggino di lungo corso chiama «il silenzio che regnava sovrano». Nino ha tanto contribuito ad abbattere del 99% il fenomeno della caccia illegale dei cosiddetti adorni durante la migrazione riproduttiva.

    È uno dei partecipanti all’uscita verso Pietra Cappa, che racconterò nella prossima puntata, ed è un ex consigliere dell’Ente Parco nazionale dell’Aspromonte. Non ha mezzi termini sulle condizioni della media valle e della montagna: «Vedo, a dispetto degli obblighi di legge, intere aree prive dei controlli minimi, in piena zona A (tutela integrale, ndr.). Cose che, con le opportune scelte del caso, l’accesso culturale, col supporto delle guide, sarebbe sacrosanta. Ancor oggi comanda lo scempio del pascolo abbandonato, delle stalle abusive e delle attività illegali che dovrebbe essere punito e represso».

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    Cacciatori (regolari) all’opera in Aspromonte

    Rapaci migratori: dallo Stretto all’Aspromonte

    La storia di oggi riguarda lui e il movimento creato a tutela dei rapaci che ogni anno, a primavera, passano dallo Stretto di Messina sorvolando l’Aspromonte per dirigersi a nord fino in Scandinavia e a est, in Europa centro-orientale, sulla rotta del Conero e delle Prealpi orientali. Questa storia ha radici antiche ed è figlia degli anni Ottanta, quando Reggio somigliava più a Beirut che a una qualsiasi città italiana.
    Sono gli anni della guerra di mafia, della passeggiata del Lungomare Falcomatà ancora inesistente, dei soldi facili, dell’eccesso. A Reggio in primavera si spara. Anche in piena città. Dalle terrazze e dai balconi.

    Migliaia di rapaci transitano per la riproduzione da sud a nord con picchi di passaggio di migliaia di esemplari selvatici tra il 20 aprile e il 20 maggio di ogni anno. La migrazione è da sempre un momento critico nella loro vita: c’è un alto rischio di morte che per alcune specie supera anche il 50% della loro popolazione.
    Siamo negli anni Ottanta e «sul solo versante calabrese ci sono dalle 13mila alle 15mila persone che sparano».

    Lo stretto di Messina, insieme al Canale di Sicilia, al Bosforo e allo Stretto di Gibilterra, è uno dei crocevia nella migrazione dei rapaci sull’asse Nord-Sud/Sud-Nord.
    Questo perché «per oltrepassare il Mediterraneo senza disperdere troppe energie necessarie per il lungo viaggio, i rapaci – che oltretutto non sono uccelli acquatici e non possiedono il piumaggio reso impermeabile da secrezioni di apposite ghiandole – devono attraversare il mare utilizzando i corridoi più stretti per sfruttare le correnti ascensionali favorite dalla presenza non della superficie omogenea dell’acqua, ma dalla diversità della terra sottostante», racconta Nino.

    «Il fenomeno è facilmente osservabile nel «territorio che va da Pellaro a Palmi a seconda delle condizioni meteo. A meno che non subentrino venti intensi sul canale di Sicilia dai quadranti di Sud e Sud-Est particolarmente proibitivi per attraversare 150-200 km di mare per i rapaci. Questo li costringe ad attendere anche diversi giorni consecutivi nel versante tunisino e libico senza lasciare la costa, in attesa del momento giusto per partire», chiarisce Nino.

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    Nino Morabito

    Reggio città occupata

    Negli anni Ottanta Reggio è un territorio in emergenza e lo resterà per buona parte dei Novanta. Faide e attentati spingono lo Stato a mandare contingenti di bersaglieri a presidiare una città che appare fuori controllo.
    La caccia illegale all’adorno è un fenomeno più che diffuso. «Era una consuetudine delle vecchie generazioni legata alla tradizione delle cacce primaverili rese illegali dopo il 1977, dato che era biologicamente errato cacciare la fauna selvatica che si spostava per riprodursi. C’era poi una componente simbolica legata a forme di goliardia e competizione così come di iniziazione maschile, che sconfinava fino a veri e propri atti di dominio sul territorio. Non è un caso che una buona percentuale dei fermati negli anni, sparasse con un’arma con la matricola abrasa».

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    Rapaci in Aspromonte (foto di Peter Horne)

    «Tutto questo non doveva per forza significare che i soggetti in questione fossero propriamente malavitosi, ma che si aggirassero in certi coni d’ombra di confine, questo sì. Più in generale mi sono accorto che vigeva una sorta di impercettibilità di una pratica che, pur illegale, veniva considerata come qualcosa a cui proprio non si poteva rinunciare. Mentre le forze dell’ordine restavano immobili», aggiunge Nino.

    Inizia la battaglia per i rapaci

    Quella che sarebbe diventata la battaglia di Nino inizia in Sicilia nel 1984 con le denunce dell’appena quindicenne Anna Giordano, determinata figlia dell’allora direttore del Cnr di Messina. Parliamo di una giovane appartenente a una famiglia di cultura elevata che ha sostenuto le sue scelte.
    Anna, assieme a un’altra ragazzina poco più piccola, Deborah Ricciardi, denuncia lo sterminio di rapaci e comincia a lottare. Il 1984 è l’anno in cui si svolge il primo campo di attivisti per il monitoraggio e la tutela della migrazione dei rapaci, dove è presente anche la Lipu cui Anna, assieme ad altri attivisti siciliani, ha aderito. Contemporaneamente sul versante calabrese, si formano i primi gruppi con le stesse procedure: adesione alla Lipu e organizzazione dei primi presidi che sfociano nel primo campo calabrese. Siamo nel 1985.

    Attivisti in azione contro i bracconieri

    La caccia illegale di rapaci in Aspromonte

    La caccia illegale di rapaci è un fenomeno complesso fatto di dimensioni diverse e intersecate che permeano le comunità: sociale, economica, culturale. Nino mi racconta che «durante la migrazione di ritorno, tra agosto e settembre, i rapaci tengono quota e possono essere scorti solo dall’Aspromonte. Invece in primavera, all’andata, gli uccelli perdono quota nell’attraversare lo Stretto».

    «I rapaci passano a migliaia e puoi vederli vicinissimi, anche a sei o sette metri di distanza, specialmente da Archi, Gallico, Catona e Campo Calabro. Sono facili prede. In passato, tra retaggi culturali, simbologie, goliardia, il fenomeno, almeno all’inizio, generava un’economia di scala. Le migliaia di tiratori affittavano postazioni di tiro, compravano colazioni, avevano disposizione rudimentali laboratori di tassidermia abusiva, spesso nel retro delle stesse armerie che vendevano loro fucili e cartucce». «Inoltre si era sviluppata un’economia indiretta di accompagnamento perché molti dei borghi e delle frazioni in cui si svolgeva la caccia allestivano veri e propri eventi finali con tanto di teatrini e feste di paese dove si celebrava il migliore e si dileggiava il peggior cacciatore», prosegue Nino.

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    Un volontario inglese antibracconaggio

    I feroci bracconieri degli anni Ottanta

    Negli anni Ottanta «la tensione era altissima: insulti e aggressioni verbali e fisiche erano all’ordine del giorno. Battevamo a macchina i comunicati stampa e li inviavamo via fax. Il Corpo forestale dello Stato raccoglieva personale da diverse parti d’Italia e lo convogliava in Calabria. La resistenza sociale era diffusa e si respirava un clima di guerriglia. Anche noi, come altri attivisti, ci siamo ritrovati le automobili distrutte a bastonate».
    L’impegno di Nino inizia durante la sua formazione universitaria a Parma, ateneo allora noto per nomi di altissimo profilo legati all’etologia: Danilo Mainardi, più conosciuto come divulgatore di Quark, ma anche Sandro Lovari per gli ungulati, Sergio Frugis per l’ornitologia, Gandolfi per l’ittiologia.

    «Coinvolsi alcuni colleghi a venire a darci una mano e, tra chi aderì, ci fu il figlio di un senatore democristiano che avrebbe poi dovuto proseguire la propria ricerca naturalistica in Africa. Durante un’uscita del nostro gruppo sopra l’acquedotto di Gallico, un gruppo di sei o sette bracconieri, raggiunti i volontari, distrusse la loro auto a colpi di pietre e bastone. Ogni giorno gli elicotteri scortavano le pattuglie che smontavano e dovevano fare rientro al quartier generale della Forestale allestito a Gambarie. Fino al 1995 le forze dell’ordine avevano l’ordine di presentarsi in assetto antisommossa: casco, giubbotto antiproiettile, mitraglietta. Quell’episodio ha cambiato la percezione del problema e del rischio», spiega il dirigente di Legambiente.

    Stormo di uccelli migratori

    L’attentato di Gambarie contro la Forestale

    Nino si riferisce all’attentato a colpi di lupara diretto contro la camionetta dei forestali, nel quale uno degli agenti, colpito alla gola, ha perso l’uso delle corde vocali e ha rischiato la vita.
    «Prima dell’88 eravamo assediati. Facevamo osservazione e monitoraggio in zona Santa Trada con decine e decine di persone che ci insultavano, mentre annotavamo numeri e passaggi: “Scrivilu, curnutu! 10 falchi… scrivattillu, sifiliticu!”. Noi eravamo lì a preservare il territorio e i bracconieri, che ci consideravano un corpo estraneo, ci sfidavano, ci osservavano, come facevamo noi, e studiavano le nostre mosse. Dopo aver pernottato in una struttura a Catona ed esserci ritrovate le auto distrutte abbiamo cambiato strategia: le macchine le affittavamo e ci spostammo a dormire a Lazzaro. Io facevo questa vita un mese e mezzo all’anno. Senza il nostro pungolo non ci sarebbe stata la reazione del territorio e delle Istituzioni».

    Mi racconta la sua versione Stefania Davani, attivista romana che incontro un pomeriggio di metà maggio trascorso sulla media valle del Reggino per assistere al passaggio dei migratori.
    «Ricordo benissimo quel periodo. La tensione, la paura, gli assalti». Erano gli anni del monitoraggio strutturato, dei gruppi vasti divisi in diverse postazioni di osservazione da nord a sud dello Stretto. «Durante uno di questi scontri con i cacciatori un gruppo di attivisti stranieri inseguiti fino in spiaggia, fu costretto sotto una sassaiola a gettarsi in mare con i vestiti addosso e uno di loro rischiò di annegare», spiega Stefania.

    Una migrazione sullo Stretto

    Gli stranieri contro i cacciatori

    Gli stranieri sono l’altra parte di questa storia. Stefania è sposata con uno di loro, l’inglese Peter Horne, che viene da anni in Calabria per monitorare i rapaci.
    «Mi occupavo già di tutela dell’avifauna in Gran Bretagna. Con mia moglie abbiamo questa comune passione. I primi anni qui sono stati terribili, Oggi, rispetto all’inizio, gli attacchi a Reggio e in Sicilia sono molto diminuiti. Questo è frutto di un lavoro congiunto fatto da attivisti e Carabinieri forestali. I rapaci non sono dei calabresi, dei siciliani, dei tedeschi o degli inglesi. Sono un patrimonio comune, europeo e mondiale, da difendere tutti insieme. Anche loro rappresentano il nostro futuro».

    Gli attivisti stranieri sono il grimaldello che Nino ha usato per piegare il bracconaggio: «Avevamo contattato organizzazioni amiche e gruppi di attivisti stranieri sensibili al tema. Li abbiamo di quanto stavamo facendo e gli abbiamo chiesto aiuto. Loro avevano aderito e le strutture competenti dei loro Paesi di provenienza avevano comunicato alle rispettive ambasciate che cittadini inglesi, tedeschi, svedesi, ecc. si stavano recando a Reggio Calabria per fare attivismo. Le stesse ambasciate avvisavano le autorità italiane che i loro cittadini potevano trovarsi in situazioni di rischio. Lo Stato fu chiamato a intervenire. Fu questa strategia l’arma bianca che ci fece ottenere una vittoria impensabile».

