Categoria: Inchieste

  • Di Benedetto’s list, lo Schindler di Saracena

    Di Benedetto’s list, lo Schindler di Saracena

    In Argentina, a metà degli anni ’70, c’è un uomo alto alto che passa le giornate a trovare il modo di salvare vite. Fabbrica uno a uno i documenti che servono per spedire donne uomini e bambini lontano dalla violenza del regime argentino. Riesce a salvarne centinaia ma, ciononostante, dorme con il dispiacere di non aver potuto fare nulla per tantissimi altri di quelli che hanno bussato alla sua porta. Passa e ripassa a mente i loro volti, cerca di capire cosa può fare per capire che fine hanno fatto, se in qualche modo possono ancora essere salvati. Va avanti così per molti anni E per un ragazzo in particolare: suo nipote Eduardo.

    Il sindaco emigrante

    È una storia, quella di Filippo Di Benedetto, che inizia sulle pendici del Pollino, a Saracena. Quinto di sette figli, assorbe la passione per gli ideali comunisti da suo padre, Leone di Benedetto, il primo abbonato al quotidiano comunista L’Unità. Lavorava in una piccola falegnameria e affiancandosi all’opera del pedacese Fausto Gullo, durante gli ultimi anni del regime fascista, all’età di 21 anni, contribuì a organizzate le prime proteste antifasciste del comprensorio. Per questo fu arrestato, torturato e rinchiuso nel carcere di Castrovillari nel 1943. Poi cadde la dittatura e alle prime elezioni democratiche del 1947 divenne sindaco di Saracena.

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    Di Benedetto, secondo da sinistra, con Sandro Pertini

    Organizzò una manifestazione in paese contro chi si opponeva a portare il servizio idrico nelle case di campagne: un corteo che quando arrivò nei campi trovò la strada sbarrata da un cordone di uomini in divisa con i fucili pronti a sparare. «Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori». Un episodio rimasto negli occhi dei molti presenti a lungo, che tuttavia non lo aiutò a far crescere le condizioni economiche della sua comunità, alle prese con un dopoguerra ricco solo di miserie e soprusi.

    «Sparate a me», disse Di Benedetto mettendosi alla testa del corteo, ma «nessuno tocchi questi lavoratori»

    Con il Comune in grave dissesto, la sua decisione nel 1952 fu quella di provare a raggiungere suo fratello Orlando in Argentina. Avrebbe cercato di rimettersi in forze e di tornare a Saracena, ma gli eventi della vita ebbero il sopravvento e dall’Argentina tornò in Calabria diverse volte, ma come faceva un emigrante.

    Ebanismo e sindacato

    A Buenos Aires diventò Felipe per gli affetti, e sposò una calabrese emigrata che si chiamava Rosa Garofalo, originaria di Cosenza. Ebbero due figli maschi, Mario e Claudio. Di Benedetto imparò il mestiere di ebanista e provò a integrarsi nella nuova realtà, piena di emigrati come lui. La passione politica lo aiutò parecchio: si iscrisse al Partito comunista e nel 1975 fu nominato responsabile del patronato Inca Cgil di Buenos Aires. A centinaia si rivolgevano a lui per questioni sindacali e ancora di più quando iniziò a frequentare l’Associazione calabrese di Buenos Aires, della quale fu eletto presidente nel 1976.

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    Di Benedetto durante un comizio del Pci in Argentina

    Non era un periodo facile, l’Argentina, in quel momento l’ultimo baluardo democratico del Cono Sud dell’America latina stava per capitolare sotto i colpi di un conflitto latente. Il 24 marzo del 1976 arrivò il colpo di Stato, e in poche settimane la repressione si fece durissima, fino ad arrivare al crimine contro l’umanità noto come “Sparizione forzata”. A migliaia furono presi clandestinamente, incarcerati, torturati, uccisi e fatti sparire.

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    Un acclamato intervento di Di Benedetto a una cena di emigrati in Argentina
    Sulle orme di papà

    Oggi Claudio Di Benedetto, proprio come faceva il papà a Buenos Aires, restaura mobili antichi alle pendici del Pollino, a Castrovillari. Negli anni ’80 ha vinto una borsa di studio in restauro del mobile e ha svolto un corso di perfezionamento in Brianza. Poi ha deciso di vivere in Calabria.
    «Mio padre veniva due o tre volte all’anno in Italia. Portava in Argentina i prodotti locali della Calabria e parlava in dialetto calabrese. Perciò, qui era tutto familiare e mi colpì della Calabria la natura: 10 minuti il mare, 10 minuti la montagna… tutto vicino, mentre in Argentina abbiamo delle lunghe distanze difficili da coprire, e un brutto clima. Soprattutto a Buenos Aires».

    Riprese di Gianluca Palma, montaggio di Marco Mastrandrea.
    L’intervista fa parte dell’Archivio Desaparecido, un progetto di memoria attiva promosso dal Centro di Giornalismo Permanente di Roma

    Claudio è molto fiero della storia del padre, anche se è cosciente che per l’indole schiva del carattere che ha ereditato se n’è parlato poco e niente. «Successe che un giorno nel suo ufficio incominciarono ad arrivare alcuni genitori di origine italiana. Raccontavano che alcuni dei loro figli erano stati rapiti e non avevano avuto più notizie di loro. Così mio padre, immediatamente, va a chiedere spiegazioni sia all’ambasciata che al consolato italiano di Buenos Aires, dove era conosciuto. Da parte delle autorità italiane bocche cucite però: nessuna informazione. E questo fa capire la complicità del governo italiano con quella giunta militare».

    L’unico ad aiutarlo

    A Buenos Aires, a quei tempi un’autorità italiana che ha deciso di non rimanere cieca davanti a tutto quello in realtà c’è. Si chiama Enrico Calamai e fa il viceconsole. La storia lo riconosce come un gigante, sono innumerevoli le opere che raccontano il suo impegno, nel 2004 è stato decorato dall’Argentina con l’Orden del Libertado General San Martín e il suo nome figura fra quelli del Giardino dei Giusti a Milano. Nella sua biografia ricorda il contributo di Di Benedetto, è fra i pochissimi ad averlo fatto: «Aveva una tosse infernale, una giacca logora, ma sapeva da quale impiegato delle Poste andare per spedire un telegramma senza essere denunciato».

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    Il diplomatico italiano Enrico Calamai

    Ai tempi a Di Benedetto diede anche un consiglio importante, lo ricorda il figlio Claudio: «Decisero insieme di aiutare vite umane, salvando centinaia e centinaia di persone da morte sicura; aiutandoli a espatriare anche con passaporti falsi, nascondendo molti di loro in luoghi sicuri e denunciando alle autorità italiane quello che stava succedendo. Io mi ricordo che Calamai molte volte diceva: ‘Filippo, non ti esporre in questo modo… io sono un console, ho l’immunità, ho la scorta, ma tu non hai nessuno che ti protegge. Così metti a repentaglio la tua vita e quella della tua famiglia’. Ma mio padre continuò a salvare vite».

    Eduardo è sparito

    Ha continuato fino a quando è stato possibile, cercando di non raccontare a nessuno cosa faceva. In famiglia non ne parlava mai, teneva separati gli ambiti, anche perché era molto pericoloso. Difatti, dopo poco tempo, l’orrore che stava piombando nel cuore della notte di migliaia di case argentine bussò anche alla porta di casa Di Benedetto. Domenica Maria Alba Di Benedetto, figlia di suo fratello Orlando, insieme al marito Antonio Eduardo Czainik, vennero presi dagli squadroni della morte mentre erano intenti ad accompagnare a scuola i due figli. Vennero portati in un centro clandestino di detenzione, dove furono brutalmente torturati. Perché?

    Eduardo era nato nella capitale federale il 27 aprile del 1947 e faceva il meccanico in un’officina a Posta de Pardo, Ituzaingó, Buenos Aires. Era un militante del gruppo rivoluzionario Forze Armate di Liberazione 22 agosto (FAL 22), ecco perché era su una lista. Ufficialmente risulta sequestrato il 25 agosto 1977 in via Nazca 920, dove abitava. Al quotidiano argentino Pagina/12 Christian Czainik, uno dei figli di Eduardo, ha raccontato che la famiglia riuscì a ottenere qualche informazione attraverso canali non ufficiali, ma che queste informazioni non sono servite a nulla perché hanno respinto il ricorso di habeas corpus e la denuncia al Ministero dell’Interno presentate dalla madre.

    Il cruccio più grande

    I tentativi furono i più disparati, Domenica in quegli anni ha girato in lungo e in largo le caserme alla ricerca del marito, riuscendo a incontrare anche il celebre agente dei servizi Raul Guglielminetti, ritenuto l’uomo che avrebbe portato gli archivi segreti della dittatura in Svizzera, più avanti processato in Argentina per aver sequestrato imprenditori a scopo estorsivo. Nulla è servito a sapere qualcosa di Eduardo, desaparecido all’età di 30 anni.

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    Una richiesta di informazioni su Antonio Czainik apparsa su Pagina 12

    Di Benedetto prendeva informazioni e segnalava più casi di giovani perseguitati possibile, si spingeva fino al limite, ricevendoli nel suo ufficio e accompagnandoli in consolato. Li nascondeva fino al rimpatrio permesso dall’opera diplomatica di Calamai. Rischiava grosso, ma riuscì a contribuire al salvataggio di più di 300 persone, secondo le stime ufficiali. Moltissimi riuscirono a farsi passare per turisti, arrivarono in Italia e scamparono a una fine orribile anche grazie all’impegno di Filippo Di Benedetto, ma fra loro non c’era il nipote Eduardo. Per lui non ci fu niente da fare, era troppo tardi, e questo fu un cruccio che si portò appresso per tutta la vita.

    Di Benedetto muore in Argentina nel 2001 sostanzialmente in povertà, senza nemmeno gli onori della cronaca. Solo 18 anni dopo, il 7 settembre del 2019, a Saracena decidono di intitolargli una strada. L’evento non ha l’eco che meriterebbe, ma in prima fila c’è un uomo che ha fatto tanta strada per esserci. Prende il microfono e di Filippo Di Benedetto dice: «Eravamo in contatto continuo e lo ricordo come una persona di un grande calore umano, generosa, molto umile e pure pieno di una grande saggezza ed intelligenza, di una grande cultura vera di civiltà». Parola di Enrico Calamai.

  • Dal pizzino ai criptofonini, i segreti della ‘ndrangheta hi-tech

    Dal pizzino ai criptofonini, i segreti della ‘ndrangheta hi-tech

    Dai pizzini da distruggere appena letti ai moderni criptofonini in grado di blindare messaggi e telefonate da occhi indiscreti: archiviato inevitabilmente come obsoleto il “metodo Provenzano”, boss e narcos hanno cavalcato le nuove tecnologie nel tentativo di schermare le proprie conversazioni, in una corsa a perdifiato lungo le nuove strade della crittografia tecnologica che alza continuamente l’asticella della privacy a tutti i costi.

    E in questa gara, giocata sempre sul labile confine tra ciò che è (ancora) legale e ciò che non lo è più, le organizzazioni criminali di mezzo pianeta hanno svolto un ruolo di primo piano, risultandone da sempre tra i massimi fruitori. Nella corsa all’ultimo ritrovato della tecnologia, il crimine organizzato calabrese si è ritagliato un posto in prima fila, ennesima dimostrazione che “coppole storte” e “fiori” da elargire sull’altare di antichi rituali, vanno tranquillamente di pari passo con server occulti e cloud inviolabili.

    Le origini

    In principio fu la Pretty Good Privacy, una tecnologia ideata da un matematico statunitense che, in un mondo ormai sempre più aperto, proponeva un nuovo modo di nascondere le proprie conversazioni. Una rivoluzione vera e propria, rimasta alla base delle attuali tecnologie di messaggistica, che finì col costare a Phil Zimmermann anche un’indagine delle autorità federali statunitensi durata tre anni prima di essere archiviata. Quello fu il punto di partenza. Da quel giorno nel 1991 molto è cambiato, meno la lotta tra chi vuole tenere segrete le proprie conversazioni e chi invece – Dea, Dda, Interpol in testa – lavora per scardinarle.

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    Phil Zimmermann

    All’alba del nuovo millennio, quando ancora gli smartphone erano privilegio per pochi, furono i Blackberry a venire utilizzati per nascondere i messaggi agli investigatori. Nelle operazioni delle distrettuali antimafia dei primi anni 2000 infatti, sempre più spesso, i narcos – piccoli e grandi – venivano trovati muniti dei telefonini della multinazionale canadese, oggetti allora decisamente costosi.

    Da Apple a Ecc

    Nelle chat che si credeva inviolabili gli inquirenti, una volta trovata la “chiave”, scovavano conversazioni scottanti e numeri e contatti poi utilizzati per ricostruire l’organizzazione criminale che se ne serviva. Poi, dal 2014, sul mercato sbarcò il sistema crittografico utilizzato dagli iPhone che portò l’asticella ancora più in alto. E così come successo pochi anni prima, nelle retate delle forze dell’ordine sempre più spesso grossi calibri e piccoli underdog dello spaccio venivano pizzicati con decine di telefonini marcati Cupertino.

