Categoria: Inchieste

  • Garage ‘ndrangheta: le supercar delle ‘ndrine

    Garage ‘ndrangheta: le supercar delle ‘ndrine

    Ferrari, Porsche, Lamborghini, BMW: c’è stato un tempo in cui la ‘ndrangheta manteneva un profilo un po’ più basso, con i lussi ben celati. Magari all’interno di case sprovviste di facciata e con i mattoni ben in vista, espressioni di pregio del “non finito calabrese”. Oggi, invece, le nuove generazioni dei clan non disdegnano i lussi. E iniziano anche a ostentarli. Troppo presto per parlare di una “camorrizzazione” della ‘ndrangheta. Ma di certo le nuove leve delle ‘ndrine non disdegnano i motori rombanti. E con essi fanno anche tanti affari.

    Il traffico internazionale

    L’ultima scoperta, appena poche settimane fa, con l’arresto di 14 persone e il sequestro di oltre 13 milioni di euro in Germania. Tra i soggetti coinvolti, i fratelli Sebastiano e Giuseppe Pelle, esponenti dello storico casato di ‘ndrangheta. Un’inchiesta, quella portata avanti dagli inquirenti italiani e tedeschi, che ha riguardato una enorme frode fiscale internazionale nel settore del commercio di auto di lusso e un traffico di sostanze stupefacenti.

    Sebastiano Pelle risponde di frode all’Iva condotta attraverso società cartiere dal 2017 fino a qualche mese fa. Mentre Giuseppe Pelle sarebbe coinvolto in un traffico di sostanze stupefacenti, in particolare hashish. Gli inquirenti ipotizzano una frode Iva transfrontaliera, incentrata sulla vendita dei veicoli. Auto trasferite a varie società con sede in Italia, Belgio, Bulgaria, Francia e Portogallo. Ma secondo gli atti d’indagine «si tratta di trasferimenti soltanto apparenti, posto che i suddetti veicoli venivano in realtà venduti ad altre persone o società e, certamente in molti casi, essi rimanevano nel territorio tedesco, senza dare vita ad una reale transazione intracomunitaria».

    Gli affari

    Le indagini sul conto di Sebastiano Pelle porteranno anche a scoprire il traffico di droga gestito dal fratello Giuseppe in combutta con la famiglia Barbaro-Papalia. Proprio al nipote dello storico boss Rocco Papalia, il 32enne Domenico Sergi, al momento dell’arresto, avvenuto nel 2018, verrà anche sequestrata una Maserati Gran Turismo del valore di 100 mila euro rubata a una società di noleggio.

    Una Maserati GranTurismo

    Del resto, già da tempo, sia al Nord, che all’estero, la ‘ndrangheta cura con grande attenzione il settore dell’automotive di lusso. In generale, al pari dell’edilizia e della grande distribuzione, il mercato delle auto è un business storico. Proprio recentemente, il Gip di Reggio Calabria ha rinviato a giudizio i noti imprenditori Frascati, coinvolti nell’inchiesta “Mercato Libero”. Si tratta di un nucleo familiare attivo da decenni in riva allo Stretto e concessionario di marchi importanti come Honda e Mazda. Secondo la Dda di Reggio Calabria, i Frascati sarebbero un avamposto economico della potente cosca Libri.

    Nel maggio del 2019, nel corso di un’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Canada, tra i beni sequestrati (oltre a ville di lusso e Rolex) finirà anche una Ferrari del valore di oltre un milione di euro.  Due anni prima, un’inchiesta della Dda di Catanzaro si concentra sugli affari della ‘ndrangheta in Umbria. E, in particolare, di clan Trapasso e Mannolo di Cutro. Tra le società interessate, anche una con sede a Milano.

    Una McLaren Ma3

    E lì, gli inquirenti trovano di fronte un campionario di auto di livello elevatissimo. Tra le altre vetture sequestrate, una Lamborghini “Huracan” da 200mila euro e una “Aventador”, che invece si aggira sui 350mila euro. E poi una McLaren “MA3” da 300 mila euro, un paio di Ferrari cabrio e una “812 Superfast” (anche qui siamo sui 300mila euro), poi Bentley e Rolls Royce. Ma anche Audi e Mercedes. Che in quel garage sembrano quasi utilitarie. Un parco auto da 4 milioni di euro.

    Nel maggio scorso, la Procura di Asti ha chiuso il cerchio su una presunta associazione criminale che si muoveva tra Cuneo, Torino e Asti. Un giro internazionale illecito di auto di lusso (tra cui Bmw e Mercedes) e documenti di circolazione. Con un obiettivo: “ripulire” in giro per l’Italia i mezzi usati in vari crimini in mezza Europa, agevolando anche la ‘ndrangheta.

    Il garage di lusso della ‘ndrangheta

    Nel settembre 2021 l’arresto, dopo tre anni di latitanza, del 39enne Giuseppe Nacci, ricercato a livello internazionale per una condanna a 11 anni per reati di bancarotta fraudolenta, tentata estorsione e associazione a delinquere. Uomo ritenuto in affari con la famiglia Flachi, esponenti di spicco della ‘ndrangheta al Nord. Nel 2018, poco prima di darsi alla macchia, era stato fermato a Montecarlo a bordo di una Lamborghini bianca e con addosso dei documenti poi rivelatisi falsi.

    Anni prima, al clan degli Zingari, nel Cosentino, la Dda sequestrò una Ferrari 360 Modena (valore circa 150mila euro), una Chevrolet Camaro (oltre 40mila euro), Smart fourfour (25mila euro), Land Rover, Mercedes ml ed Aston Martin il cui valore complessivo ammonta a diverse centinaia di migliaia di euro. Nel processo “Rinascita-Scott”, il pentito Andrea Mantella definisce “un mito” il boss vibonese Saverio Razionale: “Girava per Vibo con una Lamborghini Diablo”. Una supercar prodotta dall’azienda italiana in nemmeno 3.000 esemplari tra il 1990 e il 2001. Oggi vale tra i 150mila e i 200mila euro.

    Una Ferrari F430

    All’imprenditore Pasquale Capano, nativo di Belvedere Marittimo, in provincia di Cosenza, ma residente da tempo a Roma, la DIA sequestrerà beni per oltre 50 milioni di euro, ritenendolo uomo assai vicino alla potente cosca Muto di Cetraro. Oltre a ville con piscina e lussi di ogni tipo, nel suo garage, anche una Ferrari F430. Quando era in commercio si partiva da circa € 175.000 per la coupé e da circa 200.000€ per la Spider. Ma non solo: anche un fuoristrada Hummer 6000 di cilindrata, una Mercedes classe E (circa 50mila euro di valore), una Bmw X5 (70mila euro a listino).

    L’auto di Franco Muto

    A proposito di Franco Muto. Siamo ben lontani dalla sua tipologia di auto. Il “re del pesce” di Cetraro è considerato uno dei boss più carismatici del panorama criminale. Uno dei pochi, fuori dai confini della provincia di Reggio Calabria, così autorevole da potersi relazionare con il “Crimine di Polsi”. Entra ed esce dalle cronache giudiziarie da quarant’anni.

    Il 21 giugno 1980 viene ucciso Giannino Losardo, consigliere comunale del Partito comunista di Cetraro, nonché attivista antimafia. Gli inquirenti sostengono che i mandante sia proprio lui, Franco Muto. Ma sarà assolto in primo e secondo grado e la sentenza è passata in giudicato. Il pentito Fonti lo tirerà in ballo anche con riferimento all’affondamento della motonave Cunsky, carica di rifiuti tossici e radioattivi. Ma la vicenda verrà chiusa con grande solerzia.

    Alcuni mesi fa, la sua autovettura fu anche messa in vendita all’asta sui portali Classic Driver e Bring a trailer. Né Ferrari, né Lamborghini. E nemmeno Maserati o Mercedes. L’auto di Franco Muto era un’Alfa Romeo “Alfetta 2000”. Una berlina sportiva di classe medio-alta prodotta tra il 1972 e il 1984 dalla casa milanese Alfa Romeo nello stabilimento di Arese.

    L’Alfetta 2000 di Franco Muto finita all’asta online

    Attenzione a definirla un’auto “banale”. L’Alfa Romeo del 1980, infatti, era totalmente blindata. Dai vetri rinforzati anche col plexiglass, alle ruote in acciaio da 15’’. Dotata persino di un interfono. Nell’annuncio, al limite del grottesco, veniva sottolineato come l’auto fosse appartenuta a «un noto membro della mafia italiana». Un’auto in vendita a poco meno di 20mila euro. E il pacchetto comprendeva anche gli ordini impartiti dal boss all’interno della vettura.

  • Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    Dal clochard al parrucchiere, la città di vecchi e nuovi poveri

    La povertà non si vede più. Nessuna illusione: non è stata sconfitta, si è solo trasformata, anche a Cosenza. Mettete da parte lo storpio davanti alla chiesa e la bambina rom con la mano protesa al semaforo. Queste figure continuano ad esistere, ma “il presepe della miseria” oggi conosce nuovi protagonisti, impensabili fino a ieri.  Se volete scoprire cosa accomuna lo straniero che attende una moneta all’ingresso del supermercato alla signora che si accorge di non poter fare la spesa, dovete domandarlo a chi nella trincea delle vecchie e nuove povertà ci sta da parecchio.

    Suor Floriana in prima linea contro il disagio

    Suor Floriana, per esempio, monaca da prima linea contro le forme di disagio che da sempre esistono nella perifericità urbana e sociale della città vecchia. Il suo quartier generale è lo Spirito Santo, zona del centro storico di confine tra vecchi e nuovi bisogni sociali. «Qui troviamo condizioni diverse, microcriminalità, famiglie con congiunti costretti ai domiciliari, oppure detenuti. Tutti contesti di sofferenza e fragilità», spiega suor Floriana. Da qui parte la sua opera di soccorso dei marginali, conoscendo le singole storie accomunate da una sorte di fatica umana. «Dal 2015 nel centro storico si sono spostate molte famiglie rom», continua suor Floriana spiegando che «pagano un fitto per le case che occupano, ma quasi mai alle persone che sono proprietarie degli appartamenti». Infatti quelle case sono state abbandonate dai proprietari e a governare questo fenomeno sono individui che non operano proprio nella legalità.

    Rione di antico degrado

    La frontiera di questa città dolente è ancora Santa Lucia, rione di antico degrado umano, per il quale in passato la vecchia amministrazione aveva annunciato il risanamento grazie a fondi che mai si sono visti. «Qui l’intervento è a tutto campo, dal doposcuola per i bambini, all’assistenza di vario genere rivolta a persone che pur essendo cittadini comunitari, non godono di alcun diritto», spiega ancora la suora, parlando di una schiera di invisibili per le istituzioni che diventano automaticamente indesiderabili per il resto della comunità.

    Crolli e macerie a Santa Lucia, nel centro storico di Cosenza
    Il parrucchiere, il negozio chiuso e il mutuo da pagare

    Ma nemmeno gli “italiani” si salvano, la miseria risucchia pure chi fino a ieri si considerava in salvo. «La vita era quella di prima, non questa» sussurra Anselmo, un parrucchiere la cui quotidianità prima del lockdown era promettente: una discreta clientela, un mutuo per una casa, un orizzonte tutt’altro che cupo. Poi l’imprevedibilità dell’epidemia, il negozio chiuso, il fitto e il mutuo da pagare e l’esaurirsi rapido dei risparmi. Così si è varcato quel confine sottile tra un relativo benessere e lo scivoloso declivio dell’inattesa povertà.  Di qui alla necessità di trovare il coraggio di rivolgersi alle associazioni per avere un sostegno. «Non immaginavo sarebbe mai successo e invece mi sono trovato obbligato a chiedere aiuto e non è stato facile». Non facile, ma inevitabile per Anselmo che ora va a casa delle signore a fare loro le acconciature e da qui prova a ripartire.

