Categoria: Inchieste

  • Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Il racconto del supertestimone: «Così smaltivano i rifiuti radioattivi»

    Cosa resta di tutte quelle trame [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE DELL’INCHIESTA]? Poco o nulla sotto il profilo processuale e giudiziario. Molto, sotto il profilo storico. Un contesto nebuloso, perché i protagonisti di quelle trame si muovono a livelli altissimi. Potenti multinazionali, Stati stranieri, faccendieri e centri di potere. E, ovviamente, la criminalità organizzata.

    Le indagini di due distinte autorità giudiziarie hanno potuto solo in parte delineare quel contesto, anche per la vastità dei territori toccati. Dalla Calabria alla Basilicata, passando per il Piemonte, se ci riferiamo solo al territorio nazionale. Ma con il coinvolgimento di uno Stato straniero, perennemente in guerra: l’Iraq.

    Il supertestimone

    Percorsi e intrecci pericolosi ricostruiti anche, qualche anno fa, dalla relazione della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, firmata da Gaetano Pecorella e Alessandro Bratti. Fili difficili da riannodare. Anche perché è difficile ricostruire il contesto affaristico-criminale di quel periodo a distanza di alcuni lustri.

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    Nel caso dell’Iraq, i passaggi sulla presunta gestione dei centri Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli) verranno tratteggiati da un funzionario dell’ente, Carlo Giglio. Questi chiederà espressamente alla polizia giudiziaria di essere sentito. Dopo aver appreso dalla stampa che la Procura di Reggio Calabria si stava occupando di traffici illegali di rifiuti radioattivi in Calabria.

    Il centro Enea di Rotondella

    L’impianto ITREC (acronimo di Impianto di Trattamento e Rifabbricazione Elementi di Combustibile) è un impianto nucleare italiano costruito tra il 1965 e il 1970 dal CNEN, Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare. Un centro che da sempre è gravitato anche nell’orbita statunitense.

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    Il racconto di Giglio è inquietante. Secondo il funzionario, la registrazione degli scarti nucleari era truccata. Per rendere incontrollabile il movimento in entrata e in uscita di tutto il materiale radioattivo che doveva essere gestito presso tutti gli impianti nucleari. Agli atti della Commissione Ecomafie rimane anche la grande paura dell’ingegner Giglio. Con la sua opera ispettiva si attirerà anche le ire della proprietà dei centri Enea di Rotondella e Saluggia. Denunce per diffamazione e calunnia.

    Iraq e Calabria: una storia di armi e rifiuti

    Giglio parla poi di una presunta attività clandestina dell’Enea finalizzata a fornire tecnologia e materiale nucleare all’Iraq (12.000 kg di uranio), delle reazioni del governo americano e dei servizi segreti israeliani. Le dichiarazioni di Giglio agli atti della Commissione riguardano una presunta attività di fornitura da parte dell’Italia all’Iraq di armi da guerra (comprese navi) e di tecnologie nucleari.

    In quel periodo, peraltro, giunge anche la notizia che la nave Koraby, battente bandiera albanese e salpata dal porto di Durazzo con destinazione Palermo, era stata perquisita nella rada antistante Pentimele, a Reggio Calabria. il sospetto era che trasportasse materiale radioattivo. Scorie di rame di altoforno, in particolare.

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    Il porto di Durazzo

    La nave, giunta a Palermo, era stata respinta per radioattività del carico. Tuttavia, al successivo controllo presso il porto di Reggio Calabria, ove si era ormeggiata, la radioattività scompare dai rilevamenti. La nave aveva, perciò, ripreso la sua navigazione con destinazione Durazzo. L’inquietante ipotesi è che la nave si sia disfatta del carico radioattivo nel percorso tra Palermo e Reggio Calabria.

    Una joint venture internazionale, in cui, però, l’avamposto italiano sarebbe stato rappresentato dalle due principali organizzazioni criminaliCosa Nostra e ‘Ndrangheta. La scelta di Palermo come punto di riferimento per il traffico clandestino di materiale nucleare non è occasionale, ma mirata. Solo la mafia o le altre organizzazioni criminali operanti al Sud potevano garantire quella attività di copertura necessaria per tali traffici.

    pizzimenti

    «Altro aspetto inquietante del traffico illecito di materiale radioattivo concerne lo smaltimento effettuato, con la supervisione dell’Enea, da parte dell’Enel di rifiuti radioattivi la cui destinazione è a tutt’oggi ignota. Mentre la conferma che la Calabria è stata utilizzata come deposito illecito di materiale radioattivo è data dalla scoperta di una discarica abusiva di un tale Pizzimenti», si legge agli atti della Commissione Ecomafie.

    L’ingegnere Carlo Giglio

    Affermazioni riservate. Gravissime. Che tirano in ballo colossi industriali, Stati stranieri e centri di potere internazionali. Per questo, negli anni, si prova a proteggere Giglio, cui gli investigatori assegnano lo pseudonimo “Bill”. Un luogo chiave, quindi, sarebbe il centro Enea di Rotondella. Nelle sue affermazioni, Giglio-Bill sostiene la non corretta tenuta della contabilità all’interno del centro Enea di Rotondella tale da consentire l’uscita di rifiuti radioattivi erroneamente definiti “scarti”.

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    Una nave carica di sostanze chimiche partita dall’Italia con destinazione ufficiale il Venezuela, ma approdata in Siria

    L’ipotesi investigativa paventa l’esistenza di un traffico illecito di rifiuti radioattivi (negli anni ’80/’90) destinati ai paesi del Terzo Mondo, in particolare Iraq, Pakistan e Libia, per la produzione di ordigni atomici. Tutto anche grazie all’insussistenza di un’effettiva ed efficace attività di controllo tra Enea ed Enel. Nonché la totale inefficienza della Nucleco, società costituita tra Enea ed Agip, per il trattamento dei rifiuti radioattivi.

    Iraq e massoneria deviata

    A detta di Giglio, infatti, anche l’Italia avrebbe disperso in mare le scorie radioattive: «L’Ente (Enea) è in grado di riferire dove, come e quando», afferma l’ingegnere-ispettore. Giglio diventa un testimone prezioso per le indagini congiunte delle Procure di Reggio Calabria e Matera. I risvolti investigativi delle inchieste sulle “navi dei veleni” e delle presunte trame attorno al centro Enea, infatti, vanno a intrecciarsi.

    Un ente, l’Enea, che, sempre secondo le dichiarazioni rilasciate da Giglio ai magistrati Francesco Neri e Nicola Maria Pace, sarebbe stato infiltrato dalla massoneria: «Proprio per il tramite della massoneria deviata i traffici illeciti del materiale nucleare e strategico o quelli relativi allo smaltimento in mare possono essere attuati nell’ambito dell’Ente ai massimi livelli e con la copertura più ferrea compresa quella con i servizi deviati, da sempre e notoriamente coinvolti in detti traffici».

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    Un passaggio della relazione firmata da Pecorella e Bratti

    Proprio partendo dalle dichiarazioni di Giglio, il procuratore di Matera, Nicola Maria Pace, farà acquisire una serie di documenti. Da cui risulterà che l’Italia, nel 1978, aveva ceduto all’Iraq due reattori plutonigeni Cirene. Accertando, poi, che presso la centrale Enea di Rotondella vi era la presenza continuativa di personale iracheno. Le accuse di Giglio, comunque, non saranno mai provate dal punto di vista processuale.

  • Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    Scorie, ‘ndrine e Servizi Segreti: Calabria laboratorio criminale

    La discarica d’Italia. E forse non solo. Questa è stata la Calabria. Non solo sotto il profilo degli accordi, i patti, le connivenze, tra il mondo criminale e pezzi deviati dello Stato. Non solo come laboratorio criminale, quindi. Ma in senso stretto. Un territorio “a perdere”, dove poter sperimentare le peggiori alleanze. E dove poter occultare scorie di ogni tipo. Ben oltre la “Terra dei fuochi”. Qui non parliamo di “monnezza”. Ma di rifiuti tossici. Di scorie nucleari. Di materiale radioattivo.

    Il carteggio

    Qualcosa che sarebbe iniziato già tra gli anni ’70 e ’80. Lo dimostra il fitto scambio di comunicazioni, di cui I Calabresi vi hanno già dato conto qualche settimana fa. Comunicazioni tra pezzi dello Stato. Servizi segreti, forze dell’ordine, magistratura. Ma, forse, non tutti giocavano nella stessa squadra.

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    Matteo Renzi ai tempi in cui guidava il Governo

    Un carteggio iniziato almeno dal 1992. Fu la decisione dell’allora Governo presieduto da Matteo Renzi a far toccare con mano quanto fosse già nella conoscenza di diverse autorità investigative circa il traffico di rifiuti tossici e radioattivi che avrebbero avuto per teatro la Calabria. Tra gli atti desecretati sulle “navi dei veleni” e sull’omicidio dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin ci sono anche quelle note dei Servizi Segreti con cui viene segnalato l’interesse delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito di scorie nucleari sul suolo calabrese.

    Le note “riservate”

    Oggi è possibile documentare alla fine del 1992 la prima comunicazione ufficiale. Ma “riservata”. Come da DNA dei Servizi Segreti. È il 17 novembre 1992 quando gli 007 del Centro di Reggio Calabria segnalano come i fratelli Cesare e Marcello Cordì, all’epoca latitanti, avrebbero gestito lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e radioattivi provenienti da depositi del Nord e Centro Italia. Rifiuti sotterrati lungo i canali scavati per la posa in opera di tubi per metanodotti nel Comune di Serrata, in provincia di Reggio Calabria.

    I rifiuti – è scritto nella nota dei Servizi – «verrebbero sotterrati, grazie alla copertura dei predetti fratelli, lungo canali scavati la posa dei tubi del metanodotto in via di costruzione presso il fiume Mesima e più precisamente nella contrada Vasi». Addirittura, la nota dei Servizi individua anche il mezzo utilizzato per effettuare la manovra. Un camion del Comitato Autotrasportatori CAARM.

    Contestualizziamo: Cosa Nostra ha appena ucciso i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in quel terribile 1992. Ovviamente, tutta l’attenzione è concentrata, quindi, sulla potenza e sulle connivenze della mafia siciliana. E così, la ‘ndrangheta imperversa. Con soggetti, la cui importanza ci è ormai chiara solo da qualche anno.

    Il “Tiradritto”

    Uno di loro è il boss Giuseppe Morabito, il “Tiradritto” di Africo. Catturato dal Ros dei Carabinieri il 18 febbraio 2004. In quel periodo, invece, il “Tiradritto” è latitante. E “attivamente ricercato”, come si dice in gergo. Di lui si occupano anche i Servizi Segreti. Gli 007 segnalano come in cambio di una partita di armi, Morabito avrebbe concesso l’autorizzazione a far scaricare, nella zona di Africo, un non meglio precisato quantitativo di scorie tossiche. E, presumibilmente, anche radioattive, trasportate tramite autotreni dalla Germania.

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    «Gli accertamenti e le indagini tuttora in corso – scriveranno dai Servizi – hanno consentito di acclarare che l’area interessata allo scarico del materiale radioattivo sarebbe compresa nel territorio sito alle spalle di Africo e segnatamente nella zona di Santo Stefano-Pardesca-Fiumara La Verde». Anni dopo, molti anni dopo, emergerà come in alcune zone di Africo vi sia un’incidenza tumorale e di malattie neoplastiche insensata per quel territorio. Privo di apparenti agenti inquinanti.

    Forse, a posteriori, quindi una spiegazione arriva proprio da quelle note “riservate” sul conto della ‘ndrangheta che conta. Perché quelle informative dei Servizi erano piuttosto circostanziate: «In contrada Pardesca è stato riscontrato un tratto di terreno argilloso rimosso di recente. Verosimilmente, per l’interramento di materiale di ingombro. Nello stesso tratto è stato rinvenuto, altresì, un bidone metallico di colore rosso adagiato sul terreno».

    Settemila fusti

    Gli atti desecretati alcuni anni fa dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, mostrano anche come alla fine del 1994 i Servizi Segreti segnalassero l’esistenza di numerose discariche abusive di rifiuti tossico-radioattivi, ubicate nella zona aspromontana e nel Vibonese. Lì esponenti della cosca Mammoliti avrebbero occultato sostanze pericolose provenienti dall’Est Europa. Via mare e via terra. Anche in questo caso, la segnalazione arriva al Ros.

