Categoria: Inchieste

  • Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Così non finito e cemento hanno divorato la Calabria

    Forse, chissà, tra mille anni i reperti archeologici da cui si ricostruirà la storia della nostra epoca saranno pilastri grigi da cui fuoriescono barre di ferro tendenti al cielo. I tour virtuali tra i resti del cemento antico, magari, sostituiranno l’attuale feticismo fotografico dei tramonti e dei panorami. Le nuove rovine, gli edifici non finiti, sono ormai parte del paesaggio. Sono i segni lasciati da partenze e non ritorni. Sempre lì, fermi, come a narrare la necessità di rimandare all’infinito ciò che si voleva fare e che è rimasto incompiuto, una speranza che si rinnova e mai si realizza.

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    Tramonto con piloni a Taurianova (foto Angelo Maggio)
    L’anormalità diventa invisibile

    Se dovesse nascere davvero un giorno il culto del cemento la Calabria potrebbe divenirne la capitale e Angelo Maggio, fotografo di Catanzaro che da anni segue e immortala le tracce del «non finito calabrese», sarebbe una star. Ma quelli che fotografa, spiega lui stesso, sono dei «monumenti alle aspettative deluse» e non certo opere d’arte. Per capirne la dimensione sociale bisognerebbe parlare con quei padri che hanno alzato muri mai intonacati e piani interi rimasti vuoti. E con i figli che, per scelta, necessità o entrambe le cose, non li abiteranno mai.

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    Miss Italia sfila per le vie di Sinopoli (foto Angelo Maggio)

    Le foto del non finito restituiscono una realtà più cruda della realtà stessa. Non si sforzano di determinare il contesto fino a renderlo rispondente a un’idea precostituita ma, al contrario, ne illuminano le contraddizioni. Quegli edifici sono per noi così normali da risultare ormai quasi invisibili. Eppure raccontano, più di tante narrazioni stereotipate, più della retorica delle eccellenze e delle negatività, la storia della Calabria contemporanea, fatta di crepe che non si ricompongono mai. Di cemento e di vuoto.

    Annunci e stereotipi elettorali

    Ecco, cemento e vuoto non sono (solo) delle tracce antropologiche, ma elementi con cui misurare come e quanto sia lontana dalla realtà l’idea di paradiso naturale tracciata da molti attuali e aspiranti decisori politici che, statene certi, con la campagna elettorale già in corso rinverdiranno presto il filone con nuove e più immaginifiche dichiarazioni sulle «potenzialità inespresse» e sugli intramontabili «volani di sviluppo».

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    Belvedere Marittimo, un manifesto dell’ex assessore regionale ai Lavori pubblici Pino Gentile (foto Angelo Maggio)

    C’è un posto che è l’emblema di questa incompiutezza, un mausoleo di occasioni mancate: l’area industriale di Lamezia Terme, oggi nota per l’aula bunker del maxiprocesso Rinascita-Scott – prima ospitava un call center – e per la sede della Fondazione Terina. Era nata negli anni ’70 come sogno industriale della Calabria centrale – l’ex Sir in cui lo Stato mise bei miliardi ma che non partì mai – e oggi in mezzo a capannoni abbandonati e pecore che pascolano tra l’immondizia si promette di realizzare una specie di piccola Hollywood.

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    Non finito con vista sul mare a Riace (foto Angelo Maggio)

    Ma l’emblema, a pensarci bene, sono quasi tutti gli abusati «800 km di costa» soffocati dalla cementificazione, costellati di villaggi, residence, resort, lidi, lungomari e parcheggi. Come lo sono le (poche) città in cui i palazzi si mangiano i marciapiedi e le persone vanno in terapia per un parcheggio. E come lo è anche l’entroterra dei «borghi», dei piccoli centri storici fatti di pietra dove interi vicoli scompaiono perché piano piano, negli anni, allunga un muro di là e chiudi una tettoia di qua, qualcuno se ne appropria gli spazi. Li chiude, magari per farne dei nuovi vuoti.

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    Propaganda elettorale per Francesco Antonio Stillitani, ex assessore al Lavoro e alle Politiche sociali nella Giunta Scopelliti
    Un report che fa riflettere

    Si chiama consumo di suolo, un logoramento continuo che trasforma il territorio e causa la perdita di importanti servizi ecosistemici. Un rapporto ogni anno ne documenta lo stato di avanzamento e anche quello del 2021, che analizza cosa sia successo nell’anno della pandemia, non porta buone notizie. Lo realizza il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) grazie al monitoraggio congiunto di Ispra e delle Agenzie regionali come l’Arpacal.

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    Un ufficio della Provincia di Reggio Calabria in un edificio non finito (foto Angelo Maggio)

    Il Rapporto dice questo: «Nell’ultimo anno, le nuove coperture artificiali hanno riguardato altri 56,7 kmq, ovvero, in media, più di 15 ettari al giorno. Un incremento che rimane in linea con quelli rilevati nel recente passato, e fa perdere al nostro Paese quasi 2 metri quadrati di suolo ogni secondo, causando la perdita di aree naturali e agricole. Tali superfici sono sostituite da nuovi edifici, infrastrutture, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio e da altre aree a copertura artificiale all’interno e all’esterno delle aree urbane esistenti. Una crescita delle superfici artificiali solo in parte compensata dal ripristino di aree naturali».

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    Mongrassano, religione e cemento (foto Angelo Maggio)

    Va detto che la Calabria è al di sotto della media nazionale ed è tra le 8 regioni che, quest’anno, hanno avuto incrementi di consumo di suolo inferiori ai 100 ettari. Nella nostra regione il cemento non è comunque andato in lockdown: il suolo consumato è oggi il 5%, ovvero 76.116 ettari, con un aumento di 86 ettari nel 2020 rispetto al 2019. Ma bisogna analizzare anche il contesto – la Calabria ha molte aree non edificabili – e il grado di urbanizzazione. Nel 2018 il nostro territorio rurale era di 13.155 kmq, nel 2019 è sceso a 13.150 e nel 2020 a 13.148. Crescono invece, di poco ma costantemente, le zone suburbane e quelle urbane.

    I primati della Calabria

    Altri dati interessanti. Da un’analisi effettuata attraverso il confronto con il Pil regionale emerge la distribuzione del consumo di suolo in relazione alla dimensione dell’economia: Calabria, Sardegna e Basilicata registrano i valori più alti di suolo consumato rispetto al numero di addetti impiegati nell’industria. L’agricoltura: nel periodo 2006-2012 la perdita di superfici a oliveto ha visto proprio in Calabria il valore più alto con circa 12mila quintali di prodotti in meno, mentre tra il 2012 e il 2020 si sono persi frutteti in grado di produrre potenzialmente quasi 40.000 quintali. Un altro primato poco desiderabile è quello della regione con la percentuale più alta di suolo consumato (13,4%) nelle aree vincolate per la tutela paesaggistica. Infine, la Calabria ha una delle percentuali più elevate (5,8%) di suolo consumato tra le aree a pericolosità sismica molto alta.

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    Caulonia (foto Angelo Maggio)

    Il Report dell’Ispra restituisce un altro paradosso che non ha bisogno di grandi interpretazioni: due «perle» del turismo calabrese, Tropea e Soverato, sono tra i Comuni che al 2020 hanno le percentuali più alte di suolo consumato (il 35% la cittadina tirrenica e il 27% quella jonica). Dopo gli interventi legislativi approvati nell’ultimo ventennio (la legge urbanistica 19/2002, le “norme sull’abitare” 41/2011, il “contrasto dell’abbandono e del consumo di suoli agricoli” 31/2017) sarebbe forse il caso di chiedersi cosa non abbia funzionato, a partire dalla mancanza di sistemi di monitoraggio, di abbandonare gli slogan e provare a capire come, perché e per responsabilità di chi succeda che un territorio storicamente violentato venga ancora sacrificato sull’altare di un finto progresso: il dato sul suolo consumato pro capite dice che, ad oggi, per ogni calabrese sono andati persi 402 mq.

  • LONGFORM | Grand Hotel Quarantena

    LONGFORM | Grand Hotel Quarantena

    Durante la prima ondata di Covid-19 che ha colpito l’Occidente, Torano Castello è stata l’ultima zona rossa sanitaria italiana. L’isolamento per i suoi 4mila abitanti è iniziato il 14 aprile 2020, la revoca risale al 10 maggio successivo. Alle ore 17 del 15 maggio però, la quarantena non è finita per tutti.

    Dalla Rsa all’hotel

    Maria, la chiameremo così per tutelare la sua privacy, a quell’ora sente il clacson dal cortile e si prepara a uscire. Sta per incontrare i medici dell’Unità speciale di continuità assistenziale (Usca) di Cosenza, per quello che spera sia il suo ultimo tampone molecolare. La scena avviene in un piccolo hotel nascosto dalle montagne del paese. Da un mese, insieme a otto colleghi, questa infermiera è qui che vive. Isolata dal mondo, in un rudere abbandonato praticamente senza elettricità né riscaldamento.

    Come c’è finita? Tutto è iniziato a Pasquetta: il video con gli attempati pazienti che ballano e cantano a poche ore del primo caso di contagio a Villa Torano, la Rsa dove lavora Maria, diventa virale in poche ore. E con l’apertura di un fascicolo d’indagine della procura di Cosenza arrivano le maggiori trasmissioni nazionali. Le ipotesi di accusa per i vertici della struttura sono pesanti: epidemia colposa, omicidio colposo e lesioni in ambito sanitario.

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    Il clima di polemiche è pesantissimo, ma non c’è tempo nemmeno per pensarci, ora bisogna cercare di frenare la valanga in ogni modo. In poco tempo e con metodi spiccioli si organizzano tamponi a tappeto fra pazienti e operatori. Il risultato, in un periodo nel quale trovare reagenti è molto difficile, quando la pandemia sostanzialmente non ha ancora raggiunto la Calabria, fa gelare le vene: sono quasi tutti positivi.

    E ora? Il commissario dell’Asp di Cosenza, Giuseppe Zuccatelli, dice che bisogna ricominciare da zero. All’ora di pranzo del 15 aprile va in diretta al tg e dichiara: «Non mi fido, troppo anomalo che ci siano tutti questi asintomatici. O bisogna segnalarlo come caso mondiale e portarlo all’attenzione dei massimi istituti di ricerca scientifica del pianeta, oppure bisogna rifare tutto, perché forse i tamponi non sono stati fatti come si doveva».

    Asintomatici à gogo e sindaci in rivolta

    Tocca ripetere i tamponi, che però confermano il dato epidemiologico iniziale: 93 contagi al virus SARS-CoV-2 divisi fra pazienti, operatori della struttura e loro familiari, tre bambini compresi. Solo cinque i sintomatici, tutti ultraottuagenari. Dunque, delle due, era giusta quella data per assurdo: ben prima della pubblicazione della ricerca su Vo’ Euganeo che farà scoprire al mondo l’alta percentuale di asintomatici nel contagio da Covid-19, a Torano Castello si ha evidenza di un dato analogo. Una scoperta scientifica che può servire al mondo intero.

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    Tamponi a Villa Torano dopo la scoperta del focolaio nella Rsa

    Il prossimo passo è mettere in piedi al più presto una quarantena monitorata per i contagiati, e qui torniamo alla nostra infermiera Maria. Il 16 di aprile il dipartimento Tutela della salute della Regione stila un piano in cui prevede il trasferimento dei contagiati in altre strutture del circondario. Dire che i sindaci dei paesi coinvolti abbiano reagito con le barricate è più di un’espressione eufemistica. Romeo Basile, il primo cittadino del vicino comune di Mottafollone, arriva addirittura a schierare le ruspe a difesa della verginità epidemiologica del suo paese. Altri, in modo meno mediatico, rispondono comunque che non se ne parla.