    Ma anche questa rivoluzione durò poco. E le “armi” messe in campo dagli inquirenti – spyware in testa – portarono ad un nuovo salto verso livelli crittografici ancora più complessi e difficili da decifrare. Un salto che porta direttamente alla Ecc, acronimo che sta per elliptical curve cryptography, un particolare tipo di sistema crittografico che rende ancora più complesso il lavoro delle forze dell’ordine. Un sistema che, ovviamente, è stato immediatamente adottato anche dalle consorterie di ‘ndrangheta, da tempo ormai al vertice dei traffici mondiali di stupefacenti. Come nel caso dei due giovani narcos di Natile di Careri fermati a Locri nella primavera scorsa per un normale controllo e sorpresi con un carico di 17 chili di cocaina pronta per essere immessa sul mercato.

    La Locride come il New Mexico

    Le successive perquisizioni dei carabinieri in uno dei paesi più poveri d’Europa consentirono il ritrovamento di una montagna di denaro. Dentro alcuni bidoni a tenuta stagna interrati nel giardino di casa, in una rivisitazione casereccia di una delle scene più iconiche di Breaking Bad, i militari trovarono infatti quasi sei milioni di euro divisi ordinatamente per taglio. Nascosti vicino ai bidoni poi, i militari trovarono una ventina di telefonini modificati dalla Skyecc, una multinazionale canadese, con la tecnologia Ecc, impossibili da decriptare. Erano stati acquistati online e inviati nella Locride direttamente dal Sud Africa e da Algeria e Tunisia. Lo stesso tipo di telefonini “truccati” che i carabinieri di Roma trovarono durante un blitz alla Rustica, quadrante est della Capitale, qualche settimana più tardi.

    https://www.youtube.com/watch?v=OjGj_pW4Cvg

    Anche in quell’occasione i narcos erano giovani, incensurati e tutti originari della Locride. E anche in quell’occasione, oltre al sequestro di quasi sei chili di cocaina arrivata in Italia direttamente dal Perù, gli inquirenti si trovarono di fronte a numerosi criptofonini. La gang li utilizzava per trattare i movimenti della droga su un asse che riusciva ad estendersi dal centro e sud America fino alla Turchia e all’Albania. All’interno dei device sequestrati dalle forze dell’ordine, la chiave per ricostruire i movimenti delle nuove leve del clan – tutti giovanissimi, tutti incensurati – sono rimasti a lungo lettera morta.

    Il mercato si evolve

    Poi storia di poche settimane dopo, un’indagine dell’Europol su un monumentale giro di droga tra il Belgio e l’Olanda ha consentito di scardinare il forziere segreto dentro cui le mafie nascondevano parte dei loro movimenti informatici. Un’operazione di decriptazione imponente – resa possibile probabilmente dall’utilizzo di una talpa – che di fatto escluse dal mercato il colosso canadese.

    Chiusa però la porta di Skyecc – che vendeva a prezzi esorbitanti i propri prodotti alla luce del sole, magnificandoli su internet come ultima frontiera della riservatezza – ecco che (quasi) immediatamente si è aperta una nuova finestra. Sono arrivate nuove compagnie – una di queste si chiama Ghost e i suoi banner si possono trovare online tra quelli che pubblicizzano jammer e bonifiche ambientali – che utilizzano una tecnologia simile. Promettono una crittografia «di livello militare», in una gara senza fine che vede ai nastri di partenza anche i tradizionalissimi mafiosi nostrani.

  • Mare monstrum, 40mila kg di pesca illegale in Calabria

    Mare monstrum, 40mila kg di pesca illegale in Calabria

    Il mare Mediterraneo è malato. A dirlo sono le eloquenti immagini che ogni estate ci pongono di fronte alla squallida realtà dell’acqua sporca e di turisti in fuga. Ma adesso sono anche i dati diffusi da Legambiente.
    Inquinamento, abusivismo edilizio e pesca illegale sono le cause del grande male che affligge il nostro mare. Anche e soprattutto in Calabria dove il mare, se tutelato e valorizzato, potrebbe essere l‘elemento chiave di una rinascita economica e turistica della regione.

    Il lockdown non ha fermato la mattanza

    Sui problemi della depurazione e sull’abusivismo che deturpa le coste si sono scritti fiumi di inchiostro, mentre poco o nulla è stato detto sulle conseguenze della pesca illegale per l’ecosistema marino e non solo. Neanche un anno di lockdown è servito ad arginare l’aggressione criminale alle coste e al mare: i sequestri effettuati dalle Capitanerie di porto e dalle Forze dell’ordine, hanno fatto segnare numeri in costante crescita.

    Reti illegali sequestrate dalla Guardia costiera
    Pesca fuorilegge

    Per inquadrare il potenziale impatto della pesca illegale è necessario operare una prima distinzione tra pesca professionale e pesca sportiva.
    La prima, regolamentata dal consorzio Mably, rileva i dati di cattura e sbarchi per conto del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali e avviene tuttavia su base campionaria e attraverso il dichiarato dei battenti che è obbligatorio solo per i natanti superiori ai 10 metri. Questi però rappresentano solo il 38% della flotta da pesca esistente in Italia.

    Una rete di controllo dalle maglie davvero troppo larghe che diventano voragini quando si parla di pesca sportiva. Basti solo pensare che la Federazione italiana operatori pesca sportiva, che rappresenta oltre 600 negozi di articoli da pesca, dichiara due milioni di pescatori sportivi e ricreativi. Un numero in crescita esponenziale che sfugge ad ogni tentativo di controllo e monitoraggio.

    Il bianchetto: l’oro del mare

    Nel 2020 la Calabria è stata la quarta regione d’Italia per numero di infrazioni accertate (324) pari al 7,2% del totale nazionale con 470 persone denunciate o arrestate e 280 sequestri effettuati.
    La Capitaneria di porto, solo nel 2020, lungo i 715 km di costa calabrese ha sequestrato la bellezza di 40.446 kg di prodotti ittici. Sono dati emersi da Mare monstrum 2021, il rapporto annuale di Legambiente.

    In Calabria novellame, tonno e pesce caviale

    Ogni regione ha le sue specialità. In Calabria la maggior parte degli illeciti riguarda la pesca illegale di pesce caviale, tonno e novellame. In Sicilia, Campania e Puglia la pesca illegale si concentra invece su datteri di mare, crostacei e molluschi.
    La pesca del novellame di alice e sarde, detta anche neonata, bianchetto o rosamarina, è una tradizione tutta calabrese che arreca un danno alla fauna marina di proporzioni enormi.

    Il medico veterinario Santi Spadaro ha indicato la portata di questo scempio: «È una pesca che crea un danno biologico devastante, ogni chilo di novellame corrisponde a 2 quintali di pesce adulto».
    Un business difficile da individuare e da contrastare. Un kg di novellame può essere acquistato dai 13 ai 15 euro per poi essere rivenduto nella ristorazione con ricavi importanti.

    “No driftnets”

    Le Capitanerie di Porto e la Guardia Costiera sono da sempre impegnate a contrastare la pesca illegale soprattutto quando questa avviene attraverso l’utilizzo delle reti da posta derivanti che non vengono ancorate al fondo ma sono lasciate libere di muoversi in balìa delle correnti, intrappolando ogni tipo di specie marine senza possibilità di distinzioni.
    Nel 2021, dal 15 aprile al 15 luglio, il Centro di controllo nazionale pesca ha pianificato a livello nazionale l’operazione “No Driftnets” (nessuna rete derivante).

    Nella nostra regione i controlli sono avvenuti nel Tirreno Cosentino con la nave Gregoretti impegnata nello specchio d’acqua antistante le Isole Eolie e la nave Cavallari a largo di Amantea. La prima ha sequestrato attrezzi e reti da posta per oltre 10 chilometri. La seconda ha individuato invece 2,5 chilometri di rete illegale che aveva intrappolato anche delle mante (una specie protetta), una della quali di circa mezza tonnellata.
    Altri interventi sono stati svolti dai militari in località San Lucido di Cetraro, dove sono state ritrovate altre 3 reti lunghe circa 3,8 chilometri.
    Tutte le attrezzature sono state sequestrate e i trasgressori sanzionati.

    Depauparamento del Mediterraneo

    Atti internazionali e della Unione europea hanno messo in guardia l’Italia sul sovrasfruttamento degli stock ittici e sulle crescenti minacce alla sopravvivenza di molte specie di pesci e di altre specie marine.
    Ma nessun vero deterrente normativo è in atto, quasi come se i dati sullo sfruttamento del mare e l’impatto della pesca amatoriale non fossero sufficientemente allarmanti.
    E al danno si aggiunge la beffa. La nuova legge 27 del 29 marzo 2019 “Capo IV Bis – Misure a sostegno del settore ittico” ha di fatto ridotto molte delle sanzioni amministrative in vigore e prevede sanzioni per la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, principalmente in via amministrativa con sanzioni pecuniarie non deterrenti attribuendo rilevanza penale solo in un residuale numero di ipotesi.

    Il grido di Legambiente

    Sembra quasi un incentivo alla pesca illegale. Duro il giudizio di Legambiente: «È necessario rafforzare il sistema normativo e dotare di strumenti idonei gli organi inquirenti per consentire di contrastare la pesca illegale e per assicurare l’effettiva tutela delle specie oggetto di pesca e dell’ambiente marino».

    Al vuoto normativo si somma quello culturale. Fino a quando i menù dei ristoranti saranno pieni di frittelle di bianchino e fritture di “fragaglia”, i retrobottega delle pescherie di vasetti di tonno pescati illegalmente nei mari calabresi, il mare nostrum diventerà sempre più mare monstrum.

  • Cimitero SS 106, la strada della morte che fa gola ai clan

    Cimitero SS 106, la strada della morte che fa gola ai clan

    Negli ultimi 25 anni ha registrato oltre 9.500 incidenti, circa 25mila feriti e oltre 700 vittime. Così la Statale 106 Jonica si è guadagnata il tragico appellativo di “strada della morte”. Le ultime due vittime, a Riace, nell’ennesimo drammatico incidente: il brigadiere dei carabinieri, Silvestro Romeo, e sua moglie, Giusy Bruzzese.

    Una strage infinita

    Una lingua d’asfalto che si estende per 491 chilometri, da Reggio Calabria a Taranto. Di questi, ben 415 si trovano nel territorio calabrese. Percorre infatti tutta la costa jonica della Calabria, Basilicata e una parte della Puglia. La istituì il Fascismo nel 1928 con questo percorso: Reggio Calabria – Gerace – Punta di Stilo – Catanzaro Marina – Crotone – Innesto con la n. 108 presso Cariati – Innesto con la n. 19 presso Spezzano Albanese. Parliamo di una strada fondamentale, non solo per lo spostamento privato, ma anche per il trasporto merci. In aree importanti della Calabria, quali la Locride, lo Ionio Catanzarese, la Sibaritide e il Crotonese.

    Il bilancio degli incidenti e, di conseguenza, di vittime e feriti, potrebbe essere ancor più drammatico. Ma, in Italia, solo dal 1996 esiste un sistema di rilevamento che censisce i sinistri e la mortalità sulle strade del nostro Paese. Già da anni, secondo gli studi congiunti di ACI e Istat, è considerata la strada più pericolosa d’Italia.

    106-incidenteA tenere una tragica conta delle vittime e a chiedere giustizia e interventi strutturali è, da anni, l’associazione Basta vittime sulla SS 106. Almeno un morto al mese tra il 2014 e il 2018. E ben 200 vittime in sette anni. Con la morte del brigadiere Romeo e della moglie, è salito a 15 il numero delle vittime nel 2021. Quindi, siamo già oltre l’inquietante media. Si è rivelato un dato fuorviante il calo degli incidenti (circa del 20%) nel 2020. Con le vittime scese a 11, mai così poche dal 1996. Ma era tutto dovuto, evidentemente, alle restrizioni emesse per contenere la pandemia da Coronavirus. E, quindi, alla ridotta mobilità. Con il ritorno alla “normalità”, la SS 106 ha ricominciato a uccidere come e più rispetto agli altri anni.

    Le carenze strutturali della SS 106

    «La Statale 106 è una strada inadatta a gestire gli attuali volumi di traffico. Su una strada progettata – ad esempio – per gestire mille automezzi l’anno su cui però, nella realtà, ne abbiamo 10.000 è molto probabile che accada un incidente stradale e, quindi, ci siano più vittime e feriti» spiega l’ingegnere Fabio Pugliese, che è presidente di Basta vittime sulla SS 106 e autore del libro “Chi è Stato?” sul tema .

    Le inadeguatezze strutturali dell’arteria sono sotto gli occhi di tutti coloro che l’abbiano percorsa almeno una volta. Una sola carreggiata per senso di marcia per lunghi tratti. Ma anche l’assenza di spartitraffico che dividano le due direzioni e che “invoglia”, quindi, a sorpassi spericolati e spesso fatali. Taglia paesi, frazioni, in cui l’imprevisto, l’attraversamento pedonale e veicolare è sempre possibile e inaspettato. Un percorso a ostacoli in cui è facile trovare sulla propria strada un trattore, un cavallo, un ciclista. Persino persone a piedi.