    Documento desecretato 2

    In quegli anni è molto attivo il ruolo del SISMI e del SISDE. Ciò che colpisce è che dietro questi affari, vi sia la “grande ‘ndrangheta”. Quella dei Cordì e quella dei Morabito per la Locride. I Mammoliti, da sempre clan importante a cavallo della provincia di Reggio Calabria e di quella di Vibo Valentia. Ma anche di cosche che appartengono al gotha della ‘ndrangheta. Le famiglie che più di tutti hanno contribuito al salto di qualità della criminalità organizzata calabrese. I Servizi Segreti segnalano infatti l’esistenza di un vasto traffico nazionale riguardante lo smaltimento illecito di sostanze tossiche e radioattive attraverso il conferimento in discariche abusive per conto di tre tra le famiglie storiche della ‘ndrangheta reggina: i De Stefano, i Tegano e i Piromalli.

    Le note dei Servizi parlano addirittura di circa settemila fusti sparsi nelle discariche del Nord Italia, a opera delle cosche. Gli 007 arrivano anche a fare una mappatura: «Nella provincia di Reggio Calabria, i luoghi dove si trovano le discariche, per la maggior parte grotte, sono: Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (Cz), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (Cz)».

    Via mare e via terra

    Altri tempi. Luoghi come Serra San Bruno e Fabrizia ancora indicano la dicitura della provincia di Catanzaro. Fatti che riemergeranno solo molti anni dopo. Più di venti. Delle scorie, invece, neppure l’ombra. Eppure l’intelligence parla anche di un traffico di uranio rosso. E sottolineano, nero su bianco, i primi incoraggianti riscontri info-operativi. Attivando le proprie fonti, infatti, gli 007 acquisiranno ulteriori dati: «Le discariche presenti in Calabria sarebbero parecchie site, oltre che in zone aspromontane, nella cosiddetta zona delle Serre (Serra San Bruno, Mongiana, ecc.). Nonché nel Vibonese».

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    Il porto di Odessa

    In quella zona la famiglia Mammoliti, competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossici-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto in quell’area. Rifiuti che – stando alle note dei Servizi – sarebbero arrivati dall’Est dell’Europa per mare e per terra: «Il canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni. Il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir. Anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi».

    Il ruolo dei Servizi

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti anche le dichiarazioni del magistrato Alberto Cisterna. Per un determinato periodo, lavorerà al caso delle “navi dei veleni” e dei traffici di scorie sul territorio calabrese: «Va detto che in quel processo comparivano tante carte e non erano ben chiare le fonti. Questo si collega a quella vicenda su cui ho mantenuto una posizione precisa, ossia quando il servizio segreto militare offrì, nel cambio di titolarità, di proseguire nell’attività di collaborazione. Ricordo a mente che fosse una prosecuzione».

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    Sì perché – lo abbiamo visto – i Servizi c’erano eccome di mezzo: «Questa lettera arrivò in una doppia busta chiusa, cosa per me ignota. Ero stato giudice fino allora e, quindi, avevo poca esperienza di contatti che, per carità, magari sono anche normali. Operativamente anche in quegli anni si è lavorato con i Servizi, nella misura in cui offrivano ausilio informativo. Fino alla circolare Frattini, che fece divieto di queste forme di contatto. Non era il dato in sé che preoccupava. Quanto il fatto che non fosse chiaro in che cosa si dovesse estrinsecare questa collaborazione. D’accordo con il procuratore, la lettera venne cestinata e messa da parte, decidendo di non rispondere e di andare avanti per conto nostro”.

    La versione del Sismi

    Abbastanza criptico (e inutile) il contributo del direttore del Sismi dell’epoca, il generale Sergio Siracusa: «Il Servizio è sempre stato molto interessato alle scorie radioattive e a che fine facessero queste scorie. Non solo le scorie delle centrali in funzione, ma era anche interessato alle centrali già dismesse, per lo stesso motivo, ed anche allo smantellamento delle armi nucleari dovute agli accordi successivi alla caduta del muro di Berlino (…). Nel sommario delle attività svolte nel 1994 e precedenti inviata al Presidente del Consiglio c’è un capitolo proprio dedicato allo stoccaggio di materiale radioattivo in cui si indicava con un certo dettaglio qual era stata l’attività svolta. Vale a dire il censimento delle centrali nucleari, tutte quelle di interesse, comprese quelle dell’Europa orientale, quindi della Russia, della Comunità di stati indipendenti intorno alla Russia» dirà Siracusa.

  • Legnochimica, settanta tumori in attesa di verità

    Legnochimica, settanta tumori in attesa di verità

    C’è un aspetto particolare delle vicende della ex Legnochimica, finora non preso in considerazione dagli inquirenti: i malati e i morti di tumore.
    Non poteva essere altrimenti per più ragioni. Innanzitutto, la tardiva istituzione, qui in Calabria, dei registri tumori, gli unici strumenti da cui è possibile estrarre statistiche e dati apprezzabili. E, magari, ricavare indizi e prove.

    In seconda battuta, ha pesato non poco l’evoluzione delle normative sull’ambiente. Per capirci, fino all’85, l’anno in cui fu approvata la legge Galasso, il concetto di ambiente quasi non era definito a livello normativo. E, fino al 2015, anno in cui è stato codificato il reato di disastro ambientale, non esisteva una regolamentazione penale precisa e coerente sui danni all’ambiente. Tradotto in parole povere, molti comportamenti scorretti e dannosi, sono stati sanzionati solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80. Prima, chi ha potuto ha fatto danni in relativa tranquillità e con la coscienza a posto: la legge lo permetteva.

    Questo è un capitolo quasi non scritto della storia industriale italiana, che vale anche per Legnochimica, un’azienda piemontese specializzata nella produzione di pannelli in ledorex, che svolse il grosso della propria attività a Rende dai primi anni ’70 all’inizio del millennio.
    Difficile attribuire in maniera incontrovertibile i quasi settanta tumori, verificatisi tra gli ex dipendenti dell’azienda e gli abitanti delle zone adiacenti, alle attività industriali della fabbrica di legname per mobili. Soprattutto, questa attribuzione potrebbe non avere un’efficacia legale forte: cioè non darebbe luogo a incriminazioni e risarcimenti.
    E allora, perché raccontare questa storia? Perché i malati e i morti ci sono ed è doveroso seminare almeno dei dubbi.

    I numeri crudi

    Focalizziamoci sulla zona: attorno a ciò che resta della ex Legnochimica, che fino al 2006 è stata il cuore pulsante della zona industriale di Rende, ci sono via Settimo e Cancello Magdalone, due aree discretamente popolate (poco più di cinquecento abitanti).
    Chi ci vive fa i conti tutti i giorni con il puzzo terribile che emana dai tre laghi artificiali superstiti e dalle scorie dello stabilimento, che finché funzionò diede lavoro a centinaia di persone. Ma piange anche le morti dei propri cari o soffre per le loro malattie.

    I malati di tumore accertati fino al 2016 sono sedici. A questi si devono aggiungere altri dodici casi, avvenuti negli ultimi cinque anni. La conta macabra non finisce qui, perché si contano circa quaranta casi, molti dei quali mortali, tra gli ex dipendenti.
    Il dato più impressionante resta quello degli abitanti dell’area: via Settimo “cinge” letteralmente l’ex stabilimento e Cancello Magdalone ne dista poco meno di un chilometro in linea d’aria.

    Le testimonianze

    Tra le ultime ad andarsene, c’è Ada Occhiuto, un’anziana contadina (78 anni) scomparsa a fine 2016 per un tumore ai polmoni. «Io non ho mai fumato», aveva raccontato prima di morire, né il suo tumore poteva essere riconducibile ad altro. Ma nei suoi ricordi c’è una suggestione forte: «Abbiamo sempre vissuto qui, io e i miei familiari. Anzi, parte dei terreni su cui sorse Legnochimica erano di nostra proprietà». Nel suo caso, c’è “solo” la vicinanza all’area sospetta. Che non è poco.

    Adriana Ranieri, che abita a Cancello Magdalone, lotta da anni con due tumori al seno piuttosto invasivi, che l’hanno costretta a una mastectomia e a più sedute di chemio. Il tumore al seno può legare poco con l’inquinamento industriale? Forse.
    Ma può assumere un altro significato se lo si inserisce come si deve in una casistica ben fatta. A via Settimo, invece, abitava Eva Iorio, scomparsa nel 2013 per un tumore al Pancreas. Eva era vicina di casa d un’altra Adriana Ranieri.

    Il caso di quest’ultima è particolare: nel 2008 ha perso suo marito, Luigi Marchese, fulminato in due mesi da un tumore al pancreas, dopo aver perso suo padre, Umberto Ranieri, ucciso da un tumore alla vescica nel lontano ’99. Un’ulteriore testimonianza importante è quella di Immacolata Greco, anche lei residente a via Settimo, che ha perso suo marito Francesco Amato, che se n’è andato a fine novembre 2008 per un altro tumore al pancreas.

    Incidenza sospetta

    Questi casi, che abbiamo ricostruito attraverso le testimonianze dirette e le cartelle cliniche, hanno due tratti inquietanti: sono tutti tumori alle parti molli e tre di essi riguardano il pancreas. In altre parole, sono neoplasie compatibili con l’inquinamento industriale. In particolare, dà nell’occhio il numero di tumori al pancreas, che arriva a cinque. Un numero piuttosto alto per una patologia rara e sin troppo vistoso per il fatto che si è verificato nella stessa zona.

    Al riguardo, risulta incisiva la testimonianza di Carolina Niglio, medico di famiglia che ha diagnosticato vari di questi casi: «Ne certificai tre in meno di sei anni e quest’incidenza mi apparve sospetta, tant’è che ne informai il mio caposervizio». Con pochi risultati: era la fine degli anni ’10 e mancava il registro tumori. Che non è risolutivo neppure oggi, visto che è stato istituito nel 2015 ed è aggiornato al 2010.
    Per quel che riguarda gli altri casi, l’incidenza alle parti molli resta impressionante: ci sono un tumore all’intestino e almeno otto al polmone, non riconducibili al tabagismo.

    Gli ex lavoratori

    Un indizio in più proviene da Umberto Ranieri, di cui si è già parlato. Umberto, tra le varie, è stato dipendente dell’ex stabilimento.
    Proprio tra gli ex lavoratori il tumore ha imperversato alla grande, con circa quaranta casi. Inoltre, la loro vicenda ha un appiglio giudiziario, per quanto minimo: la Corte di Cassazione ha certificato, nel 2014, la presenza di attività ed elementi inquinanti nell’ex stabilimento, a partire dai capannoni in eternit, smaltiti nella seconda metà degli anni ’10, per finire all’uso di resine e solventi industriali, scaricati tutti nelle vasche di decantazione (i famigerati laghetti artificiali) e, da lì, penetrati nel suolo e nelle falde a grande profondità, come ha certificato lo studio redatto dal geologo e accademico Gino Mirocle Crisci, ex rettore dell’Unical e perito della Procura di Cosenza nell’inchiesta sulla ex Legnochimica.

    Un’ultima testimonianza importante è quella di Antonio Stellato, arzillo ex caldaista di Legnochimica, che ha lavorato per l’azienda dal ’69 alla sua chiusura.
    Stellato, autore di molte denunce pubbliche assieme all’associazione Crocevia e al comitato Romore, ha raccontato più volte alcuni aspetti non proprio edificanti dell’attività dell’ex stabilimento. «Fino agli anni ’80 sversavamo i rifiuti della lavorazione direttamente nel Crati. Ma continuammo a farlo anche dopo» e a dispetto della normativa, nel frattempo approvata.

    Come? «Li mettevamo nelle vasche ma poi, nottetempo, aprivamo i canali di collegamento che comunque finivano nel Crati».
    E gli ex dipendenti? «Circa una quarantina di loro si sono ammalati in maniera grave e molti non ci sono più». Anche in questi casi le cartelle cliniche sono agghiaccianti: tumori alle parti molli, che hanno cancellato persone in pochi mesi e flagellano i sopravvissuti.