    Sergio Crocco: pasti portati pure nei quartieri borghesi

    «Quelli che si vergognano maggiormente sono quelli che non immaginavano di diventare poveri, gli altri sono abituati a chiedere aiuto», spiega Sergio Crocco, punto di riferimento della Terra di Piero, nota associazione cittadina impegnata sui vari fronti del bisogno sociale. Oggi la geografia dell’emergenza povertà si è allargata dalle periferie fino a quelle strade dove le luci del benessere sembravano destinate a non spegnersi mai.
    Sergio Crocco racconta che con i volontari della Terra di Piero nel corso del lockdown ha portato centinaia di pasti ogni sera a chi ne faceva richiesta, dai luoghi storici dell’emergenza economica, fino ai quartieri borghesi.

    Sergio Crocco, presidente e fondatore de La Terra di Piero
    Le istituzioni assenti

    Il rapporto con le istituzioni fin qui è stato vano. «Alessandra De Rosa, esponente dell’amministrazione Occhiuto, è spesso venuta da noi, mostrando sincero coinvolgimento personale – prosegue Crocco – ma mai il suo impegno si è potuto trasformare in intervento reale a causa della mancanza di risorse destinate al bisogno delle persone». Dentro questa mappa della disperazione ci sono gli ultimi tra gli ultimi, quelli che dormono sotto i ponti, quello di Calatrava per l’esattezza. «Sono circa una quarantina di stranieri, che trovano rifugio lì sotto, nell’assoluta indifferenza dei Servizi sociali», continua Crocco rammentando che «quando c’era padre Fedele, di gente che dormiva per strada non ce n’era».

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    Un rifugio di fortuna costruito da un clochard sotto il ponte di Calatrava nell’estate del 2021
    Il nemico si chiama pure povertà educativa

    Alla miseria materiale corrisponde quella immateriale. Si chiama povertà educativa. Riguarda non solo l’assenza di opportunità culturali, ma anche di consapevolezza dei diritti di cittadinanza. Giorgio Marcello, sociologo dell’Unical, impegnato da tempo su questo fronte, spiega che è qui che maggiormente si consuma l’ingiustizia sociale. «Il contesto familiare, la mancanza di opportunità culturali, segnano le nuove generazioni», dice il sociologo, confermando che le aree maggiormente deprivate di tali opportunità restano quelle periferiche dell’area urbana. Contro questo nemico sono stati messi in campo interventi delle associazioni di volontariato, «ma la diffusione del tempo pieno a scuola sarebbe lo strumento di maggiore efficacia contro l’impoverimento culturale», spiega il sociologo aggiungendo che «questo comporta una politica educativa, mentre i processi di scolarizzazione sono stati considerati residuali». L’impoverimento della città è un nemico difficile da battere a mani nude, servono strategie e risorse.

  • Crolla tutto quando costruisce la “Edil ‘Ndrangheta Spa”

    Crolla tutto quando costruisce la “Edil ‘Ndrangheta Spa”

    «Secondo lui dice non va bene. Perché noi al Morandi con questo materiale l’abbiamo fatto… e casca tutto». È solo uno dei tanti passaggi, parimenti inquietanti, che emergono dalle intercettazioni captate dagli inquirenti nell’ambito dell’operazione “Brooklyn”. Con questa indagine la Dda di Catanzaro non solo è convinta di aver dimostrato l’infiltrazione delle cosche nelle opere pubbliche del capoluogo. Ma anche l’impiego di materiale scadente, con il conseguente rischio per i cittadini.

    Il ponte di… “Brooklyn”

    Sei misure cautelari nell’operazione eseguita dalla Guardia di Finanza. Che sostiene come il gruppo imprenditoriale della famiglia Sgromo fosse un punto di riferimento della cosca Iannazzo di Lamezia Terme. Dalle conversazioni registrate emergerebbe l’impiego nelle lavorazioni di un tipo di malta di qualità scadente. E quindi più economica di quella inizialmente utilizzata: «A me serve nu carico 488 urgente, altrimenti devo vedere… devo mettere quella porcheria di******* qui sui muri eh…, che c’hanno stoccato per Catanzaro nu… nu bilico… però vorrei evitare ste simbrascugli…», afferma il direttore tecnico dei lavori. «Eh… fai… fai… fai… fai una figura di merda… perché quel prodotto non funziona», risponde il rappresentante della ditta fornitrice. Quei materiali, dicono testualmente gli indagati intercettati, «fanno cagare».

    «Qua crolla tutto», aggiungono in un’altra intercettazione. Tra le opere costruite con questo materiale scadente c’è il viadotto Bisantis. Lo conoscono tutti come “Ponte Morandi”, dal nome del progettista: l’ingegnere Riccardo Morandi, padre anche del ponte di Genova che crollò il 14 agosto del 2018 provocando 43 vittime. Parliamo della principale strada di accesso a Catanzaro, un ponte ad arco costruito su una sola arcata in calcestruzzo. Per l’altezza, è il secondo ponte in Europa con quelle caratteristiche.

    ‘Ndrangheta e appalti

    Lo spaccato inquietante emerso con l’inchiesta “Brooklyn” non è, purtroppo, un caso isolato. Sia in Calabria, sua terra di origine, che nel resto d’Italia, la ‘ndrangheta si è inserita o ha tentato di farlo nella gestione degli appalti e subappalti pubblici. Lo fa in vari modi. Dalla “classica” imposizione della tangente, sotto forma di mazzetta di denaro, all’aggiudicazione dei lavori tramite aziende apparentemente “pulite”. O, ancora, l’imposizione delle maestranze. Ma anche la fornitura di materiali. O quello che potremmo definire l’indotto: dai servizi mensa per gli operai alle lavanderie.

    Gli appalti pubblici, da sempre, sono un bocconcino prelibato per le cosche. E l’infiltrazione mafiosa è una delle principali obiezioni che vengono poste contro la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina. Ma questo è solo un esempio. La ‘ndrangheta, da sempre, pasteggia grazie ai grandi appalti pubblici. Dagli eterni lavori sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, passando per la SS106. Per rimanere in Calabria. Ma le indagini hanno dimostrato le infiltrazioni in EXPO 2015 a Milano. E gli appetiti sulla TAV.

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    Un incidente sulla SS 106 nei pressi di Corigliano-Rossano

    Un po’ in tutti i casi, la costante è rappresentata dalla durata dei lavori. Più il cantiere rimane aperto, più le cosche possono arricchirsi. innanzitutto grazie l’ormai nota “tassa ambientale”, ossia l’estorsione da pagare per “non avere problemi” unanimemente indicata dai collaboratori di giustizia con il classico 3% sull’importo dei lavori. E poi per la ‘ndrangheta c’è la possibilità di poter lucrare il più possibile sull’appalto in sé. Anche tramite l’utilizzo di materiali scadenti. Che, ovviamente, fanno abbassare sensibilmente i costi di realizzazione. Per questo il caso del ponte Morandi a Catanzaro e dell’inchiesta “Brooklyn” è tutt’altro che isolato.

    La Salerno-Reggio Calabria

    Nel 2016 su mandato della Procura della Repubblica di Vibo Valentia vengono sequestrati otto chilometri della Salerno-Reggio Calabria. L’autostrada A3 (oggi A2-Autostrada del Mediterraneo) è stata interessata da eterni lavori di ammodernamento. Praticamente fin da subito dopo l’inaugurazione, avvenuta negli anni del boom economico.

    Secondo le indagini il tratto che comprende i viadotti del torrente Mesima sarebbe stato costruito con materiale scadente e senza i necessari studi idraulici. Nel decreto di sequestro, emesso nell’aprile 2016, il percorso del torrente Mesima è considerato «pericolosamente incidente sulle pile in alveo». Nella relazione stilata per la Procura si chiedeva urgentemente di mettere in sicurezza quel tratto. Che, tuttavia, non è stato mai chiuso. Con la stessa Anas che fu nominata custode giudiziaria del sequestro e che, a più riprese, ha garantito uno scrupoloso controllo sull’arteria.

    L’ingegner Fiordaliso

    La questione lavori dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria è strettamente collegata alla posizione dell’ingegnere Giovanni Fiordaliso, al centro delle inchieste “Cumbertazione” e “Waterfront” perché considerato un professionista vicino alle cosche di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro. E, in particolare, alla famiglia Piromalli tramite il nucleo familiare dei Bagalà. Recentemente, tuttavia, il Tribunale della Libertà ha annullato l’ordinanza di custodia cautelare nei suoi confronti.

    Fiordaliso è coinvolto nella veste di ingegnere funzionario ANAS e direttore dei lavori e RUP nell’ambito di varie commesse pubbliche in materia, tra l’altro, di ammodernamento e adeguamento di tratti autostradali della Salerno/Reggio Calabria. Sarebbe stato, secondo gli inquirenti un «indefettibile tassello strumentale all’infiltrazione nel settore degli appalti pubblici di cartelli imprenditoriali connotati da contiguità mafiosa ed il cui contributo si traduceva in plurime e reiterate condotte corruttive, a fronte delle quali traeva ingenti profitti ed utilità di vario genere».

    Interessato anche da un sequestro di beni, l’ingegnere non è solo alla famiglia ‘ndranghestista dei Bagalà, ma anche all’imprenditore Domenico Gallo. Quest’ultimo, uomo forte nel settore della bitumazione, secondo alcuni passaggi tecnici, avrebbe anche fornito materiale inferiore rispetto a quello previsto dall’appalto.

    I lavori sulla SS106

    Altrettanto infiniti i lavori che hanno interessato e interessano la SS106 jonica. Quella che, tristemente, è conosciuta come “strada della morte”. Anche in questo caso le dinamiche sono simili a quelli della Salerno-Reggio Calabria. Anche sulla strada che porta fino a Taranto le cosche hanno spartito territorialmente gli introiti da incassare sui lavori.

    Il sospetto di lavori effettuati senza rispettare i requisiti minimi o con materiale scadente è forte. Un’inchiesta di qualche anno fa, denominata “Bellu lavuru”, partirà proprio dal crollo della galleria Sant’Antonino di Palizzi, avvenuto il 3 dicembre 2007. Secondo le indagini, l’opera sarebbe venuta giù perché realizzata in difformità alle prescrizioni dettate dalla Relazione Tecnica e Strutturale e dal Piano Operativo di Sicurezza del Progetto Esecutivo. Nonché a quanto disposto dal Capitolato Speciale di Appalto, quale allegato al contratto d’appalto. Difformità che avrebbero causato la perdita di stabilità del versante scavato ed il riversamento dello stesso sulle opere in fase di realizzazione. Interessate dalle indagini le cosche Morabito, Bruzzaniti-Palamara, Maisano, Rodà, Vadalà, Talia.

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    Il boss Giuseppe Morabito

    L’inchiesta coinvolgerà uomini della ‘ndrangheta, ma anche funzionari dell’Anas, sostenendo una elevata soglia di approssimazione nell’esecuzione dei lavori, la cui qualità si è rivelata inferiore a quanto prescritto negli atti progettuali che presiedevano e dovevano orientare la realizzazione della grande opera.  «È proprio un bellu lavuru», dicono i parenti di Giuseppe Morabito, meglio conosciuto come “il Tiradritto”.  All’anziano capomafia, recluso nel carcere di Parma in regime di 41 bis, annunciano l’appalto per i lavori di ammodernamento della Strada Statale 106 jonica ed in particolare la costruzione della variante al centro abitato del comune di Palizzi.

    La ‘ndrangheta al Nord

    Ma, come detto, tutto ciò non riguarda solo la Calabria. Qualche tempo fa, nel corso di un’intervista, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha definito «buona» la salute di cui gode la ‘ndrangheta al Nord. Perché anche lì la criminalità organizzata tende a ricostruire le medesime dinamiche della “casa madre”. Non solo per quanto concerne rituali e gerarchie, ma anche quando si parla di affari e di modalità di fare affari.

