Nelle sacre stanze dove il fumo annuncia il destino della Chiesa, si addensano nubi di intrighi e manovre occulte. Non è solo lo Spirito Santo a guidare le mani dei cardinali elettori verso la scelta del nuovo Pontefice; dietro le quinte, dossier segreti e campagne mirate tessono una fitta trama di influenze. Queste trame sono sempre più spesso finanziate da forze esterne, la cui identità si perde nelle pieghe del potere e del denaro globale. Sospetti puntano verso flussi di finanziamento transatlantici , i quali potrebbero alimentare non solo campagne di dossieraggio, ma anche consolidare blocchi di influenza interni al Collegio Cardinalizio, come suggerito da resoconti giornalistici che parlano apertamente di un “partito dei cardinali d’America” e delle sue strategie in vista di future successioni .
Le ingerenze nell’era digitale
L’eco di antiche ingerenze risuona ancora, ma le tattiche si sono affinate, abbracciando gli strumenti dell’era digitale e le strategie dell’intelligence. La storia insegna che il conclave non è mai stato immune da pressioni esterne. Oggi, le modalità sono cambiate, ma l’obiettivo rimane lo stesso: installare sul Soglio di Pietro un uomo allineato con specifici interessi politici, ideologici o finanziari. Un obiettivo che, in un’epoca di forte polarizzazione, può intrecciarsi con le ambizioni di figure politiche internazionali (come l’immagine controversa di Trump vestito da Papa potrebbe simboleggiare) e con le dinamiche interne al Collegio Cardinalizio. Qui emergono, secondo la stampa (, vere e proprie ‘cordate’ o ‘partiti’ su base nazionale, come quello americano, che discutono attivamente scenari futuri e possibili candidati, riflettendo forse agende esterne.
Finanziamenti transatlantici e dossieraggi per disegnare nuovi scenari
I cardinali spiati
Emergono inquietanti resoconti sull’esistenza di “dossier” sui cardinali, compilati con cura . Un gruppo, con un budget significativo – le cui origini potrebbero risiedere in ambienti politico-finanziari internazionali – e l’ausilio di ricercatori (inclusi ex agenti FBI), si prefigge di “auditare” i cardinali elettori. L’intento dichiarato è fornire profili dettagliati, ma la finalità ultima appare quella di influenzare le dinamiche pre-conclave e il voto stesso, screditando candidati non graditi a specifiche fazioni interne o ai loro sostenitori esterni.
Queste pratiche richiamano Vatileaks, ma si collegano anche a una più ampia “guerra occulta” esterna. Le fonti di finanziamento restano celate, ma gli indizi puntano a una pluralità di attori: gruppi organizzati con agende specifiche, disposti a investire risorse ingenti (potenzialmente attingendo a quei “fiumi di dollari” transatlantici), e forse anche fondi interni usati opacamente.
Queste manovre riflettono strategie globali di influenza. In un’epoca segnata da una “guerra all’empatia” , non sorprende che tattiche di delegittimazione trovino terreno fertile anche negli ambienti ecclesiastici. L’uso di dossier si allinea a questa strategia più vasta.
Trump ai funerali di Bergoglio
Influenzare la scelta del nuovo Papa
L’obiettivo di chi finanzia e diffonde questi dossier – siano essi attori interni o potenti lobby esterne (le cui agende potrebbero trovare eco nelle posizioni di fazioni specifiche all’interno del cardinalato, come quelle americane riportate dalla stampa) – è chiaro: orientare la discussione pre-conclave, influenzare le “cordate” cardinalizie (ora identificate anche su base nazionale) e spianare la strada a un candidato allineato. È una battaglia per il controllo che si combatte nel segreto, con l’ombra dei dossier, dei finanziamenti oscuri e delle emergenti fazioni cardinalizie nazionali a incombere sulle coscienze degli elettori.
La nuova sfida della Chiesa: la trasparenza
Mentre il mondo attende il fumo bianco, la Chiesa si confronta con sfide di trasparenza in un contesto dove manovre di potere, alimentate da interessi interni ed esterni e manifestantisi anche in divisioni nazionali tra i cardinali, minacciano di inquinare il processo sacro dell’elezione papale. Le immagini evocate non sono solo quelle celestiali della Sistina, ma anche quelle di corridoi ombrosi e carte che potrebbero cambiare il corso della storia secondo agende ben precise.
Dalla terra aspra e generosa di Calabria, emerge la figura di un cardinale il cui percorso è intriso di umanità e vicinanza agli ultimi: Domenico Battaglia. Nato a Satriano, in provincia di Catanzaro, “Mimmo” per chi lo conosce bene, ha saputo tradurre le sfide e la profondità del Sud Italia in un ministero radicato nella concretezza e nell’ascolto. La sua formazione nel seminario regionale di Catanzaro non lo ha allontanato dalla sua gente, ma lo ha preparato ad affrontarne le realtà complesse, dalla povertà all’emarginazione. Questo legame indissolubile con la sua terra d’origine ha forgiato in lui l’identità di “prete di strada”, un pastore che non teme di sporcarsi le mani per stare accanto a chi soffre.
Battaglia è stato uno degli ultimi cardinali “creati” da Bergoglio
Il prete di strada diventato cardinale
Per oltre vent’anni, Don Mimmo ha guidato il Centro Calabrese di Solidarietà di Catanzaro, un faro di speranza per persone affette da dipendenze. Questa lunga esperienza sul campo non è rimasta confinata ai soli confini regionali, ma lo ha portato a presiedere la Federazione Italiana delle Comunità Terapeutiche, dimostrando capacità di leadership e una visione ampia sui temi del disagio sociale. Le sue riflessioni, raccolte in libri dai titoli evocativi come “I poveri hanno sempre ragione”, testimoniano una teologia vissuta, nata dall’incontro autentico con le ferite dell’umanità. È una prospettiva che si allinea perfettamente con l’ideale di una “Chiesa povera per i poveri” promosso da Papa Francesco.
L’elevazione episcopale lo ha visto prima alla guida della diocesi di Cerreto Sannita-Telese-Sant’Agata de’ Goti e successivamente promosso alla prestigiosa sede metropolitana di Napoli. Questo passaggio ha rappresentato un riconoscimento della sua statura pastorale e della sua capacità di gestire realtà complesse, portando il suo approccio di “prete di strada” in una delle più grandi e vivaci diocesi italiane. La nomina a Napoli, sede tradizionalmente cardinalizia, ha anticipato la sua creazione a Cardinale.
Domenico Battaglia, un calabrese nel Conclave
L’ultimo cardinale creato da Papa Francesco
Papa Francesco lo ha voluto Cardinale nel Concistoro del 7 dicembre 2024, un gesto che assume un valore simbolico particolare, essendo stato l’ultimo cardinale creato dal Pontefice scomparso. Questa scelta non appare casuale, ma un’ultima, forte indicazione di Papa Francesco sulla direzione che egli auspicava per la Chiesa: una Chiesa vicina agli ultimi, in uscita, capace di parlare con la vita prima ancora che con le parole.
Ora, Cardinale elettore, Domenico Battaglia entra in conclave portando con sé il profumo della sua terra, l’eco delle voci degli emarginati incontrati lungo il cammino, e la saggezza maturata in anni di servizio pastorale nelle periferie. Il suo profilo, forse meno legato ai palazzi vaticani e più alle strade del Sud, lo rende una figura interessante nel dibattito pre-conclave. Alcuni lo indicano come un possibile “outsider”, un candidato capace di assicurare una continuità con le priorità pastorali del pontificato francescano.
Il porporato calabrese che viene dall’impegno sociale
La cifra del suo ministero è stata quella dell’impegno sociale
La sua voce in conclave sarà quella di un pastore che ha fatto della prossimità e dell’impegno sociale la cifra del suo ministero, un testimone autentico di una Chiesa che si vuole “ospedale da campo”. Indipendentemente dall’esito, la presenza di un cardinale come Battaglia assicura che le istanze delle periferie e la visione di una Chiesa incarnata nella realtà del Sud Italia saranno al centro del discernimento che porterà all’elezione del prossimo successore di Pietro.
Immaginate un’assemblea solenne, uomini vestiti di rosso porpora riuniti sotto gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. Non sono lì per ammirare l’arte, ma per compiere una scelta che influenzerà la vita di oltre un miliardo di persone: eleggere il nuovo Papa. Questa assemblea si chiama Conclave, e gli uomini in rosso sono i Cardinali elettori – i più stretti collaboratori del Papa, provenienti da ogni angolo del pianeta, con meno di 80 anni.
Un Conclave diverso rispetto al passato
Oggi, ad aprile 2025, questo gruppo di 135 uomini è molto diverso da quello di dieci o vent’anni fa. Il motivo principale? Papa Francesco. Nei suoi oltre dieci anni come Papa, ha nominato la stragrande maggioranza di loro, circa 103 su 135. È come se un allenatore avesse scelto gran parte della squadra. Questo significa che molti cardinali potrebbero condividere la sua visione: una Chiesa più attenta ai poveri e agli emarginati (le “periferie” di cui parla spesso), più misericordiosa, più aperta al dialogo con tutti e governata in modo più collegiale (“sinodale”, cioè camminando insieme).