    Un messaggio per il futuro

    Il numero complessivo di malati e morti, circa sessantotto, è piuttosto alto. Specie per una Regione come la Calabria, che ha sempre avuto un livello di industrializzazione piuttosto basso.
    Al netto delle statistiche, resta un bisogno di verità, invocata a gran voce dai residenti, dai familiari delle vittime e dalle associazioni ambientaliste.
    Se questa verità dovesse arrivare, sarebbe l’ennesimo paragrafo della parte oscura dello sviluppo industriale, quella in cui si racconta di come, per decenni si siano barattate la salute e la sicurezza con lo sviluppo e col lavoro.
    Un racconto a futura memoria che, in quanto tale, non può essere inutile.

  • Clan, scorie, 007: al nord condanne, qui 30 anni di misteri

    Clan, scorie, 007: al nord condanne, qui 30 anni di misteri

    È una storia che comincia 30 anni fa e che coinvolge i Servizi segreti, le loro fonti confidenziali e alcuni boss della ‘ndrangheta. E che testimonia come vadano certe cose in Italia. La prima parte si intreccia tra la Calabria e Roma e comincia negli anni ’90, quando le notizie e i riscontri raccolti dagli 007 cominciano a rivelare cose che farebbero impallidire il più spregiudicato degli allarmisti. Sono messe nero su bianco nelle carte custodite negli archivi del Parlamento.

    La seconda parte si svolge al Nord ed è invece tutta concentrata tra il 2018 e il 2021. Riguarda un boss passato attraverso diverse inchieste che ha conservato, o forse consolidato, il suo carisma, ma che nonostante la sua esperienza criminale si fa beccare a dirigere un traffico losco e condannato a 20 anni nel giro di pochi mesi. Ogni storia di ‘ndrangheta è storia di “tragedie” e faide. In questo caso i “malandrini” non si tradiscono solo tra di loro, con le scorie tradiscono e avvelenano la terra che sta sotto i loro piedi e quelli che la abitano.

    Affari di famiglie

    Reggio Calabria, agosto 1994. Informatori definiti «di settore» e «non in contatto tra di loro» riferiscono «notizie confidenziali» che, alla luce delle «prime verifiche», risultano «sufficientemente attendibili» e «foriere» di «interessanti sviluppi». Un uomo dei Servizi segreti descrive in questi termini, alla Direzione del Sisde di Roma, quanto ha appreso dai suoi informatori circa un presunto traffico internazionale di scorie radioattive in mano alla ‘ndrangheta.

    Si parla di un summit ad Africo tra il “Tiradritto” Giuseppe Morabito e «altri boss mafiosi del luogo»: in cambio di una partita di armi sarebbe giunta «l’autorizzazione» a scaricare in quella zona «un quantitativo di scorie tossiche e presumibilmente anche radioattive che dovrebbero arrivare dalla Germania, contenute in bidoni metallici trasportati a mezzo di autotreni». Si parla anche di un presunto traffico di «uranio rosso».

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    Reggio Calabria, ottobre 1994. I primi riscontri «info-operativi» sono «incoraggianti». Gli informatori «habent riferito» dell’esistenza di «parecchie» discariche di rifiuti tossici. Oltre che in zone aspromontane, si troverebbero «nella cosiddetta zona delle Serre (Serra S. Bruno, Mongiana ecc.) nonché nel Vibonese». I Servizi scrivono che «in quella zona la “famiglia” Mammoliti, la competente per territorio, avrebbe occultato rifiuti tossico-radioattivi lungo gli scavi effettuati per la realizzazione del metanodotto.

    Via mare e via terra

    Le scorie «proverrebbero dall’est europeo per mare e per terra con le seguenti modalità: canale via mare prenderebbe il via da porti del Mar Nero, dove le navi interessate oltre che scorie, imbarcherebbero droga, armi e clandestini provenienti dall’India e dintorni; il trasporto gommato proverrebbe da paesi del Nord Europa su tir anch’essi utilizzati per il trasporto di droga e armi». In altre informative si parla dei fratelli Cesare e Marcello Cordì che, già nel 1992, avrebbero gestito un traffico di rifiuti tossici finiti nei canali dei metanodotti nel territorio di Serrata.

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    Si conclude, dopo aver sentito anche alcuni magistrati, che «tra la Calabria e il Nord d’Italia vi sono decine di discariche abusive, parte già individuate» in cui ci sarebbero «circa settemila fusti di sostanze tossiche». Si cita il comune di Borghetto, nel Savonese, e poi i luoghi della Calabria, «per la maggior parte grotte», in cui ci sarebbero le discariche di veleni: «Grotteria, Limina, Gambarie, Canolo, Locri, Montebello Jonico (100 fusti), Motta San Giovanni, Serra San Bruno (CZ), Stilo, Gioiosa Jonica, Fabrizia (CZ)». Vengono menzionate le famiglie De Stefano, Piromalli e Tegano. Tutte le segnalazioni vengono girate al Ros. Risultano coinvolte ben sei Procure della Repubblica.

    I dossier desecretati

    Roma, maggio 2014. Il governo Renzi desecreta molti atti contenuti nei dossier della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin. Al loro interno compaiono riferimenti ai casi delle «navi dei veleni» e agli uomini chiave dei presunti traffici di scorie radioattive tra l’Africa e mezza Europa. È in queste carte che sono contenuti i riferimenti alle discariche radioattive che secondo gli 007 in riva allo Stretto esisterebbero in Calabria.

    I dossier vengono fuori dopo vent’anni, migliaia di cittadini si allarmano e si mobilitano pure gli amministratori locali. Partono gli incontri in Prefettura con comitati civici e sindaci che arrivano a coinvolgere i vertici dell’Arpacal, l’Azienda regionale per la protezione dell’ambiente. Che, in autunno, assieme al Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri avvia il progetto “Miapi”.

    Si tratta di un monitoraggio delle aree potenzialmente inquinate e per l’individuazione di siti contaminati con l’ausilio di dati telerilevati grazie ad un sensore “Airbone” ancorato ad un elicottero geo-radar. Le attività di ricerca vengono completate e viene trasmesso un hard disk contenente il data base, in formato shapefile, aggiornato al 28 febbraio 2015. Quei dati però ancora oggi sono un mistero, non sono mai stati resi di dominio pubblico.

    Lombardia, Italia, A. D. 2021

    Lecco, febbraio 2021. È l’altra parte della storia: più recente, distante geograficamente ma sempre e comunque collegata alla Calabria. Finisce in modo molto diverso. Scatta l’operazione “Cardine – Metal money”: diciotto cittadini italiani (dieci in carcere ed otto agli arresti domiciliari) sono accusati di associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti, frode fiscale, autoriciclaggio, usura ed estorsione.

    Al centro di tutto c’è un uomo che per gli inquirenti è il boss indiscusso della ‘ndrangheta nel Lecchese. Si chiama Cosimo Damiano Vallelonga e il prossimo 30 settembre compirà 73 anni. Li “festeggerà” in carcere, non è certo la prima volta che gli capita. È già stato coinvolto in diverse inchieste, da “La notte dei fiori di San Vito” di metà degli anni ’90 alla maxioperazione “Infinito” del 2010. È considerato il successore di Franco Coco Trovato, suo coetaneo che già dagli anni ’90 sconta diversi ergastoli al 41 bis.

    Vallelonga è originario di Mongiana, uno dei paesi delle Serre vibonesi indicato nelle carte del Sisde come luogo di presunto deposito di scorie radioattive. Quando i capibastone della sua zona d’origine entrano in conflitto nella sanguinosa “faida dei boschi” viene chiamato in causa per tentare di fare da paciere tra le famiglie in guerra. Nella ‘ndrangheta lombarda chi ha la dote del Vangelo lo chiama «compare Cosimo» e spesso gli chiede di intervenire per dirimere questioni e affari spinosi.

    Vent’anni di carcere

    Milano, settembre 2021. I giudici del Tribunale meneghino, nell’aula bunker di San Vittore, condannano Vallelonga a vent’anni di carcere, più di quanto avessero chiesto nei suoi confronti i pm della Procura antimafia milanese. È l’esito con rito abbreviato dell’inchiesta “Cardine-Metal money” sull’impero del boss originario di Mongiana. Nell’inchiesta gli investigatori della Guardia di finanza di Lecco non ricostruiscono solo estorsioni, società cartiere, truffe e frodi, ma scoprono anche un traffico da 10mila tonnellate di rottami e rifiuti radioattivi.

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    L’aula bunker di San Vittore a Milano

    L’indagine non riguarda solo la Lombardia ma si estende anche a Liguria ed Emilia Romagna. Vallelonga, una volta scontate le condanne precedenti, avrebbe «ripreso i contatti e rivitalizzato il sodalizio mafioso, non solo attraverso autonome condotte criminali ma anche ricevendo presso il suo ufficio all’interno di un negozio sito nella Brianza lecchese altri esponenti della ‘ndrangheta ed imprenditori locali, sia per l’erogazione di prestiti a tassi usurari sia per organizzare il reinvestimento dei proventi delle attività illecite nell’economia legale».

    Vallelonga avrebbe diretto «un’imponente attività di traffico illecito di rifiuti posta in essere attraverso imprese operanti nel settore del commercio di metalli ferrosi e non ferrosi». Ci sarebbe dietro anche un giro di fatture false per circa 7 milioni di euro. E un carico di rifiuti radioattivi: 16 tonnellate di rame trinciato proveniente dalla provincia di Bergamo e sequestrato dalla Polizia Stradale di Brescia nel maggio 2018.

  • La ‘ndrangheta unica mafia in tutti i continenti: ecco la mappa

    La ‘ndrangheta unica mafia in tutti i continenti: ecco la mappa

    Uno degli ultimi rapporti del progetto dell’Interpol I-Can, International Cooperation against ndrangheta documenta come la criminalità organizzata calabrese sia l’unica a essere presente nei cinque continenti del pianeta. E per presenza, non si intende certo una presenza sporadica o silente. Nei territori di tutto il globo, la ‘ndrangheta riesce a fare affari prettamente illeciti, quali il traffico di droga e di armi. Ma anche a inquinare l’economia apparentemente legale, con il riciclaggio in settori quali l’edilizia, la ristorazione, le strutture ricettive o il gioco d’azzardo. In alcuni luoghi riescono a eleggere anche i sindaci.

    Alla conquista dell’Europa

    Fu, soprattutto, la strage di Duisburg del Ferragosto 2007 a dimostrare la presenza pervasiva e pericolosa delle ‘ndrine nel cuore dell’Europa. Ma nel Vecchio Continente, la ‘ndrangheta faceva affari da diversi anni. Sfruttando anche una legislazione in larga parte inadeguata a contrastarla. Numerosi Paesi europei continuano infatti a fare ostruzionismo rispetto alle richieste di Strasburgo, che da oltre un decennio chiede di estendere ai Paesi membri il reato di associazione mafiosa, per poter contrastare le mafie in maniera globale. E non sono bastate nemmeno le pressanti richieste di Europol ed Eurojust.

    La ‘ndrangheta è presente sostanzialmente nei principali Paesi dell’Unione Europea. A partire dalla Germania della strage di Duisburg. A Singen, la polizia tedesca è riuscita anche a intercettare la riunione di un locale, che si svolgeva con le medesime modalità della casa madre calabrese. Il Baden-Württemberg come se fosse Platì o Isola Capo Rizzuto. E poi la Francia, dove, da sempre, sono di casa alcuni dei clan più importanti. Si pensi ai De Stefano e alla loro colonizzazione di Antibes, in Costa Azzurra. Ma anche la Spagna, dove, negli anni, hanno trovato rifugio numerosi importanti latitanti. Da ultimo, l’arresto del boss Domenico Paviglianiti, catturato ad agosto a Madrid.

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    Il porto di Rotterdam

    Giacomo Ubaldo Lauro negli anni ’70 e ’80 era un boss di primissimo livello della ‘ndrangheta. Poi, divenuto collaboratore di giustizia, ha raccontato di come, già oltre quarant’anni fa, smerciasse chili di droga nei Paesi Bassi. Proprio lì, dove le cosche sono riuscite a infiltrare anche il mercato dei fiori, vero vanto dello Stato frugale. Rotterdam e Anversa, del resto, sono da sempre porti aperti per le ‘ndrine. Esattamente come se ci trovassimo a Gioia Tauro. «L’uso sempre maggiore di spedizioni tramite container che fanno affidamento ai porti ad alto traffico di Anversa, Rotterdam e Amburgo hanno consolidato il ruolo dell’Olanda come punto di transito», si legge nel recente rapporto stilato sui traffici di droga dall’Europol.