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    Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri

    «Nel mondo dell’edilizia le ‘ndrine sono sempre state molto presenti: offrendo manodopera a basso costo, garantendo lo smaltimento dei rifiuti, rifornendo cemento depotenziato. Gli imprenditori del Nord che si sono adeguati, oggi non possono dire di non sapere o di non aver capito. Spiego: se per anni i tuoi fornitori ti offrono un materiale a 100 e i nuovi arrivati te lo danno a 60, c’è qualcosa che non va. È evidente», ha aggiunto Gratteri.

    L’amalgama

    È stata la Dda di Genova, con un’inchiesta di qualche anno fa denominata “Amalgama”, a dimostrare come le dinamiche siano le medesime anche per i lavori al Nord. In quel caso, il focus investigativo si concentrò sul Terzo valico, la linea ferroviaria ad alta velocità che collegherà Milano e Genova. Un’opera da 6,2 miliardi. Un grande affare in cui il regista dell’operazione è il consorzio Cociv, ovvero i colossi delle costruzioni italiane: Salini Impregilo, Condotte e Civ. Una storia di flussi di denaro enormi e di corruzione, anche attraverso il reclutamento di escort. Con il solito, inquietante, dubbio sul materiale utilizzato: «Il cemento sembra colla», si dicono due degli indagati intercettati,

    È un’inchiesta con nomi altisonanti. Tra le persone rinviate a giudizio, c’è Ercole Incalza, ex capo della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti, indagato e poi prosciolto nell’inchiesta di Firenze sulle Grandi Opere. C’è Pietro Salini, amministratore delegato di Salini-Impregilo spa, detenente la partecipazione di maggioranza nel consorzio Cociv. Ma c’è anche Andrea Monorchio, ex Ragioniere generale dello Stato ed ex presidente di «Infrastrutture Spa», società a partecipazione pubblica costituita per il finanziamento delle Grandi Opere. Originario di Reggio Calabria, è coinvolto insieme al figlio imprenditore Giandomenico.

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    Pietro Salini, amministratore delegato di Salini-Impregilo spa

    Tutti avrebbero formato un “amalgama”, da qui il nome dell’inchiesta. Espressione presa a prestito dalle parole dell’imprenditore Domenico Gallo. Sì, ancora lui, l’imprenditore calabrese già coinvolto nell’inchiesta “Cumbertazione” e destinatario di un sequestro di beni. «Chi fa il lavoro, la stazione appaltante, i subappaltatori, deve crearsi l’amalgama, mo è tutt’uno… Perché se ognuno – dice Gallo intercettato – tira e un altro storce non si va avanti. Quando tu fai un lavoro diventi parte integrante di quell’azienda là e devi fare di tutto perché le cose vadano bene, giusto?». L’intercettazione è agli atti del processo. Processo che è a forte rischio prescrizione. I termini scadranno nel marzo 2022.

  • VIDEO | Cavallerizzo è una piccola Vajont di Calabria

    VIDEO | Cavallerizzo è una piccola Vajont di Calabria

    Cristo si era già fermato a Cavallerizzo, una piccola Vajont senza morti. La provocazione è di Fabio Ietto, geologo e professore dell’Università della Calabria. Era il 2005 quando una frana ha colpito una parte del piccolo centro arbëresh nel comune di Cerzeto.

    Da allora il paese è stato sfollato, la comunità sradicata e delocalizzata nella New town costruita in località Pianette, senza Valutazione di impatto ambientale. «Abusiva», così hanno sempre gridato gli attivisti di Cavallerizzo Vive.  Erano i tempi della Protezione civile targata Guido Bertolaso. A dicembre questo non-luogo compie 10 anni.

    Cavallerizzo non è scivolato a valle

    Le case sventrate non mostrano segni di cambiamento, di scivolamento. Tutto come prima. Troppo come prima. Il centro storico è stato quasi ignorato dallo smottamento. Il paese ha resistito, diventando uno dei set di Arbëria, audiovisivo finanziato dalla Calabria Film Commission. Di altri crolli nessuna traccia in vista. Di porte chiuse e imposte abbassate sì, tra le strade dove l’erba ha preso il sopravvento. Nella piazza principale senti solo cani abbaiare e il vento in sottofondo. L’insegna del bar “San Giorgio” appesa al muro e sotto una saracinesca arrugginita. Un classico dei luoghi abbandonati, a tratti pensi a Prypyat, la città fantasma vicina a Chernobyl.

    La piccola Vajont

    Il professore Fabio Ietto non è solo il consulente di Cavallerizzo Vive (Kajverici Rron nella lingua arbëreshë), associazione che si batte per la rinascita del paese. Viene spesso quaggiù, «a mangiare con chi resiste». La condivisione del cibo per ricostruire un pezzo di storia della comunità ormai frantumato. Spiega perché parlare di piccola Vajont ha un senso: «Una condotta interrata dell’acquedotto Abatemarco passava da qui, 400 litri di acqua al secondo all’interno di un corpo di frana dichiarato attivo». In giro non è difficile ascoltare la stessa versione dei fatti: i contatori correvano molto di più e troppo rispetto alle altre frazioni. Un consumo anomalo.

    Casa sventrata dalla frana a Cavallerizzo di Cerzeto (foto Alfonso Bombini)

    Non è possibile stabilire adesso se la frana abbia provocato la rottura o viceversa. L’ennesima stranezza calabrese è una condotta non costruita all’esterno in modo da verificarne eventuali perdite in una zona ad alto rischio idrogeologico.

    In entrambi i casi, e vista la natura del sottosuolo, l’acqua ha giocato un ruolo importante. Il professore ne è certo. «Una piccola Vajont, un disastro annunciato». Per fortuna senza morti in questo pezzo di Calabria.

    Gli effetti della frana del 2015 a Cavallerizzo (foto 2021 Alfonso Bombini)

    Non solo a Cavallerizzo si muove la terra

    C’è il rischio che la terra si muova persino vicino alla New Town. E il professore Ietto si chiede: «Perché hanno puntato sul nuovo sito invece di recuperare quell’11,5 % circa franato a Cavallerizzo?». I soldi spesi dal Governo Berlusconi di allora non sono stati pochi: 72 milioni di euro. Potevano essere destinati al paese poi abbandonato. Serviva pazienza e rispetto per chi da un giorno all’altro è stato sbattuto fuori casa. Invece, ancora una volta ha vinto la strategia dell’emergenza poi messa in atto compiutamente a L’Aquila.

    Una parte della New town costruita in località Pianette a Cerzeto (foto Alfonso Bombini)

    Quella di Kajverici è una lunga storia finita pure a carte bollate grazie alla voglia di non mollare dell’associazione Cavallerizzo Vive. Che aveva ragione. Mancava la Valutazione di impatto ambientale della New town. Era abusiva. Una vicenda formalmente chiusa nel 2019 quando è arrivata la assoggettabilità a Via da parte della Regione Calabria. Con una serie di indicazioni per mitigare il rischio attraverso interventi mirati. Altri soldi pubblici spesi.  I lavori sono stati già consegnati alla ditta – precisa il sindaco Rizzo – e si concluderanno in poco tempo.

    Fabio Ietto insegna Geologia, geomorfologia applicata e idrogeologia all’Università della Calabria (foto Alfonso Bombini)

    Agenzia immobiliare New town

    Il vecchio cede il passo al nuovo. C’è voglia di lasciarsi alle spalle questo capitolo. Il primo cittadino di Cerzeto, Giuseppe Rizzo, in quelle abitazioni tutte uguali non trova alienazione. Ma un posto che ha mercato. A buon mercato: «Dove la trovi una casa di tre piani a 50mila euro con metano, aria pulita e km 0?».

    Nei panni di agente immobiliare cerca di convincerci sul perché delle giovani coppie scelgono di abitare nella New town. Sono venti circa e alcune hanno scelto di trasferirsi dai paesi limitrofi.

    Rizzo non era primo cittadino quando costruirono il nuovo paese. Oggi cerca di cambiare la narrazione, sostenendo addirittura: «C’è poesia nelle New Town». Il resto della conversazione è un continuo tentativo di guardare oltre Cavallerizzo che, invece, diventerà sede nazionale delle esercitazioni dei vigili del fuoco. Magra consolazione per chi vorrebbe tornare ad abitare in quel posto.

    Crolli e abbandono nella parte superiore di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)

    Liliana non lascerà mai Cavallerizzo

    Qualche centinaia di metri in linea d’aria più in alto restano segnali di vita nella vecchia Cavallerizzo. Quando tutti gli abitanti hanno obbedito allo sgombero, una cosentina di via Panebianco non ha abbandonato la sua casa. Liliana Bianco ha passato una vita laggiù con il marito morto da poco. La corrente elettrica arriva grazie a due generatori – dice -. Non è sola, c’è un figlio a cui donare il resto dei suoi anni. A proteggerla un piccolo esercito di cani. È diventata un simbolo di resistenza.

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    Liliana Greco, unica abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini)

    Le lacrime di Silvio

    Non lontano Silvio Modotto, come ogni giorno, arriva da Cerzeto e coltiva il suo orto, apre la sua casa, beve il suo vino. Malvasia e Aglianico animano questo blend aspro, come lo sono i rossi fatti in casa. Discute con il cugino tornato dall’Inghilterra dopo la pensione. Storie di ritorno e radici alternando bicchieri undici al litro. E lacrime. Perché Silvio, vigile urbano in pensione, piange. Senza la sua piccola patria e senza più ragazzi con la voglia di cambiare lo stato delle cose. Quantomeno provarci. È pure un fatto anagrafico. Nella maggior parte dei casi non erano nemmeno nati nel 2005 e oggi sono troppo giovani per sentire nostalgia.

    Mani ruvide e voglia di continuare come se non fosse successo nulla, Silvio indica la chiesa rimasta intatta e senza fedeli. Ricorda la festa di San Giorgio: «Venivano da tutte le parti».

    Adesso l’unico a raggiungere Cavallerizzo è l’autore del murales sulla linea della frana. Quel Cristo in cima al Golgota della memoria di una comunità presa a calci e dimenticata.

  • Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    Rigel, Jolly Rosso, Cunsky: così si affossano le inchieste sulle “navi dei veleni”

    «Il dato che risulta evidente è che la magistratura non è stata adeguatamente supportata per affrontare indagini così complesse sia per l’oggetto sia per l’estensione territoriale, trattandosi di traffici transazionali». Qualche anno fa, la Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta da Gaetano Pecorella, arrivò a questa inquietante conclusione. Lo fece dopo mesi, anni, di indagini. Di acquisizioni documentali. Di audizioni. Tutto per provare a riaprire qualche file ormai archiviato sulle oscure vicende delle “navi dei veleni”. Che, come abbiamo visto, intrecciano i propri tragici destini con la Calabria. Ma anche con l’Africa. Rendendo tutto un grande, gigantesco, affare internazionale.

    «Ragioni inconfessabili”

    In queste vicende parlano più i morti dei vivi. Sul grande business di rifiuti e armi degli anni ’80 e ’90 tutti i diretti interessati o semplici sospettati, hanno sempre mantenuto riserbo o, nel migliore dei casi, vaghezza. Nomi che abbiamo imparato a conoscere. Da Giorgio Comerio a Giancarlo Marocchino. E, allora, parlano molto di più i morti. I giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia. Ma anche il capitano della Marina Militare, Natale De Grazia. Morto in circostanze misteriose proprio mentre indagava su questi traffici.  Dopo la sua morte, di fatto, non vi sarà più una vera, compiuta, inchiesta su queste vicende.

    Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

    E la Commissione Ecomafie lo scrive chiaramente: «Ne è un esempio significativo l’indagine portata avanti dalla procura circondariale di Reggio Calabria, che poteva contare sull’apporto di un gruppo investigativo composto da pochi uomini, seppur qualificati [..] È ovvio che in un contesto siffatto un ruolo necessariamente predominante lo abbiano avuto i servizi di sicurezza. Si tratta del loro privilegiato campo d’azione, quello cioè in cui è necessario agire in modo determinato, e imbastire una fitta rete di relazioni funzionali ad avere consapevolezza degli accadimenti e quindi funzionale alla possibilità di interagire con essi. Sembra però che la dedotta “ignoranza ufficiale” dei servizi di sicurezza in ordine a vicende che di per sé appaiono come assai sospette: morte del Capitano De Grazia, spiaggiamento della motonave Jolly Rosso, debba necessariamente ascriversi o ad uno svolgimento di tale attività in modo non esauriente o negligente, ovvero a ragioni inconfessabili, non necessariamente illecite».

    Doppi, tripli e quadrupli giochi

    Sul ruolo dei Servizi ci siamo soffermati molto in queste settimane. Un ruolo tuttora mai chiarito. E che, proprio per questo, alimenta dubbi e scenari inquietanti su cui solo di rado si apre qualche squarcio di luce. C’è un percorso, una rotta, infatti, che lega Trapani a Reggio Calabria. C’è, soprattutto, un nome, quello di Aldo Anghessa, un uomo dei servizi segreti che partecipa, negli anni, a diverse operazioni di intelligence. Negli anni ’80, per ordine della procura di Massa Carrara, finisce anche in carcere. Sospettato di essere vicino al clan siciliano dei Minore. Un’ipotesi accusatoria mai verificata. E, quindi, nessun processo.

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    Il giornalista Mauro Rostagno

    Il nome di Anghessa compare dunque a Trapani, ma anche a Reggio Calabria. Tutte faccende che risalgono proprio agli anni ’80. Commercio di armi nel filone siciliano, mentre in Calabria si sarebbe occupato di traffici di scorie radioattive. Secondo alcune fonti, le presunte compravendite di armi in cui sarebbe stato coinvolto Anghessa sarebbero le stesse scoperte dal giornalista Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988 a causa di tanta curiosità.

    La «lobby affaristico-criminale»

    Agli atti della Commissione Ecomafie, vi sono anche le audizioni di alcuni dei membri del pool di cui Natale De Grazia era la punta di diamante. Uno di questi membri, un carabiniere, afferma che Anghessa sarebbe entrato in contatto con il pm titolare del fascicolo, Francesco Neri. Al magistrato avrebbe prospettato la possibilità di poter dare un contributo fondamentale alle investigazioni: «Anghessa, fece intendere – siamo nella prima fase – che era disponibile a segnalare a noi l’arrivo di una nave contenente rifiuti radioattivi. L’avrebbe fatto per gentilezza, come forma di confidenza. Era noto che Aldo Anghessa avesse praticato traffici simili, non in relazione ai rifiuti, ma alle armi».

    Nel periodo della sua detenzione, Anghessa qualcosa la dice. Lo spione considerato vicino ai clan (ma mai condannato), parla dei traffici delle navi dei veleni che riguardano soprattutto la Calabria. Anghessa conferma diversi sospetti: «A partire dal 1987 è attiva in Italia una lobby affaristico-criminale che gestisce le seguenti attività: traffico di rifiuti tossico-nocivi e radioattivi, stupefacenti, armi, titoli di Stato falsificati e materiali strategici nucleari».

    Inattendibile

    Ma i riscontri bollano Anghessa come inattendibile. Un ciarlatano, insomma. Tempo dopo, però, lo stesso carabiniere racconta di essere stato protagonista di un episodio: «Un bel giorno, mentre mi stavo prendendo un caffè, si è presentato un signore che mi ha detto: “Io sono il collaboratore di Aldo Anghessa: volevo avere notizie”. Gli ho risposto che non lo conoscevo e che, se avesse voluto, era lui che avrebbe dovuto venire da me, che io non avevo niente da dirgli. Questo è il tentativo che hanno fatto per agganciarmi. La mia definizione che aveva mezzi e uomini a disposizione deriva da questo contatto che avevo ricevuto».

    “Alfa Alfa”. Sarebbe stato questo il nome in codice di Aldo Anghessa nei Servizi: «In quella circostanza – dice ancora davanti alla Commissione Ecomafie – capii che c’era troppo movimento alle spalle di questo personaggio: nonostante gli arresti domiciliari uomini, telefoni, macchine a disposizione».

    Ultimo atto: la Cunsky

    Inattendibile Anghessa. Inattendibile, come abbiamo già visto, Francesco Fonti. Il “santista” della ‘ndrangheta della Locride che, fin quando parla di strutture criminali, di reati comuni e di ‘ndrangheta pura, viene creduto. Quando allarga il suo racconto alle “navi dei veleni” depotenzia, quasi automaticamente, la portata delle sue dichiarazioni.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso

    Il colpo finale alla sua credibilità arriva dalla vicenda della nave Cunsky, affondata al largo di Cetraro. Fonti dichiarerà di aver affondato personalmente la nave, facendola colare a picco con un’esplosione di tritolo. Ma dopo una serie di indagini, curate, in particolare, dall’allora assessore regionale all’Ambiente, Silvio Greco, il ministro Stefania Prestigiacomo, unitamente al Procuratore Nazionale Antimafia, Piero Grasso, “chiuderanno il caso”. Tutti uniti nel dichiarare che il relitto investigato in quei mesi altro non era che un residuato bellico. Eppure alcune immagini sembravano chiare circa i fusti sospetti contenuti nella stiva.

    L’ennesimo intreccio

    Un destino comune. Il caso si chiude, proprio come quelli su cui indagava De Grazia. La Cunsky come la Rigel o la Jolly Rosso. Ma anche stavolta sono molti ad alimentare dubbi sulla bontà degli accertamenti svolti dal Ministero. Accertamenti che non coinciderebbero affatto con quelli dall’assessore Greco e dal procuratore di Paola, Bruno Giordano. Oggi deceduto. Ma in quel periodo tra i pochi a provare a mettere nuovamente a sistema i dati che si conoscevano sulle “navi dei veleni”. Non ci riuscirà. Il caso Cunsky verrà chiuso in fretta e furia. Lasciando molti dubbi.

    Soprattutto sulle coordinate. Ritenute non corrispondenti. Il Governo, infatti, incaricherà l’armatore Pietro Attanasio, con la sua Nave Oceano, di effettuare i rilievi. Rilievi che smentiranno quelli disposti dalla Regione, riportando anche all’attenzione la presunta vicinanza di Attanasio al noto avvocato inglese David Mills. Noto perché coinvolto nel processo di corruzione in atti giudiziari in cui l’ex premier Silvio Berlusconi è stato “salvato” dalla prescrizione. Lo stesso Mills, peraltro, a detta di un rapporto di Greenpeace del 1997 sarebbe stato legato in rapporti d’affari con l’ingegner Giorgio Comerio.
    L’ennesimo intreccio. Vero o reale. Ma che alimenta la coltre di sospetti. Che in queste vicende è ancora oggi più fitta che mai.

  • Cavalli morti, roghi e… post: quando il sindaco è nel mirino

    Cavalli morti, roghi e… post: quando il sindaco è nel mirino

    Casse vuote, dipendenti ridotti al lumicino, pochi finanziamenti e margini di manovra minimi: tra onori (pochi) e oneri (molti), fare il sindaco è diventato uno sporco lavoro che qualcuno deve pur fare. Se ne staranno accorgendo i nuovi 82 primi cittadini eletti nell’ultima tornata del 3 e 4 ottobre. Amministratori di piccoli centri, sotto i 5mila abitanti o poco più, fatta accezione per Siderno e Cosenza.

    Grandi o piccoli i comuni le rogne sono le stesse per tutti. Sia per il sindaco di Brognaturo, con le sue 670 anime da gestire, che per quello di Cosenza che ne ha 100 volte tante a cui rendere conto. Tutti possono prendere decisioni impopolari. E, specie a queste latitudini, le reazioni a quelle scelte non sono le più rassicuranti.

    Amministratori nel mirino

    Nel primo semestre del 2021, in Calabria sono stati denunciati 30 atti intimidatori nei confronti di amministratori locali. Uno in più rispetto al primo semestre del 2020 e già circa il 50% in più rispetto al 2019. Numeri importanti che, però, non sono sufficienti a insidiare il primato del 2016. All’epoca furono ben 113 amministratori a subire intimidazioni.

    I dati, regione per regione, sulle intimidazioni agli amministratori pubblici italiani negli ultimi anni

    La spiegazione del Viminale a questa costante crescita di intimidazioni alla Pubblica amministrazione, sta nell’indebolimento delle condizioni economiche di vita, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione, causato dalla pandemia e dall’esasperazione popolare che questa avrebbe generato. E che si sarebbe riversata sulle istituzioni più prossime ai cittadini.
    Secondo dati aggiornati al 2021 a subire intimidazioni sono stati 11 sindaci, 10 consiglieri comunali, 3 assessori, un commissario straordinario e quattro amministratori di altri enti locali.

    Tempi moderni e tradizioni antiche

    Nel 2021 la Calabria si attesta al secondo posto tra le regioni per numero di intimidazioni in relazione alla popolazione residente: un caso e mezzo ogni 100mila abitanti.
    La matrice delle intimidazioni è ancora principalmente ignota. A seguire in questa particolare classifica, le ragioni collegabili a tensioni sociali o politiche, questioni di natura privata o di criminalità comune. Solo all’ultimo posto viene denunciata la matrice legata alla criminalità organizzata.

    Cambiano i tempi e si aggiornano anche le minacce. Ormai non arrivano più solo tramite la classica lettera anonima, adesso viaggiano su web e social network veicolate da troll e profili fake. Seguono le aggressioni verbali, le scritte sui muri, l’utilizzo di armi da fuoco o l’invio di munizioni.
    E per onorare la fama della Calabria terra di solide tradizioni, tra gli espedienti utilizzati per “comunicare disappunto” trova ancora posto la testa sgozzata di qualche animale educatamente risposta in una scatolina di cartone chiusa a dovere e consegnata comodamente a domicilio. Non avrà i like di un post su Facebook, ma vuoi mettere l’effetto?

    Cosenza su tutte

    La provincia con il maggior numero di amministratori intimiditi è Cosenza con il 42% del totale dei casi censiti (Fonte Report Amministratori sotto tiro/ Avviso Pubblico 2020).
    A Scalea due persone hanno aggredito il consigliere Renato Bruno al termine di una seduta del Consiglio comunale. A Paola e San Nicola Arcella sono andate a fuoco le auto di due dipendenti comunali. Stessa sorte per le auto di un ex consigliere regionale di Amantea. A Corigliano Rossano ignoti hanno più volte squarciato le gomme all’automobile del sindaco Stasi. A Cetraro l’automobile di Cinzia Antonuccio, coordinatrice del servizio di raccolta rifiuti del Comune, è stata incendiata nel corso di una notte. La sindaca di Lattarico, Antonella Blandi ha ricevuto una lettera dal contenuto inequivocabilmente intimidatorio: «Se vuoi che i tuoi figli tornino a casa dall’asilo nido, fai lavorare chi non ha da mangiare».

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    Mario Occhiuto e altri sindaci della provincia durante una protesta all’ingresso dell’ospedale di Cosenza

    Tra i sindaci che hanno fatto spesso ricorso allo strumento della querela per minacce ricevute anche sui social, c’è l’ormai ex primo cittadino di Cosenza Mario Occhiuto. Memorabili le sue invettive contro gli “odiatori”: in pratica tutti coloro che osavano criticare la sua linea politica.
    Tra i tanti, un post di minaccia con l’invito a gettare un candelotto di dinamite contro casa sua è stato pubblicato sul profilo Facebook di Occhiuto da un profilo con il logo dei Cinquestelle.