    A ridosso dei comuni, infatti, si è sviluppata una urbanizzazione abitativa e commerciale selvaggia. Edilizia sciatta e confusa. Spesso incompleta. A nascondere il mare. Dato che in mezzo corre anche quell’unico binario con treni del vecchio millennio. Zero regole che, purtroppo, poi portano a tanti, troppi morti.  Per non parlare, poi, delle condizioni idrogeologiche della carreggiata, che spesso si sbriciola al primo temporale un po’ più aggressivo.

    Gli eterni lavori

    La politica, però, continua a ignorare la drammatica situazione della SS106. Non c’è governo, indipendentemente dal colore politico, che non si sia impegnato per interventi strutturali. Che, tuttavia, sono rimasti solo annunci. Solo per fare due esempi: sotto la gestione del Governo Draghi, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (CIPE) non ha rilasciato nemmeno una delibera in cui vengano destinati fondi per la Statale Jonica. E degli oltre 200 miliardi del Recovery Fund, con il conseguente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, non è stato destinato alla “strada della morte” in Calabria neanche un centesimo di euro. Eppure si continua a parlare di ponte sullo Stretto di Messina.

    Intanto, la SS 106 continua a essere un cantiere continuo. Ma di interventi per piccoli tratti e a macchia di leopardo. Nessun progetto di ammodernamento strutturale. Stando a quanto comunicato dall’Anas, che è competente sull’arteria, l’intervento più cospicuo (sia sotto il profilo economico, che chilometrico) riguarda il tratto di strada tra Sibari e Roseto Capo Spulico. Oltre 1,3 miliardi di euro per lavori che dovrebbero terminare nel 2026. Dovrebbero. Il condizionale è d’obbligo perché per molti altri punti si è in ritardo siderale. Tra studi di fattibilità e appalti che non partono, tratti fondamentali da riammodernare restano fermi nelle inaccettabili condizioni attuali. Dal collegamento Catanzaro-Crotone alla variante di Palizzi, nella Locride, completata solo in parte.

    L’immancabile ombra delle ‘ndrine

    E su quegli eterni lavori, la ‘ndrangheta ha sempre dimostrato grande appetito. Del resto, più restano aperti i cantieri su una grande opera, più è possibile “mangiare”. Lo dimostrano i lavori che hanno interessato, per decenni, la Salerno-Reggio Calabria. Dove le cosche imponevano la tangente del 3%, sceglievano le maestranze e controllavano le ditte che operavano in subappalto.

    Il meccanismo è simile anche sul versante jonico. Lo dimostrano le numerose indagini che hanno provato, negli anni, ad arginare le fameliche voglie dei clan. Che non solo lucrano sugli appalti, ma, spesso, costruiscono a basso costo. Aumentando i rischi strutturali. L’inchiesta “Bellu lavuru”, della Dda di Reggio Calabria, nacque proprio dal crollo della galleria Sant’Antonino nella variante di Palizzi. Due tronconi con decine di arrestati e processi infiniti per accertare non solo le infiltrazioni della ‘ndrangheta e, nello specifico delle famiglie Morabito-Bruzzaniti-Palamara, e Maisano, Rodà, Vadalà e Talia. Ma anche la complicità di funzionari pubblici e dipendenti di Condotte S.p.a..

    Anni dopo – siamo nel 2012 – l’inchiesta “Affari di famiglia”, che sosteneva come le cosche Latella, Ficara e Iamonte si dividessero (con precisione scientifica al chilometro) la competenza sul tratto da Reggio Calabria a Melito Porto Salvo. Nel marzo del 2021, interviene anche la Procura di Catanzaro, retta da Nicola Gratteri. Con l’operazione “Coccodrillo” gli inquirenti sostengono l’esistenza di una joint venture tra le famiglie Mazzagatti di Gioia Tauro e Arena di Isola Capo Rizzuto per aggiudicarsi gli appalti delle grandi opere pubbliche. Tra questi, la costruzione di alcuni macrolotti della SS 106 Jonica, nei territori delle province di Catanzaro e Crotone.

    Nel 2018, la deputata di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro, presentò anche una interrogazione parlamentare per accendere l’attenzione sui tanti danneggiamenti e le tante intimidazioni legate ai lavori pubblici per la realizzazione della nuova Statale 106 tra Roseto Capo Spulico e Sibari. Nell’interrogazione indirizzata al Ministro della Giustizia, Ferro sottolineava che «episodi criminali recentemente consumatisi nella Sibaritide sono collegati all’imminente canterizzazione dei lavori di rifacimento del tratto della Statale 106: un progetto da 1.300 milioni di euro, sette anni di lavoro, oltre 1.500 posti per carpentieri, minatori, muratori, ruspisti e manovali».

    Proprio quel megalotto che, ancora oggi, rappresenta il principale tra i cantieri sulla 106. Ancora lontano dalla chiusura. Come molti altri. E altri ancora che devono essere ancora aperti. E ai lati di quella carreggiata sbilenca e incompleta, tanti mazzi di fiori e piccole lapidi che ricordano i tanti incidenti sulla “strada della morte”.

  • Calabresi d’Australia, dal sogno di un lavoro all’internamento nei campi

    Calabresi d’Australia, dal sogno di un lavoro all’internamento nei campi

    I mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale furono estremamente difficili per gli italiani d’Australia. Ore di fila davanti alle caserme di polizia, tesserini identificativi, divieti di possedere apparecchi radiofonici o macchine fotografiche, restrizioni su alcuni tipi di lavoro: la loro normalità finì sconvolta.

    Da una parte c’erano i dettami della white policy sostenuta dal governo del quinto continente, che mirava a un paese abitato quasi unicamente da persone bianche (e gli italiani, così come i greci e gli jugoslavi, non erano considerati propriamente bianchi). Dall’altra, la paura che la comunità italiana presente sull’isola (in quegli anni stimata intorno alle 30mila unità che ne faceva il gruppo etnico non anglosassone più numeroso), potesse agire da quinta colonna in favore delle forze dell’Asse.

    In mezzo loro, migliaia di contadini, maestri, pescatori, muratori che avevano deciso di trasferirsi down under nel tentativo di accedere a una vita migliore. Una situazione da separati in casa che precipitò il 10 giugno del ’40 quando Mussolini, tra gli applausi osannanti della folla di piazza Venezia, rese pubblica la dichiarazione di guerra contro la Francia e contro il Commonwealth britannico, di cui l’Australia era parte integrante. Il rovinoso ingresso in guerra del Bel Paese segnò infatti l’inizio di un periodo tremendo per gli italiani d’Australia, Da quel giorno e fino alla fine del conflitto divennero, loro malgrado, enemy aliens, nemici stranieri.

    In internamento

    Fascisti, antifascisti, anarchici ma anche semplici cittadini che avevano avuto il “torto” di avere fatto il servizio militare in patria o che finirono al centro delle delazioni dei vicini di casa. Furono tantissime le segnalazioni degli australiani che guardavano con sempre maggiore sospetto a quella comunità così eterogenea che stava mettendo radici nel loro paese. Bastava pochissimo per finire nella lista.

    Migliaia di uomini e donne – molti dei quali avevano già ottenuto la cittadinanza australiana o erano stati naturalizzati – da un giorno all’altro finirono in un incubo nascosto dietro nomi rassicuranti come Loveday, Orange e Hay. Nei tre maggiori campi costruiti nelle zone più remote del continente dall’esercito australiano per contenere quella massa indistinta di umanità, furono rinchiusi in quasi 5000, poco meno del 20% dell’intera comunità italiana. Una percentuale enorme se confrontata ai medesimi provvedimenti adottati per gli enemy aliens nelle altre nazioni con cui eravamo in guerra.

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    Il campo d’internamento di Loveday in Australia

    I primi arresti seguono di pochi giorni la dichiarazione di piazza Venezia. Nel mirino del ministero della Guerra finiscono tutti quelli che potrebbero, anche lontanamente, costituire una minaccia per il Commonwealth, donne e anziani compresi. Una rete dalle maglie fittissime in cui finiscono impigliati migliaia di innocui lavoratori, in una sorta di criminalizzazione etnica che lasciò strascichi pesantissimi sulla comunità italiana. Famiglie divise, attività economiche perdute, sequestri di beni: una pagina nerissima della storia australiana del ventesimo secolo costruita più su un pregiudizio razziale che su un reale pericolo.

    Arrestateli tutti

    I primi a finire in arresto, oltre ai pochi fascisti che agivano alla luce del sole, furono i pescatori di Bagnara Calabra che agli antipodi avevano messo in opera le loro conoscenza del mare diventando, assieme ai colleghi di Molfetta in Puglia, i maggiori protagonisti del settore ittico in New South Whales e in South Australia. La loro colpa, muoversi su pescherecci d’altura che avrebbero potuto favorire l’ingresso nel Paese di spie e armi per la conquista del continente.

    Ma a finire nei campi d’internamento – vere e proprie carceri con torrette, filo spinato e guardie armate, costruite a migliaia di chilometri dai centri abitati spesso nelle zone desertiche del continente – furono tantissimi semplici lavoratori che nulla avevano a che fare col fascismo e nulla avevano a che fare con la guerra.

    Processi sommari

    «È italiano, è giovane, ha svolto il servizio militare. Queste sono le uniche cose che bisogna prendere in considerazione. La domanda deve pertanto essere respinta»: si erano infrante su queste poche parole, pronunciate a margine dell’udienza per la sua scarcerazione, le speranze di Giuseppe Panetta di ritrovare la libertà. La polizia militare lo aveva arrestato a Cabramatta, una trentina di chilometri a sud est di Sydney, tre mesi prima, nell’ottobre del 1940.

    Ma già nelle settimane e nei mesi precedenti, gli uomini in divisa si erano presentati alla sua porta tante volte per interrogarlo. Due anni prima, nell’agosto nel 1938, si era imbarcato in terza classe sul transatlantico Oronsay assieme al fratello Michele: partivano da Martone, piccolo borgo arroccato sulle colline dello Jonio reggino, destinazione Sydney.

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    Giuseppe Panetta fu una delle vittime della giustizia australiana

    «Sono venuti ad arrestarmi, ma nessuno di loro mi ha detto perché. Mi hanno chiesto dove lavoravo, dove vivevo e con chi, ma nessuno mi ha mai letto le accuse per cui venivo arrestato». Sono passati tre mesi dalla sera in cui i militari lo hanno trasferito nel campo di detenzione di Hay, nelle desolate zone desertiche del NSW e Panetta è riuscito, grazie all’aiuto di un altro detenuto calabrese che farfuglia qualche parola d’inglese, a presentare domanda di rilascio al tribunale che si occupa degli enemy aliens.

    «Io sono venuto in Australia per lavorare – racconta ai giudici – perché in Italia non guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia. Sono arrivato qui grazie alla chiamata di mio zio e appena avrò denaro sufficiente farò arrivare anche mia moglie e i miei quattro figli». La sua storia è simile a quella di tanti che come lui sono finiti senza prove nei campi disseminati nel bush australiano.

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    La lettera con cui Panetta prova a spiegare di non aver avuto mai legami col fascismo prima del suo arrivo in Australia

    Ma ai giudici che lo interrogano, paradossalmente, non interessa troppo la sua vita in Australia: loro vogliono sapere di quando si trovava in Italia. «Sì, ho fatto il militare quando avevo 21 anni – risponde Panetta, che di anni ormai ne ha 33 – tre mesi di addestramento in artiglieria e poi il resto della leva a riparare dormitori e caserme. Facevo il muratore. Non sono mai stato iscritto al partito fascista, non mi interessava». In effetti Panetta non ha mai preso la tessera del partito e quella scelta aveva finito anche per pagarla molto cara, ma i giudici non gli credono e su quel tasto insistono parecchio.

    «Nessuno mi ha mai chiesto di iscrivermi al partito fascista, e io non sono mai andato a cercarli – racconta ancora ai giudici – non avevo niente da spartire con i fascisti. Prima di venire in Australia avevo anche chiesto al potestà del mio paese di poter partire per l’Etiopia, ma la mia richiesta fu respinta perché non avevo la tessera del partito. Mi disse che se volevo partire, avrei potuto farlo come soldato, ma che senza la tessera non mi avrebbero mandato come semplice colono».

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    La scheda delle forze armate australiane su Panetta

    Non era un fascista Giuseppe Panetta (così come non erano fascisti migliaia degli internati nei campi), né una minaccia: era un lavoratore, un migrante economico ante litteram. E in testa aveva solo il pensiero di fare un po’ di soldi per farsi raggiungere dalla famiglia. Esattamente come i disperati che ogni giorno arrivano sulle nostre coste a bordo di scassati barchini. La sua colpa era di essere giovane, in salute e di provenire da un paese lontanissimo ma in guerra con il paese dove si era rifugiato per scappare dalla miseria.

    «Pur non essendoci alcuna prova di attività fasciste del soggetto – annota a verbale J.D. Holmes, rappresentante della pubblica accusa in nome del ministero della Guerra britannico – egli ha vissuto nei sei mesi precedenti all’ingresso in guerra dell’Italia a casa di un iscritto al partito fascista (un conterraneo per cui Giuseppe Panetta lavorava e che gli aveva concesso, compreso nel salario, l’uso di una brandina dove dormire, ndr). E se è vero che il padrone non è tenuto a dare spiegazioni ai propri operai sulle proprie attività politiche – dice il pm – lui non poteva non sapere. Abbiamo davvero poco materiale per attaccare lui o il suo comportamento in Australia, tuttavia il soggetto ha quella nazionalità (italiana, ndr), è giovane e ha prestato servizio militare. Questi, signori, sono gli unici argomenti che occorre sottolineare».