    Gli anni Novanta

    Le aggressioni fisiche sono proseguite anche negli anni Novanta.
    «C’erano ancora zone impraticabili e rischiose, tipo Rosalì o Calanna. Eppure, qualcosa cambiava. Lo Stato si muoveva, c’erano maggiore sensibilizzazione e consapevolezza, i rapaci erano protetti dal 1972, l’Unione Europea era intervenuta nel 1979 con la Direttiva Uccelli e l’Italia aveva promulgato la relativa ultima legge confermativa 157/1992».
    «Il dibattito pubblico nazionale e internazionale su questi temi si era imposto, il contrasto tramite fermi di polizia e sanzioni era serrato. Il risultato fu che, dopo i primi anni ’90, la partecipazione alle cacce diminuì. Molti che sparavano senza capire bene i rischi di varia natura (ordine pubblico, minaccia alla biodiversità, illegalità, sanzioni) si erano improvvisamente svegliati dal loro torpore e avevano preso coscienza».

    A colpi di arresti e di interrogazioni parlamentari la situazione si è normalizzata: «La normativa europea ci ha molto aiutato. I maggiori controlli e pressione, il monitoraggio e il lavoro degli attivisti hanno permesso grandi risultati. E, una volta diminuiti i tiratori, abbiamo cominciato a muoverci più agevolmente. In pochi anni il 50% dei bracconieri ha smesso di sparare».

    Tra gli episodi assurdi che Nino ricorda due in particolare rendono la consistenza del fenomeno. Innanzitutto, i mandati di consigliere comunale e regionale svolti dall’avvocato Francesco Tavilla dal ’95 al 2000 «con il solo proclama “viva la caccia agli adorni”», già ampiamente vietata. Poi l’interrogazione parlamentare «a seguito del decesso per infarto di un tiratore su una terrazza di Reggio Calabria, provocato – a dire degli onorevoli – dallo spavento per il sorvolo di un elicottero della Forestale».

    Attivisti di Legambiente

    La situazione oggi

    «Oggi rimangono un centinaio di irriducibili, comprese le aree interne (Solano, Villa Mesa, Calanna). Il fenomeno è stato abbattuto del 99%».
    I risultati sono eloquenti: «Il falco pecchiaiolo è ricresciuto in maniera significativa; sono tornate le cicogne, che erano quasi scomparse e hanno ricominciato a nidificare. Lo stesso dicasi per i falchi di palude, i grillai, le albanelle minori, il cuculo, il lodolaio», mi racconta Nino.

    La guerra però non è vinta: «Il bracconaggio è abbattuto ma cova sottotraccia. Bisogna tenere alto il controllo. Dato che il fenomeno è contratto, siamo organizzati in modo diverso: operiamo in modo dinamico e con azioni veloci. Raccogliamo indizi in diverse aree per fornire il quadro più completo possibile alle forze dell’ordine».
    Gli episodi ci sono ancora: «Quello beccato l’anno scorso era uscito dalla galera da sei mesi dove era finito per associazione mafiosa». La battaglia è importante perché colpisce i simboli, «toglie finestre di espressione con cui si può pretendere e presupporre che l’illegalità vinca. Non ha più un valore economico, ma sociale. È come le vacche sacre: un simbolo potente da debellare», chiarisce Nino.

    Uccelli migratori nel tramonto

    Una battaglia di civiltà tra ambiente, legalità e turismo

    Un valore sociale che fiorisce nelle mani delle nuove generazioni. Secondo Peter «c’è un fattore culturale legato all’avvicendarsi delle nuove generazioni: loro hanno ben chiaro che il mondo ha risorse limitate e che quello che abbiamo va salvaguardato». Ancor di più oggi, davanti agli stravolgimenti climatici, alle alluvioni e alle siccità ampiamente documentate.
    Il birdwatching e il monitoraggio dell’avifauna sono un presidio di legalità ed educazione per un intero territorio. Già: dimostrare che lo Stato pone un argine ai fenomeni illegali è un segnale importantissimo per territori come il nostro. Rappresenta la speranza di una comunità che non deve arrendersi. Un comparto su cui costruire nuovi percorsi turistici dedicati a un spettacolo visibile in pochissime aree al mondo, in cui lo Stretto e l’Aspromonte dominano.

  • Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Giacomo “Big Jim” Colosimo: il re lenone

    Si chiamava Colosimo, Giacomo Colosimo, e a Chicago era arrivato da… Colosimi, piccolo centro del Savuto cosentino al confine con la provincia di Catanzaro. Ma lì in Illinois avevano cominciato presto a conoscerlo con altri due nomi. Il primo era Big Jim, per la stazza non indifferente. Il secondo, Diamond Jim: adorava ostentare pietre preziose sul pomo del bastone, il fermacravatta, la cintura, il bavero di giacche e cappotti, persino le ghette.
    Ma come aveva fatto quel giovane calabrese emigrato negli States in cerca di fortuna a trasformarsi in Diamond Jim? La risposta sta in due parole: Chicago Outfit.
    La moda, però, con questa storia non c’entra nulla. L’Outfit di Big Jim Colosimo è la mafia di Chicago. La chiamano così, comanda nella Windy City da oltre un secolo. E l’ha creata proprio lui.

    Hinky Dink e Bathouse: Big Jim Colosimo si prende il Leeve di Chicago

    Giacomo arriva a Chicago con papà Luigi e mamma Giuseppina nel 1885 e all’inizio ci prova pure a guadagnarsi il pane onestamente. Consegna giornali, fa lo sciuscià, lavora alle ferrovie. Ma per arrotondare passa presto a furti ed estorsioni mentre, sulla carta, fa lo spazzino. È con quest’ultimo lavoro che conquista i favori di due dei politici più corrotti che Chicago abbia mai avuto: Michael Hinky Dink Kenna e John Bathouse Coughlin.
    Sono loro a comandare nel Levee, il distretto del vizio della viziosissima Chicago, e Big Jim Colosimo gli procura un bel po’ di voti oltre a raccogliere per i due aldermen il pizzo nel quartiere.

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    “Hinky Dink” Kenna e “Bathouse” Coughlin

    Il re lenone e la regina Victoria

    Il calabrese ha carisma da vendere e pochi scrupoli. Gli piacciono tre cose: i soldi, le donne, l’Opera. Grazie alle prime due scopre la sua vera “vocazione” criminale: fare il magnaccia.
    È così che comincia a farsi un nome in certi ambienti e conosce Victoria Moresco. Lei è la tenutaria di due bordelli a Levee. È obesa, più anziana ed è pazza di lui. Jim fiuta l’occasione e nel giro di una settimana la sposa, diventando il gestore delle sua attività. Per ogni cliente che paga 2 dollari “a consumazione”, lui ne incassa 1,20. E i clienti sono tanti. Sempre di più.

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    Victoria (prima a sinistra) e sua sorella con Jim e famiglia

    Circa dodici mesi dopo le nozze, le case del piacere a Levee sotto il controllo di Big Jim Colosimo sono diventate trentacinque. In pochi anni se ne aggiungeranno centinaia, non solo in città. I bordelli più famosi sono il Saratoga e il Victoria, lo chiama così in onore della sua signora. E poi ci sono bische, scommesse, bar e saloon a rimpinguare ulteriormente le casse. I giornali locali lo chiamano vice lord, il Signore del vizio.

    La tratta delle bianche

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    Big Jim Colosimo, il re del vizio a Chicago

    Big Jim e le sue ragazze soddisfano le esigenze di qualsiasi cliente, da quelli che possono spendere pochi spiccioli ai più ricchi e perversi. Nel 1908 buona parte dell’underworld della città è nelle sue mani e anche la “Chicago bene” è di casa nei suoi locali.
    Il suo impero si fonda soprattutto sulla prostituzione, settore che nella metropoli nordamericana degli anni ’10 muove un giro d’affari stimato in 16 milioni di dollari dell’epoca e “impiega” oltre 5.000 persone.
    Per un business del genere servono continuamente forze fresche. Così tra il 1904 e il 1909 Big Jim Colosimo si dedica alla tratta delle bianche tra Chicago, St. Louis, Milwaukee e New York insieme a Maurice e Julia Van Bever, una coppia proprietaria di due bordelli vicini ai suoi.

    La Mano Nera

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    Il fac simile di una tipica lettera della Mano Nera negli States ai primi del ‘900

    Si stima che i tre facciano arrivare in quegli anni oltre 6.000 ragazze, quasi sempre minorenni, nel Levee. Le rapiscono, le drogano, le fanno stuprare dai loro uomini. Poi le mettono a lavorare in qualche casa chiusa o le vendono a qualche altro pappone per farle prostituire in strada. Per Big Jim è un affare da 600mila dollari all’anno, una cifra monstre ai primi del ‘900.
    Tutto quel denaro lo trasforma in Diamond Jim e, come spesso accade negli ambienti malavitosi, quell’ascesa irresistibile si rivelerà fatale per lui.
    A Colosimo nel 1909 arriva una lettera. C’è scritto che deve pagare 5.000 dollari se non vuole guai. E in fondo al foglio c’è una firma che può dare problemi anche a uno come lui che ha sul proprio libro paga gran parte della polizia e della politica locale: una mano nera.

    La Mano Nera è un insieme tanto eterogeneo quanto temibile di criminali italiani che vessano i propri connazionali in America. Nella sola Chicago, tra il 1895 e il 1905, ha ucciso oltre 400 persone che hanno rifiutato di piegarsi alle sue richieste. Colpisce anche fuori dagli Usa se necessario e i calabresi lo sanno bene.
    Big Jim Colosimo stesso ha lavorato per la Mano Nera nei suoi primi anni a Chicago. È del mestiere, insomma, e sa che se acconsente a pagare gli arriveranno presto nuove lettere e richieste di somme sempre più alte. Decide di sborsare il denaro la prima volta, ma azzecca la previsione e la Mano Nera non tarda a rifarsi viva. Stavolta di dollari ne vuole 50mila, il decuplo, e ne vorrà ancora di più se il re dei bordelli accetterà nuovamente di pagare.

    Big Jim Colosimo e l’arrivo di Johnny Torrio a Chicago

    Così Big Jim ne parla con Victoria e lei lo mette in contatto con suo nipote a New York: Giovanni “Johnny” Torrio. Ha già fatto parecchia strada nella malavita della Big Apple, lo chiamano The Fox, la volpe, o Papa Johnny per la sua capacità di mediare tra capi. Le arti diplomatiche di Johnny a Chicago però non balzano subito all’occhio, anzi.

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    Johnny Torrio

    Organizza un incontro con tre emissari della Mano Nera, ma ad aspettarli ci sono i sicari di Torrio che li freddano sotto un ponte. Un anno dopo fa eliminare un altro rompiscatole, Sunny Jim Cusmano. E sorte simile attende anche una prostituta-schiava scappata da un bordello di Colosimo che vuole testimoniare contro di lui in tribunale. È nascosta a Bridgeport, Connecticut, in attesa del processo quando alla sua porta bussano alcuni uomini. Si presentano come agenti federali, la fanno salire su una macchina, le scaricano dodici pallottole in corpo.
    Processo sulla tratta delle bianche chiuso.

    Il Colosimo’s e Dale Winter

    La serenità ritrovata non è l’unico beneficio dell’arrivo di Johnny. Big Jim si dedica sempre di più al locale dei suoi sogni, il Colosimo’s, che ha aperto nel 1910 al 2126-28 di South Wabash Avenue, il miglior ristorante di tutta Chicago. Ci puoi trovare seduto il grande Enrico Caruso e al tavolo accanto un gangster sanguinario o un membro del Congresso. E dal 1913 ci canta lei: Dale Winter.

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    L’interno del Colosimo’s, il ristorante di Big Jim

    A Colosimo l’ha fatta scoprire un giornalista che l’ha ascoltata cantare nel coro di una chiesa metodista da quelle parti. Viene dall’Ohio, ha una ventina d’anni, sogna di esibirsi all’Opera ed è molto carina. Big Jim se ne innamora. La porta nel suo locale e ne fa la stella, le paga lezioni di canto coi migliori insegnanti. E Dale, a sua volta, lo trasforma: il re lenone ora indossa abiti meno sgargianti, mette da parte i gioielli e i modi bruschi, studia meglio l’inglese che non ha mai davvero imparato. E a Chicago qualcuno inizia a chiedersi: Big Jim Colosimo si è rammollito?

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    1917, la pubblicità di una serata al Colosimo’s con Dale Winter protagonista

    Big Jim Colosimo e il Chicago Outfit

    Rammollito o meno, gli affari proseguono alla grande però. A occuparsi di tutto è Johnny Torrio, ormai braccio destro dello zio, dal suo ufficio nel Four Deuces, un bordello da pochi soldi con annesse bisca e sala torture che ha aperto poco distante dal Colosimo’s. Johnny non beve, non fuma, non va a donne e ogni sera, se può, la passa con sua moglie a casa. Non ama sporcarsi le mani e ha sempre l’idea giusta.

