Categoria: Inchieste

  • Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Natale De Grazia: 26 anni senza verità e giustizia

    Ventesei anni anni senza verità. Con tanti dubbi, tanti sospetti. Qualche certezza. Ma nessuna verità. Sicuramente nessuna verità giudiziaria. Ma nubi oscure, misteri inquietanti, anche per quanto concerne quella storica. Moriva 26 anni fa, il 13 dicembre 1995, in circostanze mai chiarite, il Capitano di Fregata della Marina Militare Italiana, Natale De Grazia. Reggino e punta di diamante del pool investigativo che, proprio nella città dello Stretto, stava indagando sulle cosiddette “navi dei veleni”. Le imbarcazioni che, attraverso un accordo tra criminalità, faccendieri e pezzi deviati dello Stato, sarebbero state affondate al largo delle coste calabresi. Con il proprio carico di rifiuti tossici e radioattivi.

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    La nave Jolly Rosso arenata sulla spiaggia di Amantea
    Fine di un’inchiesta

    Quel pool che, dopo la misteriosa morte di De Grazia, si sfalderà. E con esso, dissolte anche tutte le speranze investigative di far luce su quello che, fin da subito, era apparso come un sistema enorme. Fatto di connivenze tra criminalità e strutture parastatali. E che si allungava ben oltre la Calabria, ben oltre l’Italia, con traffici internazionali di scorie e armi. Proprio quegli affari su cui, probabilmente, indagavano anche i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi in Somalia nel marzo 1994. Appena un anno e mezzo prima,  rispetto alla morte di Natale De Grazia, avvenuta a Nocera Inferiore, a neanche metà di quel viaggio, forse decisivo per l’inchiesta, che doveva portarlo fino al porto di La Spezia. Snodo cruciale delle inquietanti rotte delle “navi dei veleni”.

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    Ilaria Alpi e Milan Hrovatin
    Uno che sapeva leggere una mappa nautica

    Si indaga su navi affondate e De Grazia è un marinaio, uno che il mare l’ha sempre amato. È l’unico, di fatto, che sa leggere una mappa nautica. E con le proprie indagini riesce a restringere il campo dei possibili affondamenti dolosi a una trentina di episodi. Indagini delicatissime che hanno fatto affiorare il coinvolgimento dei Servizi Segreti negli strani viaggi di navi che avrebbero avvelenato i mari calabresi. Ma, tra depistaggi, pedinamenti, fughe di notizie e, dopo la morte di De Grazia, prepensionamenti, tutto il pool – coordinato dal magistrato Francesco Neri – prende strade diverse. E la storia non imboccherà mai la strada della verità.

    Squarci di luce

    Nessuna verità giudiziaria. Men che meno storica. Solo, di tanto in tanto, qualche flash di verità. Veloce e fugace come un lampo. Ma non per questo non abbagliante. Come accade con la conclusione dei lavori della Commissione Parlamentare sul Ciclo dei Rifiuti, presieduta dall’avvocato Gaetano Pecorella, di qualche Legislatura fa. Conclusioni che chiamano in causa una perizia che attesterebbe come De Grazia, a bordo di quell’auto che corre nella notte per raggiungere La Spezia, non sarebbe morto di morte naturale. L’ennesimo di tanti, tantissimi, viaggi per provare ad accertare la verità sulla motonave Rosso, spiaggiata ad Amantea anni prima, e sulle altre navi che, con i propri carichi nocivi, avrebbero avvelenato i mari calabresi. L’ultimo viaggio.

    “Cause tossiche”

    Nella propria relazione, l’esperto non farebbe altro che confermare i sospetti che anche i profani hanno sempre alimentato sul decesso di un uomo sano e costantemente monitorato, per via della sua attività militare: “Si trattava di soggetto in giovane età, in buona salute, senza precedenti anamnestici deponenti per patologie pregresse, che conduceva una vita attiva e, come militare in servizio, era sottoposto alle periodiche visite di controllo dalle quali non sembra siano emersi trascorsi patologici” è scritto nella relazione. Il perito lo scrive chiaramente, parlando di “cause tossiche”.