Sono molti i nuovi cardinali eletti da Bergoglio e vengono tutti da luoghi lontani
Cardinali venuti dall’altra parte del mondo
Ma attenzione: non è detto che il prossimo Papa sarà una fotocopia di Francesco. Il gruppo dei cardinali è tutt’altro che compatto. È un mosaico globale, più colorato e diversificato che mai. Francesco ha voluto cardinali da paesi che non ne avevano mai avuti prima: pensate a Haiti, Myanmar, Tonga, Paraguay, Sudan del Sud. L’Europa ha ancora molti cardinali (53), ma Asia (23), Africa (18) e America Latina (17) hanno voci sempre più forti.
Questa non è solo geografia. È un incontro (e talvolta uno scontro) di culture e modi di vedere il mondo. Un cardinale africano o asiatico vive problemi e priorità diverse da un collega europeo. Lo si è visto chiaramente con la recente decisione vaticana (Dichiarazione Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni (18 dicembre 2023)) di permettere benedizioni a coppie “irregolari”, comprese quelle omosessuali: i vescovi africani, quasi all’unanimità, hanno detto “no”, citando la loro cultura oltre alla dottrina. Anche il Papa ha riconosciuto questa diversità di vedute.
La Chiesa tra innovazione, fede e tensioni
La Chiesa tra fede e tensioni davanti alle nuove sfide
Quindi, i cardinali che entreranno in Conclave portano con sé non solo la loro fede, ma anche le tensioni di una Chiesa davvero mondiale. Discutono animatamente su come interpretare antichi insegnamenti nel mondo moderno, sul ruolo delle donne, su come celebrare la Messa (la disputa sulla Messa in latino è ancora viva dopo il documento Traditionis Custodes), su come applicare i principi sociali del Vangelo. Non sono un blocco unico, ma un’assemblea viva, a volte divisa, che riflette le sfide di una fede globale nel XXI secolo.
Quando nel 2013 Jorge Mario Bergoglio, gesuita argentino, si affacciò dalla loggia di San Pietro presentandosi come il Vescovo venuto “quasi dalla fine del mondo”, fu subito chiaro che qualcosa stava cambiando. Abiti semplici, un’auto utilitaria, telefonate dirette ai fedeli: uno stile nuovo per un Papa che voleva una Chiesa “ospedale da campo”, vicina ai feriti della vita, misericordiosa, attenta ai poveri e alle periferie del mondo. Il suo obiettivo dichiarato? Riformare.
Bergoglio al suo arrivo a Cassano nel 2014
La prima delle sfide: riformare la gestione dei soldi
Una delle sfide più grandi era rimettere ordine nelle finanze vaticane, spesso al centro di scandali e sospetti. Francesco ha ereditato una situazione difficile, con poca trasparenza. Ha avviato una vera rivoluzione: ha centralizzato la gestione economica, creando nuovi organismi di controllo (come la Segreteria per l’Economia) e potenziando quelli esistenti (). Ha riformato lo IOR, la cosiddetta “banca del Papa”, con nuovi statuti (aggiornati nel 2023), limiti ai mandati dei dirigenti, regole più stringenti sui conflitti di interesse e affidando i controlli a revisori esterni(Statuto dell’Istituto per le Opere di Religione).
Il Vaticano fuori dalla lista nera dei paradisi fiscali
Risultato? Il Vaticano è uscito dalla “lista nera” dei paradisi fiscali e ha iniziato a parlare il linguaggio della trasparenza. Ma la strada è stata in salita, tra resistenze interne e nuovi scandali emersi durante il processo (con condanne anche recenti per dirigenti e un cardinale). Simbolica, però, la mossa di togliere ai cardinali gli affitti di favore per gli appartamenti vaticani: un segnale che le regole valgono per tutti. Ha anche riformato profondamente la Curia Romana, il “governo” centrale della Chiesa, con la costituzione Praedicate Evangelium.
Il Sinodo è una forma assemblea dei vertici della Chiesa in cui si svolge il confronto e la discussione
L’idea di Sinodo come cammino condiviso
Ma forse il progetto più ambizioso di Francesco è la “sinodalità”. Una parola difficile che significa semplicemente “camminare insieme”. L’idea è rendere la Chiesa meno verticistica, più capace di ascoltare tutti – vescovi, preti, suore, uomini e donne laici – per capire dove lo Spirito Santo la sta guidando. Ha lanciato un processo globale durato anni, con consultazioni in tutto il mondo e assemblee a Roma. Proprio in queste settimane di aprile 2025, ad esempio, si è conclusa la seconda assemblea del cammino sinodale italiano. È un cantiere aperto, un tentativo di cambiare il modo stesso di essere Chiesa.
I sogni di Francesco e le divisioni interne alla Chiesa
Un sogno affascinante, ma che ha acceso anche forti polemiche. Il “camminare insieme” ha fatto emergere tutte le divisioni interne alla Chiesa, come vedremo successivamente. Le discussioni sinodali sono diventate terreno di scontro su temi caldissimi:
Accoglienza LGBTQ+: La questione se e come accogliere le persone omosessuali nella Chiesa, culminata nel dibattito infuocato seguito a Fiducia Supplicans sulle benedizioni, ha mostrato posizioni inconciliabili tra chi invoca la misericordia e chi difende la dottrina tradizionale.
Il ruolo della donna: Si è parlato molto di dare più spazio alle donne nei ruoli decisionali, della possibilità di ordinarle diacono (un ministero di servizio), ma la porta al sacerdozio femminile è rimasta decisamente chiusa da Francesco, pur tra le richieste di una parte del mondo cattolico emerse anche nel Sinodo.
Papa Bergoglio
L’eredità di un sentiero tracciato
Francesco lascia quindi un’eredità complessa. Ha impresso una direzione chiara, ha aperto processi importanti, ha cambiato il volto del Collegio Cardinalizio. Ma molte riforme, soprattutto quella della mentalità e quella finanziaria, sono ancora in corso d’opera e affrontano resistenze. Il Sinodo, pur avviato, ha più evidenziato le fratture che ricomposto le differenze. Il Papa venuto “dalla fine del mondo” ha scosso la Chiesa, ma la sua rivoluzione appare, oggi, una svolta ancora incompiuta.
«C’è una identità che scalpita per essere rappresentata, che ha bisogno di un portavoce, di un ambasciatore, di un condottiero», dice con convinzione Olimpia Affuso, sociologa dell’Unical e vice coordinatrice del corso di studio di Media e società digitale, fornendo una spiegazione possibile all’impazzimento collettivo verso Dario Brunori.
È pressoché sicuro che il cantautore cosentino non si senta un condottiero, eppure durante l’ultima edizione del Festival della canzone ha incarnato la rappresentazione di un territorio e di una cultura anticamente relegati alla pena del silenzio o, peggio, incatenata ai ceppi di una narrazione nefasta.
I commenti social
Brunori Sas e la nuova narrazione della Calabria
Per una manciata di giorni questa narrazione si è spezzata e al suo posto sono emersedolcezze e poesia e appresso a loro un inatteso orgoglio. Ma le cose sono sempre più complesse di quanto appaiano e per muoversi con disinvoltura dentro l’articolata fenomenologia brunoriana c’era bisogno di uno sguardo in grado di cogliere le sfumature psico-sociali.
Paola Bisciglia, psicologa e psicoterapeuta, Giap Parini, sociologo e direttore del Dispes e la già citata Olimpia Affuso, sono stati i compagni di un viaggio dentro un fenomeno collettivo fatto di entusiasmo, rivendicazione e senso di appartenenza, tutti sentimenti che hanno trovato in Brunori Sas il riferimento. E considerata la veemenza fideistica che a un certo punto ha invaso i social, c’è il rischio che possa vagamente avverarsi la profezia espressa con la consueta intelligente autoironia dallo stesso Dario: quella di immaginarsi come una Madonna portata a spalla e con i devoti che attaccano banconote al suo mantello, come ancora avviene durante certe processioni nei nostri paesi.
Cultura alta e cultura pop
Questo richiamo divertito a una religiosità devozionale ancora viva in Calabria non è stato il solo riferimento a radici culturali profonde, come quando sapientemente, nel corso di una intervista, ha spiegato l’affascino e i riti magico-religiosi per neutralizzarlo, citando, senza citarlo davvero, De Martino. Sud e magia sul palco dell’Ariston, un passaggio tra cultura alta e quella pop, che ha suscitato non solo il sorriso, ma la rivendicazione orgogliosa «di una storia di cui ci vergogniamo», dice Paola Bisciglia, spiegando che la parola necessaria a comprendere alcune cose è proprio questa: la vergogna da cui vogliamo riscattarci.
«Si ha l’impressione che i calabresi detestino la Calabria e invece la amano, ma se ne vergognano», continua la psicologa. Poi arriva Brunori, che con la sua autenticità parla a una platea nazionale raccontando della scirubetta, «che per noi è come una cosa intima, solo nostra, e lui lo fa sfidando e vincendo quel senso di pudore che noi abbiamo per le cose che consideriamo private e da non esporre, come il dialetto, l’inflessione cosentina che Dario ha disinvoltamente esibita, la perifericità dei luoghi. In sintesi, ha ridefinito in positivo i limiti».
La psicologa avverte che tutto questo è avvenuto senza strategia, ma con assoluta autenticità e ha fatto scattare la dinamica dell’immedesimazione. Dario «è diventato uno di noi ed è forte la voglia di riconoscersi in lui». Brunori insomma ci dice che non dobbiamo nasconderci, che possiamo parlare di noi, di come siamo davvero, che possiamo rivendicare la nostra indolenza mediterranea, che il nostro ni sicca è espressione del pensiero meridiano fiero e alto. È repulsione infastidita dell’urgenza imposta dalla post modernità, noi che manco abbiamo avuto la modernità.