    Quando il sindaco democratico nella prima metà degli anni ’10 prende di mira il Levee e manda la Buoncostume a chiudere i bordelli, lui dissemina le ragazze in migliaia di appartamenti sparsi per il quartiere. E a poco a poco gli altri “imprenditori del settore” si mettono sotto l’ala protettrice di Big Jim Colosimo e Johnny Torrio: è nato il Chicago Outfit.

    I due iniziano ad aprire nuovi casini fuori città, lungo il confine con l’Indiana. Sono autentiche roadhouse del piacere da cui clienti e prostitute – si alternano 90 ragazze al giorno – possono varcare in un attimo la frontiera in caso arrivi la polizia e schivare l’arresto. Ad avvisare Johnny e i suoi di eventuali pericoli sono i benzinai lungo la strada, che fanno affari d’oro con tutte quelle macchine da quelle parti.

    1919: «We’ll stay with the whores, Johnny»

    L’anno della svolta è il 1919. Con l’elezione del nuovo sindaco repubblicano William Hale Thompson nel 1915, il Chicago Outfit ha di nuovo chi gli consente di spadroneggiare in città da qualche anno. Ma nel ’19 entra in vigore il Volstead Act, la legge che dà il via al Proibizionismo. E nello stesso tempo Big Jim decide di lasciare sua moglie Victoria, la zia di Johnny, per sposare Dale.
    «È quella giusta», dice al socio per spiegarli la scelta, quello commenta: «Sarà il tuo funerale».

    Una manifestazione contro il Proibizionismo nell’America degli Anni ’20: «Vogliamo la birra»

    Non va meglio quando parlano di alcolici. Secondo Johnny Torrio il Volstead Act è il più grande regalo che lo Stato potesse far loro: quelli che bevevano – e sono tanti – vorranno bere ancora di più ora che è vietato e a dissetarli di nascosto e a caro prezzo saranno proprio lui e Big Jim. Con la polizia locale già al loro servizio e gli immobili che hanno, si prospettano affari d’oro. Ma stavolta a gelare l’altro è Big Jim: «We’ll stay with the whores, Johnny», continuiamo con le puttane.

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    Una retata della polizia durante il Proibizionismo

    Il Proibizionismo prima o poi passerà, prostituzione e gioco d’azzardo ci saranno sempre, spiega il boss al suo vice. Sono già milionari così e non ha senso rischiare problemi con i federali per fare altri soldi, insiste. Ma non lo convince. Per quanto Johnny voglia bene allo zio Jim, gli affari sono affari. Big Jim Colosimo è disposto a investire poche migliaia di dollari in una distilleria clandestina, ma nulla più, quel business non è roba per il Chicago Outfit.

    Un nuovo ragazzo in città

    Ad affiancare Torrio in quei giorni c’è un nuovo ragazzo. Gli guarda le spalle perché la precedente guardia del corpo ha provato a ucciderlo ma restarci secca è toccato a lei. Arriva da New York, dove The Fox gli ha fatto da “maestro” di strada prima di trasferirsi a Chicago. Lo manda Frankie Yale, al secolo Francesco Iuele, calabrese di Longobucco a cui il nipote di Victoria Moresco ha affidato i suoi affari nella Grande Mela al momento di partire per l’Illinois. Di nome fa Alphonse Gabriel, ma tutti lo chiamano Al o Scarface, lo sfregiato, perché un coltello gli ha lasciato un ricordino sul volto. Il cognome? Capone. Anche lui, la storia è piuttosto nota, pensa che contrabbandare alcolici non sia un affare a cui rinunciare.

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    Al “Scarface” Capone

    A marzo del 1920 Big Jim divorzia da Victoria e le versa 50mila dollari affinché non abbia più nulla da pretendere. Pochi giorni dopo sposa Dale Winter in Indiana e se ne va in luna di miele. Torrio, nel frattempo, fa il Papa Johnny: parla col resto della mala di Chicago e coi suoi ex capi newyorkesi. Quando vengono a sapere che Colosimo ha di nuovo pagato la Mano Nera per paura che qualcuno facesse del male a Dale concordano tutti: si è rammollito. E non sarà certo un debole come l’ex Diamond Jim a tenerli fuori dall’affare del secolo. Johnny ha l’ok per farlo fuori.

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    Jim e Dale poco dopo il matrimonio

    Delitto al ristorante italiano

    La mattina dell’11 maggio 1920 a casa Colosimo squilla il telefono. È Torrio, dice a Jim che nel pomeriggio alle 4 sono in arrivo due carichi di whiskey per il suo amato ristorante, ma lui non potrà esserci. Tocca a Colosimo aspettare i corrieri. Ci va smadonnando in italiano per tutto il viaggio, racconterà il suo chauffeur alla polizia. Al Colosimo’s di quella consegna nessuno sa nulla, però. Jim aspetta fino alle 4:25 e si avvia verso l’uscita. Spunta un uomo dal guardaroba, gli ficca un proiettile dietro l’orecchio e sparisce per sempre.

    Pochi giorni dopo una bara da migliaia di dollari, tutta in bronzo, attraversa Chicago tra una folla oceanica. Ci sono migliaia di fiori ad accompagnarla, due bande musicali, nove aldermen, due membri del Congresso, un senatore, membri dell’ufficio del governatore, il direttore dell’Opera. Il funerale non è stato in Chiesa, però, e non c’è spazio per la salma nel cimitero cattolico. Il divieto arriva dall’arcivescovo George Mundelein in persona, ma solo perché il defunto è un divorziato.
    Big Jim Colosimo finisce in una cappella tutta per lui nel cimitero di Oak Woods a Chicago. Sulla lapide la data di morte è sbagliata (o forse, in fondo, non troppo): 1919.

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    La folla di fronte al Colosimo’s durante i funerali di Big Jim

    Chi ha ucciso Big Jim?

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    Frankie Yale

    Lascia dietro di sé due grandi misteri. Il primo è quello su chi lo abbia materialmente ucciso. Capone anni dopo racconterà a Charles MacArthur di essersene occupato di persona. Eppure il sospettato principale di quel delitto ancora oggi senza colpevoli ufficiali resta Frankie Yale. Era a Chicago quel giorno, lo hanno beccato alla stazione mentre prendeva un treno per New York. E l’unico testimone del delitto, un cameriere del Colosimo’s, ha dato una descrizione dell’assassino che pare combaciare perfettamente con lui. In giro si dice che Torrio abbia promesso a Frankie 10mila dollari in cambio di quel favore.

    Era Yale il tizio che, dopo aver mangiato un gelato e bevuto un drink all’albicocca, ha lasciato scritto dietro lo scontrino un misterioso saluto «So long Vampire, so long Lefty» ed è riapparso dal guardaroba con un revolver in mano prima di dileguarsi? Il cameriere si rifiuterà di confermarlo in aula. Quanto a Frankie, torna a New York e resta lì fino al 1937, quando una raffica di mitragliatrice Thompson consegna all’oblio eterno la sua versione dei fatti.

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    Il coroner simula per i giurati la dinamica del delitto Colosimo nel suo ristorante

    Dove sono i soldi?

    L’altro grande mistero è che fine abbia fatto l’immenso patrimonio di Diamond Jim. Dopo l’omicidio i suoi avvocati trovano solo 67.500 dollari in contanti e titoli e poco meno di 9.000 in gioielli nelle proprietà di Colosimo. Pensavano che solo a casa ci fosse a dir poco mezzo milione. Nessuno scoprirà mai dove sia il resto del malloppo.
    Dale Winter prova a chiedere l’eredità, invano: una legge dell’Illinois vieta a chi divorzia di risposarsi prima di un anno, il suo matrimonio con Big Jim è nullo. La famiglia Colosimo le dà 60mila dollari in titoli e diamanti e altri 12mila li consegna a Victoria, tagliando ogni ponte con le due donne.

    Chicago e l’eredità di Big Jim Colosimo

    Torrio controllerà Chicago fino al 1925, prima di cedere al suo alunno migliore il comando dopo aver subito un attentato dagli irlandesi nel North Side. Qualche anno dopo passerà il tempo a dare consigli a un altro suo allievo di gioventù newyorkese, Lucky Luciano. Morirà nel 1957 su una sedia da barbiere, d’infarto però.
    Capone, sempre più violento anche per la sifilide contratta in uno dei bordelli di Big Jim, diventa presto il pericolo pubblico numero uno per la stampa statunitense e l’FBI di Hoover. In galera ci finirà qualche anno dopo, nel 1932, ma per evasione fiscale. Libero ma ormai demente per la malattia, si spegnerà nel 1947.
    Il Chicago Outfit, invece, è più vivo che mai ancora oggi.

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    La tomba del gangster calabrese
  • Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Poveri a San Giovanni in Fiore, schiavi in Brasile: l’Opera Sila e i negrieri di Pedrinhas

    Avevano promesso loro un pezzo di terra nel cuore della Sila, dov’erano nati e cresciuti. E quella terra la ottennero. Solo che a migliaia di chilometri di distanza. Dall’altro capo dell’oceano. In mezzo al nulla.
    È una storia di menzogne e sfruttamento, sacrifici e sogni infranti, quella delle famiglie che l’Opera per la valorizzazione della Sila (Ovs), all’inizio degli anni ’50, inviò da San Giovanni in Fiore in Brasile per fondare una città, Pedrinhas. E ha i tipici ingredienti delle storie di fallimenti targati Italia: interessi politici, poveracci fregati, annunci distanti anni luce dalla realtà.

    La riforma agraria, l’Opera Sila e Pedrinhas

    opera-sila-pedrinhasIl Ventennio fascista si è concluso da poco, lasciando in eredità macerie e povertà. Nonché un ente, l’Icle (l’Istituto nazionale di credito per il lavoro italiano all’estero) che ha creato Mussolini e fino a quel momento ha gestito con scarsi risultati e parecchi denari i flussi migratori dalla Penisola al resto del mondo. Nella neonata Repubblica parte la riforma agraria, una battaglia contro il latifondo per una più equa distribuzione delle terre ai contadini. Ma in Calabria, più che altrove, le cose vanno a rilento.
    La legge Sila, che prevede gli espropri ai ricchi possidenti locali, è del ’51. A San Giovanni in Fiore l’Ovs, nata quattro anni prima, prende possesso di quasi 3.300 ettari di terreno. Diciotto anni dopo quelli ridistribuiti saranno ancora poco più della metà, circa 1.800. E il malumore nella “capitale della Sila”, dove il rosso è il colore politico più in voga, inizia presto a farsi largo.

    La soluzione arriva da un accordo che il nostro governo e quello carioca hanno siglato nel ’47: l’Italia invierà manodopera in Brasile, in cambio di forniture varie. Sembra il modo di prendere due piccioni con una fava: i contadini avranno la terra che spetta loro, seppur in un altro continente, e, con la scusa di aiutarli, ci si libererà pure di qualche rompiscatole di troppo spedendolo all’altro capo del mondo. L’Opera Sila, a forte trazione democristiana, non si lascia sfuggire l’occasione e lancia l’operazione Pedrinhas.

    Dal manifesto a… l’Unità

    E così sui muri dei paesi silani, nel dicembre del ’51, appare un manifesto che inizia così: «La terrà è poca e non basta a soddisfare le esigenze di vita e di lavoro di tante famiglie di contadini della Sila. Per superare queste difficoltà, l’Opera per la valorizzazione della Sila ha concordato con la I.C.L.E., in uno spirito di cordiale collaborazione, un programma di emigrazione organizzata che inizia la sua attuazione il 2 dicembre. In tal giorno alcune famiglie partiranno da San Giovanni in Fiore dirette verso il Brasile, generoso ed ospitale, ove riceveranno una terra ed una casa. L’atto di solidarietà nazionale, che ispira la riforma, trova così un’eco nel gesto di solidarietà del Paese amico che accoglie i nostri lavoratori».

    Quel 2 dicembre non è una data casuale: è il giorno in cui arriva in Sila l’onorevole Luigi Gui, sottosegretario all’Agricoltura, insieme al presidente dell’Ovs Vincenzo Caglioti per una cerimonia in cui è la propaganda a farla da padrona. Sono 52 le famiglie, spiegano i due, che partiranno dalle montagne calabresi verso il Brasile. «Riformatori o negrieri?», titolerà L’Unità a distanza di qualche giorno.