    Secondo le conclusioni del perito della Commissione Ecomafie, però, “l’indagine tossicologica non è più ripetibile, e quindi il caso, dal punto di vista medico legale deve essere, ad avviso del sottoscritto, considerato chiuso”.

    Una pagina che contiene i dati di un esame istologico eseguito sul corpo di Natale De Grazia

    L’intrigo internazionale

    Non solo il terreno, non solo il mare. Ad essere stato avvelenato, dunque, sarebbe stato anche il Capitano De Grazia. Da sempre, la sua famiglia, ma anche i gruppi ambientalisti (Legambiente su tutti) si battono per ricercare la verità. Un uomo “normale” chiamato a fronteggiare, senza tirarsi indietro, sistemi criminali molto più grandi.

    Il lavoro della Commissione Ecomafie presieduta da Pecorella fu importante non solo per l’inquietante conclusione sulla morte di De Grazia. Ma anche per una capillare ricerca di indizi e prove sul business delle “navi dei veleni”. Dalle audizioni dei compagni di viaggio di De Grazia, passando per le sconvolgenti rivelazioni fatte dal prefetto Giorgio Piccirillo, direttore dell’Aisi (l’Agenzia d’informazione e sicurezza interna), che, nel corso della propria audizione nel luglio 2011 ha depositato due note dei Servizi Segreti, che già nel 1992 fornivano particolari circa l’interessamento delle cosche di ‘ndrangheta nello smaltimento illecito delle scorie. Come abbiamo raccontato alcune settimane fa.

    Il giallo delle autopsie

    Il documento agli atti della Commissione Ecomafie mina duramente le conclusioni cui si arrivò con due distinte autopsie, che individuarono in un “arresto cardiocircolatorio” la causa della morte di De Grazia. Verrebbe messa in dubbio, dunque, la conclusione che De Grazia sia morto per cause naturali. E quindi cresce l’inquietante sospetto che l’ufficiale sia stato ucciso, avvelenato, probabilmente per le indagini portate avanti. Come sostenuto, da tempo, dalla famiglia e dagli ambientalisti. Nel corso degli anni sono stati almeno quattro gli accertamenti medico-legali effettuati sul corpo esanime del Capitano De Grazia.

    I primi due saranno stilati, a distanza di diversi mesi, dalla dottoressa Simona Del Vecchio. Una doppia autopsia affidata allo stesso medico legale: sarà questa una delle maggiori contestazioni. Proprio la perizia medico-legale della dottoressa Del Vecchio svolta sul corpo senza vita di De Grazia, “non corrisponde alla verità scientifica” secondo i nuovi accertamenti.

    Un esame svolto, per la prima volta, il 19 dicembre 1995, sei giorni dopo il viaggio verso La Spezia. Un esame lungo in cui la dottoressa Del Vecchio darà atto della negatività degli esami chimico-tossicologici concludendo in maniera certa: “Può ricondursi a una morte di tipo naturale, conseguente a una insufficienza cardiaca acuta, inquadrabile più specificatamente nella fattispecie della morte improvvisa. La morte improvvisa è un evento repentino ed inatteso, caratterizzato dal fatto che il soggetto passa da una condizione di completo benessere o almeno di assenza di sintomi alla morte in un arco di tempo inferiore alle 24 ore”.

    “La morte improvvisa dell’adulto”

    Nel suo primo scritto, la dottoressa Del Vecchio parla di “morte improvvisa dell’adulto”, che troverebbe origine in un’ischemia del miocardio, con successive gravi turbe del ritmo cardiaco. Ma Natale De Grazia è una persona giovane, non ha neanche quarant’anni. È un militare, ed è soggetto a frequenti visite mediche. In cui non ha mai riscontrato alcun tipo di patologia cardiaca.

    Questa la spiegazione della dottoressa Del Vecchio: “Il meccanismo di molte morti improvvise cardiache è costituito da uno stato di instabilità elettrica da ipossia cronica, cosicché un aumento delle richieste metaboliche del cuore, in conseguenza di uno sforzo fisico ovvero di un’intensa emozione, ma anche una condizione di permanente tensione emotiva e di allarme conseguente all’espletamento di attività professionali particolarmente impegnative, delicate e rischiose, fonte di enormi responsabilità (come nel nostro caso) può determinare uno stato di stress continuo che alla fine precipita la situazione cardiaca”.