    «Sono questi – commentava l’allora sindaco – i risultati scellerati di coloro i quali alimentano di continuo un clima di odio e di violenza nei confronti di chi ha il compito di amministrare, di scegliere e decidere. Denuncerò alle autorità competenti tali insulsi comportamenti, che sono la conseguenza di campagne mirate di delegittimazione e del populismo sfrenato e dell’ignoranza».

    Di mezzo anche i parenti morti

    Dodici i casi censiti in provincia di Reggio Calabria. Intimidazione ai danni dell’assessore all’Agricoltura ed al Turismo del Comune di Oppido Mamertina, Antonio Corrone: colpi di arma da fuoco contro la vetrata del suo studio. Incendiata a Roccella Jonica l’auto di Vincenzo Garuccio, amministratore di Jonica Multiservizi, società interamente pubblica che opera nella gestione dei servizi della città. Analogo trattamento un mese più tardi per due veicoli del Comune utilizzati per la raccolta differenziata. Emergono da un’inchiesta condotta dalla locale Direzione Distrettuale Antimafia intimidazioni nei confronti del sindaco di Locri Giovanni Calabrese, in merito ad interessi dei clan sulle attività economiche al cimitero. In questo caso la minaccia fa pendant col tema: o ti pieghi o non ritroverai le spoglie dei tuoi parenti.

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    Il cimitero di Locri

    Otto casi in provincia di Vibo Valentia. A Filandari doppio atto intimidatorio ai danni dell’assessore Giuseppe Antonio Artusa. Dopo aver esploso alcuni colpi d’arma da fuoco all’indirizzo della saracinesca del garage della sua abitazione, provocando danni alla vettura che si trovava all’interno, ignoti hanno dato fuoco ad una seconda automobile parcheggiata all’esterno. A Parghelia è stato colpito l’assessore alla Cultura, Gabriele Vallone: la sua auto è stata oggetto di un atto vandalico. Ad aggravare la situazione un messaggio minatorio dattiloscritto lasciato sul mezzo. A Tropea è finito nel mirino un agente della Polizia locale: danneggiata l’auto di proprietà e inserito al suo interno un biglietto minatorio.

    Cinque cavalli morti, incendi e cartucce

    Sette casi in provincia di Crotone. Una lunga scia di minacce ha visto protagonisti gli amministratori di Roccabernarda. Apripista Francesco Coco, ex sindaco ed attualmente consigliere comunale di opposizione, già oggetto di intimidazioni nel 2018. Col favore delle tenebre, ignoti hanno incendiato la sua autovettura e hanno ucciso cinque cavalli di sua proprietà. Successivamente è finito sotto tiro il sindaco Nicola Bilotta: una bottiglia incendiaria lasciata davanti alla sua abitazione e una busta con due cartucce di fucile sul parabrezza della macchina. A Cirò Marina, l’auto di Paolo Lo Moro, segretario generale del Comune, gestito da una commissione straordinaria a causa dello scioglimento dell’Ente per infiltrazioni mafiose, è andata distrutta in seguito ad un incendio.
    Quattro intimidazioni registrate in provincia di Catanzaro. A Tiriolo è andata a fuoco l’auto dell’assessore allo Sport Domenico Paone.

    Più denunce, meno infiltrazioni

    Mentre aumentano le denunce di atti intimidatori, diminuiscono i casi di scioglimento per infiltrazioni mafiose degli Enti locali. Dal 1991 ad oggi in Calabria sono stati sciolti per mafia 127 Comuni, otto procedimenti sono stati annullati e 23 archiviati.
    Nei primi sei mesi del 2021 in Calabria si contano “appena” quattro scioglimenti, pochi rispetto al record di 11 enti affidati ad una commissione straordinaria nel 2018. Si tratta di Simeri Crichi, Guardavalle (era già stata sciolta nel 2003), Rosarno e Nocera Terinese. Altrettanti avevano subito identica sorte nel 2020: Amantea (al secondo scioglimento), Sant’Eufemia d’Aspromonte, Cutro e Pizzo.

    Appalti pubblici, urbanistica, edilizia pubblica e privata sono i settori oggetto degli appetiti delle cosche per gli alti volumi d’affari prodotti. Settori resi permeabili dalla mancata trasparenza dell’azione amministrativa e da una burocrazia spesso compiacente e asfittica. Nell’ultima relazione sul tema, il ministero degli Interni evidenzia come un terzo dei comuni sciolti per infiltrazione mafiosa versi in condizioni di deficit finanziario. Al 31 dicembre 2020, in Calabria, 193 Comuni hanno dovuto dichiarare default. Sono, invece, attualmente in dissesto o riequilibrio quasi 7 Comuni calabresi su 10 (279 su un totale di 411).

  • Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    Quante sono le navi dei veleni affondate? Le indagini di Natale De Grazia

    «Deve sin d’ora sottolinearsi come questo approfondimento, teoricamente agevole in quanto erano state predisposte deleghe di indagine da parte del pubblico ministero procedente, si è rivelato nei fatti difficoltoso». L’incipit messo nero su bianco dalla Commissione Ecomafie alcuni anni fa è tutto un programma. Un programma di insabbiamenti, di trame oscure, forse anche di depistaggi.

    Le indagini di Natale De Grazia

    La Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti presieduta in quel periodo da Gaetano Pecorella (vicepresidente Alessandro Bratti) tentò di aprire qualche squarcio di luce sul lavoro del capitano di corvetta Natale De Grazia, morto in circostanze misteriose alla fine del 1995, mentre indagava sulle cosiddette “navi dei veleni”.

    De Grazia era entrato nel pool di investigatori messo insieme dal magistrato Francesco Neri. L’ipotesi inquietante su cui indagava la Procura di Reggio Calabria era un presunto affare internazionale che avrebbe visto un giro di “carrette del mare”, cariche di scorie nucleari da inabissare nel Mediterraneo. Anche al largo delle coste calabresi. Natale De Grazia indagava proprio su questo. Era l’elemento di spicco del pool. Quello più abituato ad andare per mare. E che conosceva meglio il mare. Il suo mare.

    Natale_De_Grazia
    Il capitano Natale De Grazia

    «La documentazione acquisita, costituita da ben sei deleghe, alcune delle quali conferite specificatamente ai militari in missione, non si è rivelata risolutiva in quanto le deleghe in questione sono state formulate in modo alquanto generico. Non è noto se per ragioni precauzionali e di riservatezza o per lasciare ampio margine di manovra agli ufficiali di polizia giudiziaria. Neppure chiarificatrici sono state le dichiarazioni rese sul punto da quegli stessi ufficiali che parteciparono alla missione in questione. Contraddittorie, infine, sono state le informazioni acquisite dagli altri investigatori impegnati nell’indagine».

    Più volte la relazione parlerà di misteri, contraddizioni e passaggi per certi versi inspiegabili sull’ultimo viaggio di Natale De Grazia. Quello verso La Spezia. Per indagare sul conto di una nave, la Latvia. Una di quelle “carrette del mare”. O, meglio “navi dei veleni”.

    Quante sono le navi dei veleni?

    La Latvia è una delle sospette “navi dei veleni”. Non la più famosa. Rigel. Rosso (ex Jolly Rosso). E, più recentemente, Cunsky. Questi alcuni dei nomi più noti. Quella relazione di qualche anno fa della Commissione Ecomafie rende un po’ più solidi alcuni dei sospetti già paventati da anni dalle associazioni ambientaliste. Legambiente, su tutte.

    Secondo un dossier di Legambiente, infatti, gli affondamenti sospetti di navi, tra il 1979 ed il 2000, sarebbero 88. E tutto nasce, nel 1994, proprio da una denuncia dell’associazione ambientalista alla magistratura reggina sull’interramento di rifiuti in Aspromonte. Si formerà così un pool di investigatori, composto, tra gli altri, dal pm Francesco Neri e dal capitano Natale De Grazia, che, ben presto, allarga i propri orizzonti.

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    Nell’inchiesta portata avanti dal pool un nome ricorrente è proprio quello dell’ingegner Giorgio Comerio. Quello che, come abbiamo visto, aveva predisposto un progetto per l’insabbiamento nei fondali soffici di “penetratori” carichi di scorie. Un uomo da romanzo, lo abbiamo definito. Il nome di Comerio si incrocerebbe con quello di una delle navi più tristemente famose: la Rosso. Il sospetto di molti è che la motonave della linea Messina fosse una delle “navi dei veleni” che dovevano affondare con il loro carico di morte. E che solo un curioso disegno del destino la fece spiaggiare sulla spiaggia di Formiciche, ad Amantea. È il 14 dicembre del 1990. Comerio, infatti, negli anni si sarebbe interessato all’acquisto della motonave. Una trattativa, quella con gli armatori Messina, che non si concretizzerà, ma che, secondo gli inquirenti, poteva, in qualche modo, ricollegarsi al presunto traffico di scorie radioattive.

    La seconda è una motonave affondata al largo delle coste calabresi, la Rigel. E sarebbe stato ancora una volta il capitano Natale De Grazia a scoprire il collegamento. Nel corso di una perquisizione all’interno dello studio dell’ingegnere, infatti, De Grazia avrebbe trovato un’agenda, con una strana scritta alla data 21 settembre 1987: «lost the ship». La frase, tradotta, significa «la nave è persa». Comerio smentirà sempre ogni possibile collegamento, ma il 21 settembre 1987, ci sarà solo una nave “persa”. La Rigel. Fatta colare a picco, dolosamente, a largo di Capo Spartivento, in provincia di Reggio Calabria. In quella stessa perquisizione all’interno dello studio di Comerio (ma anche in questo caso l’ingegnere smentirà) il capitano De Grazia ritroverebbe anche delle carte che avrebbero a che fare con la Somalia e la morte della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin.

    Il ruolo dei Servizi

    Un uomo da romanzo. Noir, evidentemente. Giorgio Comerio, infatti, secondo alcune fonti, avrebbe anche ospitato in un appartamento, forse non di sua proprietà, a Montecarlo l’evaso Licio Gelli. Altro nome che, con la sua P2, si lega ad alcune delle storie più inquietanti e drammatiche della storia d’Italia.

    Vicende oscure. In cui, in un modo o nell’altro, sarebbero entrati i Servizi Segreti. Con il Sismi il pm Neri, titolare del fascicolo, avrebbe avuto una interlocuzione costante. Sia per la richiesta di informazioni e documenti su Comerio sia, più in generale, su tutti i temi oggetto di inchiesta. Dal traffico di rifiuti radioattivi a quello di armi e agli affondamenti di navi, solo per fare qualche esempio.

    Nelle 308 pagine scritte da Pecorella e Bratti emerge inoltre come il Sismi, nel solo 1994, avesse speso ben 500 milioni di lire per i servizi d’intelligence connessi al problema del traffico illecito di rifiuti radioattivi e di armi. Ma, secondo diverse fonti e testimonianze, la presenza dei Servizi non sarebbe stata solo corretta e leale. Nel corso delle tante audizioni ascoltate dalla Commissione, infatti, sarà prospettato un ulteriore ipotetico interessamento dei Servizi all’indagine svolta dal dottor Neri attraverso il controllo delle attività poste in essere dalla Procura e dagli ufficiali di polizia giudiziaria.

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    Il centro Enea di Rotondella in Basilicata

    Una di queste audizioni è quella del colonnello Rino Martini, del Corpo Forestale dello Stato. Elemento prezioso nelle indagini, soprattutto con riferimento alle presunte attività illecite che ruotavano attorno alla centrale ENEA di Rotondella, in Basilicata: «In quel periodo, si verificarono due episodi. Per una settimana siamo stati filmati da un camper parcheggiato di fronte alla caserma in cui operavo. Una sera in cui erano stati invitati anche altri magistrati, avevamo deciso di recarci in una bettola sul Maddalena, che non è frequentata da nessuno durante la cena perché è aperta solo di giorno, e dieci minuti dopo il nostro arrivo attraverso una strada nel bosco è arrivata un’altra autovettura e si sono presentati a cena due ragazzi di trent’anni, che hanno lasciato la macchina nel parcheggio».