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    Giacomo Mancini in una foto d’epoca

    Pedrinhas e l’Opera Sila in Parlamento

    Giacomo Mancini ricorderà quella giornata pochi mesi dopo alla Camera, definendo l’operazione Pedrinhas «un’indegna farsa» per celare «l’attività negriera» dell’Opera Sila. In effetti, la terra da distribuire in Sila all’epoca era più che sufficiente per non costringere ad emigrare proprio nessuno. Dello stesso avviso il comunista di Acri Francesco Spezzano, che dal suo scranno in Senato tuona contro l’Ovs: «Da Opera di applicazione della riforma fondiaria, da Ente esecutivo della riforma fondiaria, si è trasformato in ente di organizzazione dell’espatrio in massa dei contadini. Potrei dire anzi, che, per diminuire la pressione dei contadini, da ente di riforma si è trasformato in ente di vendita di carne italiana».

    Brasil…a: dal latifondo al deserto rosso

    A 550 km dalla capitale São Paulo, a 50 dalla città più vicina, in una sconfinata distesa di terra rossissima, fertile ma in gran parte ancora da bonificare, arrivano i primi italiani. Sono 143 famiglie provenienti da 16 regioni diverse, nove arrivano dalla provincia di Cosenza. Ma la parte del leone della nascente colonia l’avranno i veneti, in particolare quelli che arrivano da San Dona’ di Piave.
    Guida, spirituale e non solo, di Pedrinhas sarà infatti Ernesto Montagner, prelato partito insieme ai sui parrocchiani verso quel remoto angolo di Brasile. E “l’atto di nascita” della cittadina italo-brasiliana è proprio la posa della prima pietra della chiesa di San Donato nel bel mezzo del minuscolo paese a settembre del ’52, anche se il primo nucleo di operai italiani è lì già da dodici mesi. I sangiovannesi arrivano il 23 dicembre dello stesso anno.

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    I primi italiani ad arrivare in Brasile per la fondazione della città

    Le speranze di un futuro migliore lasciano presto il posto alla durissima realtà. Il clima torrido è un inferno per i silani e la vita brasiliana è ancora peggio di quella tra i monti calabresi.
    A raccontare la delusione è Virgilio Lilli, inviato sul posto dal Corriere della Sera nel ’54. «Quando le famiglie trasportate sulle belle navi giunsero a Pedrignas (confini Stato Paranà-Stato San Paolo), trovatesi di fronte alla terra rossa incolta, alle case ancora deserte, al silenzio della terra tropicale (malgrado l’altezza), scoppiarono in pianto. Anche le donne di quelli che resistettero piansero sei mesi di fila, tutte le notti; poiché avevano intravisto il lusso, il conforto, la felicità, in mare, ed ora si scontrarono con la dura vita degli inizi. Quanto ai deboli, arrivarono gridando che volevano tornare a casa e ottennero un giorno di tornare a casa».

    «Tutto quello che ci hanno fatto lo devono pagare»

    È ancora Mancini a far conoscere al Parlamento le condizioni dei coloni, leggendo alcune loro lettere inviate ai familiari in Calabria dal Brasile.
    «Cara madre, ti scrivo con un po’ di ritardo, causa che ho voluto prima vedere la situazione. Qui tutto male. Ci hanno imbrogliato bene, a cominciare dalla paga che non basta solo a me per il sapone e per qualche pacchetto di sigarette, perché qui è un caldo che non si resiste. Ci danno 35 cruzeiros che ammontano a mille lire italiane; 500 se le trattengono al giorno per la mensa e le altre se ne vanno così: sapone prima base, perché qui è una terra rossa che siamo diventati tutti rossi. Quindi questo anno ci debbo stare, perché c’è il contratto che ognuno di noi ci dobbiamo fare un anno di lavoro; appena finisco sono con voi. Un anno di sacrifici, ma tutto quello che ci hanno fatto a noi i signori lo devono pagare».

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    Contadini al lavoro nella neonata Pedrinhas

    «Fuori dalla civiltà umana»

    Un altro colono sangiovannese si rivolge così al marito di sua sorella: «Caro cognato, in quanto mi dite che avete inoltrato domanda per venire in Brasile ti prego di rinunciare subito. Le nostre condizioni sono molto tristi in quanto non abbiamo niente di buono. L’acqua viene tirata dai pozzi; è filtrata, un’aria tropicale e un caldo insopportabile. Come paga non abbiamo niente; come vi ho già scritto che abbiamo 35 cruzeiros, 15 di mensa, 10 se li trattengono per il viaggio, e possiamo mandare il quaranta per cento del guadagno ma non dobbiamo fare nient’altro né fumare, né bere una birra né sapone; fatevi voi il conto se possiamo mandare soldi a casa; e non possiamo neanche scrivere a nostro piacere: per i francobolli ci vogliono 6 cruzeiros. Caro cognato qua si vive fuori dalla civiltà umana, non c’è distinzione di giorni, né domeniche, né feste, sono tutti i giorni uguali. Sono andato alla direzione della nostra compagnia e ci ho detto che ci rimpatria subito così sono io che vi devo raggiungere».

    Fuga dalla schiavitù

    I contadini silani a Pedrinhas sono tra i primi a ribellarsi. Minacciano di dare fuoco alle case appena costruite e nel giro di un anno si ritrovano praticamente tutti al porto di Santos per tornarsene in Sila. Le fughe dalla colonia sono solo all’inizio. A settembre del 1953 oltre 150 coloni italiani scappati da Pedrinhas sono a São Paulo in attesa di rimpatrio. Le famiglie vanno via in piena notte, incuranti di aver abbandonato casa, attrezzi, bestiame.
    Un anno dopo 170 coloni già ingaggiati con contratti capestro lasciano Pedrinhas, denunciando di aver subito un trattamento da schiavi. Restano per mesi nella Hospedaria de Imigrantes di São Paulo dove li trattano «peggio dei prigionieri», abbandonati da tutti. Rosario Belcastro, futuro dirigente della DC e della Cisl calabrese, pur di farsi rimpatriare preferisce spacciarsi per comunista agli occhi della polizia brasiliana, finché questa non lo accompagna alla frontiera e lo rispedisce in Sila.

    Basta Pedrinhas: l’Opera Sila e i passaporti strappati

    I calabresi a restare a Pedrinhas sono pochissimi, come ricostruisce Pantaleone Sergi in un articolo per il Giornale di Storia Contemporanea del 2016 che ripercorre il progetto brasiliano dell’Opera Sila. Ci sono Biagio Talarico, che è arrivato lì con altri familiari presto rientrati tra i monti calabresi, e il sarto Francesco Mascaro. Entrambi, però, si trasferiscono dopo pochi anni in città più grandi. E c’è Francesco Romano, che resiste invece in mezzo a quella terra roxa «che penetra ovunque, si respira nell’aria, s’attacca ai panni e alla pelle, colora di rosso ogni cosa, segnando tutto col suo marchio inconfondibile».pedrinhas-paulista-06-1-opera-sila

    Poco tempo dopo lo raggiungerà anche un fratello, ultimo dei “bra-silani” di quel poco riuscito tentativo di emigrazione programmata. E gli altri lavoratori ingaggiati in Calabria? Niente più Pedrinhas per loro, riferirà ancora Mancini in Parlamento: si sarebbero presentati negli uffici dell’Opera Sila per poi stracciare il passaporto in faccia ai funzionari dell’ente «che, per incoscienza o per cinismo», si erano dati da fare «per fornire altra carne di lavoratori di San Giovanni in Fiore al Brasile generoso e ospitale di Caglioti».

    Pedrinhas Paulista, 2023

    Settantuno anni dopo la sua fondazione, Pedrinhas Paulista è una cittadina di circa 3.000 anime, il doppio rispetto agli anni ’50, in buona parte di origini italiane. Le stradine si incrociano con Avenida Brazil e Avenida Italia, arterie principali del paese, e pare si viva anche bene da quelle parti. Di certo, meglio che agli inizi. Ci sono statue di centurioni e della Lupa capitolina che allatta Romolo e Remo. Una targa ricorda i nomi dei primi coloni e i loro sacrifici per tirare su il villaggio. Accanto alla chiesa di San Donato c’è il Memorial do Imigrante. Un grande arco, un colonnato e gli stemmi dei posti da cui arrivarono i “padri fondatori”, Regione Calabria inclusa.

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    Il Memorial do Imigrante: sotto l’arco, secondo da sinistra, si intravede lo stemma della Calabria
  • Un altro Stretto è possibile: ecco le alternative (a costi inferiori) dei NoPonte

    Un altro Stretto è possibile: ecco le alternative (a costi inferiori) dei NoPonte

    Mentre l’Italia è flagellata da fenomeni atmosferici eccezionali, figli del cambiamento climatico, certo, ma anche dalla mancanza di cura del territorio, in Parlamento va avanti spedito il cammino del Ponte sullo Stretto di Messina con l’approvazione anche in Senato del relativo decreto legge. Nel frattempo, a Villa San Giovanni il movimento NoPonte ha organizzato un illuminante incontro. A relazionare, il professore Domenico Gattuso, ordinario di Pianificazione dei trasporti presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Chiari e puntuali i rilievi sul progetto del Governo. Con un elemento decisivo in più: le proposte alternative, credibili e circostanziate, per un collegamento efficace tra le sponde dello Stretto. In conclusione, anche un’idea per coinvolgere nella scelta i cittadini delle comunità interessate.

    Sono quattro i punti focali delle conclusioni di Gattuso riguardo il Ponte sullo Stretto:

    1. l’idea è debole perché presenta diverse criticità dal punto di vista strutturale, ambientale, di sostenibilità finanziaria;
    2. non accorcia i tempi di percorrenza del braccio di mare;
    3. la spesa da affrontare non rende vantaggioso per l’utenza il passaggio tra le due sponde;
    4. sarebbe invece molto più efficace, per i tempi e i costi di implementazione, rafforzare e arricchire il transito via mare.

    Ponte sullo Stretto: i rilievi di Gattuso

    Partiamo dai rilievi. Il progetto è vecchio (del 2011) e infatti non risponde alla normativa europea in termini di valutazioni di impatto economico, finanziario ed ambientale. Né è dimostrata la sostenibilità dell’opera in relazione alla valutazione degli impatti dettata dall’UE di recente sul PNRR.
    Per quanto concerne l’investimento da effettuare, si quantificava nel 2021 in 6 miliardi di euro, nel DEF appena approvato lievita a 14,6 miliardi (13,5 + 1,1 per le opere ferroviarie annesse). Costi per i quali, si specifica nel documento, non sono stanziati fondi e neanche il PNRR prevede nulla.

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    Il professor Domenico Gattuso

    Il professor Gattuso sottolinea che i paragoni tra il Ponte sullo Stretto e altre opere simili già realizzate sono improponibili. È necessario, infatti, considerare alcune variabili fondamentali:

    • a) lunghezza;
    • b) larghezza e struttura dell’impalcato;
    • c) dimensioni e distanza tra i piloni;
    • d) profondità dei fondali;
    • e) presenza di rischi geologici, azioni del vento e di sismi, ecc.

    Le dimensioni contano

    I ponti a campata unica (come quello sullo Stretto) più lunghi al mondo sono il Çanakkale Bridge, in Turchia, di 2.023 metri e terminato nel 2022, e l’Akashi Kaikyō , in Giappone, di 1.991 metri e finito nel 1998. Ma c’è di più: quello ipotizzato in Italia prevede passaggio di traffico in gomma e ferroviario. Uno simile sta in Cina, il Tsing Ma, ed è lungo 1 km e 400 metri, non 3 km e 300 metri come il Ponte sullo Stretto.

    Altri problemi sono legati al progetto stesso, che non è adeguato alle nuove norme europee venute dopo il 2010. Quello definitivo, poi, manca del tutto.
    Restano numerose incognite da chiarire. Concernono forma e dimensione dell’impalcato, nonché l’altezza dal mare, prevista in 65 metri. Sarà sufficiente per il passaggio di navi da crociera e porta container o dovranno circumnavigare la Sicilia? Con quali costi? L’attracco a Gioia Tauro sarà ancora conveniente?ponte-stretto-gattuso

    Per i piloni si prevede un’altezza di 400 metri, mai vista prima, e strutture di ancoraggio gigantesche. Piazzare i giganteschi piloni richiederà un enorme movimento terra. Dove la collocheranno? In fondo al mare, devastando uno dei fondali più belli e ricchi di biodiversità al mondo?
    C’è un altro dettaglio che i cittadini di tutta l’area dovrebbero considerare, perché forse pensano di salire sul treno a Reggio, Villa o Messina e in un baleno essere dall’altra parte. Per raggiungere i 70 metri di altezza del Ponte sullo Stretto occorrono almeno 25 km per la ferrovia, spiega Gattuso, perché è prevista una pendenza massima del 3/1000. Quindi, raccordi a 25 km, non sotto casa.