    Il rapporto “Cocaine Insights” dell’Europol specifica inoltre come lo scorso anno, i sequestri complessivi di cocaina ad Anversa siano stati pari a 65,6 tonnellate. Le cosche egemoni sono proprio quelle che, da anni, controllano il territorio calabrese. Dai Bellocco di Rosarno, ai Nirta-Strangio di San Luca.

    Il Regno Unito

    Discorso a parte merita il Regno Unito. Lì, in maniera per adesso molto sottovalutata, le mafie riciclano miliardi e miliardi di sterline. Nella City di Londra, cuore pulsante della Borsa, broker della ‘ndrangheta si muovono già da anni. In maniera piuttosto incontrollata. «Il Regno Unito rappresenta da sempre, per la criminalità mafiosa, un’area di interesse per riciclare denaro, utilizzando società finanziarie e attività imprenditoriali» scrive la DIA in una recente relazione semestrale.

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    La City di Londra

    «Dalla Brexit un assist per le mafie» diceva qualche anno fa il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri.  Un rapporto del 2019 della National Crime Agency britannica sosteneva che ben 100 miliardi di euro di capitali illeciti venissero “lavati” nella City di Londra.
    Le inchieste “Vello d’oro” e “Martingala”, condotte congiuntamente dalle Dda di Firenze e Reggio Calabria avrebbero aperto degli squarci di luce. Attraverso società cartiere nel Regno Unito e in altri Paesi, le cosche realizzavano attività di riciclaggio e di reimpiego di capitali illeciti.

    Le “zone franche”

    Spostandoci verso Est, il barbaro omicidio del giornalista Jan Kuciak ha dimostrato come i gruppi calabresi fossero molto forti e radicati in Slovacchia. Il giornalista stava proprio indagando sugli affari di alcuni imprenditori della provincia di Reggio Calabria, i Vadalà, e su alcuni incroci pericolosi con la politica nazionale. In luoghi del genere, la ‘ndrangheta continua ancora a muoversi con grande disinvoltura.

    In questi luoghi, prevalentemente le cosche riciclano denaro. Proprio grazie a queste relazioni oscure con il potere. Le attività predominanti sono quelle dell’edilizia e della ristorazione. Ma anche quelle dei vizi: e, quindi, le strutture ricettive di fascia alta, le rivendite di auto di lusso, il giro di prostituzione. Una nuova frontiera, recentemente documentata, è quella della formazione, con gli interessi nella gestione di corsi per il conseguimento di attestati professionali e di studio.

    All’interno del Vecchio Continente vi sono, notoriamente, alcune nazioni che sono dei veri e propri “porti franchi” per gli affari delle cosche. È il caso di Malta. Nella piccola isola britannica, le cosche riciclano denaro e sono assai attive, soprattutto con riferimento al gioco d’azzardo. Sono le indagini “Gambling” e “Galassia” a fotografare la situazione di un Paese che spesso si gira dall’altra parte. E che permette ancora eclatanti omicidi, come quello della giornalista Daphne Caruana Galizia. Nel Lussemburgo, poi, le cosche della Locride avrebbero messo in piedi già da tempo una fitta rete per gestire il riciclaggio di denaro sporco.

    Il Medio Oriente

    E poi ci sono i corridoi e i canali tradizionali. Traffico di hashish ed eroina che riguarda anche la Grecia, rotta di passaggio verso le coltivazioni di papavero del Medio Oriente. Ma anche i rapporti con i gruppi criminali dei Balcani per quanto concerne il traffico di droga e armi. Recentemente, l’ha dimostrato l’inchiesta “Magma”, condotta dalla Dda di Reggio Calabria. All’inizio dell’anno è stato anche estradato in Italia Ardjan Cekini, considerato il referente dei Bellocco nei Balcani.

    Ruolo sempre crescente, poi, quello degli albanesi nel mercato della droga. Come testimonia, peraltro, il rapporto stilato dall’Europol. Ma, assicurano gli inquirenti, non si può parlare di una perdita del monopolio da parte delle ‘ndrine, ma di una maggiore forza degli albanesi (rispetto ad altri gruppi) di dialogare con la ‘ndrangheta per questo tipo di business.

    Già da metà degli anni ’90, inoltre, è noto il ruolo del consulente finanziario Sebastiano Saia. Costui sarebbe, da sempre, uomo di riferimento di uno dei più grandi narcotrafficanti della storia, Pasqualino Marando. Conosciuto in tutto il mondo, Marando sarebbe riuscito a entrare in contatto con il broker turco della droga, Paul Waridel, proprio grazie a Saia. Così, dunque, Marando avrebbe allargato i propri orizzonti. Già in quel periodo smerciava droga non solo in Sud America, ma anche in Medio Oriente, grazie ai rapporti con la famiglia pakistana Hafeez.

    Saia, catanese, capace di relazionarsi con mondi diversi anche grazie al suo basso profilo. Una vita da romanzo, sparsa in giro per il globo. Nel corso degli anni, verrà catturato anche a Londra. Tra il 2015 e il 2016 si sposta prima in Turchia e poi in Grecia dove viene arrestato ancora una volta per truffe internazionali. Scagionato totalmente nel 2018, fa perdere le sue tracce.

    L’America

    Scomparso nel 2001 nell’ambito della faida di Platì, Pasqualino Marando avrebbe per anni fatto affari di droga con tutto il Sud America. Insieme a Bruno Pizzata, ma, soprattutto, a Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, sono considerati i più grandi broker del narcotraffico di tutti i tempi. Ma l’elenco potrebbe essere pressoché infinito. È recentemente venuta a galla, con catture e fughe rocambolesche, la caratura criminale del boss Rocco Morabito, detto “Tamunga”, divenuto signore incontrastato in Uruguay dalla nativa Locride.

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    L’arresto di Roberto Pannunzi, il “Pablo Escobar italiano”, in Colombia

    In generale, le cosche di ‘ndrangheta, da sempre, dialogano da pari a pari con i cartelli della droga del Sud America. Dalla Colombia al Messico, passando per il Brasile. Ma non c’è Stato latinoamericano in cui le ‘ndrine non abbiano messo radici. Gli uomini di ‘ndrangheta sono considerati infatti i più affidabili. Anche per l’esiguo numero di collaboratori di giustizia al proprio interno. Grazie a questo ermetismo e alla enorme liquidità economica, le ‘ndrine hanno scalzato nei rapporti di forza Cosa Nostra. Che, invece, fino agli ’80 faceva la parte del leone.

    Situazione simile anche negli Stati Uniti. Dove ormai Cosa Nostra recita un ruolo più marginale rispetto al passato. Scrive la DIA in un suo rapporto: «Non ultimo, avrebbe concorso a questo ridimensionamento anche la pressione esercitata da altre organizzazioni per il controllo del territorio, in particolare della ‘ndrangheta, che si starebbe sostituendo ai rivali siciliani nel controllo del traffico e dello spaccio di stupefacenti. Allo stesso tempo, la ’ndrangheta sarebbe altrettanto attiva nel riciclaggio e nel reimpiego di capitali illeciti».

    Il Nuovo Mondo, del resto, è quello che, forse, nasconde meno segreti sull’infiltrazione delle cosche sul territorio. Vecchi ormai quasi di un secolo i rapporti tra la ‘ndrangheta e le famiglie mafiose emigrate oltreoceano. Secondo quanto messo nero su bianco dalla DIA, negli ultimi anni le cosche della Locride sarebbero in grande espansione soprattutto nello stato di New York e in Florida.

    Negli ultimi anni sono state in particolare le operazioni “New Bridge” e “Columbus” a dimostrare la pervasività delle ‘ndrine sul territorio a stelle e strisce. A essere colpite, tra le altre, le cosche Ursino, Morabito in contatto la storica famiglia mafiosa dei Gambino e sempre alla ricerca di nuove alleanze per il traffico di droga. Era un ristorante del Queens, a New York, la base operativa delle cosche. Il ristorante era gestito da un calabrese incensurato, Gregorio Gigliotti, originario di Serrastretta, nel Catanzarese. Un business, quello di cocaina (soprattutto) in cui erano coinvolti anche gli Alvaro, che avevano allargato gli orizzonti fino al Costa Rica.

    E poi c’è il Canada. In principio fu il “Siderno Group of Crime”. Decenni fa, ormai, i Commisso, storica cosca sidernese, spostarono molti dei propri interessi nel Paese dell’acero. Il meccanismo è sempre quello della riproduzione delle dinamiche locali su territori lontani. Le locali di ‘ndrangheta canadesi fornivano appoggi funzionali alla “casa madre”, per trafficare droga e riciclare denaro. In particolare, i carichi di cocaina prodotta in Colombia viaggiano attraverso il Venezuela. Per arrivare poi negli USA e in Canada. Tutte dinamiche cristallizzate nell’inchiesta “Crimine 2”, ma anche “Acero Connection-Krupy” e “Typograph–Acero bis”.

    La ‘Ndrangheta in Africa

    Terzo Mondo a chi? Anche l’Africa è un territorio in grande crescita per quanto concerne gli interessi di tipo ‘ndranghetista. Già nell’inchiesta “Igres” emerse il ruolo del narcos Vito Bigione, uomo potentissimo in Namibia, capace di svolgere il ruolo di anello di congiunzione tra narcos sudamericani, Cosa Nostra e ‘ndrangheta. Parliamo di fatti avvenuti tra il 2001 e il 2002. Quindi, sostanzialmente, vent’anni fa.

    Ancor prima, il collaboratore di giustizia Francesco Fonti, “santista” della Locride, aveva reso importanti dichiarazioni sui traffici di armi, ma, soprattutto, di rifiuti tossici e radioattivi tra Italia e Somalia. Siamo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 quando la ‘ndrangheta avrebbe avuto un ruolo importante. Tutto si incastra nel periodo della missione umanitaria “Restore Hope”. Vicende inquietanti, di intrighi internazionali, che si intrecciano anche con l’uccisione dei giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio. E con la morte sospetta del capitano di corvetta, Natale De Grazia, ufficiale della Marina Militare di Reggio Calabria, morto in circostanze sospette proprio mentre indagava sulle “navi dei veleni”.

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    Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

    Negli anni gli affari si sono evoluti e anche i territori diversificati. Vi sono per esempio tracce importanti degli affari della ‘ndrangheta in Costa d’Avorio. Un’inchiesta di IRPI (Investigative Reporting Project Italy) dimostrò come il potente imprenditore dei rifiuti nel Lazio, Manlio Cerroni, si muovesse molto bene tra Senegal e Costa d’Avorio. Luoghi dove, ulteriormente crescente era ed è il ruolo dei calabresi. Appena pochi mesi fa, a maggio, tre persone sono state arrestate su mandato della Procura della Repubblica di Locri. L’accusa è quella di corruzione internazionale nei confronti di funzionari della Costa d’Avorio e trasferimento fraudolento di valori. L’ipotesi investigativa è quella che tutto potesse celare un interesse delle cosche nell’estrazione dell’oro. Dietro le compagini societarie ricostruite dagli inquirenti, infatti, troverebbe posto anche un soggetto considerato contiguo ai Marando di Platì.

    Recentemente, inoltre, alcuni collaboratori di giustizia hanno anche parlato dell’interesse della ‘ndrangheta per il coltan, che viene estratto in ingenti quantità nella Repubblica Democratica del Congo. Si tratta di un minerale preziosissimo, fondamentale, come è noto, per la fabbricazione dei cellulari.

    L’Asia e l’Oceania

    Ovviamente, tali, enormi, disponibilità finanziarie trovano spessissimo sponda importante in territori incontrollati o paradisi fiscali, quali Cipro, Singapore, Panama, Nuova Zelanda, Bahamas, Svizzera, Spagna, Austria. O, ancora, a Dubai, Isola di Man, Cayman e Seychelles. Non è un caso, infatti, che l’ex deputato di Forza Italia, Amedeo Matacena, considerato vicinissimo alle cosche, stia trascorrendo la propria latitanza dorata proprio a Dubai.

    E questi affari portano direttamente anche alla collaborazione tra cosche calabresi e triadi cinesi. Difficile, quasi impossibile, ricostruire i rapporti dei clan in Paesi così chiusi. Governati da dittature o simil dittature. È il caso della Russia, per esempio. Ma anche, evidentemente della Cina. Gran parte del coltan, infatti, finisce sul territorio dello stato della Grande Muraglia. E lì le organizzazioni criminali si spartiscono gli ingenti profitti. Gruppi criminali agguerriti, in cui sarebbe riuscita a insinuarsi anche la ‘ndrangheta, per quanto concerne il mercato delle armi.