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    Romeo Basile, sindaco di Mottafollone, blocca l’accesso al suo paese con una ruspa

    Il piano della Regione dunque rimane lettera morta. La grana dei contagiati ora è sostanzialmente tutta sulle spalle del sindaco di Torano Lucio Franco Raimondo. Che, di concerto con l’Asp, in pochi giorni decide di chiudere in compartimenti stagni la clinica, emanando parallelamente un’apposita ordinanza di confinamento per Maria e i suoi colleghi nell’ex San Felice, un vecchio hotel abbandonato vicino alla Rsa Villa Torano.

    Turismo e Sanità

    Andando a vedere le carte si scopre che entrambe le strutture, di proprietà pubblica e affidate in convenzione alla società “Medical center”, nascono come hotel negli anni ’70. Le due strutture sono vicine, ma i loro destini biforcano sul finire del secolo. Mentre nel 1999 la Medical Center diventava assegnataria della struttura comunale, infatti, dando vita alla prima Rsa della Calabria, il nuovo Motel San Felice vedeva la luce con un rinnovato slancio turistico. Una luce destinata a brillare poco, però. A differenza della sanità privata, in questo campo a decollare non sono stati gli affari ma i registri, poco tempo dopo atterrati in tribunale.

    Sono entrambe vetuste e vanno chiuse. A metterlo nero su bianco è una relazione dettagliata del Comune di Torano Castello, che già nel 2017 denotava tutte le carenze strutturali e le usure delle strutture convenzionate, illustrando nel dettaglio il progetto di spostare in 24 mesi di lavori tutto 600 metri più a nord. Una nuova megastruttura d’eccellenza per il Sud, con un ampliamento di posti per un investimento complessivo di 11.272.512,00 euro. I terreni privati erano stati individuati ed era stato persino stipulato un preliminare di compravendita con un costo del terreno fissato a 15 euro al metro quadrato. Ma i lavori non sono mai partiti.

    Perciò tre anni dopo, lo stesso ente che certificava l’inadeguatezza di una struttura vi disponeva il confinamento coatto di uomini e donne con l’infezione più sconosciuta e pericolosa mai vista ancora in atto. Una decisione figlia sicuramente dall’emergenza in atto, ma controversa, tanto che sei lavoratori con infezione asintomatica in corso rifiutano di attuarla, dando mandato di opposizione all’avvocata Angela Cirino del foro di Cosenza. La legale presenta così un ricorso in cui va ben oltre le criticità già presenti nei documenti municipali. «Ho anche scoperto che l’hotel», ha ricostruito, «è affidato a una curatela fallimentare rimasta all’oscuro di tutti i passaggi fatti dall’amministrazione di Torano Castello in accordo con l’Asp di Cosenza».

    Un trasloco non autorizzato

    Un bel pasticcio, perché, spiega la legale, «prima di autorizzare lo spostamento si sarebbe dovuta rilasciare l’autorizzazione igienico sanitaria prodotta dal proprietario di struttura». Finito? No, perché l’avvocata ha anche scoperto che una parte della struttura è sottoposta a sequestro penale per un’inchiesta della magistratura su un incidente che causò la morte di un minore qualche anno prima.

    L’esperimento del quarantena hotel, in definitiva, presenta diversi profili di illegalità e non può proseguire. L’Asp a questo punto non può che recepire le eccezioni e quindi emanare un’ordinanza di sgombero. Gli operatori sanitari rimasti però, fedeli alla propria missione professionale, decidono di mettere la salute degli altri davanti alla propria, scegliendo di portare a termine l’esperimento. Maria, finalmente negativizzata, è l’ultima infermiera a lasciare l’hotel, il 18 maggio 2020.

    La Scienza e la Legge

    «Il caso di Villa Torano creò molto scalpore mediatico, per tanti motivi. Ma noi eravamo concentrati sui pazienti e non ci rendevamo conto di cosa accadeva fuori. Noi ci occupiamo solo di curare i malati», ricostruisce il dottor Sisto Milito, a capo della squadra di medici che si è occupata di spegnere questo focolaio. Dal punto di vista dei medici, «quello sperimentato a Torano è un metodo che ha funzionato, che di lì a poco tutti avrebbero adottato», ribadisce.

    Mentre in quel periodo la strategia della chiusura della struttura è stata la scelta per gran parte delle Rsa dove è dilagata l’emergenza, infatti, così non è stato per i pazienti di Villa Torano. «Non chiudere la Rsa – aggiunge Milito, che ha operato nel cluster insieme a Vincenzo Gaudio, Filippo Luciani, Giovanni Malomo, Vincenzo Pignatari e Nunzio Conforti – ci ha permesso di tutelare la vita di malati senza famiglia, che sarebbero finiti in mezzo alla strada privi di qualsiasi cura o in qualche altra struttura a diffondere l’epidemia».

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    La stazione mobile con i medici dell’Asp all’ingresso di Villa Torano

    Per quanto riguarda invece i confinati nell’hotel fantasma, i rimpianti sono tanti. «Sì, lì si sarebbe potuta produrre letteratura scientifica di valore con tutta la mole di dati arrivata dai supporti della telemedicina, che ha garantito il monitoraggio dei parametri vitali degli infetti, 24 ore su 24 per oltre un mese». In un periodo in cui non solo la Calabria, ma il mondo intero aveva fame di farlo, si poteva capire di più sulla carica virologica e sulla effettiva durata della quarantena o del periodo di incubazione, considerando anche i casi di negatività al primo tampone e positività al secondo. «La struttura era compromessa da beghe giudiziarie, ma noi avevamo fatto un pensierino a requisirla, per l’autunno soprattutto. Era attesa una nuova ondata influenzale e poteva essere di nuovo necessario isolare persone che non possono fare una quarantena completa a casa», conclude Milito.

    Insomma, si poteva imparare da questo esperimento e adeguare alle evidenze scientifiche raccolte l’organizzazione sanitaria per l’annunciata seconda ondata autunnale. Invece è andata diversamente. Tanto la comunità scientifica, quanto l’opinione pubblica non hanno saputo nulla di questa buona pratica medica avvenuta fra le montagne calabresi.

    Mentre con l’arrivo dell’estate i focolai pian piano si sono spenti in tutta Italia, in Calabria la struttura commissariale chiamata a predisporre il piano pandemico, attraverso le parole del commissario Saverio Cotticelli in diretta tv, ha addirittura ammesso di aver dimenticato di doverlo scrivere un piano pandemico. Il risultato è quello che tutti sappiamo: una lunga stagione di scandali, dimissioni e rinunce, ma soprattutto un tributo altissimo in termini di vittime.

    Covid hotel

    Eppure, un tentativo di attuare la politica dei covid hotel anche in Calabria alla fine è arrivato. La stipula dei primi contratti risale a fine 2020. E nel giro di due mesi l’accordo era scritto fra la Regione e otto strutture alberghiere diffuse sul territorio regionale, per un totale di 371 posti letto disponibili. Era già troppo tardi probabilmente. La Calabria aveva ancora negli occhi mesi con le autoambulanze in fila fuori dai pronto soccorso; centinaia di posti letto per pazienti con pochi o nessun sintomo in quella fase avrebbe potuto rappresentare una boccata d’ossigeno per le sottodimensionate strutture calabresi. Ma qualcosa non ha funzionato e continua a non funzionare.

    Si contano infatti con le dita le strutture convenzionate che hanno ospitato contagiati covid in Calabria finora, per un rimborso 65 euro al giorno cadauno. Tutte le altre stanze sono rimaste vuote, con un costo per la comunità comunque significativo: 15 euro al giorno per ogni posto letto dedicato a contagiati covid rimasto vacante.

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    Individuata la categoria di persone da sottoporre a quarantena controllata e trovati i posti dove farlo, pare fosse difficile l’organizzazione perché le due cose si incontrassero. E con l’arrivo della nuova estate praticamente tutte le strutture convenzionate hanno preferito ritornare a dedicarsi ai turisti in arrivo. Così la Calabria, destinata ad accogliere migliaia di turisti da ogni dove, è tornata praticamente e al netto di un’eccezione al punto di partenza: a cercare hotel per la quarantena.

  • Legnochimica, 13 anni di indagini per un disastro senza colpevoli?

    Legnochimica, 13 anni di indagini per un disastro senza colpevoli?

    Non è retorico parlare di un processo infinito per i fatti di Legnochimica, la ex mini Fiat cosentina trasformatasi in ecomostro dopo la fine della produzione.
    Il processo, in corso dal 2016 davanti al Tribunale di Cosenza, è l’esito di una serie di inchieste giudiziarie iniziate nel 2009, in seguito agli incendi sospetti scoppiati in quel che resta dell’ex fabbrica di pannelli in Ledorex a partire dall’agosto del 2008.
    Tredici anni di indagini: un po’ tanti per un sospetto disastro ambientale.
    Purtroppo, rischiano di non essere retoriche altre espressioni, con cui viene bollato l’ex sito industriale di contrada Lecco, nel cuore di Rende, circa trenta ettari schiacciati tra lo stabilimento di Calabra Maceri e quello di Silva Team, un’azienda specializzata nella produzione di peptina: “terra dei fuochi calabrese”, “Ilva cosentina” e via discorrendo.

    Tre indizi faranno una prova?

    Ancora oggi c’è chi contesta la pericolosità del sito. Lo hanno fatto alcuni funzionari dell’Arpacal, sentiti come teste nel 2019 durante il dibattimento in cui è rimasto alla sbarra un solo imputato: il commercialista Pasquale Bilotta, ex liquidatore dei beni della società di Mondovì, attualmente in fallimento per incapienza.
    E, dall’altro lato, c’è chi insiste sulla pericolosità estrema di questi terreni, soprattutto perché gli indizi e le suggestioni non mancano, purtroppo.

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    Le acque nere di uno dei laghetti nei terreni dell’ex Legnochimica a Rende

    C’è l’odore nauseabondo che promana dai terreni e dai tre laghi artificiali in cui fino all’inizio del millennio venivano trattati i materiali. Ci sono le fiamme, che si levano alte e inquietanti dalle acque di questi bacini non appena sale la temperatura.
    E ci sono le morti sospette. Dieci in un anno e mezzo circa. Tutte per tumori alle parti molli. Tutte nella stessa zona: via Settimo, un angolo di un chilometro e mezzo che cinge l’ex stabilimento.
    L’ultima parola, con ogni certezza, spetterà ai magistrati cosentini.
    Vogliamo scommettere su come andrà a finire?

    La storia delle inchieste

    Nessuna dietrologia e nessun complotto. La Procura di Cosenza ha indagato su due elementi distinti ma collegati: l’ipotesi di disastro ambientale, attribuibile senz’altro all’attività di Legnochimica, e, ovviamente, la ricerca del colpevole.
    Il presunto colpevole, Pasquale Bilotta, in questo caso è quello che è rimasto col classico cerino in mano.

    Infatti, Bilotta ha una sola responsabilità: aver rilevato il ruolo di commissario liquidatore che fu di Palmiro Pellicori, tra l’altro l’ultimo amministratore di Legnochimica.
    Pellicori è stato il primo indagato in questa vicenda complessa. L’inchiesta a suo carico, avviata dopo le denunce dei residenti e delle associazioni che li rappresentavano (il comitato Romore e l’associazione Crocevia) si fermò nel 2012, in seguito alla sua morte per leucemia.

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    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Questa inchiesta ha lasciato un’eredità pesante e, finora, insuperata: la perizia di Gino Mirocle Crisci, geologo di vaglia e all’epoca non ancora rettore dell’Università della Calabria. Questo documento, importante e inquietante allo stesso tempo, finì archiviato con l’indagine. E si è risvegliato con l’indagine riaperta a inizio 2016.
    Nel frattempo, nessuno ha prodotto un altro documento valido o fatto quel che si poteva (e doveva) fare: un piano di caratterizzazione credibile ed efficace e avviare la bonifica. Sempre nel frattempo, gli abitanti della zona industriale, ma anche quelli della vicina e popolosa Quattromiglia, sono stati investiti dai miasmi. E, come già detto, alcuni hanno iniziato a morire di tumore.