    Poi, la scoperta: «Siamo usciti per primi e, attraverso due sottufficiali dei Carabinieri di Reggio Calabria presenti, dalla targa dell’autovettura siamo risaliti al proprietario: il Sisde di Milano. Non ho altri episodi da raccontare. Certamente, c’era un controllo».  

    La fonte anonima

    Gli inquirenti, quindi, si sarebbero scontrati contro un muro di gomma. Con la costante idea di essere spiati. Un’idea che emerge dalle testimonianze raccolte dalla Commissione Ecomafie. Un’idea che, dicono le persone a lui vicine, aveva anche Natale De Grazia. Che muore in circostanze sospette. Proprio mentre sembrava vicino alla verità. O, almeno, a una parte di essa.

    Agli atti della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti che qualche anno fa si occupò della vicenda vi è anche una fonte anonima. Che parla proprio di quell’ultimo viaggio di De Grazia: «[…] il capitano De Grazia doveva venire a La Spezia a conferire con me e con [OMISSIS] con riferimento ad un’altra nave, la Latvia, ex nave del KGB sovietico che era ormeggiata a fianco di una struttura della marina militare nell’area del San Bartolomeo. Poi, questa nave è stata monitorata. […] Questa nave era stata poi acquistata da una società fatta a La Spezia, non ricordo il nome ma non è difficile recuperarlo, […] È stata ormeggiata alcuni mesi sulla diga foranea a La Spezia. […] questa nave […] era stata acquistata da una società costituita da alcuni industriali e altri di La Spezia […]».

    Quel viaggio di Natale De Grazia, dunque, aveva un’importanza strategica nell’indagine. Perché la Latvia non era meno importante, nel presunto sistema criminale, rispetto a Rosso o Rigel. E sembrava nascondere molti più segreti di quanto si potesse immaginare. Infine, dal racconto della fonte anonima:«Non poteva prendere il mare, era smantellata e priva di equipaggio. Poi, improvvisamente, questa nave dopo la costituzione di questa società che aveva recuperato questa nave come rottame, ha preso il largo trainata da un rimorchiatore che credo fosse turco ed è arrivata in Turchia. Voci dicevano che fosse stata riempita, non riempita, ma che fosse stato immesso del materiale particolare sulla nave prima della sua fuoriuscita dalla rada di La Spezia».

  • Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Lamezia: Gratteri, Minoli e sceicchi tra discariche e diossina

    Al “sogno” industriale degli anni ’70, prospettato dopo i fatti di Reggio in concomitanza con la Liquichimica di Saline Joniche e il Centro siderurgico di Gioia Tauro, oggi si è sostituita la Hollywood calabrese, gli “studios” della Film Commission guidata da Giovanni Minoli. Ma non solo. Nell’area industriale di Lamezia Terme sulle ceneri di un call center hanno realizzato la mega aula bunker di “Rinascita-Scott”. E sempre lì, grazie a ingenti capitali privati, dovrebbe sorgere, ma per ora è tutto solo sulla carta, un waterfront da 2.300 posti barca e da oltre 500 milioni di euro, da intitolare a uno sceicco della famiglia reale del Bahrain, Mohamed Bin Abdulla Bin Hamad Al-Khalifa.

    Disastri a terra e in mare

    Il vero simbolo di quest’area, però, resta il pontile, lungo 600 metri e in parte crollato in mezzo al mare. Doveva servire da attracco per le navi (mai arrivate) dell’impianto chimico della Società italiana resine, nel 2012 si è sbriciolato facendo finire nelle acque del Tirreno miscele di Pcb (policlorobifenili) e diossine. L’area è tuttora interdetta alla balneazione e rappresenta lo sbocco a mare di questi 1000 ettari di pianura al centro della Calabria. Potevano essere votati all’agricoltura e al turismo sostenibile e, invece, da anni sono famigerati solo per veleni e disastri ambientali che puntualmente emergono dalle inchieste della magistratura.

    Quasi 10mila tonnellate di rifiuti

    Ci lavora, in coordinamento col procuratore Salvatore Curcio, una giovane pm, Marica Brucci, che viene dalla “Terra dei fuochi”. Una battuta sulle sue origini campane ha generato mesi fa un equivoco durante un Forum sui rifiuti: in realtà non ha mai detto che la Calabria e Lamezia sono la «nuova Terra dei fuochi». Ma ha comunque tratteggiato alcune dinamiche inquietanti emerse dalle sue indagini calabresi che le hanno fatto tornare alla mente le cronache della sua regione.

    “Waste Water” è una di queste: secondo il perito Giovanni Balestri – anche lui si è occupato di casi come le ecoballe di Giugliano e la discarica dell’ex Cava Monti di Maddaloni – nell’area industriale lametina, in uno stabilimento finito sotto sequestro, sarebbe avvenuto l’abbandono incontrollato di 9700 tonnellate di rifiuti e da lì sarebbe partito uno sversamento di reflui industriali sui terreni e nei canaloni che sfociano a mare.

    Anni e anni di sequestri

    La Procura lametina, che ha difficoltà anche a trovare in Comune la mappatura del sistema fognario di quell’area, sta passando al setaccio tutte le attività produttive e ne sta venendo fuori, operazione dopo operazione, uno stillicidio di accuse per crimini ambientali a cui la comunità locale è pressoché assuefatta. Giusto per restare agli ultimi mesi, a giugno c’è stato un sequestro da 24 milioni di euro e a maggio un altro da 2. Entrambi riguardano aziende che secondo gli inquirenti sversano e scaricano illecitamente rifiuti industriali.

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    Una delle immagini diffuse dagli inquirenti in occasione dell’operazione Waste Water

    A Ferragosto sequestro anche per il depuratore a cui si collegano diversi Comuni, compreso quello di Lamezia. Nello stesso stabilimento di “Waste Water”, nel settembre del 2013, si è verificata l’esplosione di un silos costata la vita a tre operai. Ancora prima, a novembre del 2010, sono state sequestrate cinque aziende per una discarica non autorizzata di 15mila mq di fanghi di depurazione e cumuli di lana di vetro.

    Tonnellate di rifiuti tra gli ulivi

    La stessa Brucci ha condotto “Quarta copia”. L’inchiesta ha rivelato un traffico di rifiuti che passava per Campania e Lombardia e aveva il suo terminale proprio tra la città delle terme e Gizzeria. Partita da Lamezia e poi passata per competenza alla Procura distrettuale di Catanzaro, questa indagine ha già portato alla condanna in primo grado (pene da uno a quattro anni) di cinque persone.

    Sono considerate responsabili di un traffico di rifiuti sfociato nell’interramento di tonnellate di materiale inquinante anche in terreni vicini a coltivazioni di ulivo. Uno dei siti lametini utilizzati per questo scopo è stato letteralmente “tombato” di rifiuti ad appena 500 metri da un’altra ex discarica realizzata vicino all’alveo di un fiume e tuttora non bonificata. Su alcune delle persone ritenute al centro del traffico sono emersi collegamenti con potenti clan della Locride.

    Scatole vuote

    La pratica sempre in voga di mettere la polvere sotto il tappeto si intreccia con scatole societarie vuote – ma inserite all’Albo dei gestori ambientali – utilizzate per traffici loschi, misteriosi incendi negli impianti, falle nei controlli, aziende che fatturano milioni di euro con attività di grande impatto e che risparmiano proprio sulla prevenzione ambientale. Anche questo hanno rivelato le indagini partite dai roghi di rifiuti avvenuti nel Nord Italia. È emerso come alcune società regolari venissero utilizzate come schermo per nascondere traffici di rifiuti stoccati abusivamente e abbandonati in capannoni ufficialmente dismessi.

    Il giro bolla

    I metodi più usati sono quelli dei trasbordi da camion a camion e del “giro bolla”, un passaggio fittizio di documenti. Le società in regola acquisiscono formalmente i rifiuti senza però mai scaricarli dai camion. Il contenuto dei cassoni viene poi classificato come «non rifiuto». E con un nuovo documento di trasporto arriva nei luoghi di abbanco abusivo. Sul business incombe l’interesse della ‘ndrangheta e spesso nelle pieghe degli strumenti normativi si inseriscono imprenditori organici ai (o teste di legno dei) clan con ditte che, magari anche spostando la loro sede legale, riescono a ottenere un appalto dopo l’altro.

    Un «collaudato sistema»

    La relazione semestrale della Dia cita “Quarta copia” e parla di un «collaudato sistema che si occupava di riempire di rifiuti provenienti anche dalla Campania in capannoni abbandonati nel Nord Italia, interrandone altri in una cava dismessa nell’area di Lamezia Terme su terreni di proprietà di soggetti risultati contigui alla cosca Iannazzo». La stessa cosca a cui una donna lametina «ricorre per l’apertura di un conto corrente presso un istituto bancario locale».

    conto_corrente

    Capitava, infatti, che ci fossero da superare delle resistenze che il rappresentante di una delle aziende coinvolte aveva trovato in una banca di Lamezia. Ma dopo alcuni contatti telefonici con la figlia di un esponente di rilievo del clan il conto corrente che non si riusciva ad aprire viene subito aperto. La stessa intestataria ne è quasi sorpresa e dice al compagno: «Hanno fatto una forzatura».

    Candido come la candeggina

    Proprio grazie alla connivenza dell’area grigia dei professionisti i trafficanti di rifiuti legati alla ‘ndrangheta entrano nelle aziende del Nord e finiscono per appropriarsene. «L’azienda è nostra – è una frase rivolta a un imprenditore brianzolo e intercettata – metteremo a capo un nome candido come la candeggina». Quando serve vengono evocati «i cristiani di Platì e San Luca», ma poi si è capaci di guardare ben oltre il Pollino.

    «Abbiamo sequestrato – ha spiegato la pm milanese Silvia Bonardi, che ha condotto un’indagine sugli stessi trafficanti denominata “Feudo” – alcuni documenti che attestano come uno degli arrestati per suo conto stesse esportando senza autorizzazioni materiale plastico in Turchia». Un altro dei trafficanti coinvolti, originario della Locride, «detiene quote di un cementificio in Tunisia, ha grossi interessi in Germania e in alcune intercettazioni ammette di avere un canale pressoché illimitato per conferire spazzatura nell’inceneritore di Düsseldorf».

  • Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Navi dei veleni, la rotta della morte tra Somalia e Calabria

    Territori da sempre in guerra e per questo incontrollati. L’Iraq e la Somalia da un canto. La Calabria, dall’altro. Guerre diverse, evidentemente. Ma lo stesso destino di vaste aree dove poter mettere in atto alcuni traffici illeciti. Sicuri che, soprattutto in quegli anni ’80-’90, tutto sarebbe rimasto sotto traccia. Avvolto nell’ombra e nel silenzio.

    Ilaria Alpi e Natale De Grazia: destini incrociati

    Iraq e Somalia sono anche i Paesi che incrociano il proprio destino con le indagini portate avanti sul traffico di scorie radioattive dai magistrati di Matera e Reggio Calabria. E incrociano i loro destini (e le loro tragiche fini) anche Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Due persone che – in luoghi diversi e con modalità diverse – probabilmente seguivano le stesse tracce.

    Documento desecretato in merito a Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Muoiono a distanza di un anno e mezzo. Ilaria Alpi, giornalista del TG3, uccisa il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, in Somalia. Con lei, trucidato anche l’operatore, Milan Hrovatin. Natale De Grazia muore in circostanze sospette il 13 dicembre del 1995, a Nocera Inferiore. Entrambi indagavano sulle cosiddette “navi dei veleni”. Carrette del mare. Imbottite di rifiuti tossici. Di scorie radioattive e nucleari.