Brunori a Sanremo
Brunori Ipertesto, segno della contemporaneità
«Lui ha una caratteristica tipica della contemporaneità: è un ipertesto – dice Olimpia Affuso – dove si collegano testi, codici culturali diversi, parole, immagini e anche tecnologie della narrazione differenti ma con un intento unitario. E questo oggi è la chiave del successo».
Parini invece osserva il fenomeno da un punto di vista diverso. Per lui Brunori è espressione di una storia solida, capace di rappresentare «una cultura un poco blasé, disincantata, che potrebbe essere la cifra di una certa cosentinità colta, ironica, spesso antagonista, ma non certamente pensiero subalterno. Anzi, si tratta di una cultura forte». Da questo punto di vista il cantautore per Parini «rinverdisce un orgoglio che già c’era e che aveva le sue radici in una città che è stata – e, in parte, è ancora rispetto ad altre aree della regione – colta, moderna, intellettuale».
La Pizzica e la Tarantella
L’essere blasé però non aiuta a cambiare le cose: altrove la Pizzica è diventata identità culturale, mentre noi consideriamo la tarantella un ballo tamarro.
È mancato fin qui il salto per capovolgere il paradigma. La politica non sembra interessata a una operazione di rivendicazione orgogliosa, tocca quindi alla cultura cercare di fare il passo.
Il sociologo Franco cassano
«In Puglia c’era un gioco di squadra tra Vendola e Franco Cassano, tra la visione politica e le aule universitarie», aggiunge Olimpia Affuso, ricordando come Sergio Bisciglia, docente di Sociologia urbana, abbia sottolineato che lo sviluppo turistico della Puglia sia passato dalle università. Il confronto tra la Puglia di Vendola e la Calabria di Occhiuto sembra piuttosto audace ed è vero, come avverte Parini, che tra qualche tempo l’eco sanremese si sarà stemperato, «ma intanto abbiamo trovato un ambasciatore che ha nazionalizzato la Calabria».
Brunori e la potenza della bellezza
Di tutto questo adesso resta «la potenzialità politica della bellezza», come conclude Affuso e che è stata rappresentata dall’arte di Dario Brunori. Dobbiamo trovare l’intelligenza per trasformare questa bellezza in azione. Ma più di tutto ce la dobbiamo meritare.
Che cosa sta succedendo alla Vari di Palmi? Tante cose, se lo scorso 2 agosto si è arrivati a un’interrogazione parlamentare di Ettore Rosato in merito ai debiti della Fondazione Varia di Palmi, di cui – denuncia l’opposizione in Comune di Palmi – non si conosce ancora il bilancio 2023. O meglio non si conosceva perché qualche ora fa la Fondazione ha reso noto di averlo approvato lo scorso 28 giugno 2024 (https://www.facebook.com/100064814703758/posts/897787495725066/?rdid=0kZXgVcuzgvWpcNh).
L’opposizione attacca il sindaco
E perché i consiglieri di opposizione, che hanno fatto richiesta di accesso agli atti evasa senza risposta, ce l’hanno col sindaco? Perché dicono che in qualità di Presidente onorario e membro del Consiglio Direttivo della Fondazione, non può non conoscere la situazione finanziaria dell’ente. E anche se lo scorso 5 giugno 2024 Comune e Fondazione uscivano con una nota per spiegare l’intoppo tecnico dovuto al ritardo nella presentazione del bilancio, ci sono volute polemiche e la richiesta di intervento del Ministro competente per fare uscire fuori un bilancio con una passività di oltre 325.855,00 euro, approvato mesi fa, tenuto nascosto e reso pubblico solo all’inizio di agosto. Ma di questo ci occuperemo nella prossima puntata.
Più in generale non si respira aria tranquilla, se il 2 agosto il Presidente del Sodalizio dei Facchini di Santa Rosa di Viterbo, una delle comunità praticanti della Rete UNESCO delle grandi Macchine a spalla italiane di cui Palmi fa parte insieme a Nola e Sassari, parlava di qualche frizione che non avrebbe consentito la loro partecipazione alla Varia 2024 (https://www.tusciaweb.eu/2024/08/ad-oggi-sodalizio-dei-facchini-santa-rosa-non-partecipera-alla-varia-palmi/). Probabilmente, a far storcere il naso è stata la gestione di questa edizione, ivi compresa la ricerca di volontari lanciata dalla Fondazione bypassando proprio le comunità praticanti.
Varia 2024 edizione “speciale”
Lo scorso 17 Luglio il Comune, con delibera 124, approvava il “protocollo di intesa per le operazioni di marketing territoriale nel Comune di Palmi (…) in occasione dell’edizione speciale della Varia 2024”, destinando 140.000 di contributo metropolitano per l’acquisto di spettacoli e servizi di marketing in occasione della Varia.
Ma poi “speciale” perché? Non è nella tradizione della Varia la cadenza annuale, da sempre né sembrerebbe esserci alcuna occasione speciale in vista: il Giubileo sarà l’anno prossimo.
Alla 124 -che individuava le risorse da impiegare per la Festa nel bilancio previsionale 2024/2026 dell’Ente- faceva poi eco la 126 nel disporre trasferimento di oltre 14.000 euro a Fondazione Varia per le spese 2023, dichiarava pure che, ove la rendicontazione non venisse riconosciuta dalla Regione, il Comune non avrebbe risposto del debito della Fondazione di cui è socio. Tra i capitoli di spesa del 2023 vi era anche la voce relativa al montaggio delle tribune dedicate alle Autorià UNESCO. Peccato che abitualmente sono ospiti all’interno di un palazzo privato che affaccia sul Corso Garibaldi e consente la visione di tutto il trasporto.
Nel frattempo lo stesso Comune che, con delibera 106 dello scorso 24 giugno, demandava l’organizzazione delle Festa di quest’anno alla Fondazione Varia, aveva già inviato al Presidente Occhiuto una richiesta di contributo per l’anno 2024 a valere sull’art. 4 della legge Mattiani. Che anziché contenere “la relazione illustrativa delle iniziative proposte e predisposte secondo un processo caratterizzato dalla più ampia partecipazione di comunità, gruppi e individui che creano, mantengono e trasmettono tale patrimonio culturale”, era accompagnata da un file excel con voci di spesa per 844.500 euro, di cui solo 411.000 euro per spettacoli ed eventi, 255.000 per il marketing e la comunicazione e 147.500 sul “capitolo” Varia di Palmi. Un mero 17,5 % dedìcato all’oggetto di tutela della legge. Tant’è che lo scorso 26 luglio il Comitato scientifico per la salvaguardia, la valorizzazione e la promozione della Festa della Varia di Palmi, preposto a valutare al congruità delle proposte del Comune di Palmi, ha chiesto via pec approfondimenti e integrazioni a quanto presentato.
Molti interrogativi ancora senza risposta
Le domande che emergono sono diverse:
Quali sono i rapporti tra la il Comune e la Fondazione; tra questa e le associazioni delle comunità praticanti e tra queste ultime e il Comune, che sembrerebbe essere poco attento nei loro confronti e che, a parte l’associazione Mbuttaturi, non le avrebbe ancora incontrate per l’edizione 2024?
Come mai Rosato nel testo della sua interrogazione ha chiamato in causa la prefettura competente sottolineando il ruolo del Comune e del sindaco all’interno della Fondazione?
E come mai il 2023 è stato il primo anno in cui l’organizzazione della Festa della Varia ha prodotto debiti per diverse centinaia dii migliaia di euro. Nonostante i ripetuti tentativi, non sono riuscito a rivolgere queste domande a Daniele Laface, Presidente della Fondazione Varia ETS e a Giuseppe Ranuccio, Sindaco di Palmi. I telefoni hanno squillato a vuoto.
L’impressione è di trovarsi di fronte a una situazione confusa dove fine e mezzo paiono scambiarsi di posto: è la Festa della Varia l’oggetto di tutela e salvaguardia di un patrimonio UNESCO regolato da una convenzione internazionale? O piuttosto uno strumento da tirare in ballo per fare “marketing e promozione territoriale”? Nel qual caso – un uso strumentale di un patrimonio UNESCO – ricorrerebbe una delle cause di decadenza del riconoscimento. E, ci si chiede ancora, è lecito declinare lo sviluppo di un territorio piegando un patrimonio UNESCO alla celebrazione di un evento una tantum che si configura come uno spettacolo qualsiasi dell’Estate Palmese? E a quanto serve una legge regionale di tutela della Varia quale Patrimonio UNESCO, sicuramente meritoria, ma priva di copertura finanziaria, che si affida di anno in anno a contributi dalla Presidenza della Regione?
Varia 2024 verrà celebrata il prossimo 25 agosto. Siamo solo all’inizio.
Le note vicende che hanno portato al commissariamento dell’Ente Parco Aspromonte continuano a produrre effetti negativi. Sì, perché nel trentennale dell’istituzione dell’Ente e nell’anno in cui l’Aspromonte attende la verifica dei commissari UNESCO per la conferma dello status di Geoparco Globale, la macchina è completamente inceppata.
Quella verifica, originariamente prevista per lo scorso aprile, è slittata al prossimo luglio.