    Occorre, a questo punto, fissare bene un concetto: una cosa è una ctu, cioè una consulenza tecnica redatta per conto della Procura che indaga; un’altra un piano di caratterizzazione, cioè una relazione tecnica sulle condizioni della zona su cui si sospetta l’inquinamento e di cui si intende promuovere la bonifica.
    Nel caso di Legnochimica, la ctu e i tentativi di caratterizzazione non solo non coincidono, ma arrivano quasi a risultati opposti. Secondo la prima, l’area dell’ex stabilimento sarebbe praticamente compromessa, per i secondi, invece, l’inquinamento c’è, ma non sarebbe pericoloso.

    La perizia Crisci

    Non è il caso di scendere nei dettagli tecnici, che ci si riserva di approfondire.
    In estrema sintesi, è sufficiente dire che la perizia di Crisci è un elaborato di non troppe pagine (circa una quarantina) zeppe di dati, con cui l’ex rettore dell’Unical relazionava all’autorità giudiziaria i risultati della sua indagine.
    I contenuti sono spaventosi: Crisci riferisce di quantità di cloro, metalli pesanti, ferro, zinco e nichel in quantità abnormi, superiori fino al centinaio di volte i limiti massimi stabiliti dalle normative ambientali.

    Attenzione a un dettaglio: già nel 2005 e nel 2008 i primi rilievi affidati ai tecnici dell’Arpacal parlavano di forte concentrazione di sostanze cancerogene nell’area.
    E allora una domanda è spontanea: come mai l’Arpacal ha cambiato idea?
    Ma prima di procedere è doveroso rispondere a un’altra domanda: come ha fatto Crisci a ottenere questi risultati?

    In realtà, il primo a essere insoddisfatto di questa perizia è proprio il suo autore: in più occasioni l’ex rettore ha dichiarato che le sue ricerche sono state incomplete per l’insufficienza dei fondi a sua disposizione. Ma, a dispetto di questa insufficienza, ha lavorato tanto: ha effettuato prelievi d’acqua fino a dieci metri di profondità e prelevato porzioni di terreno fino a trenta metri.
    Crisci avrà fatto poco, ma gli altri, cioè l’Arpacal e i tecnici incaricati da Legnochimica, hanno fatto di meno. Per il primo, il sito è pericoloso. Per gli altri no.

    La perizia alternativa

    Nel 2014 Rende cambia. L’amministrazione comunale guidata da Marcello Manna inizia un rapporto delicato e pericoloso con la società di Mondovì per arrivare alla bonifica in tempi brevi.
    Il costo della bonifica sarebbe di circa sei milioni e mezzo, ma l’azienda prende tempo e propone soluzioni che definire low cost è davvero poco: dal Piemonte arrivano proposte di interventi per un massimo di 650mila euro. Più che un divario, un burrone. E Bilotta, ovviamente, difende gli interessi dell’azienda che rappresenta.

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    La sede del Comune di Rende

    Il balletto dura fino al 2016, quando la Procura, sommersa dalle denunce, riapre l’inchiesta e recupera la perizia di Crisci.
    Tutto risolto? Neanche per sogno, perché la perizia viene messa in discussione.
    La procuratrice aggiunta Marisa Manzini nomina un nuovo consulente: è il chimico Giovanni Sindona, anche lui docente dell’Unical e già protagonista dell’inchiesta sull’ex Pertusola di Crotone, altro grave disastro ambientale tutto calabrese.

    Purtroppo, Sindona fu al centro di un’altra inchiesta, non proprio bellissima: riguardava una presunta truffa ai danni dello Stato.
    Per amor di verità, è doveroso dire che la posizione del prof di Arcavacata fu archiviata. Ma, sempre per amor di verità, è importante ricordare che in quell’inchiesta finirono in manette otto persone, alcune delle quali legate proprio all’ex Legnochimica.

    La perizia Sindona non è mai uscita. Sei mesi dopo il ricevimento dell’incarico, il chimico dell’Unical si limitò a dire che i lavori procedevano a rilento ma che comunque i primi risultati erano diversi da quelli ricavati da Crisci. Risultato: la Procura revocò l’incarico a Sindona e riprese la perizia Crisci tal quale.
    Quali fossero le differenze tra questo lavoro incompiuto e la relazione dell’ex rettore non è dato sapere. Né può spiegarlo Sindona, passato a miglior vita all’inizio del 2020.

    La relazione Straface

    Nel frattempo, l’amministrazione Manna non è stata con le mani in mano. Non avrebbe potuto, anche perché il sindaco, il suo assessore all’Ambiente e il dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune erano finiti sotto inchiesta assieme a Bilotta.
    Ma per fortuna, a differenza del commercialista, le loro posizioni furono archiviate.
    Il Comune di Rende, nel 2017 erogò una borsa di studio a favore dell’Unical, da cui è derivata la perizia del professor Salvatore Straface, anch’essa un esempio di incompletezza, tra l’altro giustificata: i cinquantamila euro messi a disposizione dal municipio sono bastati sì e no per alcuni prelievi e scavi superficiali.
    I risultati? Neanche a dirlo, completamente divergenti dalla perizia Crisci: l’inquinamento c’è, ma non è pericoloso. Peccato solo che i pochi mezzi non giustificano risultati così perentori.

    Un finale annunciato?

    È il momento di riprendere la scommessa fatta all’inizio. Il processo a carico di Bilotta potrebbe finire in una maniera tipicamente all’italiana: certificherebbe un disastro senza colpevoli, perché la strategia della difesa, a quanto si è appreso dalle cronache, mira più a sfilare l’imputato dall’accusa di disastro ambientale che a negare il disastro.

    Sarebbe l’ennesima beffa per i cittadini di Rende e per tutti coloro che hanno a cuore l’ambiente. Legnochimica è andata in fallimento, non potrà provvedere alla bonifica in nessuna misura. E difficilmente potrà farlo il Comune, le cui casse sono in crisi da anni.
    Intanto altre persone della zona sono morte, sempre di tumore, accrescendo il bilancio macabro che riguarda gli abitanti della zona e gli ex dipendenti dell’azienda, tra cui le neoplasie hanno mietuto non poche vittime.
    Ma queste sono altre storie, su cui si ritornerà a breve.

  • ‘Ndrangheta e Chiesa: un oscuro legame per controllare i territori

    ‘Ndrangheta e Chiesa: un oscuro legame per controllare i territori

    «In qualità di sacerdote e massimo referente religioso del santuario della Madonna della Montagna in Polsi, grazie all’autorevolezza derivante dai suddetti ruoli, mediava nelle relazioni tra esponenti delle forze dell’ordine, della sicurezza pubblica ed esponenti di rango della ‘ndrangheta. In funzione di garante delle promesse e di agevolatore dello scambio tra le informazioni gradite ai primi e varie forme di agevolazione gradite ai secondi, in maniera che l’azione di contrasto dello Stato si nutrisse di apparenti successi, dietro ai quali nulla mutasse nelle reali dinamiche di potere interne alla ‘ndrangheta ed in quelle correnti tra quest’ultima e le altre strutture di potere, riconosciute e non riconosciute».

    Un ruolo di raccordo. Di collante tra mondi diversi quello che avrebbe rivestito don Pino Strangio. È questa una parte del capo d’imputazione per il quale il sacerdote, pochi giorni fa, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato contro ‘ndrangheta, massoneria e politica.

    ‘Ndrangheta e religione

    La condanna di don Pino Strangio, per anni rettore del Santuario di Polsi, è l’ennesima tappa di un pericoloso percorso che ha visto, negli anni, le strade di ‘ndrangheta e religione incrociarsi pericolosamente. «La condanna penale in primo grado di un sacerdote della diocesi suscita dentro di me sentimenti diversi. Pur non conoscendo ancora le motivazioni della sentenza, da una parte sono profondamente addolorato per la gravità delle accuse che hanno portato alla determinazione del Collegio penale e dall’altra ho molta fiducia nell’operato della Magistratura. Mi propongo d’incontrare il sacerdote appena possibile, per un’approfondita valutazione della sua vicenda giudiziale nel contesto pastorale ed ecclesiale». Così, il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha commentato la condanna di don Pino Strangio.

    Da sempre, la ‘Ndrangheta ruba simboli, ruba credenze, ruba riti. Tutto è funzionale a creare una identità culturale. Qualcosa che possa creare proselitismo e senso di appartenenza. Soprattutto presso i più giovani. Ma tutto è funzionale anche a mantenere quel controllo del territorio, senza il quale le cosche non riuscirebbero a condizionare la vita politica, economica e sociale dei luoghi e delle comunità.

    Solo per fare un esempio, l’importanza delle feste religiose nei paesi calabresi. Lì, molto spesso, un ruolo fondamentale nell’organizzazione degli eventi, così come nelle processioni, è rivestito dalla ‘ndrangheta. Da Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, alla “Affruntata” di Sant’Onofrio, nel Vibonese. Noti, molto noti, gli esempi degli “inchini” delle immagini della Madonna davanti alle case dei boss ai domiciliari. E altrettanto documentati i sequestri di materiale sacro, dai vangeli alle bibbie, passando per le immaginette sacre, che spesso vengono rinvenute nei bunker dei grandi latitanti.

    In tal senso, riveste un ruolo fondamentale in seno alla ‘ndrangheta il culto per la Madonna della Montagna. Proprio lì, a Polsi, dove don Pino Strangio era rettore del Santuario. Don Pino Strangio, sempre secondo il campo d’imputazione per cui è stato condannato in primo grado, avrebbe rafforzato «la capacità dell’organizzazione criminale di controllare il territorio, l’economia e la politica ed amplificando la percezione sociale della sua capacità d’intimidazione, generatrice di assoggettamento e omertà diffusi».

    Da diversi collaboratori di giustizia e nell’ottica della magistratura, don Pino Strangio è considerato l’erede di un altro prete assai controverso. Per qualcuno un mafioso, per altri un martire. Prete ad Africo, roccaforte della ‘ndrangheta dell’area jonica. Da sempre la figura di don Giovanni Stilo divide. Il suo nome è legato anche alla figura di Antonino Salomone, uomo di rango di Cosa Nostra. Il prete avrebbe favorito la sua latitanza.

    Colluso o martire? Don Giovanni Stilo

    Una circostanza raccontata per primo dal collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Salomone proveniva dal Brasile e doveva incontrarsi a Parigi con un suo nipote, Alfredo Bono, da me conosciuto nel 1978-79. Il nipote avrebbe dovuto accompagnarlo a Palermo per discutere su di un impegno che Salomone aveva assunto ma che non aveva mantenuto. Salomone pero non passò da Parigi, ma entrò in Italia attraverso la Germania. E quindi comparve ad Africo, dove rimase per oltre un mese, ospite di don Giovanni Stilo, in una casa adiacente all’istituto Serena Juventus. So che qualche tempo prima, precisamente dopo il 1981, anche Salvatore Riina fu presente in Africo, cosi come lo fu a San Luca. Nel periodo in cui si trovava ad Africo indossava abito da prete».

    Proprio grazie all’istituto Serena Juventus e ai suoi rapporti con la politica e, in generale, il potere, don Stilo avrebbe accresciuto il proprio potere. Anche di natura clientelare. Il fratello sarà anche sindaco. Ovviamente nelle file della Democrazia Cristiana.

    Di don Stilo parla anche il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che definisce «notoria» l’appartenenza del prete di Africo alla massoneria: «Don Stilo si riforniva ogni volta che passava dal distributore di carburante da me gestito a Pellaro e l’avevo conosciuto negli anni Settanta quando dovevo raccomandare una ragazza […] che doveva sostenere esami presso la sua scuola di Africo. Per cui andai da don Stilo assieme a “Peppe Tiradritto” e cioè Giuseppe Morabito. Devo però aggiungere che anche l’ex onorevole Piero Battaglia, allora consigliere comunale, l’aveva raccomandata al medesimo don Stilo. L’intero paese di Africo fu costruito grazie ai rapporti di don Stilo con l’onorevole Fanfani».