    Ma la vera avanguardia sotto il profilo degli affari è Hong Kong. Lì, già dal 2014, vennero documentati gli affari del boss Giuseppe Pensabene, detto “Il Papa” del broker italo-svizzero Emanuele Sangiovanni. Secondo quanto emerso dalle indagini, in conti segreti di istituti finanziari della città-Stato asiatica sarebbero arrivati diversi milioni di euro appartenenti ai clan calabresi. C’è poi una recentissima indagine sul conto delle cosche crotonesi, in particolare sui clan Mannolo e Grande Aracri. Stando alle ricostruzioni della Guardia di Finanza, vi sarebbe anche un’operazione da circa 400mila euro effettuata tramite la filiale di Hong Kong della banca HSBC.

    Oltre alle disponibilità economiche, la vera forza della ‘ndrangheta è rappresentata dalle relazioni. In tutti gli stati del mondo dove è presente e dove incide, può contare su una fitta rete di professionisti, di broker, insospettabili “colletti bianchi”. Una delle nazioni più emblematiche, da questo punto di vista, è l’Australia. Lì, attraverso l’immigrazione avvenuta negli scorsi decenni, la ‘ndrangheta è riuscita a ricreare quasi una seconda Calabria. Numerosi gli episodi criminali, anche fatti di sangue che celano la mano delle ‘ndrine. Nel 2016, per esempio, venne ucciso il boss Pasquale Barbaro. Non a San Luca. Né a Cetraro. Ma a Sidney.

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    Il boss Pasquale barbaro, ucciso a Sidney

    In Australia, la ‘ndrangheta ha una forza così grande da riuscire anche a eleggere i politici. Un caso su tutti, quello di Domenico Antonio Vallelonga, per tutti Tony Vallelonga. Sindaco dal 1997 al 2005 della cittadina di Stirling, popoloso sobborgo di Perth, la capitale del Western Australia. Avrebbe rivestito un ruolo di vertice nel locale di appartenenza. È stato esponente di vari consigli regionali e presidente di importanti associazioni locali, di comitati comunitari e di alcune associazioni di cittadini italiani. Un recordman, eletto per ben quattro mandati. Anche con percentuali plebiscitarie. Originario di Nardodipace, in provincia di Vibo Valentia, Vallelonga viene intercettato dai Carabinieri, all’interno della lavanderia “Ape Green”, centro nevralgico della cosca Commisso di Siderno.

    Perché è proprio questo uno dei segreti che consente alla ‘ndrangheta di essere presente (e incidere) sui cinque continenti. Mai perdere il contatto con la “casa madre” calabrese.

  • Giustizia ingiusta, un salasso targato Calabria

    Giustizia ingiusta, un salasso targato Calabria

    Un primato nella Giustizia la Calabria lo ha, peccato che sia alla rovescia. A stabilirlo è la relazione della Sezione centrale di controllo sulla gestione delle amministrazioni dello Stato della Corte dei conti, pubblicata ieri. Dal documento emerge infatti come le decisioni delle Corti d’Appello di Catanzaro e Reggio Calabria costino allo Stato milioni e milioni di euro ogni anno. Il motivo? I risarcimenti – o, nel gergo tecnico, l’equa riparazione – da pagare a chi è finito in carcere, agli arresti domiciliari o in regime misto di custodia cautelare per poi essere successivamente prosciolto dalle accuse. Gli errori capitano in tutto lo Stivale, ma i numeri dei due tribunali calabresi surclassano quelli di tutti i concorrenti.

    Un terzo della spesa nazionale in Calabria

    La relazione – che incrocia i dati forniti dal Mef con quelli del ministero della Giustizia – accende i riflettori sul triennio 2017-2019, un periodo in cui lo Stato ha sborsato oltre 111 milioni di euro a chi è rimasto in galera o ai domiciliari ingiustamente . Quasi 37 milioni – un terzo della spesa complessiva – sono dovuti a Catanzaro e Reggio. A volte il capoluogo regionale costa da solo quanto Roma, Milano, Napoli e altre grandi città italiane messe assieme.

    2017, Catanzaro sbaraglia tutti

    Nel 2017, ad esempio, il costo delle ingiuste detenzioni targate Catanzaro sfiora i nove milioni di euro (8.866.654,67 ad essere precisi). La Capitale arriva a meno della metà di quella cifra, fermandosi a poco meno di 4 milioni di euro. Il capoluogo campano non arriva nemmeno a 2,9. Il “bello” è che – nonostante i bacini demografici d’utenza siano ben diversi – il numero di ordinanze considerate nella relazione non è poi così divergente tra le tre città: 158 a Catanzaro, 137 nella Città eterna, 113 ai piedi del Vesuvio. Reggio Calabria, nonostante nel suo caso le ordinanze siano soltanto 21, costa comunque allo Stato poco più di un milione di euro.

    2018, la spesa cresce ancora

    Nel 2018 la spesa cresce ulteriormente. A Catanzaro le ingiuste detenzioni arrivano a costare poco meno di 10,4 milioni di euro, quasi cinque volte quanto speso per Napoli coi suoi 2,4. E stavolta anche Reggio “si fa valere”, con i risarcimenti che gravano sulle casse statali per quasi 2,3 milioni.
    È l’inizio di una “rimonta” che le farà superare Catanzaro in cima alle graduatorie italiane dell’anno successivo.

    2019, il sorpasso di Reggio

    Per le ingiuste detenzioni in riva allo Stretto nel 2019 la spesa sale a quasi dieci milioni di euro (9,88), doppiando quella relativa alla Corte d’Appello di Catanzaro. Un dato che le permette di “brillare” anche nella classifica degli esborsi medi per risarcimento. Scrive la Corte dei Conti che «nell’ambito delle ingiuste detenzioni, gli importi di media oscillano dai 5.474 euro di Potenza, per 11 casi, a 82.400 euro di Palermo, per 39 casi, sebbene la spesa complessiva più alta si riscontri a Reggio Calabria con quasi 82.000 euro per 120 ordinanze».

    Gli altri record negativi

    Il 2019 però è un anno di “risparmi” da record per Catanzaro rispetto al recente passato, visto che l’esborso si ferma a 4,45 milioni. Non è l’unico primato poco meritorio del capoluogo regionale. Nella relazione della Corte dei Conti si legge, ad esempio, che «nel caso della detenzione carceraria è stato liquidato l’importo pari ad euro 14.244,76 con l’ordinanza n. 83/2018 da parte della Corte d’appello di Catanzaro per 18 giorni, che con la media giornaliera di 791,38 euro rappresenta oltre il triplo dei 235,82 euro quale soglia proporzionale stabilita». Ma Catanzaro è anche quella che ha speso di più per risarcire un detenuto dopo gli arresti domiciliari: «L’importo giornaliero maggiore è stato liquidato per 79 giorni (1.383,73 euro gg.) con l’ordinanza n. 34/2018, cioè oltre 11 volte la soglia proporzionale di 117,91 euro».
    Il 15 febbraio la Consulta dovrà decidere se i quattro referendum sulla giustizia, tra cui quello sulla responsabilità civile dei magistrati, siano ammissibili. E chissà se questi dati influiranno sull’eventuale voto dei calabresi.

  • Droga, “colletti bianchi”, Covid e criptovalute: le ‘ndrine secondo la DIA

    Droga, “colletti bianchi”, Covid e criptovalute: le ‘ndrine secondo la DIA

    Mafie 2.0. Anzi, forse già 4.0. Presenti in tutto il mondo. Capaci di evolversi, di sfruttare le nuove emergenze e le nuove tecnologie. Ma, allo stesso tempo, anche colpite dall’azione repressiva delle forze dell’ordine. Emerge questo dalla Relazione semestrale della Direzione Investigativa Antimafia. Il report si riferisce al secondo semestre del 2020 e analizza le emergenze giudiziarie, ma anche sociali sui fenomeni mafiosi.

    Le tante facce delle mafie

    Il tratto caratteristico sottolineato dalla DIA è la capacità delle mafie di cambiare il proprio volto all’occorrenza. Senza perdere la propria forza intimidatrice di banda armata, la criminalità organizzata mostra però sempre di più il proprio volto “gentile”. Aspetto e comportamenti presentabili, per dialogare con mondi con cui non dovrebbe esserci alcun tipo di collegamento. Vale per tutte le mafie: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra. E la crescente Sacra Corona Unita, che, tra tutte, è quella che mantiene di più il proprio volto selvaggio e spietato. Ma il dato sottolineato dalla DIA è la tendenza a sostituire «l’uso della violenza, sempre più residuale, con linee d’azione di silente infiltrazione».

    Il report della DIA riprende le indagini effettuate, lungo la Penisola, dalle Dda. E sempre con maggior forza le indagini rimarcano «l’attitudine delle ‘ndrine a relazionarsi agevolmente e con egual efficacia sia con le sanguinarie organizzazioni del narcotraffico sudamericano, sia con politici, amministratori, imprenditori e liberi professionisti».

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    Particolare spazio è dedicato alla realtà criminale della Capitale. “Roma città aperta”, davvero. Ma nel senso che lì riescono a penetrare sostanzialmente tutte le mafie. Che poi dialogano, proficuamente, con la criminalità locale e con le organizzazioni criminali straniere. «A un livello più strategico – si legge nel documento – condotte violente quali omicidi, tentati omicidi o gambizzazioni possono risultare funzionali a orientare o persino deviare significativamente il corso delle relazioni delinquenziali (anche datate) delle alleanze ovvero degli equilibri spesso labili e comunque sempre soggetti al business contingente».

    A Roma, mafia, camorra e ‘ndrangheta fanno affari e riciclano denaro. Forti della maggiore capacità di occultamento e mimetizzazione. «La mancanza di un’organizzazione egemone con cui fare i conti e di contro l’elevato potenzialità del capitale sociale del territorio (in termini di presenze criminali, rete di professionisti, esponenti istituzionali, amministratori pubblici, politici locali e nazionali) sono fattori che uniti alle emergenze originate dall’emergenza sanitaria da Covid-19 sicuramente possono favorire il reinvestimento dei capitali illeciti», segnala il documento di oltre 500 pagine.

    Le mafie e il Covid

    Più e meglio di chiunque, le mafie riescono a interpretare in anticipo i cambiamenti della società. E a sfruttare le emergenze. Di qualsiasi tipo. Si pensi alle infiltrazioni negli appalti dopo una catastrofe (su tutte, il terremoto de L’Aquila). Non fa eccezione, evidentemente, anche la pandemia da Coronavirus, che ha investito l’Italia e il mondo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Ancora dalla relazione della DIA: «Il rischio di inquinamento dell’economia che è stato ulteriormente accentuato dalla crisi pandemica, nella capitale potrà comportare un ulteriore espansione delle condotte usurarie che potrebbero andare a intaccare non solo le piccole e medie imprese ma anche i singoli».

    Ancora una volta, viene presa Roma come esempio di quanto possa avvenire, però su tutto il territorio nazionale. «Non sono tuttavia da sottacere quelle condotte violente opera di soggetti criminali emergenti che si presentano alla lente degli analisti e degli investigatori come funzionali alla conquista di porzioni di territorio per la gestione delle piazze di spaccio degli stupefacenti il cui approvvigionamento resta tendenzialmente appannaggio di camorra, ‘ndrangheta e in misura minore di cosa nostra con gruppi di criminalità straniera, in particolare albanese, che si stanno sempre più affermando nel settore».

    I Calabresi aveva già effettuato un’inchiesta sulla capacità della ‘ndrangheta di sfruttare il welfare. Dai bonus spesa Covid, al Reddito di Cittadinanza. Una tendenza che adesso viene sottolineata anche dalla DIA. «La spregiudicata avidità della ‘Ndrangheta non esita a sfruttare il reddito di cittadinanza nonostante la crisi economica che grava anche sul contesto sociale calabrese e benché l’organizzazione disponga di ingenti risorse finanziarie illecitamente accumulate». L’affermazione della DIA richiama diverse indagini che hanno visto personaggi affiliati o contigui ai clan calabresi quali indebiti percettori del reddito di cittadinanza: dalle famiglie Accorinti del Vibonese, a quelle crotonesi, come i Mannolo oppure i Pesce e i Bellocco di Rosarno. O alle famiglie di San Luca.