    Una giustizia tremendamente ingiusta a cui il governo australiano tenterà di porre rimedio, con scuse ufficiali per quella ingiustificabile sospensione dei diritti civili, solo nel 1991. In quel campo, Panetta, ci trascorrerà altri tre anni prima di essere trasferito, assieme a tanti altri detenuti italiani, nei Civil Aliens Corps, le unità che raggruppavano lavoratori da destinare ai settori economici interni che più pagavano l’assenza di manodopera australiana impegnata al fronte.

    Lavori forzati

    All’alba dell’armistizio quindi, siamo nel 1943, la situazione per gli enemy aliens all’interno dei campi comincia un po’ ad alleggerirsi. Ma le autorità militari australiane non sono ancora disposte a rilasciare gli internati per farli tornare alle loro case e alle loro professioni. Vengono così istituite delle unità lavorative in cui incanalare gli uomini che venivano rilasciati dai campi d’internamento: minatori nelle cave di sale, taglialegna nelle foreste pluviali, operai impegnati nella costruzione della ferrovia panaustraliana che deve collegare, attraverso migliaia di chilometri di deserto, il Northern Territory con il South Australia. Nei Civil Alien Corps poi finiscono anche quegli enemy aliens che erano riusciti a scampare agli arresti del ’40: «In pratica – scrive Isabella Cosmini Rose dell’università di Adelaideogni uomo compreso tra i 18 e i 60 anni poteva essere costretto a prestare servizio nei Cac».

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    Il DIpartimento della Difesa australiano imponeva alla popolazione non britannica di registrarsi in un apposito elenco

    Ma i campi di lavoro sono diversi da quelli d’internamento. Le regole sono dure ma meno stringenti, le baracche non hanno le sbarre e i lavoratori, se il loro comportamento viene giudicato consono, possono anche tornare dalle loro famiglie per un paio di giorni ogni mese. E poi nei Cac, gli enemy aliens vengono pagati, anche se con stipendi decisamente inferiori a quelli dei colleghi australiani. Ma i lavori a cui gli enemy aliens vengono destinati sono duri, in alcuni casi durissimi. E sono tanti che, sfruttando l’assenza di guardie armate, ne approfittano per scappare e tornare qualche giorno a casa. Multe salatissime e il concreto rischio di arresto non furono sufficienti a trattenere i lavoratori nel campo.

    Domenico Cirillo era partito da Caulonia nel 1935, destinazione Adelaide. Quando fu “arruolato” nei Civil aliens corps fu mandato a Port Price nella penisola di York a lavorare nelle cave di sale. «A Port Price estraevamo il sale con le pale e i picconi. C’erano altri 6 italiani con me e dormivamo sul pavimento senza un materasso, solo con un cuscino e un lenzuolo. A terra era così freddo che si rischiava il congelamento e così un giorno chiesi al mio capo il permesso di tornare a Adelaide a prendere qualche coperta ma si rifiutò. Determinato a prendere le coperte, un venerdì notte, presi segretamente il furgone della posta fino a Port Wakesfield e da lì il treno fino a Adelaide. Il mattino dopo sono andato al commissariato e sono stato multato di 50 sterline».

    Tra il 1942 e il 1945 furono 1058 i procedimenti avviati e 947 furono le condanne emesse. In 305 casi le sentenze furono di internamento e i rimanenti procedimenti finirono con delle multe. Uno degli stranieri fu punito con 21 giorni di carcere con l’accusa di avere lasciato il campo viaggiando da Port Augusta a Findon senza permesso.

    L’uomo, Luigi Fazzolari anche lui partito da Caulonia, ha raccontato: «All’Allied Works Council mi avevano detto che mi avrebbero dato un lavoro leggero ma quando sono arrivato là, il capo mi ha detto che avrei lavorato con il piccone e la pala. Gli ho detto che non avrei potuto farlo a causa delle mie condizioni di salute e gli ho chiesto un lavoro più leggero o di essere messo nelle cucine. Mi ha risposto che non c’erano lavori leggeri e che non mi avrebbe messo in cucina. Così ho deciso di tornare a Findon dalla mia famiglia. Volevo tornare là per vedere un medico e per andare all’Allied Works Council a chiedere ancora che mi dessero un lavoro leggero».

    Una pagina nerissima e colpevolmente poco conosciuta dell’emigrazione in Australia che vide coinvolti centinaia di calabresi che dall’altra parte del mondo ci erano finiti per inseguire una vita migliore e a cui furono sospesi diritti civili e di cittadinanza.

  • Core ‘ngrato, il segreto di Cordiferro

    Core ‘ngrato, il segreto di Cordiferro

    Nel pacchiano lusso di una sala da cerimonie di Little Italy, budelli di chitarra si abbandonano a una melodia antica. «Junior, come on», l’anziano capofamiglia rompe gli indugi, chiude gli occhi e inizia a cantare. Così, come nel mantice della fisarmonica, due mondi si allontanano per finir riavvicinati: la seconda generazione di paisà accompagna commossa l’esibizione della prima, mentre la terza ridacchia a dissacrarla.

    Corvina e ribelle, la più giovane degli eredi tracanna Martini alla goccia mentre lancia molliche di pane ai vecchi che le hanno rubato le attenzioni del padre, ché quella delle platinate star americane è musica, non questa fottuta lagna italiana. Poi esce di scena, vanamente rincorsa dal padre nelle leggendarie nuvole di vapore del traffico di New York.

    Al rientro in sala della scena, la canzone fa piangere pure i baffi dei camerieri: niente riuscirebbe a rompere la solennità del momento. Il boss se ne accorge compiaciuto, sistema il nodo della cravatta e si aggrappa a ciò che resta della sua famiglia. Seduti più dietro, con un bisbiglio, una donna americana accosta la chioma laccata a quella di chi dal vecchio l’ha messa al mondo nel nuovo: «What does it mean “Core ngrato”?» (Che vuol dire Core ‘ngrato, ndr), chiede. «Ungrateful heart» (Cuore ingrato, nda)è la risposta.

    È il finale della terza stagione di “The Sopranos”, la serie televisiva di culto che, secondo lo speciale del New York Times, rappresenta «la più grande opera della cultura pop americana dell’ultimo quarto di secolo». L’uomo che ha scritto i versi della ballata scelta per raccontare il tormento dei paisà è nato in una piccola casa al centro di un abitato ai piedi della Sila cosentina, ma la sua incredibile e dimenticata storia è ancora nascosta settemila chilometri più distante.

    Dalla Presila a New York

    È la storia di un uomo che si chiama Alessandro Sisca, nato il 27 ottobre 1875 a San Pietro in Guarano, piccolo avamposto presilano dove il padre Francesco faceva l’impiegato comunale. A soli 11 anni i genitori decidono di mandarlo in seminario però, così lascia il borgo natio per entrare nei francescani di San Raffaele a Materdei a Napoli, città di sua madre, Emilia Cristarelli.

    Ben presto, però, tutti si accorgeranno che è letteraria la sua vocazione. Comincia così a scrivere con lo pseudonimo di Riccardo Cordiferro, dovuto ovviamente all’amore per l’Ivanohe, e inizia a raccogliere successi. Nel 1892 tutto cambia di nuovo, perché la chiamata alle armi incombe. Il giovane poeta non ha tempo da perdere, parte per l’America e la motivazione la lascia in un biglietto di poche righe in cui scrive: «Io non ho padroni, non servo nessuno, non riconosco l’autorità di nessun capo».

    Si stabilisce prima a Pittsburgh – dove è tuttora presente una folta comunità di sampietresi – da uno zio, poi a New York. Lì, insieme a suo padre e a suo fratello Marziale, nel gennaio 1893 fonda una rivista satirica dal titolo La Follia di New York, in onore dell’omonima rivista che si edita a Napoli. Si distingue ai massimi livelli come giornalista, poeta e drammaturgo. Tanto che Emelise Aleandri in The Italian American Experience: An Encyclopedia sostiene che «Alessandro Sisca è il più prolifico e importante scrittore italoamericano del cambio di secolo». Poi nel 1911, arriva l’intuizione. In mezzo a tanti altri, scrive il testo della canzone che lo destina all’immortalità.

    La porcheriola

    Composta insieme al maestro Salvatore Cardillo, inizialmente nessuno dei due aveva il sentore che la canzone sarebbe stato un grande successo. Anzi, lo stesso Cardillo spesso l’apostrofava con la parola «porcheriola». Sbarcata a Napoli invece, Core ‘ngrato ha da subito una grande presa sul pubblico e cambia il verso della storia. Diventa la prima canzone napoletana di successo proveniente dagli Stati Uniti e non il contrario, come era stato fino ad allora.

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    Sui palchi di tutto il mondo l’hanno interpretata tutti i più grandi. Giusto per citare qualcuno: Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Tito Schipa, Luciano Pavarotti, Plácido Domingo, José Carreras, Claudio Villa, Roberto Murolo. In tempi più recenti ne hanno fatto vanto anche Mina, Vinicio Capossela, Il Volo e Andrea Bocelli, ma il testo scritto da Sisca ha saputo varcare i confini dell’arte canora, andandosi a incastrare in diverse intersezioni culturali e finendo per rimanere presente nell’immaginario collettivo contemporaneo.

    Il battesimo di Franco e Ciccio

    Esempi significativi arrivano dal mondo dell’avanspettacolo, del cinema e del calcio. Nel teatro “Costa” di Castelvetrano nel 1954 Core ‘ngrato è il titolo del debutto di un duo comico palermitano che si fa chiamare “Franco e Ciccio”. Il loro esordio fu del tutto casuale. La compagnia teatrale di Pasquale Pinto si era spostata da Napoli a Palermo senza un attore, Nino Formicola, che si era ammalato. Il capocomico Giuseppe Pellegrino, per sostituirlo, si rivolse a Ciccio Ingrassia. Che però era tornato a lavorare come calzolaio e inizialmente rifiutò, proponendo di contattare Franco Franchi, che aveva conosciuto poco prima e apprezzava.

    Pellegrino non era convinto della scelta, in quanto avrebbe dovuto ingaggiare uno sconosciuto che non era neanche un vero attore, e contropropose a Ciccio di ingaggiarli insieme. A questo punto entrambi furono assunti dalla compagnia e iniziò un successo clamoroso. Franco non aveva né padronanza dell’italiano né delle tecniche teatrali, così prima di entrare in scena propose a Ciccio: «Senta, perché lei non entra in scena e si mette a cantare poi entro io e la disturbo?».

    In un’intervista degli anni Ottanta è lo stesso Franco a ricostruire l’episodio: «Il pubblico appena vide sulla scena uno spilungone magro e uno basso e tarchiato scoppiò in una risata incontenibile. Mentre Ciccio cantava questa canzone drammatica, arrivavo io ad infastidirlo scatenandomi in una serie di gag sconnesse: la scimmia, il coccodrillo, il burattino, la bilancia, la danza del ventre, il pianto funebre siciliano. Tutto repertorio folcloristico oggi assurto a patrimonio culturale nazionale mentre allora non si concepiva che in teatro si recitasse in dialetto». Il numero durò inizialmente appena cinque minuti, ma in seguito fu allungato di quattro minuti per le richieste del pubblico, girò tutta l’Italia, arrivò in tv e segnò l’inizio di una carriera sfolgorante per i due.

    Così parlò Core ‘ngrato

    Quanto al cinema, già detto dei “Soprano”, Core ‘ngrato si associa a un caratterista straordinario interpretato dal compianto Antonio Allocca in Così parlò Bellavista, capolavoro di Luciano De Crescenzo, tratto dall’omonimo libro. Core ‘ngrato era un buffo esattore della Camorra che suggeriva ai poveri Giorgio e Patrizia, neo-commercianti di statuette sacre, di pagare il pizzo «prima che inizi l’escalation»; trovandosi il negozietto all’angolo di due strade contese da due clan rivali, la coppia si trova a provare a risolvere l’inghippo in scene memorabili, prima di arrendersi, chiudere bottega e trasferirsi a Milano.

    Un caso che dalla pura invenzione si è realizzato nel 2016, con un chiosco di bibite ubicato nella Maddalena, sede di un noto mercato popolare a ridosso della Ferrovia in zona piazza Garibaldi, al quale veniva imposto di pagare due volte il pizzo come nel film. La contesa fra il cartello Brunetti-Giuliano-Amirante, egemone nel centro storico tra Forcella e la zona del Borgo di Sant’Antonio Abate, quello della cosiddetta ‘paranza dei bambini‘, e gli affiliati dello storico clan dei Mazzarella si risolse con la coraggiosa denuncia e l’arresto dei malavitosi.

    Il goal dell’ex

    Quanto al calcio, Core ‘ngrato è il soprannome affibbiato ai calciatori che dal Napoli si sono trasferiti alla Juventus. Il primo fu Josè Altafini, centravanti brasiliano naturalizzato italiano amatissimo all’ombra del Vesuvio, protagonista di una passione napoletana superata soltanto dall’arrivo di Maradona un decennio dopo. La sua cessione alla Juve ebbe un’eco vastissima e un’estate di intense polemiche. Ma fu solo dopo un suo gol al San Paolo che diede la vittoria decisiva per lo scudetto ai bianconeri che su un cancello dello stadio partenopeo comparve la scritta «Altafini Core ‘Ngrato». Il soprannome restò ad Altafini per decenni, prima di passare sulle spalle di un altro centravanti sudamericano, Gonzalo Higuain, alfiere del Sarrismo che si trasferì alla Juventus dopo l’imbattuto record di gol in campionato con la maglia del Napoli.