Una volpe in Aspromonte
Aspromonte Geoparco UNESCO: dalle origini ad oggi
L’ingresso del Parco Aspromonte come Geoparco nella rete mondiale dell’Unesco risale al 21 aprile 2021. La procedura, avviata anni addietro, era risultata vincente in tempi record rispetto a candidature che attendono ancora un semaforo verde. Nel 2018, dopo un lungo lavoro preparatorio coordinato da una struttura amministrativa che ancora funzionava, durante l’Ottava Conferenza Internazionale dei Geoparchi Mondiali tenutasi a Madonna di Campiglio, l’UNESCO aveva presentato una relazione in cui venivano evidenziate delle criticità da sanare. Nel 2021, infine, l’acquisizione dello status di Geoparco.
Rosolino Cirrincione, oggi direttore del Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Catania ha collaborato al dossier di candidatura. Cirrincione racconta che dal 2021 non ha avuto più alcuna notizia. L’Ente Parco lo ha però sollecitato, di recente, a supervisionare la bozza di relazione in preparazione per la visita dell’UNESCO del prossimo luglio. Una richiesta all’ultimo minuto che l’accademico non pare aver affatto gradito.
Il professor Rosolino Cirrincione, ordinario di Petrografia e Petrologia a Catania
Certo, diverse attività sono state svolte per adempiere alle procedure che riguardano la vita dei Geoparchi: formazione nelle scuole, produzione di materiale di comunicazione, inaugurazione e apertura di una sede specifica del Geoparco a Bova. Molto altro, però, sembra mancare.
L’Ente Parco non ha all’interno del suo staff un geologo, nonostante l’UNESCO ne suggerisca l’assunzione da anni. Chi si è occupato della candidatura del 2018, la geologa Serena Palermiti, ha collaborato come esterna con incarichi diretti. Terminati quelli, anche lei non ha più avuto dall’Aspromonte alcuna notizia sul Geoparco UNESCO.
Arrivano i commissari e non c’è nessuno
Le attività di cooperazione e trasferimento delle conoscenze con gli altri Geoparchi – precedentemente in capo a Silvia Lottero, la funzionaria che firmò la stabilizzazione illegittima degli LSU/LPU poi accusata di danno erariale – sembrano essere state molto lacunose. Così come lo è il lavoro sulla metodologia di monitoraggio delle presenze per l’implementazione delle visite turistiche.
Quello che i commissari UNESCO troveranno in Aspromonte al momento di valutare il Geoparco sarà dunque non solo un lavoro fatto a metà, ma una ridotta capacità amministrativa dell’Ente. E la capacità amministrativa è tra i principali capisaldi della verifica, assieme al coinvolgimento delle comunità del territorio. Le stesse, cioè, che da anni lamentano di non essere ascoltate dall’Ente.
Due esemplari di coturnice nel territorio del Parco
Dallo stesso Parco arrivano ammissioni che non lasciano dubbi. L’attuale responsabile del dossier Geoparco è Giorgio Cotroneo. In carica dallo scorso febbraio dopo l’insediamento del commissario straordinario Renato Carullo, imputa inefficienze e ritardi alla drammatica situazione della pianta organica e al malgoverno degli ultimi anni.
Lo stesso Carullo, poi, è ancora più netto: «Siamo in ritardo su tutto. La situazione è quella che è: contenziosi interni ed esterni, procedimenti disciplinari, indagini della magistratura. Dieci giorni dopo il mio insediamento (14 febbraio 2024 ndr) ho inviato una relazione al Ministero descrivendo lo stato in cui versa l’ente e la mia difficoltà a mandarlo avanti con una pianta organica praticamente inesistente. Nonostante sia per me un campo nuovissimo, ho accelerato tutti i processi in essere. Ho bisogno che l’Ente abbia un governo che funzioni. A luglio avremo in Aspromonte la delegazione UNESCO per la verifica delle condizioni che garantiscono lo status di Geoparco, ma ci hanno già anticipato in via informale che conferiranno il bollino giallo: meglio il semaforo giallo che quello rosso».
Pietra Cappa
Stop al Geoparco UNESCO: cosa perderebbe l’Aspromonte
Il segretariato dell’UNESCO, nonostante i solleciti via mail di questa redazione, non ci ha dato conferme a riguardo. Se ci troveremo di fronte a un semaforo giallo si tratterà di un alert. E non è detto che l’ammonizione si trasformi in un’espulsione. Ma il rischio è di azzerare un riconoscimento che, se a regime, rappresenterebbe un’opportunità per tutti i territori del Parco: creerebbe flussi turistici focalizzati sul geoturismo, stimolerebbe la creazione di imprese locali innovative, anche legate alla formazione di settore, e attiverebbe nuovi investimenti, generando processi di sviluppo.
Un ciclista in Aspromonte
In tutto questo anche se il nuovo PIAO (Piano integrato delle Attività e Organizzazione) è stato approvato d’urgenza sulla scorta della programmazione lasciata dal direttore Putortì andato in pensione, gli investimenti sono fermi.
Il Parco Aspromonte è l’unico tra quelli calabresi a non avere ancora firmato la convenzione con la Regione sulla ciclovia dei parchi, anche se il commissario garantisce che la questione è in via di definizione.
Il problema è politico
«Vedo tutte le potenzialità inespresse che ci sono, ma la struttura deve essere messa nelle condizioni di operare. Senza dipendenti è come se avessi le mani legate» continua, che sottolinea come si trovi a governare «per la prima volta un ente senza Direttore».
Carullo aveva anche proposto una delibera per avviare le procedure con cui individuare la terna per la nomina del nuovo direttore da parte del ministro. Il Ministero dell’Ambiente l’ha annullata, però, perché la nomina del Direttore dovrebbe arrivare su impulso del Consiglio direttivo e del presidente. Che, dopo il commissariamento, non esistono più. Occorrerebbe, quindi, fare pressione sul Ministro affinché ricostituisca quel Consiglio direttivo. Come sempre, il problema è politico.
Leo Autelitano
Secondo Carullo, l’ex presidente Autelitano, convocato con due pec, non si sarebbe presentato per le consegne dei dossier aperti. Autelitano a sua volta, in una conferenza stampa con accanto il senatore Giuseppe Auddino (M5S), ha denunciato il carattere «trasgressivo, punitivo ed elusivo del decreto di commissariamento», imputandolo a oscure manovre di una certa parte politica. Come a dire: politica per politica, ognuno schiera le armi che ha. Ha poi negato di aver ricevuto la convocazione. Sarebbe potuta essere l’occasione per chiarire la situazione del Geoparco.
Le decisioni dei tribunali
In tutta questa matassa, le uniche certezze al momento sono due decisioni dei giudici. La prima è quella del Tar che rigetta la richiesta di sospensiva in via cautelare del provvedimento di commissariamento dell’ente.
La seconda è la bocciatura del ricorso presentato da Maria Concetta Clelia Iannolo contro l’Ente per il reintegro completo in ruolo.
E con la polemica che non accenna a smorzarsi, a perdere sono sempre cittadini, comunità e territori.
Le dichiarazioni del pentito Vittorio Giuseppe Fregona sulla criminalità rom di Reggio Calabria sono l’ultimo dei tre tasselli che delineano una mutata morfologia della ’ndrangheta in Calabria.
Addirittura una nuova “geopolitica” criminale in cui emergono e si rafforzano inediti equilibri di potere.
Seguiamo questa trama in tre tappe.
Il tribunale di Reggio Calabria
Criminalità rom: una storia in tre tappe
Nel 2005 Arcangelo Badolati, nel suo volume I segreti dei boss (Klipper, Cosenza 2008) affronta la criminalità del Cosentino, con riferimenti specifici al mutato ruolo dei clan rom nelle gerarchie di malavita. Badolati, nello specifico, approfondisce i fatti relativi all’indagine Lauro e alla faida di Cassano (2002-2003). Il 18 aprile 2023 a Catanzaro la Procura arresta 62 cittadini rom. Nelle ordinanze di custodia cautelare, relative all’operazione coordinata dal procuratore Gratteri, il gip Filippo Aragona contesta per la prima volta il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Inoltre, stesso Gratteri parla apertamente di intercettazioni che testimoniano l’affiliazione dei rom alla ’ndrangheta con tanto di battesimo. Il 12 maggio 2023 nel processo Epicentro il pentito Fregona, interrogato dal pm Walter Ignazitto, delinea un salto di qualità dei clan rom di Arghillà.
Droga e case popolari: l’impero della criminalità rom
I dettagli della deposizione riguardano l’ingresso di questi clan nel mercato degli stupefacenti con il benestare delle cosche di Catona e la gestione abusiva degli alloggi popolari. Lo stesso pentito, inoltre, dichiara di essere a conoscenza di riti di affiliazione alle ’ndrine reggine.
Il quadro tracciato da Fregona testimonierebbe la nuova autonomia dei clan rom nella gestione di attività illecite. E quindi il loro affrancamento dalle ’ndrine storiche come i Serraino, celebrati di recente anche su Amazon Prime. Anche a Reggio Calabria, sotto l’apparente coltre di immobilismo, qualcosa si muoverebbe. O meglio si sarebbe già mosso. Il caso di Reggio Calabria aprirebbe un nuovo squarcio sulle dinamiche con cui la ‘ndrangheta sta mutando assetto e organizzazione in tutta la regione. E i primi esiti del caso Ventura suffragano le dichiarazioni di Fregona.
Maria Serraino e la nipote Marisa in un singolare ritratto di famiglia
Caso Ventura: troppa violenza per un alloggio
A Reggio nel 2022 Patrizio Bevilacqua riceve una condanna in primo grado a 5 anni e 6 mesi per estorsione insieme all’ex moglie Anna Maria Boemi.