    L’impatto ambientale e le novità del PNRR

    Veniamo all’impatto ambientale e alla sua valutazione. Le norme approvate per il PNRR prevedono 6 nuovi criteri, oltre a quelli in vigore in precedenza (teniamo presente che il vecchio progetto non ha mai superato la verifica d’impatto ambientale).
    Ecco i 6 criteri inseriti di recente:

    1. Investimenti volti alla mitigazione dei cambiamenti climatici;
    2. Interventi per l’adattamento ai cambiamenti climatici;
    3. Interventi a favore di un uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine;
    4. Transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche alla riduzione dei rifiuti;
    5. Azioni per la prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo;
    6. Azioni per la prevenzione e ripristino della biodiversità e della salute degli ecosistemi.

    Il traffico sullo Stretto e il no di Gattuso al ponte

    Se consideriamo invece l’efficacia dell’opera, per il trasporto di persone vediamo quali sono i flussi di attraversamento.
    Quindici anni fa, il grado di saturazione del trasporto era appena del 15-20% nelle ore di punta. Probabilmente oggi sarebbe ancora peggio, dato il trend decrescente di traffico sullo Stretto. Tra il 1995 (fonte MIMS) ed oggi, si sono persi 3,4 milioni di passeggeri all’anno (-25%: da 13,4 a 10,0 Mn) e 1 di veicoli (-35,7%; da 2,8 a 1,8 Mn), soprattutto a beneficio degli aeroporti siciliani, passati nel decennio 2009-2019 da 11,3 a 18,0 milioni all’anno. Anche il traffico merci è in calo: meno 100mila camion (-11,1% dal 1995; da 900 mila a 800 mila), mentre è cresciuto molto il traffico via mare (con navi Ro-Ro): +23,4% su Palermo e +13,1% su Catania, solo negli ultimi cinque anni.

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    La Alf Pollack

    In sostanza, una componente significativa di traffico merci ha preferito il mare al percorso “stradale” passante per lo Stretto. Gli stessi operatori privati hanno attivato servizi marittimi sulla direttrice Sicilia-Campania, più vantaggiosi sia per le imprese che per gli autotrasportatori.
    E sono entrate in gioco navi a media e lunga percorrenza (Sicilia – Centro-Nord): la Superspeed 1, costruita in Danimarca, la Passenger/Ro-Ro, infine la Alf Pollak, nuova nave Ro-Ro – la più grande del Mediterraneo, costruita in Germania e consegnata al gruppo armatoriale italiano Onorato – con una capacità di trasporto di oltre 4.200 metri lineari.

    Pendolari e pedaggi

    Come andranno invece le cose per i pendolari Reggio-Villa verso Messina e viceversa? In termini di tempo non si avrebbe alcun beneficio: dal centro di Reggio a quello di Messina 45 minuti, non dissimile da quello con gli attuali catamarani. In più, evidenzia Gattuso, attraversare il Ponte sullo Stretto non sarebbe gratuito. Il pedaggio sarebbe almeno pari a quello attuale in nave: 40-50 € per un’auto, 160- 180 € per un pullman, 70-150 € per un camion, 460-750 € per un mezzo infiammabile.
    Gattuso sottolinea inoltre il rischio che il ponte possa allontanare le città dello Stretto dai traffici nazionali, agendo da tangenziale per i traffici di attraversamento con la marginalizzazione di Reggio e Messina.

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    Imbarcaderi a Messina

    Veniamo agli aspetti economico-finanziari. Il costo del ponte è oggi di 14,6 miliardi di euro, e non si sa nulla, tra l’altro, dei futuri costi di manutenzione. Non esiste project financing. L’investimento è a carico della collettività, con ricavi gestiti da privati in concessione. Bisognerebbe attualizzare gli indicatori economico-finanziari in termini di dati di ingresso (flussi decrescenti e costi crescenti). Atteso un peggioramento degli indici che già erano inconsistenti nel 2012. Le valutazioni dovrebbero seguire le procedure attualizzate dal Manuale UE che la Commissione ha elaborato nel 2014.
    Ai privati interesserebbero la gestione per il profitto che può determinarsi solo con pedaggi elevatissimi, altrimenti tutto cadrà sulle spalle dei cittadini italiani.

    Infrastrutture, crescita, ambiente e sicurezza

    E la vulgata secondo cui il ponte sullo Stretto «rappresenta un volano di crescita economica e sociale per la Sicilia e la Calabria»? Gattuso afferma che la più recente letteratura economica è pressoché concorde nel sostenere come non vi sia un nesso causale tra investimenti in infrastrutture di trasporto e crescita. Ciò non è avvenuto con l’alta velocità e uno studio della Banca d’Italia ha certificato che la Salerno–Reggio Calabria non ha avuto effetti sul PIL della Calabria.

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    La facciata di Palazzo Koch, sede della Banca d’Italia

    Per quanto concerne i costi esterni, la Via del mare è preferibile alla strada. ALIS, in uno studio del 2001, ha stimato che grazie ai servizi Ro-Ro e alle Autostrade del mare, sono stati eliminati dalle strade, in Italia, circa 1,7 milioni di mezzi pesanti. Quindi 47,2 milioni di merci sono state spostate sulle rotte marittime, abbattendo 2 milioni di tonnellate di CO₂. Il vantaggio economico per l’ambiente è stato stimato in 1,5 Md €. A questo si aggiunge una riduzione dell’incidentalità su strada, del rumore da traffico e del carburante consumato. Inoltre, le navi in costruzione oggi sono assai meno inquinanti rispetto al passato.

    Notevoli i rischi per il ponte se si parla di safety & security. Numerosi i problemi di safety: la circolazione dei veicoli in una carreggiata a 6 corsie in rettifilo, con scarso traffico, produrrà velocità elevate; intensità del vento e spinta laterale; oscillazioni possibili date le dimensioni di sezione trasversale; azioni sismiche imprevedibili; eruzioni vulcaniche e polveri; esplosione di veicoli con merci pericolose (vedi Bologna, 2018); omessa manutenzione (vedi ponte Morandi, 2018). Quanto alla security, sussisterebbero rischi di attentati (vedi Crimea nel 2022).

    L’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto

    Ecco invece l’alternativa di Gattuso al Ponte sullo Stretto, in poche mosse, in tempi rapidi e a costi di gran lunga inferiori.
    Innanzitutto, serve una flotta navale ben strutturata e dimensionata. Un traghetto a doppio portellone (come quelli attualmente in servizio) costa circa 50-60 milioni di euro, un catamarano da 250 posti circa 8-10. Inoltre su un traghetto dotato di binari può trovare posto un intero treno regionale senza necessità di scomporlo. Per una flotta di 20 traghetti e 10 catamarani sono necessari 1,2 miliardi di euro.

    Poi, il riassetto dei servizi marittimi sullo Stretto. Con un utilizzo combinato nave-treno per servizi locali-regionali avremmo traghetti catamarani per servizi passeggeri a maggiore frequenza.
    Infine, l’integrazione dei servizi di trasporto pubblico sulle due sponde. Da Messina Centro a Reggio Calabria Centro, con approdi adeguati e potenziati e stazioni marittime distribuite sulle due coste, in tutta l’Area metropolitana dello Stretto.aliscafo-ponte-strettp-gattuso

    Per ottimizzare l’impiego delle risorse bisogna raffrontare i costi, che fanno pendere nettamente la bilancia per il trasporto pubblico mediante treno, metropolitana, autobus, navi di ultima generazione. Solo per avere un’idea, 1 km di TAV costa 40-50 milioni di euro, 1 km di ferrovia a doppio binario elettrificato10-15 milioni. Un km di ponte sullo Stretto? 3 miliardi di euro!
    Per le tariffe per gli utenti serve considerare la distanza tra le due sponde e la necessità di instaurare una vera continuità territoriale, che non è effettiva se il costo del pedaggio, di qualsiasi genere, è quello attuale. Occorre quindi calcolare le tariffe da applicare come quelle dell’autostrada, cioè a 20 centesimi al km. E quindi: 2 € a persona, 4 € ad auto, 15 € a camion.

    Prima il dibattito (vero), poi il referendum

    La domanda finale che pone Gattuso richiede un cambio di prospettiva: «Serve una sola grande opera costosa e di dubbia utilità e fattibilità o è preferibile un insieme diffuso di opere e servizi abbordabili, utili e fattibili?».
    Una domanda retorica, per chi non ha pregiudiziali o interessi di altro genere. E a rispondere dovrebbero essere i cittadini interessati delle due sponde con un referendum, come reclama il professore.
    Una consultazione cui deve precedere un dibattito vero e diffuso. Approfondito, basato sui dati, sulle informazioni, non sul tifo da stadio o sull’ideologia.

  • Dalla tonaca al grembiule: vita spericolata di Francesco Saverio Salfi

    Dalla tonaca al grembiule: vita spericolata di Francesco Saverio Salfi

    C’è un modo particolare con cui i massoni si definiscono da sempre (oltre al gettonatissimo Liberi Muratori): Figli della Vedova.
    Nel caso di Francesco Saverio Salfi, l’espressione calza a pennello. Non (solo) per la sua conclamata militanza massonica. Nato il Capodanno del 1759 da una famiglia cosentina umile, Salfi fu adottato e allevato per davvero da una vedova, che lo fece studiare da prete
    Probabilmente risale a questa formazione l’innesco delle contraddizioni di Salfi: la formazione rigorosa, appresa dai gesuiti, e l’anticlericalismo stimolatogli, forse, dalla rigidità di quel tipo di insegnamento.
    Nel quale c’è un’eccezione vistosa, che passa ancora attraverso la Chiesa: l’illuminismo, appreso dal canonico Francesco Saverio Gagliardi, e da Pietro Clausi, suo prof di matematica e filosofia. Clausi, a sua volta, è allievo di un altro illustre prelato: Antonio Genovesi, filosofo e pioniere dell’Economia politica.
    La personalità complessa di Salfi, che inizia la sua carriera di prete nel segno della ribellione, è il prodotto delle contraddizioni della sua epoca. Contraddizioni della società, della Chiesa e della monarchia, in questo caso borbonica.

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    Francesco Saverio Salfi

    Il Re Nasone e le riforme mancate

    I Borbone avevano cominciato piuttosto bene, a Napoli e al Sud. Salfi nacque un anno dopo che don Carlo di Borbone aveva lasciato il Regno per ereditare la corona di Spagna.
    Al suo posto era salito al trono Ferdinando IV (per capirci, ’o Re Nasone), che prometteva niente male per i riformatori dell’epoca. Infatti, sulla scia paterna, re Ferdinando posava a protettore della laicità dello Stato e degli intellettuali. Questo atteggiamento formalmente illuminista divenne esplicito nel 1878, col rifiuto del re di pagare la chinea, un tributo di sottomissione feudale, allo Stato Pontificio.
    Tutta (o quasi) l’intelligentsia napoletana si schierò con la Corona. E il fatto che in questa élite ci fossero molti religiosi, non deve meravigliare: l’attrito tra dinastia borbonica e papato rifletteva la rivalità tra l’alto clero napoletano, di antica tradizione e geloso delle sue prerogative, e l’estabilishment pontificio.
    Discorso simile per l’illuminismo. Questo filone, oggi considerato dal solo punto di vista rivoluzionario, ebbe un ruolo importantissimo nell’Ancien Regime: in Prussia come in Austria e, ovviamente, nella vivacissima Napoli dell’epoca. L’illuminismo nasce in salotto e, solo in seguito al trauma della Rivoluzione, finisce sulle barricate.
    Viceversa, i Borbone furono inizialmente tolleranti e solo la rottura rivoluzionaria li spinse ai terribili giri di vite per cui sono passati alla storia.

    Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo

    Un pensiero che nasce tra le scosse

    Gli intellettuali seguono, più o meno, lo stesso tragitto. Nascono riformisti e fidano nella forza della Corona per realizzare le proprie idee. Una volta delusi, si danno alla fronda e poi entrano in rottura, fino a farsi tentare dall’esperimento tragico della Repubblica Napoletana.
    E Salfi? Il suo pensiero nasce maturo, grazie a una tragedia senza pari: il terremoto che sconvolge Messina e il sud della Calabria nel 1783.
    Tre anni dopo, il giovane sacerdote, che tiene banco all’Accademia dei Costanti (l’antenata dell’Accademia Cosentina), scrive il Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, in cui stigmatizza il comportamento superstizioso delle autorità religiose e invoca invece politiche urbanistiche, pubbliche e private, di prevenzione.
    È quanto basta per attirare su Salfi l’ostilità dei vertici ecclesiastici, che vorrebbero mandarlo sotto processo. La fa franca, grazie alla protezione di Carlo de Marco, magistrato e ministro degli Affari ecclesiastici di re Ferdinando.
    Ma per lui l’aria a Cosenza si è fatta pesante. Perciò nel 1787 molla le rive del Busento e si trasferisce a Napoli. E lì inizia a fare davvero sul serio.

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    Le devastazioni del terremoto del 1783 in una stampa d’epoca

    Napule è

    Ancora i rigori (e gli eccessi) controrivoluzionari sono lontani a Napoli. Al contrario, c’è un bel giro di intellettuali.
    Tra questi, i giuristi Gaetano Filangieri e Mario Pagano e due religiosi inclini alle tesi liberali: il calabrese Antonio Jerocades e il partenopeo Nicola Pacifico. Tutte teste belle, ma un po’ calde. L’ideale per uno come Salfi. Che subito si fa notare: difende la casa reale di fronte alla Chiesa. E, per tutta risposta, re Ferdinando promuove la sua nomina ad abate.
    Poi le cose cambiano con la Rivoluzione francese, che segna una profonda rottura tra i Borbone e il ceto intellettuale napoletano, e l’intellettuale cosentino si mette a trescare alla grande.

    Salfi e la superloggia di Posillipo

    Un’invasione francese e una cena a Posillipo.
    Nel 1792 il Regno di Napoli e la Francia sono ai ferri corti. E quest’ultima manda una flotta a bloccare il porto e il Golfo per regolare dei gravi incidenti diplomatici. La comanda il francese Luis de Latouche-Treville, eroe dell’indipendenza americana e massone.
    La prova di forza tra la giovane Repubblica e il Regno è impari e la regina Maria Carolina, sebbene odi i jacubbine (responsabili della morte di sua sorella Maria Antonietta di Francia), è costretta a cedere. Latouche resta a Napoli un mese buono, a cavallo tra 1792 e 1793. E ne approfitta per mettere assieme un bel gruppo cospirativo assieme al matematico Carlo Lauberg: la Società patriottica napoletana, costituita durante una cena a Posillipo, in cui confluiscono tutte le logge massoniche della città e a cui si uniscono Salfi, Jerocades, Pagano e via discorrendo. Poi i francesi vanno via e i Borbone iniziano la repressione, che disarticola il gruppo nel 1794. Molti giacobini finiscono in galera (ben 52) e qualcuno al patibolo (8). Chi può scappa: è il caso di Lauberg e Salfi, il quale decide di svernare in Calabria.

    Il contrammiraglio Luis de Latouche-Treville

    Salfi al seguito dei “franzosi”

    In Calabria, Francesco Saverio Salfi resta un annetto buono, giusto il tempo di scampare all’inchiesta. Poi rientra a Napoli, ma è isolato e rischia grosso: la polizia borbonica ha riaperto il dossier e stavolta è uscito il suo nome.
    L’espatrio diventa un obbligo: grazie all’aiuto del diplomatico François Cacault trova lavoro al Consolato francese di Genova. Lì si spreta e riprende a trescare assieme a teste ancora più calde di quelle lasciate a Napoli. Tra queste, il toscano Filippo Buonarroti. I due raggiungono Milano, nel frattempo occupata dai francesi, e si danno al giornalismo e ai complotti, dentro e fuori le logge, assieme a tutti gli esuli del Sud.
    Questa lobby meridionale scommette su un astro nascente: Napoleone Bonaparte e spera, per la prima volta, che le armate rivoluzionarie uniscano l’Italia. Forse la parola Risorgimento nasce in questo ambiente. Di sicuro la usa molto Salfi, negli articoli che redige per il Termometro politico della Lombardia e nelle missive che invia alle autorità francesi.

    Salfi torna a Napoli

    Vedi Napoli e puoi muori, dice l’adagio. E per molti intellettuali che scommisero sull’esperienza esaltante, ma effimera, della Repubblica Napoletana, fu così.
    Salfi, invece, scampò per il rotto della cuffia.
    Ma è il caso di ricostruire con ordine.
    Il rivoluzionario cosentino torna nel Regno, stavolta non da solo, ma al seguito dell’Armata di Napoli, cioè la divisione dell’esercito francese guidata dal generale Jean Étienne Championnet, che sbaraglia i napoletani sotto Roma e poi invade la Capitale del regno.

    Mario Pagano

    Ferdinando IV abbandona Napoli il 21 dicembre 1798. Il 20 gennaio successivo, è proclamata la repubblica a Napoli, che sopravvive grazie alle truppe francesi ed è minacciata da subito dai Sanfedisti del Cardinale Ruffo.
    I francesi, privi della guida di Napoleone, bloccato in Egitto con le sue truppe, sono costretti ad arretrare e, alla fine, abbandonano Napoli, che capitola il 30 giugno 1799.
    In questi sette mesi, tuttavia, la classe dirigente giacobina dà il meglio di sé. Stimola a fondo la vita culturale, grazie al Monitore Napoletano, diretto da Eleonora Fonseca Pimentel, e progetta riforme radicali, tra cui l’abolizione del feudalesimo e una Costituzione, simile a quella francese del 1793, ma con una novità: l’Eforato, una specie di Corte costituzionale avant la lettre.
    Di questa élite, in cui spicca il giurista Mario Pagano, fa parte una nutrita pattuglia di calabresi, tra i quali il grecista Pasquale Baffi e, appunto, Salfi che vi svolge la delicata mansione di segretario.

    Pericolo (di nuovo) scampato

    È nota la tragica fine della Repubblica Napoletana: i giacobini capitolano. E i Borbone si comportano malissimo. Prima danno ampie garanzie di equità e mitezza, poi si rimangiano la parola e scatenano una rappresaglia che assume le forme di un pogrom.
    Processi sommari, esecuzioni in piazza e cadaveri esposti.
    Ma, quel che è peggio, via libera agli eccessi, dei lazzari e dei “calabresi” al seguito di Ruffo. Questi scatenano una caccia all’uomo per le vie di Napoli ai sostenitori, reali o presunti, della fallita rivoluzione. La situazione sfugge al controllo di Ruffo, già contrario elle esecuzioni sommarie, e la città finisce in preda ad orrori di vario tipo, inclusi atti di cannibalismo.
    Anche Salfi finisce nelle retate borboniche, ma dà false generalità e viene liberato. E scappa, stavolta in Francia.

    Maria de Medeiros interpreta Eleonora Fonseca Pimentel ne “Il resto di niente”

    Di nuovo in Italia

    Francesco Saverio Salfi rimette piede in Italia l’anno successivo. Dapprima a Brera, dove insegna storia e diritto al Ginnasio, e poi a Brescia e a Milano, dove si dà un gran da fare nelle logge locali.
    Infatti, milita nell’“officina” Amalia Augusta ed è maestro venerabile della loggia Gioseffina. In questa fase, l’intellettuale calabrese si lega a Gioacchino Murat, di cui diventa consigliere. E ne segue le sorti: la disfatta dei napoleonici lo costringe a tornare in Francia, dove trascorre gli ultimi anni della vita insegnando e scrivendo.
    Il suo ultimo gesto rivoluzionario è il Proclama al popolo italiano dalle Alpi all’Etna, firmato da tutti i fuorusciti, a partire da Filippo Buonarroti.
    In questo documento compaiono tre parole chiave: unità nazionale, libertà, repubblica.
    Le farà proprie un astro nascente del Risorgimento: Giuseppe Mazzini. Ma stavolta Salfi non ha alcun ruolo. Il patriota genovese, infatti, esclude i “vecchi” dalla sua Giovane Italia. Nel farlo, manda una lettera di scuse a Salfi. Ma il calabrese non la leggerà mai, perché muore poco prima che gli arrivi. È il 2 settembre 1832.

    Gioacchino Murat

    Una grandezza misconosciuta

    Celebrato in vita dai circoli rivoluzionari, Francesco Saverio Salfi ha avuto una fortuna postuma “di nicchia”, di sicuro inferiore ai suoi meriti.
    Oggi non c’è comunione massonica che non abbia almeno una decina di logge dedicate a lui e continua a essere oggetto di attenzione degli specialisti.
    Tuttavia, l’intellettuale cosentino non ha mai avuto una fama “pop”.
    Giusto per fare un esempio, si pensi che Salfi è citato solo tre volte e sempre di sfuggita in Il resto di niente, il bel romanzo storico di Enzo Striano (1986) dedicato a Eleonora Fonseca Pimentel, ed è tagliato fuori dal film ad esso ispirato (2004).
    Eppure il cosentino ebbe un ruolo di primo piano nella Repubblica Partenopea e in tutti i movimenti prerisorgimentali. Salfi e la sua generazione scontano una “maledizione” particolare.
    Loro sono gli ultimi esponenti dell’illuminismo in una fase in cui la cultura (rivoluzioni comprese) parlava e pensava con i canoni del romanticismo. Sono intellettuali convertiti alla rivoluzione perché delusi dall’incapacità (e dalla cattiva volontà) riformatrice delle vecchie dinastie. Ma finiscono comunque stritolati dalla Francia rivoluzionaria, che si serve di loro ma li controlla e, quando può, li censura.
    Le rivoluzioni di fine ’800 cambiano registro e velocità di marcia. E per i superstiti come Salfi non c’è più posto.
    Il cosentino è morto rimosso e dimenticato. Al punto che anche della sua tomba si era persa traccia per oltre 150 anni. Finché un altro cosentino, lo storico Luca Addante, l’ha ritrovata a inizio millennio.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. L’impegno de I Calabresi e della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani è quello di arare il terreno della memoria collettiva e trovare le radici da cui proveniamo per riscoprire la fierezza di una appartenenza.

  • Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Gratta & ruba: quei brutti tentacoli sulle scommesse

    Ammalarsi di gioco d’azzardo e rischiare anche di fare gli interessi dei boss. Il quadro, più o meno a tinte sempre più fosche, è noto ma non troppo.
    Certo, se ne parla e magari ognuno conosce qualcuno che “esagera” ma i numeri ufficiali del gioco in Calabria sono preoccupanti. I calabresi risultano sempre più ludopatici. Anche a dispetto delle enormi difficoltà socioeconomiche. Infatti, in un anno ci si è permesso il “lusso” di spendere nell’azzardo, fisico e on line, oltre 4 miliardi.
    Sono cifre fuori da ogni logica, addirittura superiori a quelle di Veneto e Liguria.

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    Giocatori alle prese con le slot machine

    Il gioco d’azzardo secondo i Monopoli e l’Antimafia

    Questo quadro inquietante emerge dai dati dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Adm), analizzati e elaborati sia dalla Direzione investigativa antimafia sia dall’ultima Commissione parlamentare antimafia.
    Nella relazione finale (la numero 37 del 2022), pubblicata nei giorni scorsi, la Commissione punta il dito sull’influenza della criminalità organizzata nel mondo del gioco legale per attività di riciclaggio, infiltrazione e ovviamente manipolazione delle vincite e dell’intero settore. Il risultato è praticamente uguale a quello dell’ultimo report semestrale della Dia.

    Gli appetiti delle ’ndrine sul gioco d’azzardo

    In particolare i clan di ‘ndrangheta e di camorra sono considerati i principali responsabili di questi continui tentativi di impossessarsi di un settore da oltre 110 miliardi di euro l’anno, da tempo nella top five delle “aziende” con il maggior fatturato. Questo oceano di denaro, ovviamente, ha stuzzicato gli appetiti di boss e picciotti, che si sono sempre “interessati” di gioco e dintorni.