    The Sisca papers

    Forse tutto ciò basterebbe per capire come la figura di Sisca alias Cordiferro meriti di essere ripescata e studiata dagli ambiti accademici. Ma non è abbastanza per comprendere perché l’Università del Minnesota conservi in tre enormi scaffali d’archivio una imponente mole di materiale sull’emigrato calabrese che scriveva in lingua napoletana. Uno spazio importante, che meriterebbe di essere scoperto e tramandato.

    Grazie agli sforzi del professor Rudolph J. Vecoli, direttore del Center for Immigration Studies dell’Università del Minnesota, la Collezione Sisca è stata depositata nell’archivio degli immigrati nell’ottobre 1968 da Michael Sisca, editore della Follia di New York. Prevalentemente in italiano, questa collezione è composta da 9,5 piedi lineari di documenti e corrispondenza. Il materiale è stato elaborato nel periodo 1973-1974 dalla studiosa Lynn Ann Schweitzer.

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    Perché uno spazio così importante per quello che si ricorda solo come l’autore dei versi di una canzone di successo? Perché Alessandro Sisca era molto di più. La Follia, infatti, riscosse successo tra i letterati delle colonie italiane di New York City (sei milioni di copie vendute), e si impose anche grazie alla varietà dei temi trattati, riuscendo a conquistare sempre maggiori consensi nella più ampia comunità italoamericana.

    Questo successo spiegò le vele alla vera ispirazione di Sisca, l’impegno politico/sindacale in difesa dei propri connazionali emigrati, totalmente dimenticato al netto di meritevoli eccezioni (cfr. Amelia Paparazzo, Calabresi sovversivi nel mondo, Rubbettino Editore).
    Un’inclinazione scomoda per gli Stati Uniti del tempo, che lo condusse a cambiare molto spesso pseudonimo, a rifugiarsi in incarichi riservati e che gli aprì le porte delle carceri americane più di una volta.

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    Celebre per il suo lavoro di giornalista di inchiesta (non solo con La Follia ma anche per i suoi contributi a La Sedia Elettrica, La Notizia e L’Aarlemite), a Cordiferro chiesero di parlare con diverse organizzazioni italiane di lavoratori nelle quali serpeggiava il malcontento per l’intenso sfruttamento. È stato un agitatore culturale anarchico di grande successo, con un seguito di migliaia di persone, che lo elessero infine portavoce ufficiale del comitato Utica, NY pro Sacco e Vanzetti.

    Sacco e Vanzetti

    La vicenda è stranota: il 23 agosto 1927, poco dopo la mezzanotte, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti venivano uccisi sulla sedia elettrica nel penitenziario di Charlestown, ingiustamente condannati per un reato che non avevano commesso. Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell’esecuzione. Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la Guardia nazionale lo attendeva dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.

    I due italiani subirono un processo totalmente condizionato dal razzismo e dal pregiudizio nei confronti delle idee anarchiche che i due professavano, tanto che il giudice Webster Thayer non esitò a definirli «bastardi anarchici». Dopo la cremazione a portare i loro corpi in Italia fu Luigina Vanzetti. Oggi riposano rispettivamente nel cimitero di Torremaggiore e in quello di Villafalletto.

    L’indimenticabile monologo di Gian Maria Volontè nel film ispirato alla vicenda di Sacco e Vanzetti

     

    Moltissimi negli USA e in Europa si batterono per salvare la loro vita. In tutto il mondo molti intellettuali del tempo come George Bernard Shaw, Bertrand Russell, Albert Einstein, Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, John Dewey, John Dos Passos, Upton Sinclair, H. G. Wells, Arturo Giovannitti sostennero a favore di Nick e Bart una campagna per giungere a un nuovo processo sostenuta persino dal premio Nobel francese Anatole France, che invocò la loro liberazione sulle pagine del periodico Nation.

    Una traccia sepolta dalla polvere

    Fra questi non abbiamo ereditato alcuna traccia dell’impegno dell’intellettuale calabrese Alessandro Sisca, che pur svolgeva il delicatissimo e importantissimo incarico di portavoce del movimento che da New York chiedeva la liberazione dei due. Perché? Nella imponente mole di carte custodite in Minnesota (fra cui alcune lettere di due presidenti repubblicani al fratello Marziale) potrebbe esserci la risposta al quesito. Del resto, è un fatto che i raduni per la difesa degli anarchici italiani lo trovarono spesso come il principale oratore e le sue commedie, ispirate in gran parte dalla condizione degli italiani negli States, erano frequentatissime dagli operai del tempo.

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    Una fotografia di Alessandro Sisca

    Tutto questo rappresenta una traccia incancellabile ma, come la sua casa natia ai piedi della Sila, con il tempo rischia di andare in polvere, realizzando la teoria che alcuni studiosi di canzone napoletana hanno sviluppato sul nome femminile Caterina, invocato all’inizio della sua canzone. Pare infatti che fosse il nome scelto all’epoca per rivolgersi in codice alla comunità degli italiani, quindi il vero cuore ingrato, che ha dimenticato una vita di amore e di impegno del poeta.

    I dolori di Sisca furono infatti sempre più intensi: dapprima in pochi mesi perse la moglie Annina e i figli, Emilia e Franchino. Poi nemmeno un secondo matrimonio lo salvò da una forte depressione, e nel 1940 tutto questo lo condusse alla morte come fine di un sempre più acuto periodo di sofferenze. Era il 24 agosto, il giorno dopo l’anniversario dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti.

  • Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Terme Luigiane, minacce al prete e impianti a rischio

    Tra Guardia Piemontese e Acquappesa aleggia ancora l’effluvio di zolfo, simile all’odore di uovo sodo. Spenti gli stabilimenti termali, ristagna l’acqua sulfurea che sgorga dalla sorgente. Prima di tuffarsi dritto in mare, il prezioso rigagnolo bollente scolpisce tra le rocce una caldissima vasca di color verde smeraldo, dove pochi freak turisti s’immergono e se la godono. Anche a Lamezia, nelle terme di Caronte, o in altre località italiane come nella toscana Saturnia, oltre agli impianti a pagamento, da sempre esistono pozze di deflusso accessibili a tutti. Tra questi boschi però il fenomeno è recente. E al di là di qualche amatore e di pochi curiosi, si sono esauriti gli ultimi barlumi di vita sociale.

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    È confinato nella nostalgia dei boomers il ricordo delle Terme Luigiane che richiamavano giovani moltitudini al tempo della mitica discoteca Onda Verde. Sbarrate porte e finestre degli alberghi, deserte le strade, gracidanti ranocchie sguazzano nella piscina termale, fino all’anno scorso stracolma di bagnanti. Resistono solo un’eccellente pizzeria napoletana e uno dei pochi cinema superstiti sulla costa tirrenica cosentina, “La Sirenetta”. Non si vedono più in giro i 32mila turisti, gran parte dei quali russi, che nel 2019 riempirono hotel e B&B. Desolante appare la piazzetta dove un tempo si ballava, cani randagi latranti minacciano i pochi runner che s’avventurano quassù, in un ex luogo che riverbera le solitudini di altri centri abbandonati nei recessi delle Calabrie.

    Nutrito sarebbe l’elenco dei paesini fantasma. Mentre in altre aree della regione, come Roghudi e Cavallerizzo di Cerzeto, alluvioni, emigrazioni, frane e smottamenti hanno colpito duro, nella zona termale di Guardia Piemontese, madre natura e sorella povertà non sono imputabili dello sfacelo. Se le Terme Luigiane restano chiuse, la colpa non è delle calamità. Nel momento più critico di un’estenuante vertenza, sono stati i sindaci di Guardia Piemontese e Acquappesa ad assumersi la responsabilità di serrare i rubinetti dell’acqua che generava fanghi e vapori sulfurei.

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    Vacche pascolano liberamente intorno agli stabilimenti chiusi delle Terme Luigiane

    Dallo scontro feroce tra le due amministrazioni comunali e Sa.te.ca, la società subconcessionaria che da tempo immemore gestiva gli impianti, sono emerse soltanto macerie. E nemmeno la pandemia era riuscita a desertificare le corsie di questi stabilimenti. Persino nel 2020, sebbene l’utenza delle cure termali si fosse ridotta dell’80 per cento, gli impianti avevano continuato a funzionare. Ma quest’anno il duello s’è fatto più aspro e ha finito per azzerare tutto. Dove neanche il coronavirus ha potuto sortire effetti devastanti, è riuscita a provocare danni irreparabili l’umana cupidigia.

    Un bene (poco) comune

    Il getto d’acqua sulfurea da 100 litri al secondo, di cui s’alimentavano le Terme Luigiane, è di proprietà della regione Calabria che lo concede ai comuni siamesi di Acquappesa e Guardia Piemontese. Questi a loro volta ne affidano la gestione alla società privata Sa.te.ca. Così è stato per 80 anni, dal 1936 al 2016. Alla scadenza della concessione, è iniziata una partita che al momento non registra vincitori. L’attuale situazione di stallo infatti lascia sconfitto un territorio dalle potenzialità turistiche immense, consegna 250 lavoratori e lavoratrici alla disoccupazione e priva migliaia di pazienti delle cure necessarie ad affrontare fastidiosissime patologie.

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    Una protesta dei lavoratori delle Terme Luigiane rimasti a spasso a causa della chiusura degli stabilimenti

    Tra i contendenti è in atto da sempre una partita a briscola. Nessuno di loro vuole cedere il mazzo. Uno dei partecipanti, la Regione, gioca in modo distratto. Dal 2016, quando sono cambiate le regole, tutti hanno iniziato a lanciare le carte in aria. E per capire se qualcuno abbia barato, bisognerà attendere gli esiti delle inchieste aperte dalla Procura di Paola e i responsi dei giudici amministrativi, subissati da ricorsi.

    Forse neanche il compianto drammaturgo Vincenzo Ziccarelli, che per anni nel complesso termale diresse la rassegna culturale Zolfo e malie, sarebbe stato in grado di ideare le scenette tragicomiche, degne del miglior Charlie Chaplin, avvenute alla fine dello scorso inverno, quando le amministrazioni comunali si sono riappropriate dei beni detenuti dalla Sa.te.ca. S’è registrata tensione altissima tra i rappresentanti dei due enti e dell’azienda, con le forze dell’ordine a fare da cuscinetto in un derby disputato intorno a un pallone liquido e gassoso.

    La pantomima tra i sindaci e i legali della Sa.te.ca al momento della restituzione di parte degli immobili del complesso termale in un video pubblicato dal Quotidiano del Sud a febbraio

    Lo scontro si è rivelato inevitabile nel gennaio 2021, quando a distanza di due settimane dal nuovo protocollo d’intesa, che avrebbe previsto un’ulteriore proroga della concessione alla Sa.te.ca fino al subentro del nuovo gestore, l’accordo firmato in Prefettura è stato di fatto ribaltato dalla determinazione delle due amministrazioni comunali a concedere tale concessione fino al novembre 2021, non oltre.

    Missione impossibile

    I pochi viandanti, perlopiù calabresi ormai trapiantati altrove, che si avventurano nell’area desertificata delle terme, sbigottiti chiedono come mai qui sia tutto chiuso, quali siano le responsabilità di cotanto degrado. Centoquarantasei metri più in basso, sul livello del mare, qualche turista più curioso interroga il titolare di uno dei bar di Guardia marina: «Come si è arrivati allo scontro?». Il barista stringe le spalle e risponde sottovoce: «Interessi politici». Gli avventori incalzano e rilanciano l’amara considerazione che ormai ha un tono proverbiale: «Che peccato! Guardia è un posto meraviglioso. Una risorsa termale come questa, al nord creerebbe migliaia di posti di lavoro per tutto l’anno. Ma come si fa a tenerla chiusa?».

    Già, come si fa? Se in tutta questa vicenda c’è stato un peccato originale, è nella mancata indizione di un regolare bando pubblico per affidare la gestione dello stabilimento a un nuovo gestore. È opinione diffusa che i Comuni avrebbero potuto e dovuto farlo nel 2016, magari preparando i termini della gara almeno un anno prima, all’approssimarsi della scadenza della concessione quasi secolare. Invece, in questi cinque anni non ci sono riusciti. Secondo la controparte, in realtà Guardia e Acquappesa non hanno mai avuto la volontà politica di bandire l’asta pubblica.

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    Le piscine ormai deserte delle Terme Luigiane

    Dal canto loro, i Comuni sostengono che sarebbe «alquanto difficile avviare una procedura di gara di un compendio abbandonato (perché inutilizzati ed inutilizzabili sono la gran parte degli edifici) e devastato». Strano però che fino all’autunno 2020 queste strutture fossero attive e funzionanti. Di fatto, comunque, le due amministrazioni comunali si sono limitate a produrre avvisi esplorativi che di solito preludono ad affidamenti diretti, benché nel novembre 2017 precisassero che «I soggetti che avranno manifestato l’interesse ad effettuare tale progettazione, potranno presentare la propria proposta progettuale che, nel caso di migliore proposta, sarà fatta propria dagli Enti ed assunta come base di gara successiva per la gestione della realtà termale Terme Luigiane».