È la sentenza 1369 sul noto caso della famiglia Ventura.
Come appartenente alla Polizia Penitenziaria, Vincenzo Ventura era regolare assegnatario di un alloggio popolare al rione Marconi.
Ma la sua famiglia fu costretta ad abbandonare l’appartamento dopo attacchi verbali e fisici, minacce di morte e danneggiamenti. Poi l’immobile fu occupato abusivamente dai rom. Questi lamentarono, con diversi comunicati e in vari servizi tv, l’illegittimità dello sgombero ordinato dal Tribunale.
Il caso Ventura resta una vicenda travagliata e violenta dai cui atti processuali emergono rapporti tra Bevilacqua ed esponenti del comando dei Vigili urbani di Reggio Calabria.
L’alloggio popolare della famiglia Ventura nel quartiere Marconi devastato dai vandali
Case popolari: il mercato della criminalità rom
Durante l’audizione di Ventura del 7 aprile 2016 in Commissione controllo e garanzia, l’allora delegato al Patrimonio edilizio del Comune di Reggio, Giovanni Minniti, dichiarava di conoscere la vicenda e i suoi protagonisti e sottolineava che «nel tempo in cui è stato assessore e delegato è venuto a conoscenza su alcune vicende legate alla vendita degli alloggi. Ci troviamo a constatare che c’è un “Mercato delle case”, che con un gioco maldestro e pericoloso [è] gestito dalle famiglie dei Nomadi, circa 300 alloggi del Patrimonio Edilizio venduti in modo poco chiaro». Da allora poco si è mosso.
Alloggi popolari: quel disordine non è un caso
Il 12 giugno 2020 la Terza commissione speciale permanente politiche sociali e del lavoro si riuniva per discutere di patrimonio edilizio ed edilizia residenziale pubblica. I verbali della dirigente, l’avvocata Fedora Squillaci, disegnano un quadro quantomeno caotico. Squillaci parla di un settore di difficile gestione, a cominciare dalla sistemazione dell’archivio, di ruoli notificati a deceduti ancora risultanti titolari di alloggio, di ostilità dei dipendenti del settore, di carenza nell’organico.
La dirigente afferma che «c’era anche chi faceva visitare gli appartamenti ai nomadi con la conseguenza che il giorno dopo venivano occupati abusivamente […] non lo posso dimostrare ma sono convinta che c’è un mercato dietro al patrimonio degli alloggi Erp, c’è un premeditato disordine, caos e ingovernabilità che consente di fare ciò che si vuole […] Su 3.000 alloggi c’è un’altissima percentuale di abusivismo». Ivi compresi i beni confiscati.
Emerge un quadro desolante: un ipotetico mercato degli alloggi probabilmente gestito in modo violento e “imprenditoriale”, protetto da legami opachi con altrettanto ipotetiche ramificazioni nel municipio. Che di questo si tratti non c’è ancora certezza. Ma le suggestioni sono tantissime.
Case popolari nel rione Marconi
Le tariffe quartiere per quartiere
Alcuni bene informati parlano espressamente di mercato, di gestione dei rom e di divisione in territori: da Arghillà al Rione Marconi. E c’è chi ipotizza tariffe che vanno dai 3.000 ai 10.000 euro, per prestazioni di vario tipo.
Ad esempio, la possibilità di scegliere l’alloggio con una maggiorazione dei prezzi e quella di ottenerlo comunque, magari con l’“intervento” dei rom, se è già occupato.
Questo prezzario certificherebbe un’organizzazione stabile col benestare della ’ndrangheta. E ribadirebbe che i clan rom sarebbero ormai affiliati e non più semplice manovalanza.
Vita e carriera di Patrizio Bevilacqua
Bevilacqua, oggi interdetto a vita dai pubblici uffici, correva per le Amministrative reggine del 2011 nel movimento Pace di Massimo Ripepi, uno dei leader dell’attuale opposizione. Bevilacqua, almeno fino alla pandemia – riferiscono alcune fonti -, e comunque a procedimento in corso, sarebbe stato inoltre alle dipendenze di Eduardo Lamberti Castronuovo, noto imprenditore reggino, già assessore al Comune di Reggio e poi sindaco di Procopio. Il 5 dicembre 2012, in un servizio di Rtv, Lamberti, tra l’altro editore della testata, dichiarò che «ad uno di loro [rom] ho affidato le chiavi di casa […] Si chiama Patrizio, lo potete incontrare tutti». Parlava di Patrizio Bevilacqua.
Definire criminali tutti i rom è, come dice Lamberti, uno stereotipo. Ma fa quantomeno specie che il protagonista di vicende opache poi attenzionate dalla magistratura mantenesse determinati rapporti con una personalità arcinota della vita pubblica reggina. Cioè di una città in cui tutti si conoscono.
La Questura di Reggio Calabria
Non è mafia… quasi
Ora, la sentenza 1369 contro cui Bevilacqua e Boemi hanno fatto appello, contestava ai condannati una forma di consorteria con ignoti, ma non arrivava al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Ma, se le ipotesi sono concrete, anche a Reggio Calabria si viene delineando un nuovo ruolo e una rafforzata capacità da parte dei clan rom. Presidiare il territorio, intimidire, minacciare, gestire (in associazione) un vero e proprio racket delle case popolari con una metodologia malavitosa studiata, concordata, attuata, forti di connivenze anche all’interno delle pubbliche amministrazioni.
Se non è mafia, questa, ci somiglia assai.
Non succede, ma se succede… in Calabria farà più danni che in tutto il resto d’Europa.
Parliamo di disastri naturali e degli effetti sul territorio e sugli esseri umani a tutti i possibili livelli. L’allarme stavolta proviene direttamente dalla Commissione europea che dall’ottobre del 2022 pubblica uno studio in costante aggiornamento. L’ultimo upgrade risale al mese scorso e i risultati sono a dir poco inquietanti per la Calabria. Emerge, infatti, come in Europa l’Italia sia il paese più vulnerabile alle catastrofi naturali insieme a Bulgaria, Romania e Grecia. Tuttavia, mentre in prospettiva le cose negli altri tre paesi appaiono in lento miglioramento, in Italia la situazione sembra destinata a rimanere stabile.
La mappa della vulnerabilità delle province italiane
Perentoria l’indicazione per il nostro territorio: «Italiani sono anche altri due primati: la regione più fragile del continente è la Calabria e la provincia è Reggio Calabria».
Scopo dello studio è avvisare gli amministratori locali e nazionali per correre ai ripari prima che sia troppo tardi.
Il governatore Occhiuto, insomma, è un “avvisato speciale”, visto che la Calabria è la zona con i peggiori indici di vulnerabilità in caso di disastri naturali.
Irpinia e Giappone: un confronto impietoso
Quattro i fattori che determinano l’indice di vulnerabilità totale: economico, sociale, ambientale e politico. Per capire meglio bisogna pensare ai tanti fenomeni naturali di forte impatto quali terremoti, inondazioni, siccità, tempeste e altri eventi di tipo atmosferico, frane ecc. Questi avvenimenti in zone pericolose sono molto più probabili ma a parità di pericolosità le zone più vulnerabili sono quelle dove poi si verificano i danni maggiori per la scarsa organizzazione locale e le ripercussioni sui cittadini provocano disastri nei disastri.
Il tragico terremoto in Irpinia del 1980
Il terremoto in Irpinia, ad esempio, e i terremoti in Giappone spiegano bene di cosa parli lo studio della Commissione europea. Zone più pericolose come il Giappone con terremoti superiori in magnitudo a quello dell’Irpinia hanno avuto moli meno danni a cose e persone. La Calabria ha il massimo punteggio di vulnerabilità in Europa e il capoluogo regionale il peggiore di tutte le province dell’Ue. Questo il dato sui cui tutti i calabresi devono riflettere e a partire dai quali gli amministratori devono darsi da fare sin da subito. Prima che sia troppo tardi.
Disastri naturali: lo studio europeo
Il Disaster Risk Management Knowledge Centre (Drmkc) del Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea ha pubblicato uno studio con l’obiettivo di accendere un faro sulla vulnerabilità ai disastri naturali dei paesi europei. Rappresenta un primo tentativo di indagare, attraverso la definizione di un indice, sulle possibili conseguenze di calamità.
Il Drmkc ha sede nel Jrc di Ispra, alle porte di Varese. È un laboratorio europeo che, grazie a una impressionante ricchezza di dati, consente la gestione in tempo reale delle crisi provocate da disastri naturali. Non tutti i beni, i sistemi o le comunità con lo stesso livello di esposizione a un pericolo specifico sono ugualmente a rischio: conoscere la vulnerabilità, perciò, è fondamentale per determinare il livello di rischio.
Reggio Calabria risulta essere la provincia più vulnerabile d’Europa
Asset molto esposti possono avere una vulnerabilità molto bassa, quindi essere considerati a basso rischio: in una zona sismica un edificio tradizionale è più vulnerabile di uno costruito con criteri antisismici. Per queste ragioni, dunque, la vulnerabilità è la componente fondamentale di cui tener conto nella definizione delle politiche e delle azioni per la riduzione del rischio di catastrofi. Ridurre la vulnerabilità e l’esposizione dei territori e delle comunità è la via più efficace per ridurre il rischio, dal momento che non è sempre possibile ridurre la gravità e la frequenza dei pericoli naturali. Ancora di più, se si considerano gli impatti dei cambiamenti climatici.