    ‘Ndrangheta regina del narcotraffico

    Le analisi focalizzano la visione «globalista» della ‘ndrangheta. La relazione della DIA utilizza proprio questo termine per documentare come le ‘ndrine si siano stabilite in numerosi Paesi del mondo e siano capaci di dialogare da pari a pari con i produttori di droga dell’America Latina. La relazione censisce i gruppi affiliati in tutte le regioni italiane, in diversi Paesi europei (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Repubblica Slovacca, Romania e Malta), nonché in Australia, Stati Uniti e Canada.

    San Giusto Canavese (Torino) e Lonate Palazzolo (Varese), Lona Lases (Trento) e Desio (Monza e Brianza), Lavagna (Genova) e Pioltello (Milano). Sono solo alcuni dei “locali” di ‘ndrangheta al nord. Luoghi lontani dalla “casa madre” calabrese, dove, comunque, le ‘ndrine avrebbero messo radici. La Direzione investigativa antimafia nella sua Relazione semestrale al Parlamento conta ben 46 “locali” nelle regioni settentrionali. Sono 25 in Lombardia, 14 in Piemonte, 3 in Liguria, 1 in Veneto, 1 in Valle d’Aosta ed 1 in Trentino Alto Adige.

    Ritorna quindi il concetto di holding, capace di ripulire gli enormi capitali illeciti, frutto dei traffici di droga. Proprio nel mercato della droga, la ‘ndrangheta continua a essere leader a livello internazionale. Una visione, quella della DIA, che va a cozzare con quanto messo nero su bianco pochi giorni fa dall’Europol. Che, invece, dava un ruolo in grande crescita alle organizzazioni criminali albanesi.

    «Non più impermeabile»

    Un aspetto molto importante sotto il profilo investigativo ma, forse, anche sociale è quello che la DIA rileva sul fenomeno delle collaborazioni con la giustizia. Il “pentitismo” da cui, per tantissimo tempo, la ‘ndrangheta è rimasta pressoché immune. Si legge nella Relazione Semestrale: «Non appare più così monolitica ed impermeabile alla collaborazione con la giustizia da parte di affiliati nonché di imprenditori e commercianti, sino a ieri costretti all’omertà per il timore di gravi ritorsioni da parte dell’organizzazione mafiosa».

    Le indagini, evidenzia la Relazione, danno conto «dell’ampio e pressoché inedito squarcio determinato dall’avvento sulla scena giudiziaria di un numero sempre più elevato di ‘ndranghetisti che decidono di collaborare con la giustizia». E anche «esponenti di primo piano hanno scelto di rompere il silenzio».

    ‘Ndrangheta e “colletti bianchi”

    Il timore è quello di sempre. La conquista di ampie fette di mercato da parte delle cosche. «Le ‘ndrine – si legge nel documento – potrebbero intercettare i vantaggi e approfittare delle opportunità offerte proprio dalle ripercussioni originate dall’emergenza sanitaria, diversificando gli investimenti secondo la logica della massimizzazione dei profitti e orientandoli verso contesti in forte sofferenza finanziaria”.

    In particolare, «secondo un modello collaudato, la criminalità organizzata calabrese persisterebbe nel tentativo di accreditarsi presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale, nel verosimile intento di subentrare negli asset proprietari e nelle governance aziendali al duplice scopo di riciclare le proprie disponibilità di illecita provenienza e inquinare l’economia legale impadronendosi di campi produttivi sempre più ampi».

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    La relazione semestrale della Dia

    Anche i settori commerciali di interesse sono quelli di sempre: dalle costruzioni agli autotrasporti, passando per la raccolta di materiali inerti. E poi, ancora, ristorazione, gestione di impianti sportivi e strutture alberghiere, commercio al dettaglio. E, ovviamente, il settore sanitario. «Si registrano nel settore del contrabbando di prodotti energetici (oli lubrificanti ed oli base) in virtù dei notevoli vantaggi economici derivanti dalla possibilità di immettere sul mercato prodotti a prezzi sensibilmente più  bassi di quelli praticati dalle compagnie petrolifere», scrive ancora la DIA. Eccola la sinergia tra mafie e colletti bianchi: «Incaricati di curare le importazioni di carbo-lubrificanti dai Paesi dell’Est Europa, gestire la distribuzione dei prodotti sull’intero territorio nazionale attraverso società-filtro create ad hoc per attestare attraverso falsa documentazione il fittizio assolvimento degli adempimenti tributari e in tal modo riciclare i capitali di provenienza illecita messi a disposizione dai sodalizi mafiosi».

    «La ‘Ndrangheta esprime un sempre più elevato livello di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale, ricavandone indebiti vantaggi nella concessione di appalti e commesse pubbliche». Perché, oltre alla smisurata capacità economica, la vera forza della ‘ndrangheta, sono le relazioni. Quelle che le permettono di entrare nei palazzi del potere, di dialogare con mondi (anche occulti) con cui sarebbe dovuta entrare in contatto: «Grazie alla diffusa corruttela vengono condizionate le dinamiche relazionali con gli enti locali sino a controllarne le scelte, pertanto inquinando la gestione della cosa pubblica e talvolta alterando le competizioni elettorali».

    Le criptovalute

    Proprio grazie ai professionisti al proprio servizio, le cosche riescono anche a cogliere e interpretare le varie opportunità offerte della globalizzazione. «Avvalendosi sempre più delle possibilità offerte dalla tecnologia si orientano verso i settori del gioco d’azzardo (gaming) e delle scommesse (betting) nei quali imprenditori riconducili alla criminalità organizzata, e grazie alla costituzione di società sedenti nei paradisi fiscali, creano un circuito parallelo a quello legale che consente di ottenere notevoli guadagni e in particolare di riciclare in maniera anonima cospicue quantità di denaro».

    Denari che poi si muovono in giro per l’Europa e per il mondo. Sia nel Vecchio Continente, con Svizzera, Lussemburgo e Malta. Sia in altre zone del pianeta, come Dubai, Seychelles, Hong Kong, sono disseminati paradisi fiscali o, comunque “zone franche”. Dove la ‘ndrangheta opera finanziariamente in maniera pressoché incontrollata. E nella gestione dei suoi business ricorre sempre più spesso «a pagamenti con criptovalute quali i Bitcoin e più recentemente il Monero, che non consentono tracciamento e sfuggono al monitoraggio bancario».
    Ecco la ‘ndrangheta 2.0. Che corre veloce, però. Quindi, forse, è già ‘ndrangheta 4.0.

  • Sanità, partecipate, dissesti: la Calabria a rischio default

    Sanità, partecipate, dissesti: la Calabria a rischio default

    Iniziamo coi numeri, tutt’altro che rassicuranti: chi amministrerà la Calabria, dal 4 ottobre, dovrà misurarsi con un dato pesantissimo, espresso da due cifre, calcolate con prudente approssimazione e, probabilmente in difetto.
    La prima ammonta a 2 miliardi e 600 milioni. È il passivo totale della Sanità, la croce a cui dal 2009 sono inchiodati i calabresi, che subiscono le aliquote regionali più alte d’Italia per coprire quel che si può di questa voragine senza ottenere un’assistenza sanitaria decente.
    La seconda cifra ammonta a un miliardo circa. È meno inquietante di quella sanitaria, ma fa paura lo stesso, perché è il totale dei passivi delle società partecipate.

    Tuttora, la Regione è presente in sei società: Ferrovie della Calabria, Fincalabra e Terme Sibaritide (delle quali è socio unico), Banca Popolare Etica, Sorical e Sacal.
    Questo miliardo di passivi mette a rischio tutte le leve attraverso le quali la Regione influisce nelle attività degli enti locali e, quindi, pesa in maniera diretta sulla vita dei cittadini.
    In altre parole, è confermato, anzi di sicuro aggravato, il deficit della Sanità, che nel giudizio di parificazione della Corte dei Conti del 2019, blocca il 79% del bilancio regionale. Ma tutto il resto (trasporti, gestione idrica e rifiuti) rischia di finire gambe all’aria o, alla meno peggio, di zoppicare parecchio.

    Un’ecatombe di Comuni

    Se si stringe il campo visuale sui territori, il dramma calabrese emerge alla grande e ha per protagonisti e vittime i Comuni, quasi tutti messi malissimo dopo la sentenza della Corte Costituzionale 80 del 28 aprile 2021.
    Questa sentenza, che di fatto vieta di spalmare i debiti nel generoso lasso di trent’anni previsto nel 2015 dal governo Renzi, si è abbattuta come una mazzata sugli enti locali, che ora rischiano di brutto. Stando all’allarme lanciato dal sindaco di Rende Marcello Manna i Comuni in pericolo di dissesto sarebbero duecento circa. Ma, a ben vedere, la differenza tra chi è dissestato e chi non lo è ancora è solo una questione di dettagli: per i cittadini i tributi sono al massimo in entrambi i casi e i servizi risultato ridotti o a repentaglio.

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    Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza

    Questo in Calabria, perché in altre realtà, ad esempio Torino, il livello dei servizi è qualitativamente sostenuto, a dispetto delle condizioni finanziarie del Comune, che non sono proprio il massimo.
    Tra gli ottantadue Comuni che vanno al voto, i due più importanti consentono un paragone calzante: sono Cosenza, che è in dissesto dal 2019, e Lamezia Terme, che è in riequilibrio finanziario ma barcolla non poco, visto che non può più approfittare della “rateazione” trentennale. Nelle linee di fondo, la situazione delle due città è piuttosto simile: tributi a palla e servizi in calo o insufficienti.

    Il decreto sostegni non basta

    Ma non serve proiettarci verso il futuro per intuire la portata dell’Apocalisse, perché la catastrofe c’è già.
    Dei Comuni che vanno al voto il 3 ottobre assieme alla Regione, otto sono nei guai. Si va dai guai gravissimi di Cosenza, Badolato, Casabona e Bova Marina, al caos di Chiaravalle, che oscilla tra dissesto e riequilibrio da circa sette anni, alla situazione grave di Lamezia e di tutti gli altri paesi in riequilibrio.

    Ma se si considera il totale dei Comuni nei guai, la cifra è terribile: sono ottantasette.
    L’unica speranza è il decreto sostegni, che ha stanziato circa 600 milioni per alleviare il deficit strutturale. Questi soldi potrebbero fare molto per i Comuni in riequilibrio, soprattutto Reggio. Ma possono sì e no alleviare i conti dei municipi dissestati, cioè Cosenza.
    La domanda, a questo punto, sorge spontanea: che c’entra il dissesto dei municipi coi passivi della Regione, visto che Comuni e Regioni fanno cose diverse, quindi hanno regimi finanziari separati?

    Un cane di debiti che si morde la coda

    Con rara crudezza, il presidente della Sezione regionale della Corte dei Conti Vincenzo Lo Presti aveva lanciato un monito alla Regione, che come tutti gli enti pubblici della Penisola ha il vizio di “lavorare” le cifre per ridimensionare l’annaspamento: i residui attivi sono sovrastimati, quelli passivi sottostimati.
    Era il 10 dicembre 2020 e, come già anticipato, i magistrati contabili valutavano il Bilancio regionale del 2019, che è l’ultimo documento utile, visto che la Corte non si è ancora pronunciata sull’esercizio 2020.

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    È il caso di mettere da parte la Sanità, il cui debito è calcolabile solo in maniera presuntiva, visto che mancano dati certi dall’Asp di Reggio.
    Occorre concentrarsi, piuttosto, sulle partecipate, una delle quali è un punto di contatto tra la finanza regionale e quelle dei Comuni.
    Ci si riferisce alla Sorical, la società mista detenuta al 54% dalla Regione e al 46% da Acque di Calabria, una spa con socio unico, la francese Veolia.

    I crediti mai riscossi

    La Sorical non morirà di debiti, che pure ci sono (si ipotizzano 370 milioni circa, ma i vertici della società giurano di aver tagliato del 68%). Ma di crediti: la società avanza una somma impressionante, circa 200milioni, dai Comuni, quasi tutti morosi, in particolare Cosenza, Reggio e Catanzaro.
    I residui attivi, cioè i crediti non ancora riscossi, condizionano l’attività corrente. In altre parole, la vita quotidiana dell’ente e dei cittadini che vi si rivolgono per ottenere servizi.
    Vengono senz’altro “appostati” nel Bilancio, ma non sono liquidità. Anzi, molti di questi diventano inesigibili perché si prescrivono o possono essere recuperati solo con molta fatica e, spesso, non nelle quantità sperate.