    Secondo Barreca, don Stilo avrebbe avuto importanti relazioni sia all’interno dell’ospedale di Locri, sia soprattutto all’interno dell’Università di Messina. Lì dove riusciranno a laurearsi decine di rampolli di ‘ndrangheta, diventando di fatto classe dirigente.  Legami che, comunque, passerebbero sempre dalla comune appartenenza massonica: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti».

    Don Stilo viene anche arrestato e processato con l’accusa di connivenza con la ‘ndrangheta e, in particolare, con le cosche Ruga, Musitano e Aquino. A pesare sul prete erano intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, cosi come disse il pentito Franco Brunero. Ma, soprattutto, di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l’ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli. Il Tribunale di Locri, nel luglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti. Ma la Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (il giudice passato alla storia come “ammazzasentenze”), rimise tutto in discussione. Nuovo processo di secondo grado a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa.

    Oggi collaboratore, ma prima medico, uomo in contatto con le cosche della Piana di Gioia Tauro e anche massone. Il dottor Marcello Fondacaro riversa le proprie conoscenze sul mondo della masso-‘ndrangheta ai pm della Dda di Reggio Calabria. Fondacaro parla dei rapporti tra le logge di Reggio Calabria e quelle di Trapani. Due aree, il Reggino e il Trapanese, tra le più povere d’Italia, ma anche le più gravide di massoni: «Don Stilo lasciò la sua eredità a Don Strangio di San Luca. La sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici».

    Il bubbone ‘ndrangheta nella Chiesa

    Dal passato a oggi, la funzione dei sacerdoti, quindi, ha rivestito sempre un’importanza vitale negli equilibri. Soprattutto nei piccoli centri. E, purtroppo, talvolta parliamo di equilibri di ‘ndrangheta. Don Pino Strangio, infatti, avrebbe avuto anche un ruolo nei rapporti tra Stato e ‘ndrangheta nel periodo successivo alla strage di Duisburg, avvenuta il 15 agosto del 2007.

    Le ingerenze delle cosche a Polsi, a Sant’Onofrio o in altri luoghi sparsi su tutto il territorio calabrese sono solo punte più visibili e affilate di un iceberg. Che è molto più grande. Che comprende un controllo capillare, sistematico, da parte delle ‘ndrine sulle celebrazioni sacre. Un controllo messo in atto con la stessa cura e precisione con cui si controllano gli appalti. Con essi si accumulano ricchezze. Con il controllo sociale delle masse, invece, si conquista e si mantiene il potere.

    Non è un caso. Non può essere un caso che alcune tra le cariche e le strutture più importanti della ‘ndrangheta abbiano richiami di natura massonica e religiosa. Dal Vangelo alla Santa. Passando per San Michele Arcangelo. Che, curiosamente, è sia patrono della Polizia, sia della ‘ndrangheta. E, ovviamente, il ruolo rivestito dal Santuario della Madonna della Montagna a Polsi, che per anni ha visto insozzata le propria funzione religiosa e spirituale da riunioni e summit di ‘ndrangheta.

    È il 21 giugno del 2014 quando Papa Francesco, nella Piana di Sibari a Cassano allo Ionio, lancia la scomunica ad ogni forma di criminalità organizzata. Volutamente il Pontefice ha scelto la Calabria.  La regione, forse, dove la Chiesa ha fatto meno contro la ‘ndrangheta. Soprattutto se si pensa ai preti martire, come don Pino Puglisi, in Sicilia. O don Peppe Diana, in Campania.

    «I mafiosi non sono in comunione con Dio» disse Papa Francesco. Da quel giorno, nulla o quasi è cambiato. Una parte della Chiesa continua a essere timida sulla lotta alla ‘ndrangheta. E non sono inusuali i collegamenti, talvolta solo relazionali, ma altre volte anche di natura criminale, tra le tonache e il mondo delle ‘ndrine. All’inizio del 2021, due preti del Vibonese sono stati anche rinviati a giudizio per tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose.

  • Sacal e Sorical, debiti pubblici e profitti privati

    Sacal e Sorical, debiti pubblici e profitti privati

    Gli interessi della politica e dell’imprenditoria si incontrano nel mondo delle società miste. La partecipazione del pubblico in quota maggioritaria rispetto al privato ne è una caratteristica distintiva. Ma spesso, per esempio in Calabria, queste Spa se ne ricordano solo quando c’è bisogno di appianare debiti e disastri vari. Se le cose vanno bene privatizziamo i profitti, se vanno male pubblicizziamo le perdite.

    Prendere in esame due casi distinti e distanti come quelli di Sorical e di Sacal può aiutare a capire le cause e gli effetti di certi paradossi sui nostri territori. Anche perché, nonostante vi si investano parecchi soldi pubblici, i cittadini sanno spesso poco delle vicissitudini societarie, finanziarie e talvolta anche giudiziarie che attraversano queste società.

    La Regione salva la Sacal

    La Società aeroportuale calabrese sta patendo parecchio, com’era prevedibile, gli effetti del crollo del traffico aereo nell’anno della pandemia. Ne è derivata una crisi di liquidità che ha allarmato a tal punto la Regione. Che è intervenuta per evitare la messa in liquidazione, con una ricapitalizzazione da 10 milioni di euro. C’è stato un primo step legislativo in consiglio regionale con un impegno di spesa di 927mila euro per il 2021 (proporzionato al 9,27% delle azioni della Cittadella). Il facente funzioni Nino Spirlì ha garantito a un’Aula non del tutto convinta che bisogna affrontare questo passaggio per «mantenere la maggioranza pubblica». La linea è sottile: attualmente sono 13.666 le azioni in mano a enti pubblici e 13.259 quelle dei privati.

    Cantieri per 60 milioni di euro

    Poi, solo «successivamente si valuteranno – continua Spirlì – ulteriori investimenti» e arriveranno «cantieri per 60 milioni di euro» sui tre aeroporti calabresi. Sacal infatti gestisce non solo lo scalo più attivo, quello di Lamezia, ma dal 2017 anche quelli di Reggio e Crotone. Gli ultimi due reduci dai fallimenti delle rispettive società di gestione e accorpati a Sacal sotto la presidenza del prefetto/poliziotto Arturo De Felice. Era arrivato un mese dopo la bufera dell’inchiesta “Eumenidi”.

    Il supermanager in quota Lega

    Spirlì ha poi garantito che «il presidente della Sacal (il supermanager in quota Lega Giulio de Metrio, ndr) ha già affrontato il piano strategico. Tra qualche giorno saranno coinvolti nella discussione i soggetti interessati perché nessuna parte del territorio abbia a patire le dimenticanze registrate in passato». Qui si fermano le notizie sul Piano industriale.

    Gli enti pubblici stanno mettendo i soldi per la ricapitalizzazione. Compreso il Comune di Lamezia, che detiene il 19,2% delle azioni, con una variazione di bilancio da 150mila euro. Non si sa ancora nulla di come e con quali investimenti si dovrebbero rilanciare i tre aeroporti della Calabria. Intanto la Metrocity di Reggio vuole entrare e non ci riesce. Catanzaro (Comune e Provincia, per un totale di circa il 16% delle azioni) vuole uscire suscitando polemiche dentro e fuori dal capoluogo.

    E i lametini pagano

    I lametini si sentono quasi defraudati perché sono gli unici, a parte la Regione, a metterci i soldi pur avendo l’aeroporto che fa più numeri, mentre crotonesi e reggini lamentano i mancati investimenti di Sacal sui loro scali e qualcuno, sommessamente, ripropone i dubbi di sempre sulla capacità della Calabria di reggere la presenza di tre aeroporti.
    A Lamezia oltre al Piano industriale aspettano anche la nuova aerostazione: bocciato dalla Commissione europea un progetto da 50 milioni di euro, rimasto solo sulla carta, si è parlato di un altro più contenuto – dovrebbe costare la metà – di cui De Metrio aveva anche tratteggiato i contorni.

    Nella principale porta d’ingresso di treni e aerei nella regione si aspetta da anni anche un collegamento «multimodale» tra stazione ferroviaria e aeroporto, un ultimo miglio di cui c’è bisogno come il pane ma che ormai sta assumendo i contorni della leggenda. Tutto bloccato, specie con la mazzata del Covid: i dati di giugno di Assaeroporti fanno registrare, su Lamezia, un calo del 50,2% di passeggeri rispetto al 2019.

    La Sorical in liquidazione con le consulenze a go-go

    Per Sorical, società che dal 26 febbraio 2003 gestisce le risorse idriche calabresi (53,5% della Regione, 46,5% di una società controllata dalla multinazionale Veolia), la bestia nera sono invece i Comuni. Molti sono in dissesto e pre-dissesto: tanti cittadini non pagano l’acqua, tante reti sono vetuste e hanno perdite, tanti allacci sono abusivi. E il risultato è che i crediti vantati dalle amministrazioni locali ammonterebbero a circa 200 milioni di euro. La società, che paga un canone di solo 500mila euro all’anno per la gestione degli acquedotti calabresi, è in liquidazione volontaria dal 13 luglio 2012 ma oltre a continuare a garantire il servizio – e ci mancherebbe – in questi anni ha visto aumentare anche la spesa per il personale (a cui va aggiunta quella per i consulenti esterni): 13,9 milioni nel 2017, 14 milioni nel 2018, 15,6 milioni nel 2019 (fonte: Piano di razionalizzazione periodica delle partecipazioni societarie della Regione, dicembre 2020).

    E rimetti a noi i vostri debiti Sorical

    L’esposizione debitoria di Sorical quantificata in un iniziale Accordo di ristrutturazione partiva da 386 milioni di euro, oggi è scesa di parecchio – secondo la società del 68% – ma resta comunque un bel problema. Specie perché, ora che si vorrebbe revocare la liquidazione e rendere il capitale interamente pubblico, c’è da fare i conti con una banca tedesco-irlandese, la Depfa Bank, che è assieme a Enel il principale creditore di Sorical, con cui anni fa ha sottoscritto degli strumenti finanziari derivati e a cui ha dovuto evidentemente cedere delle garanzie.

    Pronti al Recovery

    Ma fermi tutti, ora c’è il Recovery fund. Il Pnrr assegna un gruzzolo molto sostanzioso alle risorse idriche, ma per metterci le mani sopra bisogna rilevare le quote dei privati e convincere la banca, cosa che non riuscì alla Giunta guidata da Mario Oliverio. Vedremo se ce la farà la governance leghista che accomuna Spirlì e il commissario Sorical Cataldo Calabretta. Quel che è certo è che la Regione dovrà metterci dei soldi perché è l’unica, anche stavolta, a poterlo fare.

    Per ora di concreto c’è solo un atto di indirizzo per verificare le condizioni e la fattibilità dell’operazione, intanto va chiarito che una Spa, anche se sarà interamente a capitale pubblico, resta un soggetto di diritto privato. La disciplina a cui è sottoposta è quella dettata dal codice civile in materia di impresa. Poi ci sono i ritardi dell’Autorità idrica calabrese, l’ente di governo d’ambito diventato operativo dopo anni di inerzia. Non ha ancora individuato il soggetto gestore che, a questo punto, non potrà che essere la “nuova” Sorical.

    I timori dei comitati per l’acqua pubblica

    Le perplessità dei comitati per l’acqua pubblica, che continuano a chiedere che venga rispettata la volontà popolare espressa con il referendum tradito di 10 anni fa, riguarda quello che potrebbe succedere dopo. Dopo che eventualmente la Regione avrà messo i soldi per revocare la liquidazione e dopo che gli investimenti sulle reti saranno realizzati con i soldi del Recovery. Non è che una volta sanata la società e ammodernati gli acquedotti – si chiedono gli attivisti – si spalancheranno di nuovo le porte ai privati? Non è che l’obiettivo è far tornare la gestione dell’acqua calabrese appetibile per chi cerca il profitto e per chi non vede l’ora di svendere i beni comuni in cambio di nuove clientele?