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    Gioco d’azzardo online

    Calabresi spendaccioni

    Nel 2021 in Calabria sono stati spesi 1 miliardo e 100milioni in gioco fisico (slot, gratta e vinci, lotto, superenalotto, scommesse sportive ecc.) e 3 miliardi di euro in gioco on line per un totale, come detto, superiore ai 4 miliardi. Questo trend è in crescita costante dal 2006.
    Da allora le percentuali tra gioco reale e on line si sono invertite e ormai il web ha superato sale giochi e rivendite. Nel 2021 si è arrivati al 64% on line e 34% gioco fisico. E questo non solo agevola gli eccessi e le ludopatie (che ormai i SerD trattano alla pari delle dipendenze da alcol e droghe) ma anche le infiltrazioni indesiderabili.

    Caccia ai criminali del gioco d’azzardo online

    Sul web “stare dietro” ai criminali è molto più complicato. Tuttavia, la polizia si è data un gran da fare: lo provano numerose operazioni, le più importanti delle quali, come ha sottolineato la Commissione antimafia della precedente legislatura, hanno colpito i principali clan calabresi.
    Giriamo il calendario un po’ indietro: nel 2019 l’Adm ha pubblicato un dossier con i dati di tutti i Comuni italiani divisi per regioni e per tipo di gioco d’azzardo, I suoi numeri si riferiscono al solo gioco fisico che allora in Calabria valeva 1 miliardo e 700 milioni. Questo dato, come già detto, è diminuito. In compenso, è cresciuto il virtuale. Quindi il denaro speso dai calabresi in azzardi vari è quasi raddoppiato.
    In autunno dovrebbero uscire i numeri dell’Adm relativi allo scorso anno, va da sé stimati in rialzo come in tutti gli ultimi anni escluso il 2020, l’anno del covid e delle restrizioni maggiori per tutti i cittadini.

    Giocatori d’azzardo calabresi Comune per Comune

    Nella città di Cosenza, secondo l’Adm nel solo 2019 sono stati spesi 73 milioni, a Catanzaro 93 milioni, a Reggio Calabria 198 milioni, a Crotone 53 milioni e a Vibo Valentia 59 milioni. Questi dati riguardano solo le sale.
    Tra gli altri Comuni calabresi, impressionano i 14 milioni di euro di Pizzo Calabro, i 24 milioni di euro di Villa San Giovanni, i 17 milioni di Taurianova, i 18 milioni di Melito, i 21 milioni di Bovalino, i 18 milioni di Cirò, gli 8 milioni di Spezzano Albanese, i 14 milioni di Amantea, i 13 milioni di Scalea, i 14 milioni di San Marco Argentano, i 7 milioni di San Lucido, i 17 milioni di San Giovanni in Fiore, gli 86 milioni di Rende, i 18 milioni di Paola, i 30 milioni di Montalto Uffugo, i 12 milioni di Crosia, i 91 milioni di Corigliano, i 19 milioni di Castrovillari e i 13 di Acri.
    Questi numeri parlano da soli.

    Operazione Stige

    Per la Commissione antimafia è preoccupante la crescita della ‘ndrangheta di diverse aree della Calabria in questo settore. E si citano, al riguardo, due operazioni di polizia (tra le tante) per testimoniare tanta preoccupazione.
    Esemplari, ad esempio, i dati dell’operazione Stige della Dda di Catanzaro, che ha disarticolato la locale di Cirò, capeggiata dalla cosca Farao-Marincola, con diramazioni in numerose regioni italiane e in Germania.
    Le indagini hanno accertato il controllo di fatto di un punto Snai, localizzato a Cirò Marina, basato su complesse operazioni societarie e cambi di intestazione finalizzati a occultare la riconducibilità della sala alla cosca.

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    Finanzieri in azione

    Operazione Galassia

    L’operazione Galassia è un vero e proprio riassunto della struttura e delle funzioni di un network criminale composto da tutte le matrici mafiose italiane: dalla ‘ndrangheta alla Camorra, da Cosa Nostra alla criminalità organizzata pugliese. L’indagine, coordinata dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, ha integrato diversi procedimenti condotti dalla Procure di Reggio Calabria, Bari e Catania.
    Al riguardo, la Commissione si concentra proprio sulle dinamiche che nel tempo sono mutate in relazione al gioco e agli “appetiti” delle cosche. Infatti, si apprende dalla relazione 37: «Se ancora sul finire degli anni Novanta la polizia giudiziaria era impegnata principalmente su fenomeni delinquenziali correlati alle corse negli ippodromi e nei cinodromi, ai combattimenti clandestini combinati tra animali, alle sale da gioco ambigue (parte semilegali e gran parte totalmente illegali) e ai quattro casinò autorizzati (Campione d’Italia, Venezia, Saint Vincent, Sanremo), successivamente il quadro dell’offerta di gioco muta considerevolmente».

    La mafia corre sul web

    Cosi, «dal progressivo processo di espansione dell’offerta pubblica e ancor più con il salto delle tecnologie digitali che ha consentito l’esplosione del mercato delle scommesse online, avviene anche il salto evolutivo dell’intervento delle mafie nel comparto».
    Morale della favola: si gioca troppo e così tanto da attirare le mafie.
    Impedire le infiltrazioni criminali è affare degli investigatori. Invece, ridurre gli sperperi nel gioco è un compito che spetta a tutti. Ma come? La domanda resta aperta. Per tutti.

  • GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    GENTE IN ASPROMONTE | Qualcuno volò tra i boschi dei primitivi

    L’estate 2021 ha segnato per me uno spartiacque. Da Reggio la linea del fuoco si intravedeva appena, ma l’Aspromonte bruciava. Erano giorni torridi e lo scirocco soffiava forte: stavano andando in fumo 8.000 ettari di Parco e le faggete vetuste, parte del patrimonio UNESCO, erano in pericolo. Il versante più colpito era quello jonico, ma l’incendio era vastissimo e le colonne di fumo si levavano fino alla città.

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    Quel che resta degli alberi bruciati in Aspromonte nell’estate 2021

    Sentivo l’urgenza di restituire alla Montagna la dignità e il rispetto che meritava. Un paio di tentativi fallirono. Poi, quel bisogno fu seppellito da incombenze e quotidianità, coperto da uno strato greve di cenere, nonostante, al di sotto, la brace di quell’urgenza restasse viva.
    Lo scorso gennaio, per un caso fortuito, ho avuto il contatto di Luca Lombardi, una delle guide ufficiali del Parco. Dopo la nostra prima chiacchierata, quella brace si è riaccesa. Luca mi ha dato le chiavi per iniziare il cammino in Aspromonte.

    Il sistema invisibile

    «Della montagna e del parco bisogna scrivere di più, raccontando quello che accade. Quando ci si approccia all’Aspromonte, sembra che sia tutto da costruire, invece l’escursionismo guidato esiste da 30 anni. E, anche se molte cose possono essere poco visibili, c’è una rete di addetti ai lavori che opera, accoglie, valorizza la montagna. Io sono una figura ibrida: guida e operatore del turismo montano. Gestisco l’ospitalità di diverse strutture dell’accoglienza diffusa. Sono il collante tra le guide, la ricettività e le agenzie. Uno dei maggiori tour operator della provincia di Reggio si trova a Bova. Se ne parla poco, ma qui abbiamo società, strutture ricettive, aziende agricole, organizzazioni che ruotano attorno al mondo dell’Aspromonte e che riescono a fare sistema. Collaboriamo, ci scambiamo i clienti, parliamo. In linea di massima sono soddisfatto, ma si deve fare di più».

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    Luca Lombardi

    Luca e le guide sono tra chi ha alimentato una feroce polemica all’indomani degli incendi. Hanno sconfessato le prime dichiarazioni del presidente Autelitano mostrando, attraverso i dati Copernicus, come il fuoco avesse avuto origine e traiettorie differenti da quanto da lui ipotizzato. Sono attivisti che hanno scelto la montagna, parte di una generazione di trentenni che ha scelto di restare o ritornare. La generazione che, pur con le sue emorragie, ha sviluppato un senso per una sfida impossibile: investire in Calabria.

    Gianluca Delfino, il ritornato survivalista

    Tra di loro c’è Gianluca Delfino, animatore dell’associazione Kalon Brion Hug a Tree Movement, anni trascorsi nelle cucine francesi col cuore ai cavalli e al suo borgo di origine, Galatoni. Il nostro viaggio fisico e spirituale parte da lì per inerpicarsi fino allo Zomaro. Incontro a febbraio questo marcantonio biondo vestito da montagna, a prima vista più nordeuropeo che calabrese. Un caffè veloce a Cittanova e poi ci spostiamo col suo fuoristrada verso i ruderi del vecchio borgo medievale dove vive col padre e gestisce il suo maneggio, immerso nella natura tra cavalli, ulivi e animali. Dalla cittadina la strada, tra curve e uliveti, dirada nell’aperta campagna mentre saliamo lentamente verso la pedemontana.

    «Galatoni, nata intorno al 1250, è uno degli ultimi borghi appartenenti al feudo del casato di Terranova che comprendeva tutta l’area tra il Marro-Petrace e il Vacale toccando da un lato Rosarno e dall’altro la cresta della montagna. Si è formato quando i Taureani stanziavano e commerciavano nell’area. Terremoti e invasioni saracene li costrinsero a spostarsi verso una zona più interna dove poi sorse Terranova, con le sue terre e il suo castello, oggi terreni coltivati a uliveti secolari che hanno sostituito il gelso».
    L’auto si ferma. Siamo ormai in aperta campagna. Davanti a noi un casale in ristrutturazione sfida i ruderi che gli stanno di fronte, tra cui emerge quel che resta della chiesa di Maria S.ssima de Nives. In fondo, recinti e cavalli.

    Dalla Francia allo Zomaro

    Gianluca è uno dei ritornati: «Al rientro dal Piemonte, dove i miei genitori lavoravano in fabbrica, qui non c’era più nulla. Eravamo quelli che si sono portati il cavallo dalla Calabria. Un milione e ottocento mila lire al mese di pensione per accudirlo. Originariamente questa era una stazione di monta della Regione dove era presente il Nearco di Doria. Papà, da grande appassionato, voleva ricreare la razza calabrese. Lui e mamma erano istruttori di equitazione: appena arrivati, davano lezioni di ippica. Ho iniziato a lavorare nella ristorazione. Mi sono trasferito in Francia del Nord: mi pagavano bene. Ma mentre componevo i piatti, avevo impregnato l’odore di questi ulivi, lo scampanìo delle vacche, il gorgoglìo dei ruscelli dell’Aspromonte. Ho deciso di tornare».

    Poi sono partiti i progetti: «Avevo in mano un percorso in Scienze Naturali, una passione per i fermentati vegetali e un progetto sul fitorimedio e sulla coltivazione di Artemisia Annua col metodo di Teruo Higa. Volevo utilizzare i fermentati e riprodurre alcuni comparti microbici attraverso quella tecnica. La prima tappa in Italia fu dal professor Roberto Marino dell’Università di Padova: gli illustrai il mio progetto e decidemmo di partire per la Calabria dove abbiamo fatto sperimentazioni in pieno campo studiando i Probiotic Autogen Microrganism che, diluiti, potevano essere usati nelle stalle. Assieme a quelli anche il relativo terriccio. Questo accadeva cinque anni fa. L’iniziativa si spense per la penuria di fondi. Poi è arrivata la pandemia».

    La nascita di Kalon Brion Hug a Tree Movement

    Kalon Brion era già nata ed era ai suoi albori. Questa associazione dalla dicitura metà greca e metà bruzia conteneva già nel nome il suo manifesto: far sorgere il bello e il buono. Un bello che per Gianluca, Rocco e gli altri si trova in montagna, tra i boschi e le sorgive. Sono eco-operatori, appassionati di survivalismo, flora e fauna: si prendono cura del territorio, presidiano i sentieri, organizzano immersioni in natura.

    «La nostra associazione è nata da una comunione di interessi e intenti: monitorare il territorio, proteggere e valorizzare la montagna, vivere a stretto contatto con la natura, educare al turismo montano consapevole e al rispetto della biodiversità. Assieme a me ci sono persone come Rocco Calogero, poliglotta, un passato nella foresta boliviana, e la mia compagna, videomaker. Tutti con la stessa passione e competenze diverse. Veniamo da una lunga esperienza di animal tracking e monitoraggio dell’avifauna. Rocco ed io siamo gli unici in Calabria ad avere quest’abilitazione. In zona Taureana, siamo stati invitati a collaborare al piano di studio ambientale propedeutico a un progetto di riqualifica dell’area archeologica. Allora insieme al professor Tripepi di Scienze Naturali dell’Unical abbiamo monitorato il Chameleo chaemelon presente tra gli eucalipti della Tonnara di Palmi. Poi ci siamo accorti che c’era un deficit legato alla mappatura di flora e fauna a nord di Gambarie ed avevamo la sensazione che questa porzione di territorio fosse stata completamente abbandonata dalle istituzioni e dal Parco».