    Niente bando e prezzi alle stelle per le Terme Luigiane

    All’epoca, un interessamento informale sarebbe pervenuto da potenti gruppi imprenditoriali locali, già impegnati nella sanità e in edilizia. Alcune vicissitudini avrebbero però impedito che dai primi contatti si passasse a un’assunzione di responsabilità. Non sono calabresi, bensì campane, e si occupano di asfalto, edilizia, movimento terra, progettazione e studi di fattibilità (attività non proprio legatissime al termalismo), le ditte che all’inizio di questa estate hanno presentato altre manifestazioni di interesse. Intanto, dopo le proroghe della concessione, che nell’ultimo lustro hanno permesso il funzionamento della stazione termale, nell’ultima annata tra le amministrazioni comunali e l’azienda privata Sa.te.ca si è imposta una cortina di ferro, carta bollata e reciproche accuse.

    «Ci troviamo di fronte ad una società che ai Comuni paga 43mila euro annui, mentre, soltanto dalle prestazioni convenzionate con l’Asp ricava oltre 2milioni e 700mila euro (sempre annui). E non vogliamo inserire, nel calcolo, la somma delle prestazioni effettuate a pagamento», strillano i sindaci di Guardia e Acquappesa. Alla fine del maggio scorso, la Sa.te.ca ha formulato una proposta che avrebbe previsto lo sfruttamento di 40 litri al secondo di acqua calda al prezzo di un canone annuo di 30mila euro per il 40 per cento dell’acqua termale, considerato che i Comuni versano alla Regione 22mila euro per il 100 per cento della risorsa.

    Davvero difficile pervenire a un accordo, perché pochi giorni dopo, i Comuni hanno chiesto a Sa.te.ca 93mila euro. E per gli anni successivi 373mila euro, riducendo però la disponibilità a 10 litri al secondo. Qualora invece l’azienda avesse voluto impegnare nei propri impianti 40 litri, i Comuni hanno fatto sapere che avrebbero alzato il prezzo a 1.000.742,40 euro. Qualcuno fa notare che ammonta a questa cifra il 66 per cento del totale annuo versato agli enti titolari da tutte le società private che gestiscono gli stabilimenti termali italiani.

    Il grande assente

    Prima che l’avvento dell’homo cellularis virtualizzasse i giochi adolescenziali e le relazioni umane, quando ancora si disputavano agguerrite partitelle a calcio negli improvvisati campetti realizzati tra un condominio e l’altro, accadeva spesso che in assenza di un arbitro, le azioni di gioco contestate sfociassero in risse verbali e fisiche. A volte, il proprietario del pallone lo afferrava e, indispettito, pronunciava la frase più temuta: «Ah sì? Allora me lo porto a casa e non si gioca più!». Sembra evocare quei romantici scenari l’atteggiamento assunto dai due sindaci che hanno chiuso il rubinetto dell’acqua calda, un tempo incanalata negli impianti gestiti dalla Sa.te.ca. Ma è soprattutto la mancanza di una giacchetta nera a consolidare la metafora. In tutta questa vicenda, grande assente è infatti la Regione.

    «Siamo rimasti profondamente delusi dal comportamento del presidente Nino Spirlì – racconta un dipendente di Sa.te.ca, che preferisce restare nell’anonimato -. Nella primavera scorsa, ha convocato le parti e ci è sembrato coraggioso, preparato, disponibile. Ha diffidato i Comuni, minacciando la revoca della concessione. Poi, però, si è chiuso in un silenzio assoluto. È chiaro che sarà stato richiamato all’ordine dai suoi alleati politici. Non avrà voluto ostacolare i loro interessi».

    Le parole dei lavoratori

    Gli fa eco un collega, anch’egli dipendente per tanti anni della struttura termale: «I sindaci si rifiutano di riceverci. Dicono che non ci riconoscono come interlocutori. E neanche l’ex prefetto di Cosenza, Cinzia Guercio, si è mai degnata di ascoltarci. Ma il comportamento più inqualificabile lo ha avuto l’assessore regionale al Turismo, Fausto Orsomarso. A parte scendere in polemica, nulla di concreto ha fatto per evitare il blocco degli stabilimenti. Qualche mese fa, è venuto addirittura a promettere lo stanziamento di 230mila euro per la realizzazione di un parcheggio. Cosa ce ne facciamo di un parcheggio, se le terme sono chiuse? E poi si è rifiutato di salvaguardare il funzionamento della miniera. Il suo ufficio, attraverso il dirigente Cosentino, si è categoricamente rifiutato di applicare la norma della legge regionale 40/2009 che prevede la sospensione/revoca in caso di morosità da parte dei Comuni concessionari, superati i 240 giorni. Eppure sono trascorsi due anni e mezzo».

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    Uno striscione contr l’assessore Orsomarso durante le proteste dei lavoratori delle Terme

    Un’altra lavoratrice si schiera con l’azienda: «I sindaci parlano di ricavi per 2 milioni e 500 mila euro, in realtà si tratta dell’incasso per le prestazioni sanitarie, non del ricavo. Nel 2019 la Sa.te.ca ha speso 2.400.000 solo per gli stipendi. Abbiamo paura di perderla, perché ci ha sempre garantito la massima legalità. Temiamo di finire come altre strutture sanitarie calabresi, che stanno passando di mano sempre secondo lo stesso schema degli avvoltoi che si lanciano sulla preda quando è ormai agonizzante. È vero che solo una minoranza tra di noi ha in tasca un contratto a tempo indeterminato. Gli altri sono stagionali, ma più di 1000 lavoratori fanno parte dell’indotto termale».

    La delusione dei clienti

    Analogo e bipartisan è il risentimento tra gli utenti abituali delle terme. Giuliano ha 48 anni ed è un insegnante che conosce bene questo scorcio di Tirreno: «Quest’anno, niente aerosol e inalazioni! Già prevedo guai per le mie tonsille. Grazie alle cure estive – spiega –, in inverno evitavo intere settimane a letto. Mi dispiace pure per il personale sanitario. Sono persone molto gentili e preparate. Però i loro guai dipendono proprio dai politici che dicono di volerle difendere. Non ho niente contro Giuseppe Aieta. E mi sembra strana la faccenda del voto di scambio. Da queste parti ha racimolato poche decine di voti. Ma lui e Carletto Guccione, con quale faccia si siedono a un tavolo di mediazione? Il gruppo dirigente del loro partito è formato da gente che ha mangiato l’inverosimile e ha costruito piccoli imperi sfruttando le clientele in settori importanti come la telematica e le fonti di energia alternativa».

    «Chiuditi la bocca, prete!»

    Il più indignato di tutti è don Massimo Aloia, parroco di Guardia marina e delle Terme. «In questa storia – spiega il sacerdote – latitante è la verità. Per ovvie ragioni legali, quella che gli operai gridano, non può essere tutta la verità. L’anomalia è il comportamento delle istituzioni. All’inizio, ci siamo sforzati di non pensar male, ma la chiusura delle acque è stata la prova della loro malafede. I sindaci dicono che è un atto dovuto, ma allora perché non l’hanno fatto negli anni precedenti?».

    Don Massimo parla con tono pacato e severo. «Le amministrazioni comunali – prosegue – hanno dichiarato illegittimo l’accordo che loro stesse avevano da poco sottoscritto in Prefettura. Ci sono tanti aspetti oscuri in questa vicenda. Non capisco come mai il presidente Spirlì, che pure fa riferimento a un partito sedicente portatore dell’ordine e della legalità, non abbia avuto il coraggio di revocare la concessione ai Comuni, dopo 240 giorni di inadempienza, come la legge prevedrebbe».

    Sono diverse le famiglie dei dipendenti rimasti senza lavoro ad aver chiesto aiuto economico alla parrocchia. Il vescovo ha inviato appositi fondi a don Massimo. Poche settimane fa, però, alla sua porta hanno iniziato a bussare anche le minacce: «Telefonate intimidatorie, bigliettini anonimi, i soliti messaggini che pervengono a chi parla troppo», denuncia il sacerdote, senza esitazione.

    Le Terme Luigiane in coma. Irreversibile?

    Le ferite sociali stanno per tramutarsi in piaghe che a breve rischierebbero di portare alla morte del paziente. Tra gli oneri pattuiti nel vecchio accordo di concessione, l’illuminazione intorno agli impianti, la pulizia e la manutenzione stradale spettavano al gestore, quindi a Sa.te.ca. In uno dei tanti passaggi della vertenza, i Comuni hanno revocato persino l’assegnazione di queste competenze. È presumibile che se tali settori non saranno assegnati in tempi brevi a un nuovo soggetto privato, il già visibile degrado si alimenterà dei disservizi.

    Il danno peggiore, comunque, potrebbe scaturire proprio dalla chiusura del rubinetto principale. L’adduzione delle acquee sulfuree avveniva mediante un tubo sotterraneo, prodotto a suo tempo dalla Dalmine. Secondo il parere di alcuni manutentori, se la condotta non è piena, con tempo lo zolfo forma dei residui che nel medio periodo si accumulerebbero e, tappandolo, lo renderebbero inservibile. La tragedia avrebbe così un epilogo già andato in scena innumerevoli volte, nelle Calabrie saccheggiate dalla malapolitica e dai profitti dei privati.

    Ma la politica che ne pensa?

    Ormai quasi nulla di quel che resta dell’immenso patrimonio naturale di un’intera regione appartiene ai calabresi. Una multinazionale detiene i laghi della Sila e decide quanta acqua distribuire agli agricoltori; le spiagge sono cementificate o recintate; l’acqua è nelle mani di una società a prevalente capitale pubblico, i cui fili sono retti dalla politica; il vento che muove le pale eoliche è accaparrato dai privati; il legname dei boschi finisce negli impianti a biomasse; il ciclo dei rifiuti non è per niente virtuoso e continua a imbottire i territori di velenifere discariche.

    Sono temi che dovrebbero riempire le agende delle forze politiche impegnate nelle prossime elezioni amministrative, sia regionali che comunali. Ma quanti sono i candidati che hanno a cuore le risorse naturali? La maggior parte di loro si trastulla con le chiacchiere tracimanti da quelli che ci ostiniamo a chiamare “social”, ma che di sociale non hanno un bel niente, essendo piattaforme private. Anzi, privatistiche, dunque disinteressate alla difesa e all’esercizio dei beni comuni. Come tutti i soggetti responsabili, a vario titolo, della chiusura delle Terme Luigiane.

  • Quattro soldi per difendere il Parco d’Aspromonte dagli incendi

    Quattro soldi per difendere il Parco d’Aspromonte dagli incendi

    Canadair che non si trovano  e quando si trovano può capitare che, nel bel mezzo di un intervento, debbano tornare a Ciampino per il cambio turno dell’equipaggio. Soccorsi che non conoscono la montagna e alla difficoltà dell’intervento devono aggiungere quelle per trovare la strada giusta. Piromani agguerriti al soldo di interessi senza fine e attivi H24. Autobotti e pick up disseminati col contagocce, e bilanci dedicati alla prevenzione che, per entità dei fondi, se la giocano con la sagra della melanzana porchettata.

    L’Aspromonte brucia da settimane: ettari e ettari di boschi e memorie persi per sempre, che riaprono vecchie ferite e che riportano a galla vecchi problemi. Dopo anni di relativa quiete, le fiamme hanno riaggredito la montagna su più fronti come nell’estate del 2012, l’ultima in ordine di tempo in cui si sono registrati danni simili a quelli di questi giorni. In dieci anni molte cose sono cambiate, e non sempre in meglio.

    Il fuoco corre veloce

    «Quando un incendio non viene contrastato efficacemente nelle prime ore, poi è difficile riuscire a domarlo. Le nostre montagne sono impervie, in molti punti quasi inaccessibili. È difficile intervenire quando il vento si alza e le fiamme diventano alte. A San Lorenzo il canadair si è visto dopo due giorni. Troppo tardi». Pietro è un vecchio operaio travasato dall’Afor a Calabria Verde, una vita passata nelle squadre antincendio che operano nel parco. «Il vero problema resta la prevenzione. Una volta eravamo in centinaia ad occuparci del bosco, ora nella mia squadra siamo in 19 quasi tutti anziani come me e prossimi alla pensione. Noi facciamo il nostro, ma il territorio è gigantesco».

    Il Parco d’Aspromonte avrebbe le carte in regola

    Sono 64 mila ettari spalmati dal Tirreno allo Jonio passando per i 2000 metri di Montalto, un patrimonio naturale inestimabile, uno scrigno di storie e di memorie. In poco più di venti giorni, di questa meraviglia tutta calabrese, sono andati in fumo quasi 5 mila ettari. Un disastro che solo per caso non ha distrutto anche le faggete vetuste di San Luca, fresche di nomina a patrimonio dell’umanità e che ha reso evidente come più di qualcosa, nei meccanismi a tutela del parco stesso, non sia girata per il verso giusto. E non solo per colpa dei canadair.