    Il rapporto dell’Arera

    Intanto l’Arera (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) proprio qualche giorno fa ha segnalato a Governo e Parlamento che «permane nel nostro Paese un Water Service Divide» e che «persistono situazioni, principalmente nel Sud e nelle Isole, in cui si perpetuano inefficienze». La segnalazione si basa sui risultati del monitoraggio semestrale sugli assetti locali del servizio idrico integrato svolto dalla stessa Autorità attraverso l’analisi delle informazioni trasmesse dagli enti di governo d’ambito e da altri soggetti territorialmente competenti secondo la legislazione regionale.

    Se non si cambia rotta addio soldi del Pnrr

    Un quadro di criticità che evidenzia «la necessità di un’azione di riforma per il rafforzamento della governance della gestione del servizio idrico integrato, soprattutto in considerazione del permanere di situazioni di mancato affidamento del servizio in alcune aree del Paese». Quali? «Molise e Calabria, nonché la parte maggioritaria degli ambiti territoriali di Campania e Sicilia». Senza questi adempimenti, insomma, i soldi del Pnrr – che indica la strada della gestione «industriale» delle risorse idriche – rischiano di restare un sogno. Forse anche per questo c’è tanta fretta dopo anni di ritardi e di gestione evidentemente fallimentare dei manager indicati dalla politica. Chissà poi chi eventualmente sarà, tra il Pollino e lo Stretto, a governare questi flussi di denaro e questa gestione «industriale» dell’acqua dei cittadini.

  • VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    VIDEO | Se son alghe fioriranno: una depurazione che fa acqua

    Fa acqua da tutte le parti. Con l’aggravante che si tratta di acqua sporca, che fuoriesce dagli scarichi fognari attraverso troppe tubature non regolarmente collettate e finisce direttamente e abusivamente nei corsi d’acqua che sfociano a mare. Da anni il sistema di depurazione calabrese minaccia – e l’inchiesta Archimede ne è una prova – lo stato di salute del mare degli oltre 800 km di costa tra Jonio e Tirreno. Proprio sul litorale ovest molto spesso appaiono enormi chiazze, strisce e bollicine giallastre, che inibiscono i bagnanti dalla voglia di fare un tuffo e, in generale, rischiano di tenere lontani i turisti.

    Le istituzioni minimizzano, i cittadini si indignano

    E così sono ripartite le polemiche, tra social network, comunicati e conferenze stampa di assessori e sindaci che accusavano i cittadini indignati di fare «cattiva pubblicità» al Tirreno calabrese con la diffusione di «immagini di mare sporco non veritiere». Non si tratta di «merda», ha spiegato Fausto Orsomarso, ma di semplice e naturale «fioritura algale» e chi dice il contrario rischia una denuncia.

    Il giudizio dell’esperto

    Una analisi approfondita prova a farla un veterano dell’ingegneria idraulica dell’Università della Calabria. Il professor Paolo Veltri spiega che «il mare calabrese è di tipo oligotrofico, cioè presenta pochi nutrienti e, anche in presenza di alte temperature, non dà luogo a fioritura di alghe. Può succedere – sostiene Veltri – ma non è di certo un fenomeno sistematico». Il problema dell’acqua marrone del Tirreno resta quella depurazione finita a più riprese nel mirino della magistratura.

    Promesse e protocolli

    Intanto, mentre Capitano Ultimo ha promesso lo sblocco dei fondi – circa 70 milioni di euro – per sanare le procedure di infrazione e i depuratori malfunzionanti, si aspetta l’adesione di tutti e 21 i Comuni del Tirreno cosentino al protocollo d’intesa promosso dalla Provincia di Cosenza su input determinante del comitato “Mare Pulito”. Si chiede soprattutto monitoraggio costante e la trasparenza sui dati dei sistemi di depurazione. 

  • Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Covid e welfare, quanti affari per la ‘ndrangheta

    Il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero De Raho, nella recente pubblicazione di Danilo Chirico “Storia dell’anti-‘ndrangheta” parla così dell’occasione che la pandemia da Coronavirus e la crisi economica potranno rappresentare per le mafie e, nello specifico, la ‘ndrangheta. La crisi offre nuove opportunità ai gruppi criminali, sia nei settori tradizionali «come le multiservizi (mense, pulizie, disinfezione), intermediazione della manodopera, rifiuti, imprese di costruzioni» sia in quelli che «appaiono particolarmente lucrosi come il commercio di mascherine o il turismo». Non è solo un’ipotesi fondata sull’esperienza: sono già almeno «trenta le situazioni sospette intercettate, con società che sono state costituite all’estero che commerciano in dispositivi di protezione, riconducibili a organizzazioni mafiose o ’ndranghetiste».

    Ma se il “contagio” dell’economia è storia vecchia di almeno 50 anni, quello delle somme più precisamente riguardanti il welfare in tempo di Covid, è stato, fin da subito un obiettivo perseguito dalla ‘ndrangheta. Due misure, su tutte, hanno rappresentato in questi mesi di pandemia una boccata d’ossigeno per numerose famiglie in difficoltà economica: il Reddito di Cittadinanza e i Buoni Spesa Covid. E su entrambe la ‘ndrangheta ha messo le mani.

    Le mani sul reddito di cittadinanza

    La relazione della Direzione Investigativa Antimafia nel 2020 contiene testualmente: «Nel semestre è emerso un ulteriore aspetto comprovante l’ingordigia ‘ndranghetista in spregio alla situazione emergenziale vissuta dal contesto sociale calabrese appena descritto, in totale distonia con le ingenti risorse economiche a disposizione delle consorterie, anche attraverso le richieste del reddito di cittadinanza».

    La appropriazione indebita dei membri dei clan del reddito di cittadinanza è al centro anche della polemica politica tra i sostenitori della misura, il Movimento 5 Stelle in primis, che ne ha fatto un simbolo, e gli “abolizionisti”. Sono numerosi gli episodi censiti negli ultimi mesi.  Il 15 marzo del 2021 la Guardia di Finanza scopre 86 “furbetti” del Reddito di Cittadinanza. Truffa da oltre 700mila di euro. Una quindicina di costoro ha anche condanne per reati di ‘ndrangheta. L’hanno ottenuto semplicemente omettendo il proprio trascorso giudiziario. E i sussidi sono arrivati.

    Si tratta, evidentemente, di appetiti (soddisfatti) che non riguardano solo la ‘ndrangheta. Anche le altre mafie, Cosa Nostra su tutte, si sono accaparrate somme ingenti. In un unico caso, siamo nello scorso aprile, la cifra ammonta a oltre 600mila euro. Questo perché, unitamente alla ‘ndrangheta, Cosa Nostra è l’organizzazione mafiosa che maggiormente fa del controllo del territorio un marchio di fabbrica. Depredare il welfare, infatti, non è solo una questione di introito economico. In questo modo si (ri)afferma la superiorità sullo Stato. Storicamente, i grandi boss della ‘ndrangheta puntano e ottengono (indebitamente) l’indennità di accompagnamento dall’INPS o accedono (altrettanto indebitamente) ai sussidi previsti dalla Legge 104.

    Un affare per la ‘ndrangheta che conta

    Il Reddito di Cittadinanza viene approvato all’inizio del 2019. La ‘ndrangheta si organizza ben presto. In circa un anno viene documentato come esponenti di grande rilievo delle cosche Piromalli e Molè di Gioia Tauro siano riusciti ad ottenere il sussidio. Si tratta di persone condannate per reati di ‘ndrangheta, talvolta all’ergastolo e detenuti in regime di 41 bis. Ma anche sorvegliati speciali, con le rispettive consorti. Danno erariale da 280 mila euro.  A infiltrarsi nelle maglie del welfare in tempo di pandemia non sono ladruncoli da quattro soldi, ma  bdella ‘ndrangheta. Non solo i Piromalli e i Molè, ma anche i Pesce e i Bellocco, come mostrato da altre inchieste.

    Le indagini documentano le ruberie di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta, come i Tegano e i Serraino di Reggio Calabria. Ma anche i figli di Roberto Pannunzi, considerato il “Pablo Escobar italiano”, uno dei più importanti narcotrafficanti della storia, capace di dialogare da pari a pari con i cartelli sudamericani. Non è un caso che anche nel maxiprocesso “Rinascita-Scott”, con cui la Dda di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri, sta portando alla sbarra i rapporti tra cosche e massoneria, risultino tra gli imputati soggetti percettori del reddito di cittadinanza.

    A dicembre 2020 invece la Guardia di Finanza di Crotone scopre che fra i “furbetti” c’era un esercito di picciotti, luogotenenti e boss di Alfonso Mannolo, arrestato nel 2019 come elemento di vertice del clan di San Leonardo di Cutro e accusato di associazione mafiosa, traffico di droga, riciclaggio, estorsione e usura. Febbraio 2021: tra le persone individuate dalla Guardia di Finanza, c’è anche un soggetto condannato in via definitiva nell’ambito del processo “Kyterion”, come affiliato alla potente cosca dei Grande Aracri.  In un altro caso, siamo a maggio 2021, scoperto dall’Autorità Giudiziaria vibonese, l’importo delle somme indebitamente ottenute, ammonta a 225mila euro. Si parla, complessivamente, di diversi milioni di euro.

    La ricchezza in tempo di Covid

    L’altra grande forma di accaparramento di denaro pubblico nel periodo della pandemia è rappresentata dai Buoni Spesa Covid. Una forma di sussidio istituita nel corso della prima ondata della pandemia e su cui la ‘ndrangheta, già nel luglio 2020, aveva messo le mani. Sono 45mila gli euro intascati indebitamente dagli uomini del clan grazie al Decreto Rilancio. L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Milano, si è concentrata sugli appetiti di tre aziende riferibili alla ‘ndrangheta del Crotonese. Ancora una volta ai Grande Aracri.

    Alla fine del 2020, 186 denunce in provincia di Reggio Calabria per indebite percezioni sui Buoni Spesa Covid. Un terzo degli indagati risulta avere legami di parentela con soggetti appartenenti a ‘ndrine o a famiglie di interesse investigativo. Il totale delle irregolarità riscontrate comprende un danno erariale complessivo di circa 357mila euro. E si è scongiurata, per il tratto a venire, un’ulteriore perdita di circa 127.000 euro. Somme che gli uomini e le donne di ‘ndrangheta avrebbero altrimenti incassato.

    Si tratta, se possibile, di cifre e proporzioni ancor più grandi rispetto a quelle del Reddito di Cittadinanza. Recentemente, in provincia di Vibo Valentia sono scattate circa 300 denunce per buoni spesa direttamente dai Comuni a persone che autocertificavano il proprio stato di difficoltà economica sulla base di bandi stilati dagli stessi enti locali. Tra questi, diversi affiliati alle cosche. Sono così emerse una serie di irregolarità per un danno erariale complessivo di oltre 100mila euro. Uno degli ultimi casi è di metà maggio 2021. Coinvolge 478 denunciati e tra essi molti affiliati alla ‘ndrangheta vibonese. Per loro sono arrivati 70mila euro, senza che ne avessero diritto.

    Il lockdown per fare affari

    Le mafie e la ‘ndrangheta in particolare sanno sfruttare ogni occasione. Anche i lunghi periodi di lockdown e la pandemia sono diventati occasione per lucrare. Ancora dalla relazione della DIA: «Il lockdown ha rappresentato la ennesima occasione per le consorterie criminali di sfruttare la situazione per espandersi nei circuiti della economia legale e negli apparati della pubblica amministrazione».

    Sempre in “Storia dell’anti-‘ndrangheta” di Danilo Chirico si dà conto di quanto messo nero su bianco dall’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione nell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, istituito dal Ministero dell’Interno. Gravi le affermazioni che sostengono come le mafie (e, in primis, la ‘ndrangheta) stiano tentando di «accedere illecitamente alle misure di sostegno all’economia», di ottenere il pagamento di prestazioni sanitarie in favore di aziende “mafiose” o collaterali ai clan e di svolgere servizi utili ad affrontare la pandemia (per esempio la sanificazione delle strutture).