    La catena perversa è facile da ricostruire: i cittadini pagano poco e in pochi ai Comuni, i quali pagano quel che possono o non pagano affatto (nel caso della Sorical, c’è chi spera, come Cosenza e Vibo, che nasca la società unica di gestione delle acque, che esoneri i Comuni anche dalla gestione diretta delle reti idriche).
    Risultato: la Regione deve intervenire a ripianare i passivi delle partecipate che non riescono a recuperare i crediti. Ciò vale anche per Sacal, piegata dal Covid, che ha messo in ginocchio le compagnie aeree che fanno scalo soprattutto a Lamezia, e per Ferrovie della Calabria, letteralmente ostaggio del trasporto su gomma e oberata da clientele.

    Non ci salverà l’Europa

    Non fidiamoci troppo dei fondi europei, che abbiamo dimostrato di non saper utilizzare o di utilizzare male il più delle volte, né dei 9 miliardi del Pnrr.
    Questi finanziamenti, come ribadisce l’articolo 119 della Costituzione, possono essere impiegati solo per investimenti. E sperare che questi investimenti producano utili (e quindi imponibile su cui far cassa) è fantascienza, almeno al momento: significherebbe sperare che i calabresi diventino ricchi a tempi record per poter risanare la Regione.

    Ma come può diventare ricca una popolazione strangolata a livello fiscale da una Regione che, al massimo, è in grado di riscuotere poco più del 60% delle tasse che impone?
    L’alternativa alla capacità di impiego dei fondi europei, ordinari e di emergenza, richiederebbe capacità politiche che al momento non ci sono: la piena attuazione del federalismo fiscale, che attiverebbe gli automatismi del fondo di perequazione calcolato sulla differenza di gettito tra i territori.

    Capitale economico e umano

    Già: il problema vero della Calabria è la sua povertà endemica, che, unita alla costante decrescita demografica, ha creato un mix micidiale. I Comuni e gli utenti non “guadagnano” abbastanza, quindi non possono pagare a dovere i servizi regionali e la Regione, con poco meno di un miliardo di utili l’anno, deve tappare le falle.
    La situazione ordinaria è questa. Il resto (cioè i finanziamenti promessi, in particolare quelli dell’estate appena trascorsa) è propaganda.

    Ma il vero capitale che manca è quello umano: i Comuni, oberati anche da personale non sempre qualificato, non possono permettersi i progettisti per attingere ai fondi europei e la Regione è ancora lontana dall’avere le competenze necessarie per la piena informatizzazione dei servizi. Deve ancora “smaltire” il personale prodotto dal vecchio Concorsone del 2004 e i dirigenti diventati tali in seguito alle vecchie “verticalizzazioni”, prima di procedere a un turnover adeguato.

    La situazione attuale

    Il 2019 terminò con un “onore delle armi” all’amministrazione Oliverio, che riuscì a malapena a rattoppare qualche buco nella riscossione e, finalmente, a conteggiare quasi come si sarebbe dovuto (e come avrebbe dovuto anche lui nei primi quattro anni di mandato) i debiti e i crediti.
    Ora c’è il rischio di un salto nel buio. E forse non sbaglia chi promette rivoluzioni alla Calabria: non c’è davvero quasi altro da fare.

  • Appesi a un filo, nei call center di Abramo cresce la paura

    Appesi a un filo, nei call center di Abramo cresce la paura

    Al posto della chiave inglese, il microfono e le cuffiette. Invece della rumorosa catena di montaggio, il silenzio della propria stanza. Così vivono la loro giornata gli operatori della Abramo Customer Care, le vocine anonime che spesso mandiamo a quel paese se rispondendo al telefono ci rendiamo conto che dall’altra parte c’è un call center. Da quando lo smart working ha sostituito le postazioni ricavate in cabine e scrivanie, tantissimi di loro lavorano confinati in casa, isolati dai propri colleghi.

    In Calabria, Sicilia e a Roma 3mila sono i dipendenti di questa fabbrica immateriale. Team leader e operatori al netto percepiscono otto euro all’ora. Mentre le società committenti fatturano centinaia di milioni, i contratti part-time permettono ai lavoratori di portare a casa tra i 650 e i 950 euro mensili. Da ormai tanti giorni vivono in solitudine l’agonia dell’impresa di cui sono dipendenti.

    Il 18 febbraio scorso, Heritage Venture Ltd Investment Company aveva manifestato disponibilità all’affitto del ramo d’azienda. Ma il 24 marzo comunicava al Tribunale di Roma e agli organi competenti di «non ritenere più valida ed effettiva l’offerta di affitto ponte d’urgenza». Il fondo irlandese precisava che «il trascorrere del tempo senza alcun riscontro e l’aggravarsi della situazione di mercato della Abramo rendono per noi non più proseguibile questa iniziativa». In seguito, s’era detto pronto ad acquistare la società all’asta che però il 22 luglio scorso è andata deserta.

    Un digitale sfuggevole

    Il cosiddetto terzo settore avanzato avrebbe dovuto rimpiazzare il sogno naufragato di insediamenti industriali che nella zona a nord di Cosenza non hanno mai attecchito. Qui è tangibile “lo sviluppo senza gioia”.
    In Calabria, nella seconda metà del ‘900, l’illusione che poter impiantare fabbriche ovunque fosse possibile aveva seminato scheletri di incompiute e veleni industriali provenienti da altri territori, senza però redistribuire ricchezza tra la popolazione.

    Negli ultimi decenni del secolo scorso, si è affermata la convinzione che un’economia basata sul digitale e sulla telematica potesse rimpiazzare il sogno tradito di importare al sud almeno una parte della produzione industriale italiana. Così migliaia di persone hanno potuto lasciare la propria famiglia d’origine per generarne una nuova, contrarre mutui, evitare l’emigrazione, prestando la propria opera in modalità intermittente, cioè “a chiamata”, all’interno di queste nuove promettenti imprese.

    Oggi la crisi di aziende come Almaviva e Abramo certifica la fine di questa illusione. Tra i lavoratori di questo settore serpeggia un mix di timore e attesa. Raccontano storie di rassegnazione, ma anche di orgogliosa rivendicazione dei propri diritti. “Paternalista” è l’aggettivo ricorrente che spesso adottano per evidenziare l’atteggiamento del titolare dell’azienda, Gianni Abramo. Gli subentrò per quasi tre anni il fratello Sergio, sindaco di Catanzaro e di recente transitato nel partito “Coraggio Italia” di Giovanni Toti. Le redini dell’impresa tornarono interamente a Gianni nel 2016.

    Tanti dei suoi dipendenti lo dipingono come un uomo disponibile ad aiutarli nei momenti difficili e ne esaltano la conduzione della Abramo CC con le modalità di una “grande famiglia”. Nei messaggi privati, qualcuno gli scrive che lo considerava “più di un padre”, riconoscendogli di aver sempre tenuto “alla sua azienda e ai suoi lavoratori più della sua vita”. Al tempo stesso, c’è chi segnala il rischio che in ogni famiglia persino il migliore dei padri possa divenire padrone.

    Una causa tira l’altra

    Sarà stato anche questo il motivo che ha spinto alcune operatrici a ribadire un principio elementare: ogni lavoro impone doveri, ma anche diritti. Ci sono storie di rara indignazione, come quelle di Concettina Pezzulli e Francesca Passarelli, che pur avendo maturato negli anni un rapporto di fedeltà nei confronti dell’azienda, a un certo punto si sono sentite costrette a chiedere l’intervento di un giudice.

    Concettina ha gli occhi vispi e un dolcissimo volto che s’imperla di lacrime quando rievoca i momenti più aspri della propria vicenda. «Sono stata assunta nel 2007 – racconta – e già l’anno successivo mi hanno assegnato il compito di coordinare il lavoro di altri colleghi. La direzione mi ha anche affidato incarichi di alta responsabilità, come recarmi in Albania per la start up di un nuovo call center». Come spesso accade, i problemi per Concettina iniziarono quando decise di tesserarsi a un sindacato.

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    Concettina Pezzulli e Francesca Passarelli hanno intrapreso una battaglia legale contro Abramo Customer Care

    «Nel marzo 2017 – prosegue l’operatrice – fui eletta RSU per la Uilcom. Già negli anni precedenti, quando avevo mansioni di coordinamento, non volli esercitare pressione sui collaboratori a progetto, che non avendo un rapporto di subordinazione non possono essere inquadrati in turni lavorativi. Nel 2018, a tutti gli altri team leader l’azienda propose un avanzamento di livello, promuovendoli al quarto. A me no! Anzi, fui demansionata, mi imposero di tornare in cuffia».

    Così Concettina decise di fare causa. Il 7 luglio 2020 il giudice del Lavoro, Alessandro Vaccarella, le ha dato ragione, ordinandone l’inquadramento nel quinto livello. «È passato più di un anno – conclude la lavoratrice – ma l’azienda non ha ancora applicato la sentenza. Tutto ciò in me genera impotenza, frustrazione, crisi profonda. In tanti anni di lavoro, m’aspettavo un riconoscimento. Invece, ho ottenuto solo richiami verbali, richieste di rientro in presenza durante la pandemia. E tra i miei colleghi c’è stato pure chi mi ha consigliato di lasciare il sindacato».

    Ostilità verso le mamme

    Sulla scia di Concettina, anche la crotonese Francesca Passarelli ha deciso di ribellarsi. «Dopo essere tornata dalla maternità – racconta l’operatrice – ho avvertito un clima di totale ostilità nell’azienda, da parte dei superiori e persino dei colleghi. Due anni e mezzo di pressioni su di me, in molti casi documentate, finché non hanno messo in campo il demansionamento. Ti chiedono: “Ma vuoi proprio farlo l’allattamento? È preferibile non prendere astensione”. È così che inizia tutto. Se non rinunci ai tuoi diritti, la paghi. Se vuoi lavorare, crescere tuo figlio diventa insostenibile».

    Così, anche Francesca si è rivolta a un legale. «Ho trovato la forza di rinchiudermi in un’aula di tribunale – prosegue Passarelli – per difendere con le unghie e con i denti la mia dignità di mamma. Il procedimento sta proseguendo, tra vari rinvii. Si è un po’ allungato anche a causa della pandemia, ma io sono fiduciosa. Credo molto nella giustizia”.

    In caduta libera

    La competizione spietata delle altre imprese che delocalizzano e abbattono i costi, la deregolamentazione nella gestione delle commesse Telecom, l’abbassamento qualitativo delle prestazioni in smart working dal primo lockdown in poi, l’assenza di un programma di rilancio. Sarebbero queste le principali cause visibili della crisi che ha investito l’intero settore in Calabria.

    Per la Abramo CC il calo delle commesse sta comportando il collasso. Dalle 10mila chiamate giornaliere che nel 2019 gestiva per Telecom, si è scesi a 3mila. «Tim è certamente la commessa più solida e importante di Abramo – spiega Valeria Maria Tarasio, già team leader sulla commessa Vodafone -, ma negli ultimi anni anche il fatturato di Vodafone raggiungeva circa mezzo milione al mese, con 250 co.co.co che effettuavano chiamate in outbound».

    «Peccato – continua Valeria Maria – che il committente non si sia più fidato della condizione precaria di Abramo in concordato. E a partire da gennaio ha ridotto i volumi gradualmente, fino alla chiusura totale al 15 settembre. Ci hanno rimesso il posto circa 250 operatori, di cui 150 della sede di Montalto, alcuni dei quali lavoravano su questa commessa da più di 10 anni. Purtroppo, trattandosi di lavoratori precari, nessuna clausola di salvaguardia sociale ha potuto salvarli. L’intero staff è al momento in attesa di conoscere la propria sorte».

    Le attività sono transitate su altri partner di Vodafone, ma gli operatori di Abramo sono rimasti a spasso. Così non è andata, per esempio, con la commessa di HO mobile, assorbita a maggio da Transcom, operazione in cui sono state correttamente utilizzate le clausole sociali che hanno costretto Transcom ad aprire una sede a Rende e ad assorbire tutti i dipendenti operanti su questa commessa.