    Navi che a volte giungevano fino all’Africa. Per scaricare in quei luoghi abbandonati il proprio carico di morte. Altre volte, invece, venivano fatte colare a picco al largo delle coste calabresi.    

    Il capitano Natale De Grazia
    L’ingegner Giorgio Comerio

    Un nome ricorrente è quello di Giorgio Comerio. Nel corso di una perquisizione nella sua abitazione a Garlasco, infatti, il pool di investigatori comandato dal capitano Natale De Grazia troverà un fascicolo con la scritta “Somalia”. In quella cartella, secondo quanto riferito, si sarebbe trovato del materiale riguardante la morte di Ilaria Alpi. Un certificato di morte o un lancio di agenzie. Le testimonianze sono discordanti. E il dubbio resta.

    La Somalia, quindi, entra a pieno titolo tra le rotte “calde” per il traffico di scorie radioattive. Le regioni del Nord Africa, infatti, sembrano essere la sede privilegiata di destinazione dei rifiuti altamente tossici. Il tema, dunque, è quello delle “navi a perdere”, in cui un ruolo fondamentale sarebbe stato giocato dall’ingegner Giorgio Comerio. Con la sua ODM, avrebbe progettato (e secondo qualcuno realizzato) un sistema di smaltimento di scorie radioattive nei fondali soffici e profondi.

    Documento desecretato in merito alla Oceanic Disposal Management

    Ingegnere con sede operativa a Garlasco, nel 1993 fonda la Oceanic Disposal Management (ODM), una società registrata alle Isole Vergini Britanniche. La ODM, con sede a Lugano, ma con diramazioni a Mosca e in Africa, si occupa di qualcosa di molto particolare. Dello smaltimento delle scorie nucleari. Con la ODM Comerio ha un progetto: inabissare le scorie radioattive in acque dai fondali profondi e soffici, inserendole all’interno di grossi e pesanti penetratori. Questi, arrivando a pesare fino a duecento chili, una volta sganciati in mare, acquisterebbero una velocità tale da permettere la penetrazione nei fondali. Una proposta respinta da tutti gli Stati a cui l’ingegnere si rivolgerà. Almeno ufficialmente.

    Le indagini su Comerio e la sua ODM

    Ma secondo qualcuno Comerio avrebbe potuto mettere in piedi il proprio progetto in maniera autonoma. Secondo Legambiente, infatti, «Comerio e i suoi soci avrebbero gestito, dietro il paravento dei “penetratori”, un traffico internazionale di rifiuti radioattivi caricati su diverse “carrette” dei mari fatte poi affondare, dolosamente, nel Mediterraneo».

    Documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    La vita di Giorgio Comerio è piuttosto avventurosa. Negli anni ’80 partecipa alla battaglia delle isole Falkland tra Inghilterra e Argentina. Iscritto alla Loggia di Montecarlo, sarebbe un elemento legato ai servizi segreti. Anche se lui smentirà sempre fermamente. Maria Luigia Giuseppina Nitti è la compagna dell’ingegnere dal 1986 al 1992. Nel 1995 ai carabinieri che indagano sui presunti traffici di rifiuti radioattivi dichiara: «Verso la fine del nostro rapporto mi esternò di appartenere ai servizi segreti. A seguito di attentati terroristici avvenuti in quel periodo in Italia, nella primavera del 1993, si assentò dicendo che era stato convocato per collaborare alle indagini». Ma anche in questo caso, per Comerio queste sarebbero tutte stupidaggini.

    Altro documento desecretato dove compare il nome di Giorgio Comerio

    Di Comerio parla anche quel Carlo Giglio, la fonte “Bill”, che ha raccontato alcuni dettagli, mai verificati giudiziariamente, su quegli anni. Giglio racconta di presunti rapporti con gli stabilimenti Enea di Rotondella (Matera) e Saluggia (Vercelli), che per anni saranno sospettati per un eventuale coinvolgimento nei traffici di scorie: “Non vi è dubbio che il Comerio ha avuto rapporti diretti con l’Enea se intendeva smaltire rifiuti radioattivi in mare (…) Addirittura nella strategia dell’ente si sta cercando di eliminare ogni prova o traccia di rapporti tra il Comerio ed altri dirigenti dell’ente. Il Comerio infatti ha offerto all’ente i suoi servigi circa lo smaltimento in mare dei rifiuti radioattivi”.

    Il pool di investigatori di Natale De Grazia perquisisce l’abitazione di Comerio, a Garlasco. E ritrova un serie molto lunga di dati: «Agende, video-tape, dischetti magnetici, fascicoli relativi alla commercializzazione del progetto Euratom (DODOS) trafugato a detto ente (centro Euratom di Ispra) clandestinamente dal Comerio stesso (…) Veniva sequestrata anche numerosa corrispondenza (e fotografie) di incontri con rappresentanti governativi della Sierra Leone per ottenere l’autorizzazione a smaltire in mare rifiuti radioattivi». È in quell’occasione che sarebbe stata anche recuperata la documentazione riferibile alla morte di Ilaria Alpi.

    La rotta somala

    Ed è qui che si incrociano le indagini di Ilaria Alpi e Natale De Grazia. Un personaggio chiave sarebbe Giancarlo Marocchino. È lui uno dei primi a intervenire sul luogo del delitto di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. È uno degli ultimi a vedere il materiale di lavoro che Ilaria Alpi portava con sé. Che poi scomparirà nel nulla.

    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin

    Marocchino, secondo alcune risultanze, avrebbe gestito un traffico di rifiuti in Somalia. Uomo molto influente in Somalia, attivo in una serie di affari e attività a Mogadiscio. Acquisendo un grande potere economico e militare: «Chiunque voglia andare in Somalia e rimanere vivo, segnatamente a Mogadiscio, deve farsi proteggere da lui» dirà in un’audizione uno dei magistrati che indagherà sull’imprenditore.

    Ancora dall’audizione: «Marocchino, da decenni operante con buon successo a quanto pare in Somalia, una realtà difficile nella quale credo che si debba essere bravi a operare, ma anche ad avere qualche forma di copertura istituzionale, sopravviveva benissimo. (…) Questo signore, in quel periodo e a mano a mano nel corso di quell’anno o due che seguimmo l’indagine, portava avanti la costruzione di un suo porto nella zona di El Man che avveniva sotto gli occhi di tutti in una zona che aveva poche insenature naturali. Una costa abbastanza piatta, formata a un certo punto da un serie di moli. I container erano posizionati tatticamente in modo perpendicolare alla linea litoranea di spiaggia. Riempiti, si dice, con inerti e protetti dall’erosione e dalla furia del mare, da montagne di macigni posti intorno».

    All’ombra del Partito Socialista

    Affari che si sarebbero mossi all’ombra del Partito Socialista dell’epoca. Come racconta la Commissione parlamentare sul duplice delitto Alpi-Hrovatin. Quel Giampiero Sebri, per anni uomo di grande rilievo e vicino a Bettino Craxi. Sebri definisce così Marocchino: «Era un nostro uomo, uomo di fiducia si intende, chiaramente, per quanto riguarda i traffici di rifiuti tossici-nocivi e anche traffici d’armi».

    Marocchino ha sempre definito calunnie tali affermazioni. E non ha mai subito procedimenti giudiziari concernenti tali accuse. Dichiarazioni, quelle di Sebri, messe nero su bianco in atti parlamentari ufficiali. Ma che non troveranno sbocco giudiziario. Ed è una costante di queste storie.  Un altro personaggio particolare è, in tal senso, quel Guido Garelli, pugliese, ma ammanicato con mezzo mondo. Al pubblico ministero Francesco Basentini, un giorno Garelli dirà di essere stato ammiraglio di un non meglio precisato esercito dell’Autorità Territoriale del Sahara Occidentale. E dignitario di un servizio d’intelligence che avrebbe operato nell’interesse del Regno Unito. Con base a Gibilterra. Garelli è in possesso di tripla cittadinanza: jugoslava, italiana e del Sahara Occidentale. È testimoniato in atti giudiziari come entrasse a Camp Darby senza bisogno di particolari permessi. Camp Darby è una base militare statunitense in Italia, nel territorio comunale di Pisa. Sarebbe considerata dalla US Army il distaccamento militare più importante d’Europa. Il più grande arsenale Usa all’estero.

    Un uomo in contatto con i servizi segreti italiani, con quelli statunitensi e con quelli africani. Dopo la morte di Ilaria Alpi, Guido Garelli finisce anche in carcere a Ivrea per ricettazione. Nel periodo in cui è detenuto, rilascia alcune dichiarazioni piuttosto interessanti: «Ilaria Alpi ha toccato il segreto più gelosamente custodito in Somalia, lo scarico di rifiuti pagato con soldi e armi da non meno di vent’anni. La regia di tutto questo è appannaggio dei servizi d’informazione coinvolti in quello che è sicuramente il business più redditizio del momento. Non mi riferisco solo al Sismi e al Sisde. Vi sono anche gli organismi omologhi dei Paesi che hanno “usato” vari Stati dell’Africa per smaltire porcherie».

    Le dichiarazioni di Francesco Fonti

    Di Marocchino parlerà anche il collaboratore di giustizia. Francesco Fonti. Oggi deceduto. Fonti dichiara di averlo conosciuto a Milano nel 1992. Il collaboratore, infatti, ricorda l’interesse della ‘ndrangheta nel traffico di rifiuti radioattivi. Tutto avrebbe inizio nel 1982 su iniziativa di Giuseppe Nirta che, all’epoca, era il boss del territorio di San Luca. Nirta ne avrebbe dunque parlato con Fonti facendo i nomi di alcuni importanti uomini politici dell’epoca che gli avrebbero proposto di stoccare bidoni di rifiuti tossici. E di occultarli in zone della Calabria da individuare.

    A quel punto, sempre secondo il collaboratore, vi sarebbero stati diversi summit in cui avrebbe partecipato il gotha della ‘ndrangheta. Dagli Iamonte di Melito Porto Salvo ai Morabito di Africo. In seguito a questi incontri, tra i luoghi scelti per gli interramenti, verrebbe esclusa la Calabria. Nella primavera del 1983 Fonti sarebbe stato poi mandato a Roma da Sebastiano Romeo, nel frattempo succeduto a Nirta, per incontrare Giorgio De Stefano. Si tratterebbe dell’avvocato Giorgio De Stefano, considerato un’eminenza grigia della ‘ndrangheta. Ritenuto elemento di collegamento tra l’ala militare delle ‘ndrine e i mondi occulti. Servizi Segreti e massoneria.  

    Secondo il collaboratore, De Stefano disse che il posto ideale per interrare i rifiuti tossici all’estero era la Somalia. E gli avrebbe organizzato un incontro con Pietro Bearzi, allora segretario generale alla Camera di commercio per la Somalia. Questi avrebbe garantito il suo aiuto. Anche Craxi – a detta del pentito – sarebbe stato al corrente della cosa. Ma non avrebbe seguito il tutto personalmente. Lasciando che se ne occupassero i servizi segreti. Alla domanda del pubblico ministero sul perché non avesse parlato prima di queste vicende, la risposta di Fonti è stata che non se ne era ricordato essendo tantissime le vicende da lui vissute.

    Anche per questo, probabilmente, Fonti sarà infine dichiarato del tutto inattendibile.

  • Quattro terre dei fuochi nel nord della Calabria

    Quattro terre dei fuochi nel nord della Calabria

    Sono crateri capovolti, piccoli vulcani artificiali che eruttano al contrario. Ogni tanto sbuffano, quasi sempre rilasciano sostanze nocive nell’aria, nei fiumi, nelle falde acquifere. In provincia di Cosenza esistono quattro “terre dei fuochi” dimenticate. Forse sarebbe più corretto definirli “fuochi nelle terre”, per quanto sono invisibili e nascosti nel sottosuolo. Nessuno s’azzarda più a misurare la febbre delle aree contaminate nostrane. Una certa stanchezza, frutto dell’impotenza, sembra prevalere persino tra gli abitanti di queste zone.