  • LONGFORM | Una madres di Calabria contro il Plan Condor

    LONGFORM | Una madres di Calabria contro il Plan Condor

    La sera del 9 luglio 2021 Maria Bellizzi, partita quasi un secolo prima dalla Calabria, è a casa a Montevideo con sua figlia Silvia. Aspettano con impazienza di mettersi in contatto con l’Italia, è da 22 anni che lo aspettano questo momento. Era il 25 giugno del 1999 infatti, quando Maria fece ritorno a Roma per depositare la denuncia di sparizione di suo figlio alle autorità italiane. Quel giorno, davanti al pubblico ministero Giancarlo Capaldo, Maria non era sola. Insieme a lei c’erano le signore Marta Casal, moglie di Gerardo Gatti, italo-uruguaiano scomparso a Buenos Aires; Luz Ibarburu, madre di Pablo Recagno, italo-uruguaiano anche lui scomparso a Buenos Aires, Cristina Mihura, moglie di Bernardo Arnone, italo uruguaiano scomparso a Buenos Aires e Aurora Meloni, moglie di Daniel Banfi, cittadino italo-uruguaiano assassinato a Buenos Aires. Sono tutti desaparecidos. 

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    Maria Bellizzi nel 1928 è partita dalla Calabria, dal paese di San Basile, una comunità greco-albanese aggrappata alle pendici del Pollino. Quel 25 giugno del 1999 è a Roma per denunciare la scomparsa del suo primogenito, Humberto Bellizzi, cittadino italo-uruguaiano rapito a Buenos Aires. E da quando è sparito nel nulla che Maria non ha pensato ad altro, trasformandosi da un giorno all’altro da una tranquilla casalinga a una madres, una delle instancabili protagoniste dell’organizzazione che più di qualsiasi altra ha saputo rappresentare una spina del fianco delle dittature civico militari che hanno segnato il momento più buio del ’900 in America latina.

    Maria per quarant’anni ha girato le questure, i commissariati, i tribunali e le ambasciate di più paesi per chiedere di suo figlio. Quella denuncia a Roma è stato il primo atto del Maxi Processo Condor, oggi Maria ha 96 anni e freme per ricevere la notizia della sentenza definitiva. Si può solo provare a immaginare cosa prova nel momento in cui squilla il telefono.

    DOV’È HUMBERTO?

    Aprile del 1977, fra i banchi dell’università Piero nota un’assenza insolita. Le lezioni sono iniziate da poche settimane e finora il suo compagno di studi Humberto non ne ha saltata nemmeno una. La sera tardi ci pensa e, prima di rincasare, decide di passare da casa sua per capire il perché di questa assenza inaspettata. Casa di Humberto è a via Bartolomè Mitre, a pochi isolati dal Congresso argentino. Quando Piero gira l’isolato e inizia a guardare il vecchio condominio, sulla porta del palazzo nota subito un tipo guardingo che non ha mai visto.

    Si avvicina guardando le finestre in alto e decide lo stesso di salire le poche scale che lo separano dal primo piano. Lì trova quello che non poteva immaginare. Nell’appartamento ci sono delle persone che rovistano affannosamente fra le cose di Humberto. Piero non chiede, immagina siano pericolosi, perciò continua a salire le scale facendo finta di niente. Perde un po’ di tempo finendo il corridoio di un altro piano. Poi torna indietro, riscende e corre ad avvertire gli altri: Humberto non c’è, Humberto è scomparso. 

    Pochi giorni prima Jorge Goncalves Busconi, orologiaio all’incrocio fra le strade San Josè e Belgrano, sempre nel distretto dove ha sede il Congresso di Buenos Aires, stava per uscire dal lavoro. Passeggiava con la sua Maria, incinta di otto mesi, che ora racconta la scena agli amici, radunati per capire cosa stia succedendo in quel quartiere. Un gruppo di uomini armati le hanno chiesto a muso duro: «Sei anche tu uruguaiana?». Alla risposta negativa l’hanno tirata via con uno strattone: «Allora allontanati». Jorge è stato preso e portato via in un lampo. Il giorno prima del suo arresto Jorge era a casa di Humberto, sono amici da tempo e in quel periodo si vedono con molta frequenza. Ora sono entrambi spariti. 

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    Il Palazzo del Congresso a Buenos Aires

    Perché li hanno presi, che tipi sono? Dell’orologiaio Jorge non abbiamo detto solo che aveva 35 anni, Humberto invece nel 1974 ne ha 24. In Uruguay questo figlio di italiani ha completato gli studi primari al Colegio Nuestra Senora de Pompeya, ha studiato medicina e ha vissuto con i suoi genitori e sua sorella minore Silvia in un appartamento di Montevideo, a via Enrique Aguiar, numero 5014. Da giovanissimo ha diretto il giornale di quartiere “El Sol” e ha lavorato nella pubblicità come pittore di lettere e fumettista. In Uruguay ha militato nel ROE (Resistenza Studentesca Lavoratrice) e all’istaurarsi di una feroce dittatura militare ha pensato, come molti giovani connazionali, di trasferirsi in Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo apparentemente democratico del Cono Sud dell’America latina. L’unica illusione di futuro.

    A Buenos Aires è arrivato nel 1974, ha lavorato nella pubblicità per la società Nestlé e successivamente ha aperto anche la dispensa alimentare con i suoi amici Carlos Ramirez, Ricardo Perez e proprio Jorge Goncalves Busconi. Si tratta di una piccola attività commerciale, un magazzino all’incrocio tra Sarmiento e Montevideo, nella zona del Mercado Rosado. Con Ricardo Perez erano anche soci in un’altra attività, un laboratorio di pittura pubblicitaria proprio davanti all’appartamento di Humberto, sull’insegna c’è scritto “Tabarà”. 

    Il 19 aprile 1977, Humberto, uruguaiano figlio di italiani ha ottenuto la cittadinanza argentina da un mese. Quella mattina è una come tante, fino a quando arriva una persona al suo appartamento e chiede di parlargli per commissionargli un lavoro di pittura pubblicitaria su una vetrina.  Humberto risponde che la cosa gli interessa, ma che prende i lavori a metà con il suo socio Ricardo. Allora gli chiede dove sta il socio, e lui lo porta dall’altro lato della strada, dove si mettono d’accordo per andare tutti insieme all’indomani a vedere questa vetrina. Tutto normale.

    Poi però arriva una telefonata che normale non è. Un cliente che ha una gioielleria avvisa Ricardo di non andare in quel posto, perché all’incrocio fra le strade Independencia e Entre Rios c’è gente strana ad aspettarli. È invece troppo tardi per Humberto, che a quel punto già non si trova più. Non si sa se è andato in anticipo all’appuntamento o se lo abbiano preso in quella fatidica strada. L’unica cosa che si sa che è sparito in pieno giorno e in pieno centro, proprio come il suo amico Jorge.

    Ma perché a Humberto Bellizzi, uno studente e lavoratore come tanti altri, è toccata una sorte così crudele? Una domanda che perseguita gli amici e i familiari, e che ad oggi ha una sola possibile risposta. Nel 1974, nell’anniversario del golpe uruguayano, Humberto aveva partecipato a una manifestazione in Argentina. La manifestazione non era autorizzata, perciò fu arrestato insieme a 101 connazionali. Fu subito rilasciato, ma inserito in una lista. La colpa di questo giovane è stata quindi aver manifestato da uomo libero contro la dittatura, un affronto che i tiranni del tempo non potevano dimenticare. 

    EL ATLETICO

    Secondo testimonianze più recenti, i due sarebbero stati portati nel Club Atletico, uno dei centri di detenzione clandestina di cui pullulava in quel periodo Buenos Aires. Era una caserma militare, l’avevano chiamata Club Atletico per celare il fatto che in realtà la lettera “A” stava per “Antisovversivo”. Atletico, Banco e Olimpo erano tre centri collegati, tanto che nei processi si parla di questo sistema di repressione come “ABO”. L’Argentina in quel periodo vive così, nella bugia legalizzata. Mentre si prepara ad ospitare i Mondiali del 1978 in un clima di festa nazionale, nelle pance segrete delle caserme tortura, uccide e fa sparire un’intera generazione.

    Il Club Atletico si trovava in Avenida Paseo Colón numero 1266, nel quartiere di San Telmo, uno dei più antichi della città. È stato operativo per un anno circa, dal febbraio del 1977 fino a inizio 1978, quando lo hanno smantellato per la costruzione dell’autostrada 25 de Mayo. I suoi orrori sono finiti sotto una montagna di terra che li ha coperti per decenni. Nel seminterrato del Club Atletico si stima siano transitati circa 1800 prigionieri, pochissimi sono sopravvissuti. 

    «Il tuo nome d’ora in poi sarà K-35, poiché per gli estranei sei scomparso», ha raccontato di essersi sentito dire nel Club Atletico il sopravvissuto Miguel Ángel D’Agostino. Trascinato per le scale fino al seminterrato, è stato privato di ogni effetto personale. Poi è stato spersonalizzato, è diventato una lettera e un nome, come accadeva nei centri nazisti. L’accostamento non è casuale, all’interno del Club Atletico si sentiva ripetutamente una cassetta con i discorsi di Hitler a tutto volume, accompagnati dalle urla e dalle risate dei repressori.

    La sopravvissuta Ana María Careaga, aveva sedici anni quando finì all’Atletico e sua madre è ancora desaparecida. Ha raccontato questi dettagli al Conadep, la commissione governativa che ha fatto luce sui crimini di Stato in Argentina: «A quel tempo l’unica cosa che poteva salvarci dalla sofferenza era la morte. Poiché nessuno sapeva dove fossimo, dissero di avere tutto il tempo del mondo. L’unico modo per fermare la sofferenza era morire, perché non ci avrebbero lasciato liberi e non ci avrebbero lasciato morire per poter continuare a torturarci».

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    Un’altra sopravvissuta a quest’orrore ha dichiarato di aver visto e riconosciuto all’interno del Club Atletico Jorge Goncalves Busconi. Da qui si ritiene che anche a Humberto Bellizzi sia toccato lo stesso destino. Ricostruzioni storiche e giudiziarie ritengono inoltre molto probabile che i rapitori abbiano consegnato i due amici a ufficiali dell’intelligence dell’esercito uruguaiano che interrogavano e torturavano in quel centro in Argentina. Fra i più famosi ci sono i membri della Compañía de Contrainformaciones, il maggiore Carlos Calcagno e il capitano Eduardo Ferro.

    L’ex militare uruguaiano Jorge Nestor Troccoli ha anche lui origini italiane e si è distinto nelle operazioni congiunte con l’Argentina per dare la caccia a quelli che venivano considerati sovversivi. È stato l’unico imputato del Processo Condor giudicato in aula, visto che per sfuggire alla giustizia del suo paese è venuto a rifugiarsi in Campania, prima a Marina di Camerota e poi a Battipaglia, dove il dieci luglio 2021 è stato arrestato. Dovrà scontare la pena definitiva all’ergastolo. Questa è la notizia che Maria aspettava da anni.

    UNA STORIA DI CALABRIA

    Il nome completo del figlio di Maria è Andres Humberto Bellizzi Bellizzi. Non c’è errore, il cognome è ripetuto due volte perché è lo stesso della madre e del padre, entrambi provenienti da San Basile, un paese del Pollino in provincia di Cosenza dove è evidentemente molto diffuso. Quando per le prime volte andò a chiedere di suo figlio in commissariato gli capitò un funzionario che le disse: «Ah, il ragazzo con un doppio cognome, qui non c’è». Era il segno che lo sapeva eccome dov’era il figlio. 