    Eppure, almeno a livello teorico, il parco d’Aspromonte ha tutte le carte in regola. Dettagliatissimo il piano quinquennale anti incendi boschivi. Al suo interno le linee guida per gli interventi di prevenzione e spegnimento degli incendi con tanto di tabelle storiche, fattori di rischio, idee per la salvaguardia del territorio da realizzare a braccetto con chi quel territorio stesso lo vive. Ma quello che splende sulla carta, a volte, non brilla della stessa luce nella realtà.

    Il Parco difeso da sei autobotti

    «La rapidità dell’intervento deve essere assicurata sia da una corretta e omogenea dislocazione delle squadre e dei mezzi antincendio – si legge nel piano Aib del parco nazionale d’Aspromonte – e sia dall’esistenza e corretta percorribilità delle vie di comunicazione». Passati ormai i tempi dell’elefantiaca pianta organica dell’Afor – diventata negli anni, suo malgrado, ricettacolo di clientele e favoritismi – la realtà del 2021 si scontra con una penuria di mezzi e uomini disarmante.

    Nel territorio del parco svolgono servizio 5 autobotti dell’azienda Calabria Verde – a cui si devono aggiungere quelle dei vigili del fuoco che operano nelle caserme comprese entro i confini del parco – più una del consorzio di bonifica. Sei mezzi in totale, dei quali quattro stazionano in aree di competenza dell’ente e due sono invece parcheggiate, rispettivamente, a Reggio e Roccella, decine di chilometri lontani dalle montagne.

    La localizzazione delle autobotti attive nel Parco nazionale d’Aspromonte
    La localizzazione delle autobotti e della altre strutture A.I.B. nel Parco del Pollino

    Stesso discorso per i pick-up, i mezzi in genere in forza alla protezione civile e che hanno comunque una capacità di una cisterna ridotta che varia tra i 300 e i 500 litri. Nel parco d’Aspromonte sono sette, disseminati un po’ a pelle di leopardo e per fare rifornimento, spesso devono fare tragitti di ore con tempi morti che posso risultare decisivi. Il confronto con la forza schierata dal parco nazionale del Pollino – per buona parte ricadente in Calabria – è disarmante.

     

    Il prezzo della sicurezza

    Tra una sagra al fantomatico km zero culinario e uno spot tra vecchi con la coppola storta, i fondi destinati alle cose serie sono andati via via scemando e così, anche il parco d’Aspromonte si è trovato a fare i conti con la nuova realtà. Una realtà così striminzita che ha portato l’ente a stilare un piano di spesa antincendio di 120mila euro l’anno valevole fino al 2022. Una somma ridicola – solo mandare in tv durante le Olimpiadi il mortificante spot targato Muccino è costato cinque volte di più alle casse pubbliche – che comprende le spese per le attività di previsione, prevenzione, avvistamento, acquisto macchine e attrezzature, attività informative, sorveglianza e interventi di recupero.

    Sintesi economica del piano A.I.B. del Parco d’Aspromonte

    In soldoni, fanno circa due euro per ettaro speso in prevenzione e spegnimento. Un recinto striminzito, stretto tra 100mila di fondi propri e 20mila bollati come «altri fondi» che per oltre metà (70mila euro) viene investito per pagare le squadre di sorveglianza e che lascia alle attività di prevenzione (interventi di silvicoltura, piste forestali, punti d’acqua) una mancia di 30 mila euro.

  • Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Quella trattativa Stato-‘Ndrangheta dopo la strage di Duisburg

    Da quattordici anni a questa parte, la Germania e l’Europa sembrano aver imparato molto poco nel contrasto al crimine organizzato. Eppure, la strage di Duisburg fece “scoprire” a tutto il Vecchio Continente la presenza oppressiva, pericolosa, sanguinaria della ‘ndrangheta.

    Scorre il sangue a Duisburg

    È la notte tra il 14 e il 15 agosto del 2007 quando sul suolo tedesco, a Duisburg, restano sull’asfalto in sei. Davanti al ristorante italiano ”Da Bruno” nell’inferno di piombo rimasero uccisi Tommaso Venturi che aveva appena compiuto 18 anni, i fratelli Francesco e Marco Pergola di 22 e 20 anni, Francesco Giorgi appena 17enne, Marco Marmo di 25 anni, e Sebastiano Strangio di 39 anni.

    Secondo quanto accertato dagli investigatori, quella sera nel ristorante non era stato soltanto festeggiato il compleanno di Venturi. Ma anche la sua ammissione nella ‘ndrangheta, avvenuta con la maggiore età. La cerimonia della “copiata”, conclusa, come da tradizione, con il giuramento proferito dal nuovo accolito mentre si lascia bruciare tra le mani un’immaginetta sacra. Il santino di San Michele Arcangelo, ritrovato proprio addosso a al 18enne Venturi. Vengono falciati da oltre 70 colpi. Tra cui, quello finale, alla testa.

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    Giovanni Strangio, considerato la mente del commando che agì a Duisburg

    Un eccidio che, nel corso degli anni, gli inquirenti calabresi ricostruiranno, portando a condanne definitive. Tra cui quella di Giovanni Strangio, punito col carcere a vita perché considerato la mente del commando entrato in azione nel giorno di Ferragosto. Strangio verrà arrestato il 12 marzo del 2009 in Olanda, a Diemen, piccolo centro vicino ad Amsterdam.

    Una scia di sangue iniziata nel 1991

    Una mattanza che la vulgata fa iniziare con un banale scherzo di trent’anni fa, protraendosi però, con una lunghissima scia di sangue, per decenni tra le famiglie contrapposte Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Quel massacro fece conoscere a tutti la pericolosità della ‘ndrangheta, che, da decenni, ha allungato i propri tentacoli in Germania, nei Paesi Bassi, in Francia, nel Regno Unito, in Svizzera, in Spagna e in Austria. In questi luoghi le ‘ndrine agiscono quasi del tutto indisturbate, con il traffico di droga e di autovetture. Ma anche con il riciclaggio di denaro attraverso aziende e locali. Forte la presenza di San Luca, con le famiglie Romeo-Pelle-Vottari e Nirta-Strangio. Ma anche i Farao-Marincola di Cirò (Crotone) e i Pesce-Bellocco di Rosarno (Reggio Calabria).

    Una lunga scia di sangue nata con il lancio di uova tra famiglie “rivali” nel Carnevale del 1991. La violenza, nei mesi antecedenti a Duisburg, coinvolse il boss Francesco Pelle, in quel periodo 32enne, detto ‘Ciccio Pakistan’, che perse l’uso delle gambe in un agguato il 31 luglio 2006. Un tentato omicidio di cui si vendicò ordinando la strage di Natale del 2006 in cui morì una donna, Maria Strangio. Per errore. Il vero obiettivo, fallito dai sicari, era il marito Gianluca Nirta.

    Gli uomini “cerniera”

    Quella mattanza sul suolo tedesco sembra non aver insegnato nulla alla Germania e all’Europa. Le normative con cui i singoli Paesi contrastano il crimine organizzato continuano a essere inadeguate. E carenti anche i collegamenti investigativi tra Stati. Ma per le mafie non esistono confini. Soprattutto per la ‘ndrangheta. Nei mesi successivi alla strage di Duisburg si attiverà soprattutto l’Autorità Giudiziaria italiana: la Dda di Reggio Calabria chiuderà il cerchio con diversi tronconi dell’inchiesta “Fehida”.

    Negli anni, il processo “Gotha” ha anche ricostruito (seppur con una sentenza di primo grado) le trame che seguirono quei mesi di sangue. Un contesto torbido in cui membri dell’Arma dei Carabinieri, del Ros, in particolare, sarebbero stati in contatto con uomini di ‘ndrangheta e soggetti “cerniera”. Patteggiando per arrestare alcuni latitanti.

    I protagonisti sono l’avvocato Antonio Marra, considerato trait d’union tra lo Stato e le cosche, e l’ex parroco di San Luca e rettore del Santuario di Polsi, don Pino Strangio. Ambedue condannati in primo grado nel maxiprocesso “Gotha”. I due avrebbero svolto un ruolo di intermediazione, con l’accordo di alcuni ‘ndranghetisti di rango, per interloquire con canali ritenuti “non istituzionali”. Tutto al fine di acquisire notizie utili per la cattura di alcuni latitanti “sanlucoti”. In particolare Giovanni Strangio, poi arrestato dalla Polizia in Olanda.

    Rapporto intenso quello tra Marra e don Strangio. I due avrebbero interloquito, talvolta in maniera equivoca e torbida, con alcuni membri del Ros dei Carabinieri. In quegli anni, almeno fino all’arrivo di Giuseppe Pignatone a capo della Procura di Reggio Calabria, funzionava in quel modo in riva allo Stretto. Marra e don Strangio sarebbero stati elementi di collegamento. Pedine di un sistema fatto di accordi, confidenze e soffiate e in cui si trovavano magistrati, ‘ndranghetisti, forze dell’ordine e membri dei servizi segreti.

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    Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria

    La Trattativa Stato – ‘Ndrangheta

    In una conversazione intercettata, don Pino Strangio fornisce a un appartenente del Ros i nominativi dei “sanlucoti” per i quali erano stati intrapresi determinati accordi per suo tramite. ‘Ndranghetisti che la Squadra Mobile identifica in Antonio Romeo, classe 1947, detto “Centocapelli” e considerato affiliato alla ‘ndrangheta di San Luca, in quel periodo detenuto a Parma; Antonio Romeo, classe 1957, detto “Il Gordo”, latitante a seguito dell’operazione denominata “Super Gordo” dai primi mesi del 2005, veniva tratto in arresto da personale del Commissariato di P.S. di Bovalino (RC) coadiuvato da personale del Commissariato di P.S. di Siderno (RC) in data 28.5.2008); Fortunato Giorgi, cognato di Romeo “Centocapelli” e inserito a pieno titolo nella consorteria dei Romeo alias “Stacchi”, legati a quella dei Pelle alias “Gambazza”.

    I carabinieri che interloquirono con Marra e don Strangio negli anni finiranno pure sotto inchiesta. Ma alla fine otterranno un’archiviazione. Quello che il processo “Gotha” avrebbe dimostrato è il fatto che lo Stato avrebbe trattato per arrivare ad alcuni risultati investigativi che placassero la mattanza. Mettendo sul piatto della bilancia il trasferimento di carcere di alcuni detenuti.

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    In quegli anni, il Ros dei carabinieri aveva due anime. Una di queste credeva alla strategia secondo cui si dovesse attingere alle fonti confidenziali per arrivare ad alcuni risultati investigativi. Fonti che, quasi sempre, chiedono qualcosa in cambio. Stando a quanto ricostruito dalle indagini, sarebbero stati proprio i membri del Ros a contattare Marra per penetrare il territorio di San Luca. E per stringere il cerchio su alcuni latitanti. E poi il legale si sarebbe rivolto a don Pino Strangio. Il prete è, in quel periodo, rettore del Santuario della Madonna di Polsi. È, quindi, molto ben inserito sul territorio della Locride.

    L’accordo salta

    Marra e don Strangio avrebbero anche interloquito con alcuni magistrati. Anche se non si scoprirà mai il contenuto di tali interlocuzioni. Secondo le intercettazioni a carico dell’avvocato Antonio Marra si sarebbero anche tenuti degli incontri a San Luca. In quella sede sarebbero stati presi accordi con alcuni ‘ndranghetisti. Proponendo a essi vantaggi e favori in cambio di un aiuto per la cattura di alcuni latitanti. Tra cui, appunto, quella di Strangio.

    Funzionava così. Del resto, lo testimoniano anche le indagini sul conto della famiglia Lo Giudice. Negli stessi anni, la cosca aveva rapporti privilegiati con forze dell’ordine e magistrati. Lo stesso avvocato Marra viene definito dai carabinieri che interloquivano con lui una fonte preziosa sul territorio. Nel doppiogioco tra Stato e ‘ndrangheta, evidentemente: «Aveva delle conoscenze…».

    Nel post strage di Duisburg si tentò di fare lo stesso. Ma nel frattempo, in riva allo Stretto è arrivato il procuratore Giuseppe Pignatone. L’accordo salta, anche perché i carabinieri che avevano imbastito la trattativa subiscono il trasferimento. Marra non la prende benissimo, parlando al telefono con un altro membro dell’Arma, distaccato ai Servizi Segreti: «Ora sono in un mare di guai perché… per due cose, primo perché là ora, ora non so che cazzo dirgli di tutte le cose che siamo andati a dirgli, e a fare…eee… sembra poi che li abbiamo presi per il culo».

    Così si conclude una trattativa, su cui, ancora, restano alcuni punti interrogativi: «A me non me ne fotte niente… cioè a dire io posso pure andare a san Luca a dirgli “guardate! sono una massa di buffoni, i soliti sbirri, dicono le cose e non le mantengono!».

  • Quanto costa una poltrona in Consiglio regionale?

    Quanto costa una poltrona in Consiglio regionale?