    La stessa conclusione di un anno e mezzo prima

    Il 23 aprile 1997, un anno e mezzo dopo la morte di De Grazia, la dottoressa Del Vecchio (insieme ad altri eminenti professori universitari) verrà nuovamente incaricata dalla Procura della Repubblica. Con il compito di eseguire “ulteriori accertamenti chimico-tossicologici per la ricerca di sostanze tossiche e/o velenose, nonché approfondisca altresì quant’altro utile ai fini delle indagini, volte a verificare la causa del decesso”.

    Il frontespizio della relazione medico-legale sulla morte del Capitano De Grazia

    E anche in questo caso, le considerazioni medico-legali escluderanno “la presenza di sostanze tossiche di natura esogena nei campioni esaminati”. Negativa risulterà anche la ricerca di arsenico nei capelli (per la verifica di un’eventuale intossicazione cronica) e nel fegato (per la verifica di eventuale intossicazione acuta). La conclusione è la medesima di un anno e mezzo prima: “Si ritiene, anche alla luce delle ulteriori indagini di laboratorio eseguite che la causa della morte del Capitano De Grazia Natale sia da ricondurre ad un evento naturale tipo “morte improvvisa dell’adulto”, come già ci esprimemmo in merito nella precedente relazione di consulenza tecnica medico-legale affidataci”.

    La perizia incaricata dalla famiglia De Grazia

    In mezzo tra le due perizie, interverrà la perizia di parte della famiglia De Grazia, redatta, dal dottor Alessio Asmundo. Il quale, pur partendo da presupposti totalmente diversi, con riferimento, soprattutto, alle condizioni dell’apparato cardiaco menzionate dalla dottoressa Del Vecchio, arriverà a una conclusione simile. “Si deve concludere, quindi, che la morte di De Grazia Natale rappresenta caratteristico accidente cardiaco improvviso per insufficienza miocardia acuta da miocitosi coagulativa da “superlavoro” in soggetto affetto da cardiomiopatia (dilatativa) da catecolamine” scrive.

    De Grazia sarebbe morto, dunque, per cause naturali. Un arresto cardiaco dovuto al troppo lavoro, al troppo stress derivante dalle proprie indagini. Una “verità” che resta in piedi, nonostante le polemiche, per molto tempo.

    L’ultima perizia

    Quindici anni dopo arriverà l’ultima perizia, la quarta. Quella che, pur considerando “l’indagine tossicologica non più ripetibile” a causa del tanto, tantissimo, tempo trascorso, allo stesso tempo solleverà seri dubbi sulle cause “non naturali” della morte.

    La medaglia del presidente della Repubblica

    A distanza di ventisei anni dalla scomparsa in pochi credono alla reale possibilità che De Grazia, un uomo in piena forma, di neanche quarant’anni, sia morto per cause naturali. Nonostante l’enorme stress cui sarebbe stato sottoposto. L’ipotesi più accreditata (ma allo stesso tempo mai provata) è che l’ufficiale, con i propri accertamenti, sia finito in mezzo storie oscure e inquietanti.

    Come è facile percepire, peraltro, dalle motivazioni con le quali il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferirà la medaglia d’oro alla memoria dell’ufficiale: “Il Capitano di Fregata Natale De Grazia ha saputo coniugare la professionalità, l’esperienza e la competenza marinaresca con l’acume investigativo e le conoscenze giuridiche dell’Ufficiale di Polizia Giudiziaria, contribuendo all’acquisizione di elementi e riscontri probatori di elevata importanza investigativa per la Procura della Repubblica di Reggio Calabria. La sua opera di Ufficiale di Marina è stata contraddistinta da un altissimo senso del dovere che lo ha portato, a prezzo di costante sacrificio personale e nonostante pressioni e atteggiamenti ostili a svolgere complesse investigazioni che, nel tempo, hanno avuto rilevanza a dimensione nazionale nel settore dei traffici clandestini e illeciti operati da navi mercantili”.