    Maria, come molti corregionali dell’epoca, arriva a Montevideo da bambina per la legge di ricongiungimento familiare. Il papà, partito tempo prima per sfuggire alla fame del Sud Italia fra le due guerre mondiali, aveva finalmente trovato occupazione stabile e poteva riabbracciare la sua famiglia. È il 1928, il viaggio, lunghissimo e pericoloso, Maria lo compie insieme alla madre: è un nuovo inizio, che presto si presenta come ancora più difficile. Il padre di Maria muore giovanissimo, e a lei tocca prendersi cura dei fratelli per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Studia, lavora e a vent’anni sposa Andrés Bellizzi, anche lui oriundo di San Basile. Hanno due figli, Humberto e Silvia.

    Maria si occupa della famiglia e cresce i figli nella pace, fino a quando il colpo di Stato militare impone la partenza al figlio. Lui comunque torna spesso a casa e non le dà molto da pensare: studia, lavora tanto e ottiene ben presto la cittadinanza permanente in Argentina. Poi però il golpe militare arriva anche là. E una domenica, il 25 aprile del 1977, la notizia che Humberto è sparito insieme a Jorge raggiunge quella casa di italiani a Montevideo. La vita di quella famiglia viene sconvolta per sempre.

    Maria da quel giorno si trasforma in un’icona di lotta in Uruguay, diventa referente nazionale de la Asociación de Madres y Familiares de Detenidos-Desaparecidos. Assurge a simbolo per migliaia di donne, manifestando in prima fila per i diritti umani ogni volta che ve n’è occasione, nonostante l’avanzare dell’età. 

    Anni di lotta e di dignità, poi nel 1986 Maria rivela a un settimanale uruguaiano di aver finalmente scoperto perché sparì il figlio. Dieci giorni dopo aver presentato la denuncia di sparizione di Humberto al Ministero degli Affari Esteri uruguaiano, rivelò Maria, l’allora cancelliere Rovira convocò la famiglia Bellizzi. Ed è in quelle stanze che scoprirono la triste verità, anche se in modo ufficioso.

    Perché era stato preso suo figlio? Perché in quel momento, furono queste le parole di un funzionario, «era necessario arrestare tre uruguaiani in Argentina». Ma perché proprio lui? Perché nel 1974, quando ancora l’Argentina era democratica, c’era stata una manifestazione per protestare contro il golpe in Uruguay e 101 manifestanti uruguaiani finirono in una lista, che anni dopo si rivelerà una lista di morte. La colpa di Humberto, dunque, fu quella di aver osato manifestare liberamente contro la violenza. Un affronto i tiranni che non potevano dimenticare.  

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    Il cantante Jorge Drexler posa a sostegno della battaglia per Humberto Bellizzi

    Maria non si è mai fermata, ha aderito convintamente all’idea di far partire il processo in Italia. Il 12 maggio del 2017 è riuscita a incontrare Sergio Mattarella richiamandone l’attenzione sul tema decenni dopo l’impegno di Pertini. Al tempo dell’incontro fra Maria e il Capo dello Stato del suo paese di origine, la sentenza di primo grado del Processo Condor di Roma pareva continuare la linea dell’impunità storica.
    Ma Maria che non è tipo da arrendersi, lo stesso ha manifestato i suoi buoni auspici al Presidente della Repubblica consegnandogli una lettera in cui gli ha chiesto di occuparsi del caso di Nestor Troccoli e dei torturatori che hanno trovato riparo in Italia, invitando Mattarella a leggere i cognomi della lista dei desaparecidos, per potersi accorgere di quanto questa storia abbia a che fare con il nostro paese. 

    «Gli dissi anche che fino all’ultimo respiro della mia vita avrei continuato a lottare per conoscere la verità e fare giustizia per mio figlio e per tutti i detenuti scomparsi», ricorda Maria Bellizzi a I Calabresi, e oggi che finalmente c’è una sentenza definitiva è arrivato il momento di fare il punto sul suo impegno.
    «È stato davvero un sollievo ricevere la notizia della sentenza. Nonostante la distanza nel tempo e nei chilometri», ha aggiunto, «la giustizia è stata conquistata e credo che ora si apra al mondo un precedente internazionale. È importante per le nuove generazioni in tutti i posti del mondo dove tutto questo ancora accade». 

    Quando è stata chiamata a deporre in aula a Roma, nel 2015, gli imputati della scomparsa del figlio erano nel frattempo deceduti. Perciò la sua deposizione ha avuto un valore collettivo, ricostruendo la vicenda della sparizione di Humberto ha potuto parlare del Plan Condor come di un coordinamento repressivo internazionale fra gli apparati di due paesi sotto dittatura militare. 

    «Mi sono trovata davanti una corte lontana, insensibile, disinteressata ai gravi fatti denunciati», ricorda. D’altra parte, però, è grata a tutte le organizzazioni che si sono spese per la causa, dai sindacati agli uffici consolari. «Lasciatemi evidenziare in modo molto positivo l’impegno e la sensibilità di tanti. Del senatore Felipe Michelini, di Jorge Ithurburu e della “24marzo”, del pm Tiziana Cugini e degli avvocati, in particolare il nostro avvocato Arturo Salerni, un eccellente professionista e una persona cordiale, anche lui calabrese. Non posso fare a meno di ricordare e ringraziare giornalisti, storici e testimoni come Roger Rodriguez, Martín Almada, oltre alla ricercatrice Francesca Lessa. È importante che la stampa continui a diffondere i contenuti di questa sentenza, che si affermi grazie alla pena perpetua che la sparizione forzata è un crimine di lesa umanità permanente. È un importante punto di arrivo».

    E ora? «Non è finita. Devo infatti anche sottolineare che nonostante ci sia una condanna, manca la verità. Gli archivi esistono, li conosciamo, ma tutto è ancora nascosto in un patto di omertà che lo conduce alla tomba. Ci devono dire che fine hanno fatto i corpi dei nostri cari, perché esistono ancora, sono presenti, sono memoria. Finché non avremo la risposta continueremo a chiedere con tutta la voce che abbiamo in corpo: ¿Dónde estan?».

    RIVOLUZIONARI DI CALABRIA

    La Regione Calabria si è costituita parte civile nel caso di Humberto Bellizzi. In questa enorme ferita aperta del Novecento, Maria non è l’unica madre coraggio calabrese, ce ne sono tante. Una è Angela Maria Aieta, finita a bordo dei voli della morte per aver sfidato i militari argentini che avevano arrestato suo figlio, Dante Gullo. Alla sua memoria la cittadina tirrenica di Fuscaldo ha dedicato una scuola. Il caso di Angela Maria è uno dei pochi in cui ci si ricorda di ricordare questi emigrati che hanno combattuto per un’idea di pace in continenti lontani. Un altro eroe calabrese di questa vicenda è stato Filippo Di Benedetto, il sindacalista già sindaco del Pci a Saracena che in Argentina ha contribuito a salvare decine di vite. Per la ricostruzione di queste storie in pubblicistica, c’è da ringraziare l’impegno della giornalista calabrese Giulia Veltri.

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    Dante Gullo: sua madre Angela Maria Aieta fu un’altra delle vittime di origini calabresi uccisa in uno dei voli della morte

    Restano però decine e decine gli eroi calabresi di cui non si ricorda nessuno. Come Libero Giancarlo Castiglia da San Lucido, comandante del distaccamento guerrigliero che ha combattuto la dittatura in Brasile. Vite perse nel nulla, come quelle di Salvatore Amico, desaparecido di Corigliano Calabro, Francesco Carlisano di Pizzoni, Lucio Leone di Cosenza. E di tanti, tanti altri, solo a San Basile ce ne sono altri due. Erano fratelli, si chiamavano Hugo e Francisco Scutari Bellizzi. La loro storia è stata raccontata dalla storica calabrese Rossella Tallerico.

    Hugo fu sequestrato il 5 agosto del 1977 e rinchiuso anche lui nel Club Atletico. Lavorava in una banca come delegato sindacale, e combatteva in favore dei diritti dei lavoratori. Anche la sua compagna, Delia fu sequestrata e portata nel Club Atletico, ma dopo 92 giorni fu liberata. Hugo, invece, divenne un desaparecido. Nel loro ultimo incontro, Delia promise al suo amato che avrebbe continuato a combattere in favore della libertà e democrazia, battaglia che dopo 37 anni Delia continua a portare avanti.

    Francisco, invece, fu sequestrato il 18 ottobre del 1978, mentre aspettava un suo compagno di militanza del gruppo politico al quale apparteneva, in un angolo di Buenos Aires. Francisco, giunto all’appuntamento, trovò un operativo delle forze repressive che tentarono di bloccarlo. Lui riuscì a scappare, riparandosi in un palazzo, ma lo catturarono. Una sopravvissuta, detenuta nel Centro di Detenzione El Olimpo, reso celebre dal film capolavoro di Marco Bechis, raccontò al fratello Horacio che Francisco fu portato lì, ma non gli seppe dire se vi fosse arrivato vivo o morto. 

    Per ricordare il coraggio di questi emigrati calabresi a San Basile oggi c’è una piazzetta solitaria, ogni tanto qualche emigrato va a mettere un fiore sotto la targa che dice: “Largo dei desaparecidos”.

  • Migranti e scafisti, destini comuni sulle rotte della povertà

    Migranti e scafisti, destini comuni sulle rotte della povertà

    Vengono dal Kirghizistan e dall’Uzbekistan, spesso dall’Ucraina o dalla Russia profonda, qualche volta dal Tagikistan col loro carico di migranti. Sono quasi sempre uomini giovani, raramente c’è qualche donna. Catapultati sulle spiagge dello Jonio calabrese, il loro viaggio inizia mesi prima nei villaggi semisperduti delle steppe dell’ex Unione Sovietica. Poi prosegue attraverso la Turchia e termina, nella maggior parte dei casi, in una cella delle carceri di Locri e di Reggio. Gli scafisti che da anni si occupano di pilotare i barchini a vela dalle coste dell’Asia Minore fino alle nostre spiagge hanno sempre profili che si somigliano.

    Sono giovani, spesso sotto i 30 anni, e arrivano da microvillaggi di Stati e staterelli poverissimi (oligarchi esclusi, ovviamente). Sono quasi sempre incensurati, non si accaniscono contro i migranti durante il viaggio. Cresciuti in regioni lontanissime dal mare, raccontano di essere stati reclutati a domicilio e trasportati sulle coste della Turchia. Lì, dopo un training di una manciata di giorni sulle regole base della navigazione, finiscono al timone dei velieri rubati nei tanti porticcioli di quel pezzo di Mediterraneo. Rappresentano l’ultimo incastro di una tratta che si perpetua identica (o quasi) da oltre venti anni.

    Gli ultimi tre in ordine di tempo li ha sorpresi una pattuglia dei carabinieri a Brancaleone nei primi giorni di luglio. Dopo avere avvicinato alla spiaggia il piccolo veliero carico di 27 persone che avevano pilotato attraverso il Mediterraneo, si erano lanciati in mare. Tentavano di raggiungere la costa e far perdere le loro tracce, li hanno ripresi a qualche centinaia di metri dal luogo dell’ennesimo sbarco. Vengono dalla Russia e dall’Ucraina, uno di loro è di nazionalità turca. Andranno a rimpolpare la colonia di connazionali che affolla il carcere di Arghillà, nella periferia reggina. Su di loro pende l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Le condanne, quando arrivano, superano raramente i quattro anni e i procedimenti, sempre più spesso, si concludono con un patteggiamento.

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    L’ingresso del carcere di Arghillà a Reggio Calabria
    Quindici metri, 69 migranti

    Farrukh Pardaboev e Fasliddin Sultanov hanno poco meno di trent’anni. Vengono da un piccolo centro dell’Uzbekistan non troppo lontano da Samarcanda, migliaia di chilometri lontani dallo specchio di mare più vicino. Un pattugliatore della Guardia di finanza li ha sorpresi a una decina di miglia dalle spiagge di Riace nel luglio dello scorso anno mentre erano alla guida del “L.A. Dancer” – uno sloop, monoalbero di 15 metri battente bandiera statunitense – con il suo carico di 69 migranti pakistani, venti dei quali minorenni.