Tra le regioni europee è ancora la Calabria a guidare la classifica dei peggiori
Le colpe dell’uomo
La funzione dell’indice e della mole di dati raccolti è anche quella di aiutare gli amministratori a prendere le decisioni. Per ridurre la vulnerabilità è necessario identificare e affrontare i fattori di rischio quasi sempre derivanti da scelte e pratiche di sviluppo economico e urbano inadeguate. Essi hanno, infatti, un legame con il degrado ambientale, la povertà, la disuguaglianza, le istituzioni deboli.
I governi possono applicare strategie e politiche per ridurre la vulnerabilità introducendo misure precise, progettate per ridurre sia la componente “indipendente dal pericolo” (dovuta essenzialmente all’azione dell’uomo) che quella “dipendente direttamente dal pericolo” (legata agli eventi naturali).
In particolare, la vulnerabilità indipendente dal pericolo, su cui si concentrano gli indici costruiti dal JRC, tiene conto degli ostacoli che indeboliscono le capacità di un sistema o di una comunità di resistere alle sollecitazioni poste da qualsiasi pericolo. Descrive la suscettibilità a potenziali perdite o danni delle comunità indipendentemente dalla loro esposizione ai vari pericoli. Si basa su molteplici fattori che caratterizzano una comunità situata in un determinato territorio.
Disastri naturali e vulnerabilità: il caso Calabria
Nel 2022 la regione europea più vulnerabile ai disastri naturali in assoluto era la Calabria, seguita dalla Ciudad de Melilla (città autonoma spagnola situata sulla costa orientale del Marocco). Un graduino del podio più giù, altre due regioni italiane: Campania e Sicilia. Nella classifica delle province, il poco invidiabile primato è di Reggio Calabria e dei primi 30 nomi più della metà sono di altre province italiane. La maggior parte si trovano nel Mezzogiorno, ma non solo: ci sono anche Latina, Frosinone, Fermo, Pesaro-Urbino, Pescara, solo per citarne alcune.
Le medie nazionali di vulnerabilità e i cambiamenti negli anni, regione per regione
Nel confronto rispetto alla media nazionale, sorprendono alcune situazioni specifiche. In positivo la Puglia, il cui indice è in costante e moderata discesa sotto la media italiana, come la Val d’Aosta. In miglioramento anche la Sicilia, mentre sono in netto peggioramento Trento e Bolzano che partivano da situazioni molto virtuose. Nessun progresso, invece, per la Calabria Le aree più vulnerabili pagano soprattutto la fragilità economica e ambientale: in Calabria 4 province su 5 segnano il massimo di vulnerabilità ambientale. Quanto all’indicatore di vulnerabilità sociale, vede livelli molto bassi in tante province del Sud e delle isole. Peggio di così è difficile fare.
«Guardo giù nella strada e mi ricordo di colpo l’impressione che ebbi all’arrivo, quando, passato l’arco di trionfo imperiale sulla piazza Sadowa, uguale a quelli che da Roma emigrarono nel nord, mi trovai tra la folla di Mosca».
Scrittore fra i più significativi del Novecento e sceneggiatore e intellettuale di prim’ordine, è stato anche un apprezzatissimo giornalista e reporter di viaggio. Partito dall’entroterra della Calabria – era nato nel 1895 a San Luca, sperso cuore dell’Aspromonte –, Corrado Alvaro visitò il mondo spingendosi fino in Russia, alimentando, più che appagando, con l’errare la sua inestinguibile sete di conoscenza verso tutto quello che era incognito e straniero. Sete che aveva come origine l’inesauribile passione per la letteratura, su tutte quella francese – nel 1923 tradusse parti de La prigioniera, quinto volume della Recherche di Marcel Proust – e quella, appunto, russa.
La Russia di Corrado Alvaro
E per un uomo occidentale la Russia, oggi come ieri, è senz’altro il primo e più immediato approdo corrispondente a un mondo cosiddetto “altro”. La misteriosa Russia – o per meglio dire, la Repubblica socialista russa, principale repubblica dell’Unione Sovietica sorta nel 1922 sulle macerie dell’Impero russo a seguito dell’aspra guerra civile e del Terrore rosso – catturò la curiosità di Corrado Alvaro. Lo scrittore calabrese ebbe modo di visitarla fra la primavera e l’estate del 1934 come inviato speciale de La Stampa.
Quell’eccezionale relazione di viaggio uscì a puntate sulle colonne del quotidiano torinese, che al tempo dirigeva Alfredo Signoretti. Mondadori, poi, nel 1935 la raccolse nel volume I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia Sovietica, pubblicato poi anche col titolo, editorialmente più efficace, Viaggio in Russia.
Per Corrado Alvaro l’attività giornalistica fece da preludio a quella letteraria. Già nel 1916 – durante la Grande Guerra e ancora prima di contrarre matrimonio con Laura Babini – il sanluchese cominciò a collaborare per alcune testate come Il Resto del Carlino, Il Corriere della Sera, Il Mondo, Il Becco giallo. Quei lavori anticiparono la pubblicazione, nel 1917, dei suoi primi versi, raccolti nel libricino Poesie grigioverdi, delle sue prime novelle, La siepe e l’orto, edite nel 1920, e soprattutto del suo primo romanzo, L’uomo nel labirinto, pubblicato nel 1926.
Antifascismo e amicizie
Furono anni decisivi per il Paese. Il 1922 coincise con l’avvento del Fascismo e l’inizio di un ventennio che segnò in maniera indelebile la storia italiana del Ventesimo secolo. Alvaro mantenne una certa distanza dal Partito nazionale fascista e fu fra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Ciononostante la sua attività culturale non fu ostacolata dal regime, come accadde invece a molti altri uomini di cultura dell’epoca.
Margherita Sarfatti, musa di Benito Mussolini
Collaborò col Popolo di Roma, testata filofascista di cui, per un breve periodo nell’estate del ’43, appena conclusa la parabola antidemocratica dello Stivale, ricoprì anche il ruolo di direttore. Taluni spiegano la clemenza del regime verso l’intellettuale calabrese attraverso la grande amicizia con Margherita Sarfatti, giornalista, critica d’arte, confidente e musa ispiratrice di Benito Mussolini.
Nel 1934, anno di altissimo consenso del popolo italiano verso il governo Mussolini – precedette le “imprese” fasciste in Abissinia che assai entusiasmarono le piazze del Belpaese –, Corrado Alvaro ottenne quindi l’incarico dalla Stampa di realizzare un reportage nella Russia di Stalin.
Dopo la Rivoluzione del 1917
Si trattava di visitare un pianeta per definizione inintelligibile, che ha da sempre effuso un miscuglio di seduzione e repulsione, dato vita a scenari distorti e sentimenti contrastanti nell’uomo occidentale, attratto da quel misterioso – perché distante e perciò oscuro e poco raccontato nella sua vera essenza – mondo al di là del trentesimo meridiano Est. Un sentimento che ha origini antiche e senza dubbio ingigantitosi con la Rivoluzione bolscevica del 1917, il crollo dell’Impero degli zar e l’istituzione dell’Unione Sovietica col suo modello economico e sociale che proponeva di “esportare” nel Vecchio Continente.
Lenin incita la folla russa: la Rivoluzione ha inizio
La Russia, la terra del samovar, della balalaika e della banja, delle cupole a cipolla e delle foreste di larici e betulle, il Paese venato dai lunghissimi fiumi: la Lena, il Volga, l’Oka, il Don, l’Ob’, l’Amur, l’Enisej. Un universo in bilico tra Oriente e Occidente che nel Novecento, dopo la Rivoluzione, ha ammaliato ed entusiasmato sempre più cronisti e scrittori. Fra questi, anche Joseph Roth e Stefan Zweig, autori, fra il 1926 e il 1928, di relazioni di viaggio poi confluite in note opere letterarie.
«Una grande scuola di addestramento»
Corrado Alvaro intraprese il suo viaggio in Russia nella primavera del 1934, nel bel mezzo del secondo piano quinquennale. L’anno che si chiuse conl’assassinio di Sergej Kirov, alto dirigente del Partito e sodale di Stalin. L’evento scatenò la reazione violenta del Piccolo Padre, ossessionato da possibili tradimenti, anche e soprattutto orditi nella sua cerchia di fedelissimi,. Iniziò così la stagione di repressione e sangue passata alla storia col nome delle Grandi purghe.
Dopo il diluvio della Rivoluzione d’ottobre – intenzionata, riprendendo una affermazione di Viktor Šklovskij, a rifare «l’uomo dalle budella» – e la nascita del nuovo Stato, gli anni Trenta in Unione Sovietica videro affievolirsi l’illusione del comunismo universale di matrice leniniana. Continuarono comunque a essere anni di enormi stravolgimenti. In quel decennio, segnato dal terrore delle epurazioni staliniane, nacquero nuove classi sociali, esplosero le migrazioni interne, si sfruttarono fino all’impoverimento le terre. L’URSS diventò, fra trionfi e fallimenti, il laboratorio di un nuovo modo di vivere.