    Se boschi e logica scompaiono

    Scalando in auto la strada che serpeggia sui fianchi della montagna, Gianluca mi racconta di come, durante la stagione degli incendi, avessero mollato tutto l’ordinario per organizzare staffette di volontari a supporto delle operazioni di spegnimento: «Più i boschi bruciavano, più le nostre attività rischiavano di essere vanificate. La nostra missione è lavorare nel presente per il futuro. Puntiamo sulle scuole per uscire dalla logica che la prospettiva dell’Aspromonte sia di un parco giochi per il weekend. La montagna è vita e opportunità tutto l’anno. Nel bosco si entra sempre come ospiti: noi passiamo, lui resta. Ci chiediamo ancora perché il modello Aspromonte contro gli incendi sperimentato da Bombino non abbia trovato seguito. Una best practice fatta naufragare, salvo poi essere adottata da diversi altri parchi, come quello del Pollino, con evidenti risultati. Ma qui ci scontriamo con le logiche del non-senso».

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    Volontari di Kalon Brion impegnati a spegnere il fuoco durante gli incendi dell’estate 2021

    Mentre saliamo allo Zomaro, Gianluca è trasfigurato in Attis, giovane dio della vegetazione nella mitologia greca: «Abbiamo tutti la stessa origine e ognuno, nel suo profondo, conserva un richiamo primordiale che prima o poi lo porta a cercare il contatto con la natura. Noi lo aiutiamo a riaprire certi cassetti chiusi da tempo. Diamo le chiavi perché si ristabilisca il contatto profondo con ciò da cui veniamo. Il nostro campo base si trova allo Zomaro, nell’area dell’ex Ostello della Gioventù».

    L’area dell’ex Ostello allo Zomaro

    Zomaro è il punto più stretto del Parco e una delle sue porte naturali, allungato lungo il dossone della Melìa. Da qui si dominano il versante tirrenico e jonico. Tra le zone più umide dell’Aspromonte, lo Zomaro (Οζώμενος – acquitrinoso) straborda di una fitta vegetazione di faggi, abeti, pini e larici centenari e ospita sorgive di acque oligominerali. È li che ci trasferiamo dopo la tappa a Galatoni.
    L’ex Ostello allo Zomaro è un’area concessa dal comune di Cittanova con un bando per la ripulitura.

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    L’area dell’ex ostello di fronte al campo base di Kalon Brion

    «Cercavamo un quartier generale, un campo base dove svolgere le nostre attività all’aperto. Accogliamo e supportiamo ciclisti e turisti che fanno questa tappa lungo il loro cammino. Realizziamo attività di educazione al survivalismo e al natural living per grandi e piccoli, collaboriamo con le scuole proponendo laboratori didattici. Kalon Brion si è sempre distinta per il suo spirito di servizio verso il territorio e la montagna. Tanto abbiamo premuto e insistito perché quest’area dismessa potesse tornare patrimonio della comunità, fino a quando il Comune ha deciso di affidarcela: da tempo chiedevamo perché questa porzione di territorio dovesse restare abbandonata».

    Sotto al berretto di lana verde petrolio, dietro agli occhiali che riverberano la luce di mezzogiorno, sotto al peso di una montagna che sembra caricarsi sulle spalle, i suoi occhi celesti si accendono. Una sigaretta dopo l’altra, Gianluca scende dall’auto, allarga le braccia e mi invita ad entrare: «Quando abbiamo ottenuto le chiavi di questo cancello – racconta mostrandomi una recinzione rudimentale che cinge l’area – abbiamo festeggiato. Le prospettive erano grandi e poteva aprirsi una nuova stagione».

    Autogestione e natura

    Il breve sentiero che porta al campo base dello Zomaro fiancheggia a sinistra l’ex Ostello della Gioventù, unico punto in zona dove si sarebbe potuto alloggiare. «A vederlo dall’esterno sembra solido, ma è stato confiscato perché sede abusiva di opache riunioni e reso inagibile per via dei lucernari lasciati aperti. Ha all’interno 60 stanze, alcune con i mobili ancora nuovi, un forno a legna, un ristorante, ed è una delle pochissime strutture in Aspromonte non vandalizzate».

    A destra si apre lo spazio in concessione: 26.500 metri quadrati autogestiti, senza alcun finanziamento, che oggi sono il luogo dove si svolgono didattica, campi estivi, laboratori. Accanto, un piccolo prefabbricato attrezzato con un cucinotto. All’interno ci sono i lavori realizzati durante le attività: archetti per accendere un fuoco in condizioni di emergenza, cordame per reti, e tutto quanto necessario per soddisfare i bisogni primari in natura; ci sono anche reperti faunistici con cui viene spiegato, ad esempio, come e con quali materiali un volatile costruisce il suo nido. In un angolo le ricetrasmittenti e le fototrappole utilizzate per l’animal tracking, essenziale per mappare evoluzioni e criticità del territorio in base a cui orientare strategie di intervento. Comprese quelle contro il bracconaggio.

    Dalle Highlands allo Zomaro e dintorni

    Gianluca mi spiega anche che l’ecosistema della montagna non si limita ai pendii, ma scende a valle arrivando fino a mare: «Bisogna capire che ci troviamo in un punto unico al mondo. Gli scozzesi arrivano a studiare l’Ulivarella di Palmi perché si trovano minoliti presenti anche nelle loro Highlands. I ricercatori vengono qui a ricostruire la cronostoria dei movimenti della tettonica a placche e dell’orogenesi. Questo è il dato di realtà». È l’Aspromonte che con i suoi tentacoli di roccia arriva fino al Mediterraneo.
    Un’area unica in sue sensi: abbraccia un comprensorio molto più grande del Parco scendendo a valle e custodisce unicità da tutelare e valorizzare. «Bisogna progettare partendo dall’esistente, spesso trascurato», mi incalza Gianluca. Ed in effetti le opere di ripristino della rete di accesso al bosco e degli antichi sentieri annunciate a giugno 2020 da Regione e Comune di Cittanova, 180 milioni di euro sul PSR 2014/2020, non sono state ancora realizzate.

    I problemi con il Parco

    «L’atteggiamento delle istituzioni e del Parco deve cambiare. Bisogna capire che dobbiamo remare insieme nella stessa direzione. Se è vero che sotto la superficie le associazioni di animazione e promozione territoriale stanno creando sinergie, lo stesso non può dirsi per le autorità di gestione. Noi siamo quelli che fanno il tracciamento dei lupi e dei caprioli, siamo gli avio-osservatori, un lavoro non dovuto e non retribuito che mettiamo a disposizione. Anche da qui passa il futuro del Parco. Bisogna abbattere i muri comunicativi. Volevamo creare delle zone di controllo e monitoraggio della porzione nord dell’area montana di concerto con altre forze: dal Parco ci è stato risposto che le richieste non erano giunte, quando noi eravamo già in possesso dei certificati di avvenuta ricezione delle pec inviate».

    È un po quello che mi diceva anche Luca Lombardi: «Le guide rappresentano l’economia e le aziende all’interno del Parco, ma non siamo stati ascoltati. Abbiamo chiesto che certi processi portati avanti dalla precedente gestione fossero ripresi, che certe iniziative fossero promosse, che si puntasse l’attenzione su attività internazionali, come il Geoparco UNESCO o la Carta del Turismo sostenibile. Ci hanno respinti. Il Parco si è auto-isolato. Adesso, l’arrivo del nuovo direttore amministrativo Putortì fa ben sperare: appena insediato, ha incontrato le associazioni».

    Lo Zomaro mette le ali

    Il parco però sembra muoversi con nuove strategie. L’approvazione del progetto del Campo Volo a Zomaro proposto da CAP Calabria è un segnale. Si tratta di un’iniziativa dedicata all’aviotrasporto e alla flytherapy promossa da Giancarlo Fotia.
    Istruttore di volo, per la prima volta, accetta di farsi intervistare.

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    «Porto avanti questa idea da 10 anni. Non è stato facile. All’inizio ho ricevuto un coro di no. Il Parco non si tocca. Qualcuno mi ha anche detto “la montagna è mia”. Ma io ero convinto di sì. Sono andato a prendere tutte le mappe, ho effettuato ricerche catastali, realizzato studi per dimostrare che l’impatto acustico degli aerei da diporto fosse irrisorio, diversamente da quello di fuoristrada e moto che scorrazzano senza grande controllo».

    E così ha individuato il luogo ideale per mettere in pratica la sua idea. «La lingua di terra di 800 metri che ho individuato è un prato allo Zomaro che delimita il confine col Parco. È nel parco, ma nella particella 16: una zona DS per l’alta antropizzazione destinata dal piano comunale di Cittanova ad area pubblica per attrezzature collettive. É pianeggiante e priva di vegetazione. Dai sopralluoghi si è scoperto che non è nemmeno necessario sbancare. In poche parole si tratta di delimitare la pista con cinesini in plastica frangibile e maniche a vento, e porre estintori mobili. Si accederà e si uscirà dal punto più vicino del confine del parco. Non ci saranno opere murarie».

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    Fly Therapy in Veneto

    L’unione fa la forza

    «I campi di volo – continua Giancarlo – esistono già all’interno di altri parchi. Voglio lavorare insieme al Parco affinché il campo volo dello Zomaro sia un’occasione di sviluppo e di tutela per tutta l’area che versa in uno stato di abbandono e di scarso controllo. Altrove, grazie a queste forme di collaborazione, sono stati scoperti casi di abusivismo vari, dalla discariche alla caccia di frodo. La montagna è di tutti e a beneficio di tutti deve tornare. Ho intenzione di realizzare una scuola di volo e la fly therapy per bambini e ragazzi diversamente abili che possano vivere un’esperienza che può aiutarli».

    Le obiezioni al suo progetto non sono mancate. «Mi hanno accusato – racconta – di aver fatto tutto sotto traccia, ma carta canta: tutto è stato svolto con procedure di evidenza pubblica. Mi hanno obiettato che è una follia far volare aerei quando viene proibito l’utilizzo di droni nell’area. Ma i droni rappresentano un pericolo maggiore: hanno preso fuoco in volo, sono stati attaccati da rapaci, sono poco regolamentati perché utilizzano una tecnologia nuova. Voglio fare tutto coinvolgendo altre associazioni come Kalon Brion perché la tutela e lo sviluppo passano dalla sinergia. Bisogna lavorare tutti assieme».

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    L’area che ospiterà il campo volo vista dall’alto

    Particolare e universale

    Lo scorso 29 dicembre il Comune di Cittanova ha pubblicato la Delibera di Consiglio N. 45 con cui approvava lo schema di convenzione tra municipio ed associazione per la gestione del campo volo dello Zomaro. Il progetto è già approvato.
    Questa storia ha visto contrapporsi diversi attori della montagna: ambientalisti, attivisti, sacerdoti della natura, imprenditori e operatori che hanno lamentato un eccessivo impatto, appellandosi alla necessità di dare priorità a interventi di riqualifica più urgente. Allora mi chiedo: può una tale iniziativa essere la spinta per realizzare migliori servizi a fronte del fatto che il piano straordinario di riqualificazione della percorribilità interna al Parco, 10 milioni di euro, è in fase di realizzazione? Lo sviluppo si stimola andando dal particolare all’universale o viceversa?

    Prima di rientrare, ci muoviamo tra i larici centenari per arrivare a una sorgiva. La segnaletica con i dati delle acque è corrosa dalla ruggine. Sarà vecchia di almeno 30 anni. É vero: la Regione Aspromontana ha bisogno di servizi, di controllo, di sinergie, di presenza. Della sua comunità che la viva, sottraendola all’abbandono e al de-sviluppo.
    Il sole cala, la nebbia si solleva, attaccandosi addosso col suo abbraccio bagnato. É tempo di andare. Porto con me nel crepuscolo verso la città del terriccio sotto gli scarponi, una borraccia di acqua di fonte e lo sguardo appassionato di Gianluca.