    «Cinquemila euro tra prosciutti, soppressate, caciocavallo e ogni sera una cena nella tavernetta di casa mia. Così, sono stato eletto». Le parole soddisfatte pronunciate nell’era Loiero da Salvatore Magarò, ex consigliere regionale, hanno fatto storia. Difficile emularlo oggi, vuoi per il Covid, vuoi per una campagna elettorale al “sapore di sale”.
    Il 3 e 4 ottobre prossimi si svolgeranno le elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale e gli aspiranti candidati hanno iniziato a farsi i conti in tasca e a cercare sponsor. Soprattutto i consiglieri uscenti, in carica da appena un anno e mezzo. Troppo alto il rischio di investire risorse senza centrare l’obiettivo: una poltrona in aula Fortugno, che vale dai 12mila ai 18mila euro al mese.

    Web e nostalgia

    Da più di dieci anni anni la campagna elettorale viaggia anche sul web, sui social network in particolare, con Facebook che la fa da padrone. Dopotutto, ormai chi non ha almeno un profilo Fb? Gli elettori sono a portata di clic, ma non sempre gratis.
    La sponsorizzazione dei contenuti è diventata prassi: si sceglie l’area d’interesse, il numero di utenti da raggiungere magari indicando sesso, età e orientamento politico. Si decide il budget e via. Anche dieci euro su un singolo post permettono di raggiungere numeri virtuali inaspettati.

    Per i nostalgici della comunicazione elettorale, invece, ci sono sempre i mezzi tradizionali. E via libera allora a vele, cartelloni 6×3, manifesti, santini, pieghevoli, pubblicità su radio, giornali e spot tv. I costi sono variabili. Un 6X3 con affissione quindicinale costa, per ogni postazione, da 150 ai 250 euro, comprensiva di stampa e affissione, costo maggiorato di circa 50 euro se le grafiche sono a carico dell’agenzia. Ma se si vuol vedere il proprio faccione a dimensioni maxi, bisogna affrettarsi. Il 6×3 può essere affisso sino a 40 giorni prima dalla data delle elezioni.
    Pochi temerari tenteranno l’impresa, basti pensare che a un mese e mezzo dalle elezioni ancora non si ha certezza sui candidati alla presidenza, figurarsi dei consiglieri e delle liste.

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    Il prezziario di una tipografia nel periodo della campagna elettorale

    I più sceglieranno i classici manifesti 70×100 (a soli 0,30 centesimi l’uno), le vele che potranno essere fisse (50 euro a giorno) o in movimento (100 euro per percorrere 100 km). Ma la carta è carta. E mentre i volti dei candidati invaderanno l’etere, le chat di Whatsapp, le stories di Instagram, saremo inondati di santini (1000 pezzi a 30 euro), fac simile (sino a 0,11 centesimi per pezzo), cartoline (0,50 centesimi cadauna), pieghevoli (140 euro per duemila pezzi).
    I più avveduti penseranno anche alle pubblicità su giornali, riviste, siti on line, spot radio e tv. Anche se l’ultima frontiera è la pubblicità sui cartelloni a led: passaggi di 15 secondi più volte al giorno. Costi personalizzati.

    Giuro che è così

    Al termine della campagna elettorale, il consigliere eletto dovrà presentare entro tre mesi dall’elezioni un rendiconto obbligatorio (art.7. comma 6, legge 10 dicembre 1993 n. 515) nel quale dettagliare il più possibile gli eventuali contributi ricevuti e le spese sostenute nel corso della campagna elettorale. La normativa (legge 43/95, art .5. comma 1) impone un limite di spesa ad ogni candidato consigliere pari a 38.802,85 euro più 0,0061 euro per ogni cittadino residente nella Circoscrizione. Equivalgono a 4.357 euro in più per la provincia di Cosenza, 3250 per Reggio Calabria, 4346 euro per l’area centrale.

    In caso di mancata comunicazione, le sanzioni saranno severe: sino al pagamento del triplo dell’importo non dichiarato e l’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
    Il Collegio regionale di garanzia elettorale può comminare una multa anche per chi sfora il tetto di spesa con una ammenda sino al doppio dell’importo non comunicato e l’eventuale decadenza dalla carica.
    Ma come non fidarsi di un consigliere eletto che nel modello di rendicontazione firma tale dichiarazione: «Sul mio onore affermo che la dichiarazione concernente le spese sostenute e le obbligazioni assunte per la propaganda elettorale corrisponde al vero».

    2014, spese al limite

    Pino Gentile per essere rieletto nel 2014 ha speso quanto la candidata alla carica presidenziale Wanda Ferro, poco meno di 30mila euro.
    Al limite della spesa, il suo ex discepolo Giuseppe Graziano. Sfiora i 39mila euro, anche se è l’unico candidato a inserire nel rendiconto delle spese elettorali i nominativi e gli importi ricevuti dai finanziatori: 39mila euro di contributi a fronte di 38.500 di spese. Oltre a diversi sostenitori, emerge l’azienda Consulecos di Bisignano, da anni impiegata nell’erogazione di servizi ambientali tra cui la depurazione delle acque che investe 5.000 euro sul candidato di Rossano.

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    Il trasparentissimo Giuseppe Graziano e i suoi sostenitori

    Due, invece, le società di depurazione tra gli sponsor del consigliere regionale Giuseppe Aieta: Giseco srl e Smeco Srl. Versano 5000 euro ciascuna sul conto del mandatario elettorale, che beneficia anche dei contributi di due società romane, la Arbela srl e la Essevu spa, quest’ultima leader nel settore delle bomboniere.

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    I contributi ricevuti da Giuseppe Aieta nel 2014

    A Carlo Guccione primo degli eletti con 14797 preferenze è bastato 1,78 euro di investimento ad elettore per stravincere. Giuseppe Giudiceandrea, nonostante abbia usufruito del comodato d’uso gratuito della sede elettorale, nel 2014 ha chiuso la sua campagna elettorale con un debito di 4600 euro. Bilancio positivo invece per Nicola Irto. Sebbene le 12mila preferenze ha chiuso il suo percorso verso palazzo Campanella con un avanzo di novemila euro: 29mila euro di finanziamenti e appena 18.900 di spese.

    Per avere lo stesso risultato in termini di consenso Giuseppe Scalzo ha investito invece 28.770 euro. Male la campagna di propaganda di Giuseppe Mangialavori che ha sborsato 25mila euro per raggranellare appena 7.200 voti. Proporzione sfavorevole anche per Arturo Bova che entra in Consiglio con appena 2.924 voti a fronte di un investimento di 12mila euro.

    2020, pochi Paperoni e campagna più costosa

    Nel 2020 sono pochi i consiglieri che hanno investito più di 30mila euro. A fronte dei 290mila euro complessivi di spese dichiarate dagli eletti, è Flora Sculco ad aver speso di più con ben 31.398 euro.
    Una cifra monstre se si pensa che Marcello Anastasi è stato eletto spendendo appena 1.300 euro. Certo, la differenza si vede nel consenso. La dama crotonese ha preso 6.000 preferenze, mentre il callipiano appena 1.000 incassando lo stesso risultato: entrambi sono risultati eletti in Consiglio nelle fila della minoranza.

    Sceglie la via della morigeratezza per la sua seconda campagna elettorale anche Giuseppe Graziano, che spende poco meno di 7.000 euro.
    Drastica riduzione anche per Guccione che ottiene lo stesso risultato numerico di Graziano ma a fronte di meno della metà di quanto speso nella competizione precedente, 12.800 euro. Il sindaco di Orsomarso, Antonio De Caprio, spende e spande, ma con 12mila euro di investimento in propaganda elettorale ottiene appena 4mila voti.

    Saldo negativo per i due consiglieri del centrodestra Luca Morrone e Pietro Molinaro. Per l’ex presidente del consiglio comunale di Cosenza la campagna elettorale si chiude con un meno 15mila euro. Tra i creditori tre agenzie di affissioni e comunicazione. Stessa tipologia di debito per l’ex presidente della Coldiretti, ma entità ridotta di oltre due terzi.

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    Il prospetto dei debiti non ancora onorati da Luca Morrone al momento della rendicontazione delle sue spese elettorali
    L’attesa ripagata

    Tuttavia, c’è chi non si lamenta di lavorare a perdere durante la campagna elettorale, come è accaduto alla Spot Channel, tipografia storica del Partito Democratico e del già presidente Mario Oliverio. L’attesa alla fine viene ripagata. Tant’è che per due annualità 2016/2017 ha vinto il Bando Cultura per il progetto Transumanze del valore di 108.428 euro. Ma non è tutto: negli anni della presidenza Oliverio, Spot Channel si è aggiudicata anche diversi eventi di promozione, un progetto di comunicazione del Corap di 20mila euro e il progetto Rosso Calabria, dedicato alla promozione del vino. Spot Channel gode di buoni uffici anche con la presidenza Spirlì, sarà che a capo del dipartimento Agricoltura c’è il sempreverde Giovinazzo.

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    Il finanziamento per Transumanze andato alla Spot Channel

    Tra i tanti provvedimenti licenziati dal dipartimento da lui diretto c’è il Programma di sviluppo rurale della Calabria 2014/2020. La campagna di comunicazione pubblicitaria e attività convegnistica relativa al PSR Calabria 2014-2020 , con importo a base d’asta di euro 120.000, è stata avviata con decreto 6884 del 02/07/2021 a contrarre attraverso il Mepa (Mercato elettronico della Pubblica amministrazione). Invitate una ventina di ditte, al 9 luglio 2021 è pervenuta la proposta di Spot Channel di Arci Angelo & C. sas di Rende (CS) – l’avviso non specifica se sia l’unica arrivata – alla quale viene aggiudicato il servizio per l’importo di euro 118.500 oltre Iva come da decreto dirigenziale 7819 del 28/07/2021.

    Lo strano caso di Frank Santacroce

    Frank Santacroce approda in consiglio regionale il 6 luglio 2020 subentrando a Domenico Tallini, coinvolto in una procedimento giudiziario. Anche lui, poco dopo, sarà indagato per rivelazione di segreto d’ufficio in concorso in merito a un’inchiesta sulle cosche di San Leonardo di Cutro.
    Ebbene, Santacroce ottiene 4.920 voti nelle fila di Forza Italia, ma nel rendiconto finanziario ha dichiarato di aver ricevuto zero euro di finanziamenti e di aver effettuato zero euro di spese. Peccato che sulla rete e nelle diverse manifestazioni pubbliche organizzate si contino diversi manifesti e passaggi elettorali. Chissà chi avrà pagato…

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    Frank Santacroce durante un comizio con manifesto in bella mostra
    Il record di Sainato

    Raffaele Sainato diventa consigliere regionale con 3.897 preferenze. Un vero record se si pensa che per la campagna elettorale ha speso appena 1.424 euro e che l’ex sindaco di Locri è stato da poco indagato per scambio politico mafioso insieme a Nicola Paris, cugino di primo grado del più noto consigliere regionale Nicola Irto.

    Flora Sculco regina di sponsor

    Flora Sculco è tra i consiglieri eletti una di quelli che investe moltissime risorse in propaganda elettorale. Dopotutto è tra i candidati che ricevono maggiori finanziamenti.
    Tra i suoi principali supporter si annoverano nel 2014 imprenditori della sanità privata, società di autotrasporti, imprese edili del territorio e la sempre ricorrente Consuleco.
    Nel 2020 i contributi si dimezzano, passando da 38mila e 19.500 euro. Ma il main sponsor Marrelli Hospital resta (7.000 euro) e a fargli compagnia si aggiunge l’azienda agricola Le Verdi Praterie Agricole.

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    I contributi ricevuti da Flora Sculco nella precedente consiliatura
    Due mandati, costi diversi

    Otto sono i consiglieri eletti e poi riconfermati nelle ultime due competizioni elettorali: Aieta, Arruzzolo, Bevacqua, Guccione, Irto, Neri, Sculco, Tallini. Ad essi si aggiungono, a modo loro, Ennio Morrone nel 2014 e il figlio Luca nel 2020.
    Giuseppe Neri è un caso a sé:in entrambe le competizioni si è trovato eletto con la coalizione vincente e ha speso pressoché lo stesso importo 4.850 euro (2014) e 4.299 euro (2020).
    La spesa per la propaganda elettorale, però, è generalmente maggiore quando il candidato consigliere mira a uno scranno in maggioranza e inferiore quando sa, per la legge dell’alternanza che governa la Regione Calabria, che andrà tra le fila della minoranza.
    Fanno eccezione Tallini, che ha speso 7.200 euro nel 2014 e appena 4.473 euro nel 2020, e Mimmo Bevacqua. Il democrat ha investito di più (13.450 euro) nel 2020 – forse per paura di non riuscire ad entrare in Consiglio – e meno nel 2014 (8.748 euro).

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    La differenza tra le spese sostenute dai consiglieri eletti sia nel 2014 sia nel 2020
    Le voci di spesa

    Nella compilazione del rendiconto, la maggioranza dei consiglieri sceglie, tra le tante disponibili, quasi sempre un’unica voce di costo: materiale di propaganda elettorale.
    Mettendo sempre zero euro a tutte le altre voci previste.
    Non poco imbarazzo, dunque, nel leggere il report di Domenico Creazzo. Dichiara di aver speso 4mila euro per la realizzazione di materiali elettorali e 3.600 euro di carburante per propaganda elettorale. Ma neanche un centesimo per la distribuzione del materiale elettorale. Ad eccezione di Carlo Guccione, tutti dichiarano zero euro per spese di personale: sarà che il volontariato da campagna elettorale viene ripagato una volta superato l’ostacolo con le ricche retribuzioni da portaborse e consulenti.