    Invece, per gli operatori rimasti al servizio della Abramo CC, i guai non sono finiti. La crisi dell’azienda ha provocato scompensi per centinaia di famiglie. In passato i pagamenti sono stati sempre puntuali, ma nel 2020 la situazione è mutata. Lo stipendio di ottobre non è mai stato corrisposto. Nello stesso anno è saltato pure il 30 per cento della mensilità di settembre. E a fine annata la tredicesima è stata calcolata solo su due mesi di prestazione. Oggi la cassa integrazione oscilla tra una media di cinque giornate mensili per i team leader e un massimo di quindici, come nel caso degli operatori della sede di Catanzaro.

    La Regione assente

    I sindacati non hanno mai avuto vita facile in questo settore. L’anno scorso i confederali promossero un bizzarro sit-in domenicale davanti all’azienda, convocandolo soltanto la sera prima. Adesso lamentano la mancata consegna di un piano industriale, sebbene il nuovo direttore generale, Giovanni Orestano, lo avesse promesso nel marzo 2020. All’epoca si prospettava l’alternativa di un’espansione dell’azienda in settori diversi dalle telecomunicazioni, come quello assicurativo oppure nel finanziario. Ciò non è avvenuto.

    «Fino ai primi mesi del 2019 tutto sembrava rose e fiori, nonostante una certa miopia nella gestione del personale e nelle scelte strategiche. Poi l’azienda Abramo ha iniziato la sua parabola discendente, motivandola con un notevole calo di volumi della Commessa Tim, che equivale al 70% del suo fatturato milionario annuo», raccontano gli operatori aderenti al sindacato Cobas. «A ogni inizio mese speriamo di non ricevere messaggi aziendali come successo a fine 2020, quando siamo stati informati del blocco dei pagamenti. Da qualche mese – proseguono i dipendenti – è attivo un tavolo di crisi presso il MISE, alla presenza di tutti i soggetti possibilmente coinvolti, comprese le istituzioni locali e regionali».

    «La Regione Calabria – proseguono – è l’unica che non ha mai partecipato ai tavoli convocati. Né con il suo presidente né con l’assessore o un membro della giunta regionale, né con un dirigente del settore Lavoro. E questo fa rabbia. Soprattutto sapendo che fra 20 giorni il consiglio regionale sarà rinnovato e questa gente verrà nuovamente rieletta. Crediamo sia necessario che le grandi aziende che fanno capo alla filiera vengano messe spalle al muro. Internalizzare i servizi di contact center – concludono i Cobas – è l’unica soluzione per poter fornire sicurezza occupazionale, salari dignitosi e inquadramenti contrattuali adeguati a tutti noi che ci troviamo periodicamente a fare i conti con i cambi d’appalto o con crisi aziendali di questo tipo».

    Brutte nuove

    Nelle ultime ore, due notizie hanno suscitato ulteriore sconforto tra i lavoratori. Non ha niente di incoraggiante l’annuncio “Vendesi” apparso on line sul capannone che da anni a Montalto ospita la Abramo CC, sebbene da più parti ci si affretti a segnalare che lo stabile è in vendita già da tempo per recuperare liquidità. Dal faccia a faccia tra i vertici dell’azienda e i rappresentanti sindacali, giovedì scorso, è emerso che si andrà verso l’amministrazione straordinaria, con udienza a Roma il 13 ottobre. E che Poste italiane pagherà direttamente gli stipendi fino al 1° dicembre, data di scadenza della commessa. Se qualche azienda deciderà di acquisire Tim, in blocco o per singola attività, tutti auspicano l’applicazione della clausola di salvaguardia sociale. Garantirebbe l’assorbimento dei dipendenti della Abramo CC.

    Altrettanta preoccupazione ha scatenato un post, circolato nelle chat, che attesterebbe la volontà dell’azienda di costruire “un nuovo team per il sito sloveno” e verificare la disponibilità degli operatori a farne parte. I più ottimisti intravedono nell’annuncio la semplice possibilità che si aprano condizioni per lavorare oltre l’Adriatico. I critici sbuffano: «Mentre qua non si sa neanche se paga gli stipendi, all’estero apre nuove attività». Gli scettici sono sicuri che si tratti di fake news. Ma nella “società artificiale”, purtroppo, “ciò che deve accadere accade”.

  • Calabria: non è una regione per donne

    Calabria: non è una regione per donne

    Accoltellata a morte dal marito. Il barbaro femminicidio di Sonia Lattari, 43enne, assassinata dal marito, Giuseppe Servidio a Fagnano Castello, nel Cosentino, riapre il dibattito sulla condizione delle donne in Calabria. Discriminate, ghettizzate, con minori opportunità di accesso al mondo del lavoro e alle istituzioni. E, spesso, vittime di violenze o uccise.

    I numeri su omicidi e violenze

    In un anno, in Italia, sono state uccise 105 donne. È il 38% degli omicidi volontari. Il dato emerge dall’annuale dossier del ministro dell’Interno. Il periodo di riferimento del dossier è quello che va da agosto 2020 a luglio 2021.

    Sonia Lattari è la quarta donna uccisa in Calabria dall’inizio dell’anno per mano di partner o ex compagni. Spesso il delitto si consuma al termine di un periodo, più o meno lungo, di violenze fisiche e psicologiche. Se, infatti, il numero di vittime in Calabria non registra picchi particolarmente significativi rispetto alla media nazionale, ciò che preoccupa sono i cosiddetti “reati spia”. Quelli, cioè, che possono preludere a un epilogo ancor più drammatico. «In questo momento in Procura abbiamo un numero elevatissimo di denunce per reati di violenza di genere ed è un trend che è in crescita». Ad affermarlo il procuratore capo di Cosenza, Mario Spagnuolo.

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    Sonia Lattari insieme al marito, oggi accusato di averla uccisa a coltellate

    Ma non sempre si denuncia. La stessa Sonia Lattari, nel passato, aveva subito percosse dall’uomo. Ma non aveva denunciato. «Troppe volte ematomi e ferite vengono giustificati in termini non credibili, quando arriva la polizia sul luogo delle violenze. E allora invitiamo a denunciare, perché abbiamo tutta una struttura di supporto per affrontare i drammi di queste persone, se si affidano a noi», aggiunge Spagnuolo.

    Antonella Veltri, presidente della Rete nazionale dei centri antiviolenza, dà una chiave di lettura diversa: «Le donne stanno dimostrando grande resistenza. Ma le donne non denunciano perché con il sistema attuale si ripropongono a una vittimizzazione secondaria».

    La donna in Calabria

    Oltre ai casi di violenza diretta, ciò che preoccupa è la condizione generale della donna in Calabria. A cominciare da quella lavorativa. Il mercato del lavoro calabrese che sino al 2019 mostrava un lieve ma costante recupero, nel mese di giugno 2020 registra un arresto di tale trend positivo. A certificarlo il rapporto sull’economia della Calabria della Banca d’Italia. Ovviamente su tale situazione, molto ha inciso la pandemia da Covid-19. Ma a pagare sono sempre le “solite” categorie. La riduzione della occupazione ha riguardato principalmente la fascia di lavoratori di età compresa tra 15 e 29 anni. E la componente femminile.

    Nel 2018 per l’Italia aumenta la distanza nel tasso di occupazione femminile dalla media europea. Che passa da 11,5 a 13,8 punti percentuali. A livello nazionale si riduce il gap tra uomini e donne. Questo per effetto della contrazione nel periodo del tasso di occupazione maschile. Ma il divario è più elevato rispetto alla media europea. Tra il 2008 e il 2018, per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile il Mezzogiorno, già molto lontano, perde ulteriormente terreno. Attestandosi al 30,5 del 2018.

    Numeri già non lusinghieri. Che, nella nostra regione, peggiorano ulteriormente. Secondo quanto riportato nel Documento di indirizzo strategico regionale per l’avvio della programmazione 2021-2027 «la Calabria esprime un tasso di occupazione del 31%, di oltre 30 punti inferiori alla media europea». Sempre nel medesimo Documento, l’individuazione delle cause di tali numeri inquietanti: «La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro è legata in buona parte alla carente disponibilità di servizi di cura e assistenza (anche, ma non solo, per la prima infanzia), insufficienti investimenti nelle politiche di welfare e di conciliazione tempi di lavoro/tempi di vita, rigidità organizzative del lavoro, squilibrio persistente nel riparto del lavoro di cura all’interno della famiglia».

    La rete antiviolenza smantellata

    In Italia, il reato di femminicidio è stato introdotto solo nel 2013. La legge 19 luglio 2019, introduce talune disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Ed è l’occasione per chiarire il funzionamento del sistema penale per la tutela delle vittime di femminicidio. Il cosiddetto “Codice Rosso”. Negli ultimi 10 anni, in Calabria sono circa 100 le donne uccise.

    «Vorrei superare lo stereotipo calabrese del vittimismo. La situazione delle donne in Calabria rispecchia grossomodo quello che avviene a livello nazionale. Ma vorrei che su questo si interrogassero anche gli uomini. Non c’è stata una presa di coscienza maschile. Che io invece invoco», afferma ancora Antonella Veltri.

    Nonostante il Documento di indirizzo strategico regionale per l’avvio della programmazione 2021-2027, individuasse precisamente entità e cause della condizione di svantaggio in cui versa la donna in Calabria, è stata di fatto smantellata la rete di consultori familiari, presidi socio sanitari e centri antiviolenza. Tutte strutture che potrebbero prevenire delitti. Ma che potrebbero contrastare, anche culturalmente, le violenze e le discriminazioni nei confronti delle donne.

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    Uno striscione di protesta contro la panchina rossa installata di fronte alla questura di Cosenza
    Nessun segnale dalle istituzioni

    Tali strutture necessitano di figure professionali quali psicologi, psicoterapeuti e psichiatri. Ma sono stati colpiti dalla scure del Piano di rientro dal debito sanitario della Calabria. Sul punto, Antonella Veltri chiede un impegno a tutte le istituzioni: «Non ha senso sbandierare le belle panchine rosse, su cui andiamo a fare accomodare le donne vittime di violenza. Chiedo quindi che venga data forza ai centri antiviolenza. Essi sono l’avamposto per contrastare tutto questo».

    Ma la cartina al tornasole di quanto manchi una presa di coscienza, soprattutto culturale, è data dalla scarsa partecipazione alla vita pubblica delle donne. Anche il Consiglio regionale della Calabria è, da sempre, un “affare” quasi esclusivamente per uomini. E anche le imminenti Regionali (che porteranno al voto con la doppia preferenza di genere). Anche su questo, Antonella Veltri ha un’idea controcorrente: «Sono sempre stata contraria alle Pari opportunità, ma la doppia preferenza può essere, effettivamente, un facilitatore. Non mi piace, ma vedremo cosa accadrà. Insisto, però: le donne non sono messe nelle condizioni di dimostrare il proprio valore».

    La lista delle “zoccole”

    Non si perde l’occasione, però, di dimostrare, anche pubblicamente, un presunto disvalore femminile. Sarebbe infatti grottesco, se non fosse parimenti inquietante, quanto accaduto qualche giorno fa a Cinquefrondi, in provincia di Reggio Calabria. Sui muri del paese della Piana di Gioia Tauro, infatti, è apparsa quella che è stata battezzata la “lista delle zoccole”.

    A segnalare l’accaduto, un’attivista cosentina del Collettivo Fem.In (lo stesso che incastrò l’allora commissario alla sanità, Giuseppe Zuccatelli con le sue dichiarazioni no-mask). Sul punto è intervenuta anche l’amministrazione comunale di Cinquefrondi, entrando in contatto con le autorità. Nel tentativo di individuare il responsabile o i responsabili delle continue affissioni notturne. Ma anche i cittadini si sono organizzati in vere e proprie “ronde” per scovare chi, tra i 6500 abitanti di Cinquefrondi abbia ideato questa lista offensiva e discriminatoria.

    Un elenco di donne, con tanto di nomi e cognomi, additate come “zoccole”. Un pratica che viene ormai praticata da tempo, avendo trovato anche una connotazione sociologica: “slut shaming”. La vergogna pubblica nei confronti di donne considerate troppo disinvolte nei comportamenti sessuali. O nel modo di vestire. Donne di facili costumi, quindi. O, comunque, degne di riprovazione. Soprattutto per ragioni di tipo sessuale. Ma non solo. Alle malcapitate viene affibbiato ogni tipo di insulto. «Leggi, ma non strappare», il messaggio di accompagnamento.