  • Rifiuti, produci e consuma con le discariche degli altri

    Rifiuti, produci e consuma con le discariche degli altri

    Sulla carta, una parte dell’ambientalismo sembra poco più che una superstizione. Come tutte le superstizioni, certe polemiche in parte si fondano su una verità, almeno per quel che riguarda lo smaltimento dei rifiuti: discariche, impianti di trattamento e, nei casi più estremi, digestori e inceneritori possono essere davvero pericolosi, se non sono gestiti in condizioni di sicurezza.
    E le lacune, a proposito di sicurezza, in Calabria sono tantissime: lo ribadiscono le vicende della discarica di San Giovanni in Fiore o di altre vecchie discariche cosentine, sopravvissute all’era dello smaltimento pre-differenziata e mai bonificate.

    La sindrome Nimby

    Il resto è opinabile: molti ambientalisti non tengono conto delle nuove tecnologie e dei progressi avvenuti proprio grazie alle nuove prassi nella raccolta dei rifiuti.
    In tutto questo, fa la sua parte anche la paura. Una paura particolare, sintetizzata con efficacia da un acronimo entrato da oltre un decennio nell’uso comune: Nimby, che sta per Not in my back yard”, non nel mio cortile. Smaltire è giusto, ma lontano da me.

    Rivolta nel Pollino

    Di recente, si è assistito a una forte protesta nell’area del Pollino, per la precisione a cavallo tra Frascineto e Castrovillari, dove nel 2019 i cittadini si sono ribellati alla proposta avanzata dal sindaco di Castrovillari, Antonio Lo Polito, di realizzare un impianto per il trattamento dei rifiuti nel vecchio stabilimento di Italcementi.
    La protesta fu cavalcata allora da Ferdinando Laghi, attuale consigliere regionale di opposizione.

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    Il consigliere regionale Ferdinando Laghi

    È doveroso ricordare che, all’epoca, Laghi non era candidato alle Regionali, perciò nel suo ruolo di “portavoce” non era ispirato da scopi elettorali. Proprio in occasione di quella protesta, l’ex primario medico indicò dei parametri fondamentali per la realizzazione delle strutture di stoccaggio e smaltimento dei rifiuti: distanza sufficiente (almeno più di due chilometri) dall’abitato, vicinanza a grosse arterie stradali per consentire un trasporto agevole, uso di tecnologie per il controllo delle emissioni.

    La monnezza che piace agli amministratori

    Il progetto andò in fumo, perché non gradito ai castrovillaresi e agli abitanti di Frascineto.
    Tuttavia, l’idea di realizzare impianti di stoccaggio (anche banali discariche) e trattamento dei rifiuti solletica non pochi amministratori. La “monnezza” infatti è un’attività che può rimpinguare, attraverso le concessioni e le tariffe, le casse dei nostri enti locali e, con un po’ di fortuna, creare posti di lavoro. Ciò che rischia di inquinare l’ambiente può dare ossigeno all’economia: una versione rivista e aggiornata dell’antico adagio secondo cui “pecunia non olet”, ovvero i soldi non puzzano. La citazione latina non è un caso: è attribuita a Vespasiano, l’imperatore che decise di istituire le latrine pubbliche a pagamento…. E, a dispetto delle preoccupazioni dei suoi consiglieri, ci riuscì.

    Il caso Grimaldi

    Difficile dire se sia (solo) Nimby oppure se dietro la protesta del Comitato popolare tutela Savuto ci siano timori fondati.
    Fatto sta che le manifestazioni continue contro l’ipotesi di creare un ecodistretto con discarica di servizio a Grimaldi, un piccolo Comune (poco più di millecinquecento anime) del Savuto, al confine tra Cosenza e Catanzaro, hanno avuto successo.
    Proprio a fine novembre la giunta guidata da Roberto De Marco ha ritirato, con una delibera approvata dal Consiglio comunale, l’idea dell’impianto, avversata dal Comitato anche sulla base di un motivo non proprio infondato: la vicinanza al letto del Savuto.