    Gli investigatori li hanno identificati attraverso il loro passaporto. Interrogati dagli inquirenti, hanno raccontato di avere barattato il costo del biglietto per il viaggio con il loro lavoro, e di essere stati istruiti sulle tecniche di navigazione in mare aperto nei giorni immediatamente precedenti alla partenza. Storie che non possono essere verificate e che si infrangono su numeri segnati nelle rubriche telefoniche e già svaniti: Eughenia e Memet, la loro interfaccia in Turchia, che intanto hanno cambiato nome e utenza, inghiottiti da una delle piazze di transito più trafficate del pianeta.

    Un viaggio a caro prezzo

    Alexandro Voievodin di anni ne ha 24 quando si lancia in acqua a una trentina di metri dalla spiaggia di Camini. È la fine di ottobre del 2020, il mare ha la faccia placida dell’autunno calabrese, l’alba è sorta da poco, l’acqua è gelata. Sul barchino, stipati sotto coperta, ci sono 76 migranti, assieme a lui, sul ponte, c’è un suo amico d’infanzia: insieme hanno governato il piccolo monoalbero. Anche il secondo scafista si butta in acqua. Finirà inghiottito dal mare. I sommozzatori dei vigili del fuoco arrivati da Reggio ritroveranno il suo corpo solo dopo due giorni di ricerche serrate. Insieme erano partiti dal loro villaggio in Kirghizistan, paese satellite dell’ex Unione Sovietica arroccato sulle montagne dello Tien Shan, in Asia Centrale. Si erano messi alla guida del monoalbero una settimana prima, dopo un breve periodo passato sulle colline alle spalle di Smirne, in Turchia.

    A raccontare la loro storia è stato lo stesso Voievodin, durante l’interrogatorio per la convalida del suo arresto. Davanti al pm della Procura di Locri, il ragazzo, tra le lacrime, ha raccontato di quell’idea di sottrarsi alla vita che gli era capitata. Dell’infanzia trascorsa spalla a spalla con l’amico, della partenza dal suo lontano paese e dell’ultimo viaggio dopo il mini addestramento sulle spiagge al di là del Mediterraneo. Fino a quel tuffo che non ha lasciato scampo allo scafista venuto dalle montagne, ennesima vittima della tratta degli esseri umani tra la Turchia e la Calabria.

    Su quella tratta le procure territoriali indagano a braccetto con le distrettuali antimafia. A leggere nomi e nazionalità delle persone coinvolte, vien da pensare alla presenza di organizzazioni criminali internazionali in grado di tessere reti che uniscono le steppe dell’Asia centrale alle coste della Calabria jonica, in una tavola sempre imbandita. A cui, questo è il sospetto, potrebbe avere trovato comodo posto anche la ‘ndrangheta.

  • Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Legnochimica a Rende: lo Stato dimentica, i tumori no

    Della Legnochimica di Rende non si parla da tempo, se non per gli incendi che colpiscono la zona con sinistra puntualità durante il periodo estivo. Tutto ciò che sembra restare della vicenda complessa e tortuosa dell’ex fabbrica di pannelli in ledorex che fu il simbolo dello sviluppo industriale d’Oltrecampagnano è un processo per disastro ambientale.
    Si trascina stancamente davanti al Tribunale di Cosenza e quasi non fa più notizia. Analogamente, risultano ferme tutte le ipotesi di bonifica delle vasche di decantazione della ex fabbrica, cioè i laghetti artificiali che vanno periodicamente in autocombustione e tormentano gli abitanti della zona con i loro odori metifici.

    Un disastro ambientale su scala

    Rende non è Taranto: non ne ha il mare bellissimo e le cozze saporite. Ma se si opera un paragone su scala, è facile capire che Legnochimica ha pesato nella vita e nell’economia di Rende come le acciaierie nella città pugliese.
    Nel bene e nel male. Anzi, visto che siamo in Calabria, il male prevale: la fabbrica che occupava centinaia di persone non c’è più. Su parte dei suoi terreni, nel frattempo liquidati in tutta fretta, sono sorte altre attività economiche, anche importanti, ma dalla capacità occupazionale decisamente minore.

    Al posto della vecchia Spa, riconducibile alla famiglia Battaglia di Mondovì, c’è una srl, che ha la proprietà dei tre laghi artificiali residui, dei terreni circostanti e di ciò che resta delle ultime strutture aziendali, aggredite anch’esse a più riprese dalle fiamme.
    Il mistero si annida in questi trenta ettari di terreno, attorno ai quali si snoda via Settimo, una zona abitata da alcune famiglie che sono, allo stesso tempo, memoria storica e vittime della storia di uno dei più ambiziosi tentativi di industrializzazione della Calabria. Prima hanno visto la fabbrica sorgere e svilupparsi, poi hanno pagato un tributo di lutti e lacrime a questo sogno finito quasi in niente.

    La chiusura di Legnochimica

    Legnochimica chiuse i battenti a inizio millennio e, dal 2006, cominciò un processo tortuoso di liquidazione volontaria, fermato due anni dopo da Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente della giunta di Rende guidata da Umberto Bernaudo, che nutriva seri dubbi sull’opportunità di liquidare i terreni e di coprire i laghi artificiali senza una doverosa bonifica. Purtroppo, i fatti gli hanno dato ragione: ad agosto 2008 si verificò la prima “autocombustione” delle vasche. Era l’avvio di una brutta vicenda destinata a peggiorare.

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    Eraldo Rizzuti, assessore all’Ambiente del Comune di Rende quando il sindaco era Umberto Bernaudo

    Infatti, a partire dal 2009, varie persone iniziarono a morire. Se ne contano dieci in meno di due anni, tutte per tumori alle parti molli, in particolare al pancreas (circa sei). Un indizio, a detta degli esperti, di almeno due cose: la presenza di inquinamento industriale e di un’epidemia tumorale. Purtroppo, gli indizi non sono prove.
    Ma in Calabria accade di peggio: la mancanza di un registro dei tumori li abbassa a livello di suggestioni, perché l’assenza di un database impedisce di elaborare i rilievi statistici necessari per puntare il dito verso qualcosa o qualcuno. Ed ecco che questa tragedia ha un peso secondario nell’attuale processo per disastro ambientale.

    La guerra delle perizie

    Il peso relativo dei morti non è l’unico paradosso di questa vicenda. Attorno all’ex Legnochimica di Rende si è scatenata una vera e propria guerra dei periti, che sostengono tesi diverse, quasi diametralmente opposte.
    La prima tesi, elaborata dall’Arpacal, minimizza la portata dell’inquinamento. Le sostanze inquinanti, a detta dei funzionari dell’Agenzia regionale, ci sarebbero, ma quasi nei livelli consentiti dalla legge. Il sottinteso è evidente: con una pulizia minima, è possibile interrare i laghi residui e procedere alla liquidazione.
    La seconda tesi è decisamente più pesante e autorevole. L’autore è l’ex rettore dell’Unical, Gino Mirocle Crisci, in qualità di consulente per la prima inchiesta giudiziaria sulla ex Legnochimica.
    Questa inchiesta partì in seguito alle autocombustioni del 2008 ed ebbe come indagato Palmiro Pellicori, all’epoca liquidatore dello stabilimento.

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    L’ex rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci

    Crisci, per soddisfare le richieste della Procura, portò avanti una serie di carotaggi e di prelievi fino a trenta metri di profondità. I risultati della sua ricerca restano inquietanti: nel sottosuolo dell’ex stabilimento c’è una concentrazione abnorme di acido cloridrico, zinco e metalli pesanti. Secondo le stime dell’ex rettore sarebbero in quantità superiore alle soglie legali di circa cento volte.
    La relazione di Crisci finì come il procedimento per cui l’aveva elaborata: archiviata, perché nel frattempo la morte di Pellicori, unico indagato, aveva fermato il procedimento.
    Ed ecco il paradosso: fino al 2016, l’unica perizia ad avere un valore legale era quella soft dell’Arpacal, mentre quella di Crisci manteneva un suo valore scientifico ma restava di fatto inutilizzabile.
    Intanto, le autocombustioni sono proseguite e le persone hanno continuato a morire.

    La nuova inchiesta

    La seconda inchiesta è partita nel 2016, anche sulla spinta di inchieste giornalistiche. Stavolta, sono finiti nel mirino Pasquale Bilotta, il liquidatore che aveva preso il posto di Pellicori, e alcuni vertici dell’amministrazione di Rende: il sindaco Marcello Manna, Francesco D’Ippolito, assessore all’Ambiente della giunta Manna dal 2014 al 2019, e Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del Comune.
    Per questi tre il procedimento è terminato nel 2019, con un non luogo a procedere, pronunciato dal Gup di Cosenza e confermato dalla Corte d’Appello di Catanzaro.

    Alla sbarra è rimasto il solo Bilotta, sul quale gravano le accuse di disastro ambientale e omessa bonifica. Il processo, iniziato dalla procuratrice aggiunta Marisa Manzini e gestito in aula dal pm Antonio Bruno Tridico, prosegue a rilento.
    Ma tra le polemiche, sempre più in sordina, e i brogliacci giudiziari è quasi sparito il problema reale: la bonifica.

    La bonifica della discordia

    Il problema è più che sentito dall’amministrazione attuale di Rende. «Il Comune è intervenuto nei limiti delle sue disponibilità», spiega il sindaco Marcello Manna. Politichese? Proprio no: «Com’è noto, siamo in predissesto», argomenta ancora il sindaco, «e abbiamo un problema giuridico non secondario: l’esproprio».
    Secondo l’attuale normativa in materia di disastro ambientale vige il principio per cui “chi inquina paga”, quindi toccherebbe alla srl di Mondovì, attualmente sotto curatela fallimentare, togliere i quattrini. L’alternativa, fa capire il sindaco, sarebbe procedere all’esproprio previo inserimento dei terreni della Legnochimica nelle apposite liste del Ministero dell’Ambiente. Ma dalla Regione tutto tace. «Abbiamo fatto molte istanze a Catanzaro, tutte finite in rimpalli burocratici», argomenta ancora Manna.

    Ma la burocrazia è solo uno dei problemi. Un altro, gravissimo, è dovuto alla mancanza di un piano di caratterizzazione. Sul punto, è intervenuto con chiarezza Francesco Azzato, dirigente dell’Ufficio tecnico del municipio: «Noi abbiamo finanziato una borsa di studio dell’Unical per ottenere una nuova perizia», il cui scopo non è «la caccia al colpevole ma dare indicazioni efficaci per una bonifica». Il risultato è lo studio del professor Salvatore Straface, che riprende il leitmotiv della vecchia ricerca dell’Arpacal: i laghi non sarebbero inquinati in maniera pericolosa. Punto e a capo?

    Ancora lutti a Rende

    Se ci si attiene invece ai risultati della perizia di Crisci, bonificare costerebbe circa dieci milioni di euro. Una somma di cui non dispone il Comune e che è difficile da captare da altri fondi, regionali e nazionali.
    E, come già anticipato, i lutti continuano: dal 2016 a oggi se ne contano altri dodici, con la stessa tipologia dei precedenti nove. Quasi tutte le persone sono morte di tumori alle parti molli, tutti i decessi si sono verificati a via Settimo e dintorni, quindi a distanza significativamente breve dall’ex Legnochimica di Rende, tutti sono avvenuti in un lasso breve, poco più di tre anni.

    Ciò che pesa di più su questa vicenda è il nuovo silenzio surreale. I suoi spazi mediatici sono ridottissimi e le poche voci del territorio quasi spente. La XAssociazione Crocevia, per anni in prima fila nella battaglia sull’ex stabilimento, ha perso la propria sede e ha ridotto le proprie attività. Gli altri comitati si limitano a comunicati stampa duri ma poco ascoltati.
    A Rende, come a Taranto, per decenni si è barattato l’ambiente (e quindi la salute) col lavoro. Ma al posto delle ciminiere è rimasto un fantasma. Inquietante, pericoloso e forse letale, come in un romanzo horror che difficilmente potrà avere un lieto fine.