    Mobilitazioni e processi

    In passato, si organizzavano in comitati di protesta per denunciare l’elevato tasso di tumori e invocare le bonifiche. Col tempo, l’oblio ha fiaccato quelle mobilitazioni. E oggi a sollevare il problema rimangono in pochi. Così, tra archiviazioni, stralci, prescrizioni e assoluzioni, si sono dispersi in mille rivoli anche i procedimenti giudiziari che avrebbero dovuto accertare le responsabilità.

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    Una manifestazione ad Amantea per chiedere la verità sui danni ambientali nel territorio (foto Francesco Cirillo)

    Al momento, non c’è un solo politico, un ecomafioso, un imprenditore o uno dei loro servitori che abbia pagato per i disastri ambientali di Praia, Amantea, Montalto e Cassano. Non uno dei tanti imputati nei vari processi ha subito una condanna. Bravura dei difensori, inadeguatezza delle procure o sostanziale impunità per chi inquina? Sia in primo grado che in appello è arrivata l’assoluzione per tutti e 12 i responsabili della Marlane di Praia dalle accuse, a vario titolo, di lesioni gravissime, omicidio colposo plurimo e disastro ambientale. Negli anni Novanta, il primo a produrre inchieste su questa drammatica vicenda fu lo scrittore e mediattivista Francesco Cirillo.

    Un accordo con le famiglie dei morti

    Centinaia di operai si sarebbero ammalati di cancro a causa delle esalazioni dei coloranti adoperati nell’azienda tessile e dell’amianto presente nei freni del telai. In precedenza, Eni-Marzotto aveva stipulato un accordo con le famiglie degli operai deceduti, ottenendo la revoca delle costituzioni di parte civile, a ciascuna delle quali aveva versato tra i 20mila e i 30mila euro. Già il 4 aprile 2020, nel motivare l’annullamento, per gli effetti civili, della sentenza a suo tempo emessa dalla corte d’Appello di Catanzaro, la corte di Cassazione ha stabilito che la dichiarazione di intervenuta prescrizione dei delitti di omicidio colposo pluriaggravato «è frutto di erronea applicazione della legge penale».

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    Il problema delle bonifiche

    Rimane comunque il problema della bonifica dei terreni che sarebbero stati interessati dai presunti scarichi abusivi di sostanze chimiche provenienti dalla fabbrica. Nel settembre 2017 la procura di Paola ha disposto nuovi accertamenti. A sollecitare un ulteriore approfondimento sono stati i comitati ambientalisti. Sul Tirreno cosentino, che si tratti delle migliaia di fanghi da depurazione scaricati in mare o delle perizie sulle sostanze inquinanti presenti nelle falde acquifere, serpeggia il sospetto che taluni soggetti istituzionali non vogliano o non riescano a vedere l’evidenza.

     

    Territorio in pessima salute

    Sebbene gli esperti, chiamati a pronunciarsi nell’ambito dei processi che si stanno celebrando, certifichino un pessimo stato di salute delle acque e dei terreni, pare che non ci siano autorità disposte a prenderne atto. Già nel 2007 si rilevava infatti la presenza di materiali cancerogeni nel sottosuolo. La professoressa Rosanna De Rosa, del Dipartimento di Geochimica e Vulcanologia dell’Università della Calabria, registrava valori molto alti di cromo, nichel, piombo e arsenico.

    Un anno dopo, nella relazione di consulenza tecnica disposta dalla procura di Paola, nell’evidenziare i rischi per la salute umana, il dottor Giacomino Brancati precisava che «solo un intervento specifico di rimozione dei contaminanti da quell’ambiente potrà mitigare, persino fino ad annullarla, l’entità di ogni accertato pericolo».

    I contaminanti spariscono

    Nel settembre 2018, a seguito dell’incidente probatorio nell’ambito del nuovo procedimento penale (oggi in fase di indagini nel tribunale di Paola) a carico dei dirigenti Marzotto per fare luce sulla morte di altri 50 operai e su 10 superstiti affetti da tumore, i professori Ivo Pavan e Alessandro Gargini hanno espletato la perizia con campionamenti nell’area antistante lo stabilimento e al confine con le abitazioni di Praia, rilevando nelle falde acquifere la presenza di tricloroetilene e cobalto. Eppure, nel piano di caratterizzazione del 2018 per la bonifica del territorio dai veleni della fabbrica Marlane, queste sostanze non ci sono più.

    L’Arpacal cambia idea

    Qualcuno si chiede se l’Arpacal, nel ratificare il piano, non abbia dimenticato cosa aveva firmato solo qualche tempo prima. Escludendo la presenza di extraterrestri nelle profondità della terra, non è fantascientifico capire da dove arrivino queste sostanze dannose. Annullata, per gli effetti civili, la sentenza del 2017 della corte d’Appello di Catanzaro, e accogliendo il ricorso dell’avvocato Lucio Conte, la corte di Cassazione ha ordinato il calcolo del risarcimento danni a favore del comune di Tortora, parte civile nel processo. L’udienza si terrà il prossimo 24 novembre.

    Il fiume Oliva

    Anche per i veleni individuati nella valle del fiume Oliva, ad Amantea, dai tribunali sono emersi giudizi di innocenza, ma centinaia di metri cubi di scorie industriali rimangono sotto terra. Non se ne conosce la provenienza. Qualcuno ipotizzò che a scaricarli sia stata una delle famigerate navi dei veleni. Ma le inchieste giudiziarie non hanno confermato questa ipotesi. Rodolfo Ambrosio, avvocato di Legambiente, ricorda un episodio inquietante.

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    La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea

    «In occasione di un sopralluogo con la troupe del Tg2 Dossier – racconta – ci avvicinò un signore anziano che aveva lavorato come camionista per alcune ditte edili note e locali. Ci disse che per interrare i materiali inquinanti loro raccoglievano la terra scavata fino a 40 metri di profondità per poi venderla di risulta ad imprese che la pagavano. Essendo presenti altri colleghi avvocati, la polizia giudiziaria, medici e tecnici, abbiamo concordato sulla necessità di un supplemento di perizia per verificare cosa ci fosse tra i sette metri nei quali scavò la procura e i 40 indicatici dal camionista. Quando la procura ci ha sentiti, lo abbiamo ribadito e siamo ancora in attesa delle risultanze e di un eventuale sbocco penale per un secondo procedimento».

    Il ruolo della Regione

    Oltre alla ricostruzione della verità storica e giudiziaria, rimane l’annoso problema delle bonifiche. «Si è parlato tanto, troppo dell’Oliva – spiega Gianfranco Posa, portavoce del comitato “De Grazia” -. La Regione, che ha la responsabilità di bonificare o mettere in sicurezza l’area, non è mai concretamente intervenuta, trincerandosi dietro l’analisi del rischio elaborata da Ispra e Arpacal che in buona sostanza dice che i veleni dell’Oliva “ce li siamo già mangiati”, ovvero hanno già prodotto i loro effetti negativi sulla popolazione ma, che adesso, non sono più pericolosi».

    «In realtà l’analisi del rischio – aggiunge Posa – è frutto di un lavoro durato anni che ha visto col tempo cambiare i risultati delle analisi chimiche spesso con risultati contrastanti tra quelli elaborati dagli enti pubblici e quelli dei consulenti dell’autorità giudiziaria. Ma la verità – come ribadisce anche l’analisi del rischio nella parte finale – è che i rifiuti nell’alveo di un fiume non ci possono stare e vanno rimossi o messi in sicurezza».

    Il Pnrr per mettere in sicurezza il territorio

    E poi c’è la popolazione che si è stancata di sentir parlare di questa zona, votata al commercio e al turismo, come di un territorio pesantemente inquinato senza vedere mai qualcuno che mettesse in atto soluzioni e pertanto ha allentato la pressione. In merito alle possibili soluzioni, Posa spiega che «si potrebbe attingere ai fondi comunitari ed elaborare un progetto di messa in sicurezza dell’area».

    «Il PNRR – aggiunge – sarebbe una buona possibilità per mettere in sicurezza il territorio calabrese, ma temiamo che anche questa occasione andrà persa. La prossima giunta regionale, qualunque essa sia, dovrebbe affidare l’assessorato all’Ambiente a un persona esperta e competente con la giusta sensibilità sulle tematiche ambientali. Qualcuno che abbia tra le sue priorità la soluzione delle tante emergenze ambientali calabresi e che si confronti con chi vive nei territori. Che punti sulla prevenzione, elaborando un adeguato piano dei rifiuti, che favorisca la nascita di impianti che riportino a materia prima i materiali differenziati raccolti. Che provveda al tracciamento dei rifiuti industriali, facendo prevenzione, in modo da rendere difficile lo smaltimento illegale».

    Sibaritide: condanne e prescrizioni

    Anche nella Sibaritide aleggia da anni un fantasma chimico, quello delle ferriti di zinco provenienti dal sito industriale di Crotone. «In questo caso, persino per me che ogni volta mi costituisco parte civile nell’interesse di Legambiente e Comuni, sta diventando difficile seguire gli infiniti tronconi delle inchieste giudiziarie», spiega l’avvocato Rodolfo Ambrosio.

    «Due processi – continua il legale – sono stati celebrati nel tribunale di Castrovillari per gli stessi reati del processo Artemide. Uno si è concluso con due condanne e siamo in attesa della fissazione dell’udienza in corte d’Appello. Per l’altro, invece, sarà celebrata udienza il prossimo 9 novembre. Come si ricorderà, fu de Magistris il titolare della prima inchiesta. E dopo 11 anni di processi e intervenute prescrizioni, furono bonificati i siti contaminati, tra Cassano e Francavilla Marittima, individuati dall’operazione “Artemide”».

    «Ma le zone interessate dai due procedimenti in corso – prosegue Ambrosio – sono ancora lì da bonificare e in parte da individuare. Il ministero della Difesa dispone di speciali elicotteri per la mappatura di metalli pesanti o radioattivi sepolti. In operazioni come Cassiopea, che portò alla scoperta di un traffico illecito di materiali inquinanti tra Caserta e Gioia Tauro, ne fu disposto l’impiego. Peccato che il procedimento sia stato archiviato e sebbene si conosca l’ubicazione di tali scarichi in Calabria, non si sia proceduto con la loro rimozione».

    Industria e ambiente

    Infine, rimangono senza risposte le domande poste negli anni sull’area di Montalto Uffugo. Qui la presenza di agenti inquinanti ha una storia antica. Il nostro giornale è tornato ad occuparsene di recente.

    «Anche in questo caso, persistono delle zone d’ombra – racconta l’avvocato Rodolfo Ambrosio -. Ricordo che durante un’udienza del processo da cui uscì assolto, tra gli altri, il sindaco di Rende, su mia domanda un teste riferì che nella zona morirono diverse mucche poste a pascolo. Ciò in contrasto con i rilievi dei tecnici che, pur provando l’inquinamento, lo certificarono sotto i livelli di legge. Vorrei capire come siano possibili i ricorrenti fenomeni di autocombustione in un territorio considerato “a norma».

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    Dunque, delle quattro mega-aree contaminate, Montalto e Praia sono le uniche imbottite di materiali che non proverrebbero da siti più o meno distanti. Di sicuro, tutti gli inquinanti sono di origine industriale e non è stata accertata l’entità reale del loro impatto sugli ecosistemi circostanti. Un vero e proprio paradosso, in una regione pressoché estranea al modello produttivo della fabbrica. Senza un ritorno dell’attenzione popolare e democratica su queste vicende, al danno dell’inquinamento si aggiungerà la beffa dell’oblio.