Cittadini sovietici in un gulag durante le Grandi Purghe
Nel Paese, sconfinato, multietnico e multilingue, si susseguirono i tentativi di instaurare una convivenza civile fra tutte le etnie che lo popolavano – erano 170 milioni gli abitanti nei Soviet a quel tempo –, comprensibilmente intontite da quella Rivoluzione che in una manciata d’anni aveva provocato un epocale cataclisma, cancellando tre secoli di zarismo autocratico. «Una grande scuola di addestramento alla vita civile e ai rapporti umani»: così fotografò Alvaro l’Unione nel ’34.
Lo scrittore, sulla scorta di una grande cultura “russa” costruita e consolidata attraverso incessanti studi privati, negli articoli su La Stampa raccontò i mutamenti sociali del Paese, la realtà in parte nascosta della Russia sovietica.
Corrado Alvaro e la propaganda in Russia
Descrisse la nascita di una nuova borghesia, non si sa quanto diversa rispetto a quella antecedente, detestata, vituperata e annientata. Riferì della fame e delle carestie che, dopo l’holodomor ucraino del ’32-’33, ancora erano diffuse in numerose aree rurali della sterminata Unione. Ma, soprattutto, si soffermò sull’utilizzo subdolo della propaganda, così instradante della condotta del popolo russo. Memento che ne accompagnò l’intero itinerario fu infatti badare alla potenza degenerante della propaganda: «Tra i fenomeni che formano e limitano il suo carattere bisogna annoverare questo in primo piano”.
Il poeta Vladimir Majakovskij
L’autore di Gente in Aspromonte scrisse pagine civili, dedicandosi all’ostracismo, alle vessazioni e alle espulsioni ordinate e indotte verso la categoria degli intellettuali. Quella generazione stava dissipando i suoi maggiori poeti: Esenin si era suicidato, o era stato suicidato, nel 1925; Majakovskij si era sparato nel 1930, Mandel’štam sarebbe morto in un gulag nel ’38 e Cvetaeva in esilio negli Urali nel ’41.
Un tour sotto controllo
«A Mosca! A Mosca!», reclamavano le protagoniste delle Tre sorelle di Anton Čechov. E come ogni viaggio in Russia che si rispetti, oggi al pari di allora, quello di Corrado Alvaro non poté che principiare da lì. Da Mosca, la Terza Roma, divenuta capitale nel 1918, dopo il diluvio. Nella città de Il Maestro e Margherita, Alvaro fu colpito istantaneamente dal suo ritmo immutabile, dalla «uniformità della sua gente» che saettava attorno alle sacre mura rosse del Cremlino e lungo i viali attraversati dai tranvai e tappezzati da giganteschi cartelli propagandistici, satirici e anticlericali.
La vetrina di un negozio nella Mosca degli anni ’30
Lo scrittore andò per parchi urbani, circhi, teatri di carattere didattico – un’istituzione in URSS: «Tutta la Russia è oggi una grande messinscena» –, accompagnato come ogni burgiuà, ogni borghese occidentale – una parola che in quella Russia emetteva il suono di un insulto –, da una guida. E anche qua le virgolette sarebbero doverose, ché è ben riduttivo definire guida una persona che vigila ogni tuo passo, che, con un «sistema di investigazione minuta e quotidiana», supervisiona e affianca l’intero soggiorno dello straniero senza mai proferire una parola più del necessario.
Le “speciali guide turistiche sovietiche” trasmisero durante il viaggio in Russia la loro disciplina ad Alvaro. Lo catechizzarono, facendogli capire con gli sguardi e i silenzi che non facesse domande inappropriate, che non si incapricciasse se l’itinerario prestabilito subisse delle modifiche improvvise e immotivate. Un rigore che possiamo immaginare assai indigesto per il viaggiatore, senz’altro curioso di posare gli occhi anche su un minuscolo frammento in più di quell’inafferrabile Paese. Di quel «rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma», per dirla con una celebre espressione di Winston Churchill.
Da Mosca a Stalingrado, da Pietroburgo a Baku
Tuttavia, la percezione dell’atmosfera illiberale vigente non condizionò la straordinaria inchiesta in Russia di Corrado Alvaro. Anzi, all’uscita de I maestri del diluvio un giudizio d’aria bolscevica si espresse dicendo che lo scrittore si era lasciato andare a «un nebuloso sentimentalismo».
Il lungo viaggio di scoperta vide товарищ Alvaro soggiornare e visitare molte grandi e piccole città oltre a Mosca. Dimorò a Bolscevo, villaggio dell’entroterra della capitale, esplorò la grigiastra Gor’kij – l’odierna metropoli di Nižnij Novgorod, ribattezzata in omaggio allo scrittore Maksim Gor’kij, apprezzato da Stalin –, poi Kazan, Rostov – la più mediterranea delle città sovietiche –, Saratov, Samara, Stalingrado – oggi Volgograd ma interessata da un processo, in stato avanzato, volto a ripristinare il precedente nome.
Il palazzo di Caterina a Tsarskoye Selo, subito fuori San Pietroburgo
Lo scrittore e intellettuale fece visita agli sfavillanti palazzi di Caterina e Alessandro a Carskoe Selo, poco fuori Pietroburgo – realizzati rispettivamente dagli architetti di origini italiane Francesco Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi –, luoghi che hanno segnato la storia del Novecento. Proprio da qua partì verso l’esilio degli Urali e la barbara esecuzione di Ekaterinburg del 17 luglio 1918 l’ultimo zar Nikolaj Romanov con la famiglia.
«Sono belle le sere sul Volga. Dalle rive scendono gli armenti di pecore ad abbeverarsi alla corrente, bianche e luminose, e schiariscono dei loro riflessi l’acqua già violacea».
Il sanluchese viaggiò per incalcolabili ore in treno e a bordo di vapori e battelli, lungo i tanti e multiformi scali della Madre Volga. Si spinse fino al Caucaso, a Baku – capitale dell’Azerbaigian dopo la dissoluzione dell’URSS –, la città del petrolio, «ossessione del mondo moderno» senza il quale “non è più possibile ormai né pace né guerra, né morte né vita», pensiero unico nelle piazze della città «del fuoco eterno».
Corrado Alvaro e il desiderio di perdersi in Russia
Lo scrittore coprì le enormi distanze sovietiche in uno stato di dormiveglia, trasognato, avvinto da un inedito stato d’animo russificante, quasi dimentico di sé e dell’immensità intorno, di una terra «troppo sperduta per essere umana».
Il viaggio in Russia sortì un curioso effetto in Corrado Alvaro. In più di una circostanza, il calabrese si lasciò solleticare anche da inquiete fantasticherie e desideri d’oblio: «Penso di scendere dal treno, di perdermi in questo spazio che è tutta una strada, trovarmi in qualche luogo a lavorare la terra, nascosto agli occhi di tutti, fra gente remota, e di me non si saprebbe più nulla, via tutto quello che ero ieri, via il passato, via l’avvenire. Cancellarsi e perdersi in un’altra dimensione del mondo. Questo pensiero mi balena più volte durante il viaggio».
Un cavallo pascola nella sconfinata steppa russa
I bisogni e le speranze del popolo
Il lento e diversificato viaggio gli fu propizio pure per lasciarsi andare a descrizioni di paesaggi, di cieli, di atmosfere, ora europee, ora asiatiche. I lunghissimi prospekt delle città, contornati da grigi palazzoni identici fra loro e inframezzati dalle rovine delle case vecchie, i paesaggi remoti delle steppe e cinti dagli impenetrabili monti, le aree arse e scabre che gli ricordarono i villaggi d’Oriente o un paesello appena sconquassato da un terremoto.
Donne al lavoro in un gulag sulle isole Soloveckie
Nei mesi in Russia, Corrado Alvaro visitò campi collettivi, fabbriche di trattrici, università e accademie, redazioni dei giornali delle fabbriche. Incontrò ufficiali dell’esercito, operai, “kulaki”, i braccianti trasformati, dalla sera alla mattina, in operai per rispondere alle esigenze produttive del nuovo Stato – i pochi ancora non risucchiati nell’articolato sistema penale dei gulag che, dalle terribili isole Soloveckie ai campi lungo il fiume siberiano Kolyma, non risparmiava nessun presunto nemico del popolo. Nel solo biennio ’34-’35, secondo i documenti dell’NKVD, il commissariato del popolo per proteggere la sicurezza dell’Unione, il numero dei prigionieri nei vari campi sfiorava il milione di unità.
E, ancora, vide pastori, artisti, ingegneri, cittadini di estrazione e cultura varia, tutti uniti dal comune sentimento, assai lungi dal lenirsi dopo lunghissimi secoli di fame e subalternità, diaperta ostilità verso la vecchia civiltà borghese. Ma tanto accecati da non vedere il mostro che gli si aggirava dentro casa.
Memorie da un mondo in costruzione
Corrado Alvaro parlò ma soprattutto osservò, ché «la vita quotidiana è scritta in viso a quelli che passano». Ascoltò i loro discorsi, le loro esigenze, le loro speranze. Tutto ciò senza cedere al giudizio, ma col solo intento di raccogliere «il maggior numero di memorie» e di incastrarle come tesserine di un puzzle di migliaia di pezzi al fine di consegnare una testimonianza oggettiva della Russia sovietica.
Eppure, lo abbiamo intuito, di influenze esterne ne avvertì. Lo scrittore ravvisò tutta la precarietà di quel mondo in costruzione, ma pure una forma di pericolo imminente, indefinito ma constante, così vivo sui volti dei russi – già marchiati dal «segno degli anni tempestosi» della Rivoluzione –, così percepibile nell’aria che riportò alla mente del fine intellettuale le letture circa i moti italiani del 1848.
Corrado Alvaro: La Russia? Atmosfera d’emicrania
«Guardo dal finestrino le vecchie case di legno della campagna d’un tempo come resti di una vita antica. I boschi di abeti seguitano all’infinito orlando l’orizzonte pallido della lunga sera».
Attraverso la visita ai vecchi villaggi punteggiati di isbe, alle nuove città senza acquedotti e fognature, ai kolchoz, i campi collettivi, e ai sovchoz, i poderi gestiti dallo Stato, nel suo prezioso resoconto di viaggio lo speciale burgiuà descrisse la vita socialista collettivizzata, il fermento culturale, le folle in piazza, nei teatri, nelle biblioteche, nei circoli culturali; una società viva, in movimento, in cui ogni angolo era buono per un comizio. Lo scrittore non poté non notare i discorsi e le urla, i congressi estenuanti e le disquisizioni interminabili – «un’atmosfera d’emicrania» – che si tenevano dappertutto: nelle piazze, nei salottini, nelle fabbriche.
Un congresso del PCUS, il Partito comunista dell’Unione Sovietica
Attraverso le colonne della Stampa e poi le pagine del suo libro, Alvaro diede il polso di un Paese, la Russia, pieno di contrasti. Di una civiltà traboccante contraddizioni, in attesa di formare una propria identità, una terra d’illusioni e miraggi in cui era facile confondere realtà e finzione. Analizzò i diritti dei lavoratori e delle donne, rifletté sui problemi materiali dell’URSS, pesandoli di minore gravità rispetto a quelli morali e umani che già allora angustiavano l’Occidente. Rimase stupito e scosso dalla scarsissima reperibilità e dei prezzi esorbitanti dei generi di prima necessità – pane, burro, uova, farina, frutti di bosco –, e dell’arretratezza per quel che concerneva lo sviluppo delle infrastrutture.
L’odio verso gli occidentali
«I russi, dalla crudezza della loro vita, si raffigurano terribilissime le nostre condizioni; noi di lontano li stimiamo più progrediti; essi noi ingiusti e crudelissimi; ognuno secondo il carattere della sua civiltà».
Da un lato la società russa concedeva ai turisti privilegi inimmaginabili per il popolo (a fini propagandistici, ovviamente, e frutto spontaneo ma avvelenato di una “stima diffidente” verso gli occidentali). Dall’altro denunciava «le condizioni del proletariato occidentale oppresso dai capitalisti», ché, scrisse Alvaro, «se con l’odio si fa poco nella vita, nell’arte è un buon concime come ogni sentimento forte».
In vero, screditando il modello occidentale fascista – per i russi, dal lago dei Ciudi, al confine con l’Estonia, e fino alle sponde atlantiche di Lisbona, erano e sono tutti occidentali fascisti –, la monotematica comunicazione di regime della Terra dei Soviet provava a nascondere sotto il tappeto gli enormi problemi locali, esaltando le gesta di un Paese che non c’era, reclamizzando i cambiamenti di un Paese che nelle sue periferie – il Paese vero – non era cambiato per niente rispetto ai decenni precedenti.
Dal sogno di Lenin all’incubo di Stalin
Girovagando per l’Unione, Corrado Alvaro tentò inoltre l’impresa di indagare lo spirito dei russi, il loro inscalfibile patriottismo intriso di fatalismo. Ne cercò la fonte scavando, sempre più disilluso, i temi delle emigrazioni interne dagli angoli ultraremoti del Paese, dalla sconfinata steppa ai grandi centri, e del sistema giudiziario sovietico, nazionale e locale.
Si imbatté nel distacco e totale disinteresse dei russi verso il denaro e il domani – tematiche così calde invece per l’uomo occidentale. Nelle pagine di di Alvaro si parla dell’industrializzazione forzata, dei salari da fame – “addolciti” con le tessere per il pane –, del potere d’acquisto pari a zero, dell’abitudine alle ore straordinarie di lavoro gratuite cui ogni buon Homo sovieticus era chiamato a beneficio della collettività.
Lenin e Stalin
Denunciò a riguardo l’intenzione del governo di creare un novyj sovetskij čelovek, un uomo nuovo sovietico senza interessi privati, «spoglio d’ogni influenza di vita occidentale», sacrificato al fine ultimo del benessere collettivo che sarebbe un giorno giunto. «Se i russi hanno voluto abolire ogni segno della vita privata, vi sono riusciti pienamente».
«L’arcangelo che liberi l’uomo dal lavoro duro non è venuto e non verrà mai, e le rivoluzioni che promettono il paradiso sono inebrianti per pochi giorni, il tempo in cui l’umanità si prende un’amara vacanza, prima di tornare alle sue leggi».
Lo scrittore calabrese comprese che il sogno di Lenin di realizzare un comunismo globale era pressoché fallito, che «l’esperimento bolscevico», in mano a Stalin, si era oramai irrimediabilmente deformato. In una frase, riportò con largo anticipo tutti gli squarci di un disegno che sarebbe ufficialmente venuto meno svariati decenni più tardi.
Russi e calabresi
Quello di Corrado Alvaro per la Russia non va letto come un fatto così fuori dall’ordinario, bensì una passione che non poteva non accendersi, come ravvisa Francesca Tuscano nel saggio Alvaro tra la Calabria e la Russia. Tradizione e traduzione contenuto in Corrado Alvaro e la letteratura tra le due guerre. La cultura arcaica, etica e gerarchica – sotto certi aspetti e in taluni casi anche di stampo matriarcale – dell’Aspromonte di Alvaro, di fatti, era più vicina di quanto non si potesse immaginare a quella ortodossa russa.
Aspromontani e russi uniti da una comune vita rurale, tradizionale fino all’immobilismo, dalla fierezza con cui affrontavano le difficoltà. Popoli abituati a soffrire, legati dalla visione fatalistica dell’esistenza, dalla capacità a resistere a tutto, alle invasioni, alla povertà, financo dalla loro inclinazione a inserire nei loro racconti particolari sempre un po’ cruenti, dal mescolare assieme vita e morte.
Contadini russi all’epoca del viaggio dello scrittore calabrese
E poi la tradizione migratoria, «l’eterno nomadismo» dei sovietici e la “vocazione” all’emigrazione dei calabresi, popoli amabili e pittoreschi, ospitali e diffidenti, fedeli alla propria civiltà, entrambi.
Due popoli e due culture così geograficamente lontane ma affini, per ingenuità e quella felicità primigenia che resisterebbe anche agli orrori più belluini, quelli che annienterebbero altri popoli.
«Nei suoi viaggi Alvaro riuscì sempre a trovare ogni più piccolo segno di umanità in tutte le situazioni, a tutte le condizioni, per quell’amore verso l’uomo e la realtà che possiede chi sa di avere dentro di sé i segni di una civiltà alla quale sa di appartenere. E con civiltà si intende quella antropologica e sociale delle proprie origini».
Contro i totalitarismi
Una vecchia edizione de “L’uomo è forte” di Corrado Alvaro
Lo scrittore di San Luca non smise di interessarsi alle vicende russe e il mondo sovietico continuò a pulsare dentro il suo petto. Curò, assieme a Raissa Naldi, l’antologia Poeti russi del secolo XX. Tradusse racconti di Fëdor Dostoevskij e Lev Tolstoj. Tessé una collaborazione con Tat’jana, seconda dei tredici figli del grande scrittore di Guerra e pace, e di Sof’ja Tolstaja. Ridusse per il teatro I fratelli Karamazov. Nel 1937 iniziò una collaborazione con Omnibus di Leo Longanesi, incentrata sempre sul globo sovietico. E nell’anno seguente diede alle stampe uno dei suoi romanzi più conosciuti, strettamente legato al viaggio in URSS e ideale conclusione delle pagine russe del ’34: L’uomo è forte.
Esplicita critica verso il totalitarismo dei regimi – in primis quello, toccato con mano, della Russia di Stalin – e in generale scritto di denuncia «delle condizioni dell’uomo sotto ogni oppressione», L’uomo è fortefu vietato in Germania, mentre in Italia, seppur visto con sospetto, venne diffuso ricevendo addirittura nel 1940 il Premio dell’Accademia d’Italia.
Corrado Alvaro, la Russia e lo Strega
L’esperienza in Unione Sovietica ritornò anche nel 1950 nel memoir Quasi una vita, vincitore l’anno successivo del Premio Strega. Alvaro, tutt’oggi unico calabrese ad avere ottenuto il più ambito premio letterario italiano, superò nella finale, cristallizzata come quella della “grande cinquina”, fuoriclasse della scrittura come Carlo Levi, Alberto Moravia, Mario Soldati e Domenico Rea.
Documento illuminato e di grande valore storico sulla società russa alle porte della Seconda guerra mondiale – o Grande guerra patriottica come viene chiamato, da loro che ne sono usciti vincitori, il conflitto dai russi –, il reportage seguì quelli realizzati negli anni Venti in Francia (Lettere parigine) e nel 1931 in Turchia (Viaggio in Turchia) e confermò la statura di scrittore e intellettuale universale di Corrado Alvaro, reporter cosmopolita, viaggiatore umanista, acuto intuitore delle trasformazioni della società e attento esploratore sempre nel rispetto di realtà antropologiche e culturali trasversali e “altre”; uno scrittore non dimentico delle sue radici e al contempo orientato sempre più in là, alla ricerca di interrogativi e risposte validi a ogni latitudine, per ogni civiltà.
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