    Un motivo, tra l’altro non inedito nelle proteste antidiscarica degli ambientalisti calabresi. Quasi tutti gli impianti contestati sono vicini a zone “sensibili”: corsi d’acqua e falde acquifere, oppure al confine tra diversi Comuni. Un fattore, quest’ultimo, che crea anche problemi politici non leggeri: possono gli abitanti di un Comune subire le emissioni di strutture che avvantaggiano essenzialmente il Comune vicino?

    Il caso Scala Coeli

    E non sembra risolutiva neppure l’idea di istituire ecodistretti, impianti e discariche in zone a bassa densità abitativa. Lo dimostra la vicenda decennale di Scala Coeli, presa in carico direttamente da Legambiente.
    Sulla carta, Scala Coeli sarebbe un territorio ideale per realizzare impianti per il trattamento dei rifiuti, perché è un paese spopolato, poco più di ottocento abitanti, con molto territorio a disposizione, quasi 68 chilometri quadrati. Per di più, l’abitato è arroccato su un monte, quindi a distanza di sicurezza.
    Ciò ha motivato l’autorizzazione di una discarica per rifiuti speciali non pericolosi, effettuata dal 2010 dal Dipartimento ambiente della Regione, di 93mila metri cubi, gestita dalla società Bieco srl.

    Rifiuti-discarica Scala Coeli-I Calabresi
    La discarica di Scala Coeli
    La battaglia degli ambientalisti

    Dov’è il problema? Nel caso di Scala Coeli, la vicinanza della struttura al letto del fiume Nika, ai confini tra il basso Jonio cosentino e il Crotonese. La vicinanza al fiume non è il solo problema: nella zona resistono ancora attività agricole importanti e ci sono, quindi, vincoli territoriali.
    Il problema è esploso nel 2015, quando l’azienda concessionaria ha richiesto l’ampliamento della cubatura. L’inchiesta condotta dagli ambientalisti ha rivelato che i terreni su cui è stata realizzata la discarica non erano ancora sdemanializzati. In altre parole, la proprietà (e quindi la destinazione d’uso) erano ancora pubbliche.
    Più che le proteste, hanno potuto le carte bollate: i militanti di Legambiente si sono rivolti al Tar contro il Dipartimento agricoltura della Regione, che aveva dato parere positivo all’ampliamento e, come se non bastasse, hanno denunciato il tutto anche alla Procura di Castrovillari.

    In attesa del Tar 

    I motivi di questi ricorsi sono complessi e forse non è infondato ipotizzare che nella zona non sarebbe proprio dovuta sorgere una discarica, visto che i terreni sono ancora demaniali. A breve, probabilmente prima di Natale, il Tar si pronuncerà e potrebbe mettere la parola fine alla vicenda. In caso di stop all’ampliamento, si fermerebbe anche il conferimento dei rifiuti, visto che la discarica avrebbe già quasi esaurito la propria capacità. E si aprirebbe un nuovo capitolo, non meno problematico, relativo stavolta alla bonifica.

    Un problema aperto

    Ma le vittorie degli ambientalisti non risolvono il problema: esportare i rifiuti, come si è fatto spesso durante le emergenze recenti, costa. E costa pure mantenere l’attuale sistema, che garantisce sì e no lo stoccaggio.
    Già: i rifiuti da qualche parte devono pur finire, nel rispetto dell’ambiente e della sicurezza dei cittadini. Finora parecchie zone della Calabria tirano avanti a botte di rattoppi e proteste. Ma quanto potrà durare?

  • Da Anversa a Bruxelles, perché il Belgio piace così tanto alle ‘ndrine

    Da Anversa a Bruxelles, perché il Belgio piace così tanto alle ‘ndrine

    Già nel 2004, le operazioni “Nasca” e “Timpano” avevano accertato gli interessi immobiliari della ‘ndrangheta a Bruxelles. In quell’occasione, la lente d’ingrandimento della Guardia di Finanza aveva puntato le famiglie Bellocco e Ascone, di Rosarno, alleate con il clan di San Luca. Come molti Paesi del Centro-Nord Europa, il Belgio è un terreno congeniale per il riutilizzo degli ingenti capitali delle ‘ndrine. All’epoca le Fiamme Gialle contestavano ben 28 milioni di euro frutto del narcotraffico e reinvestiti nelle operazioni immobiliari.

    Il Belgio, crocevia delle mafie

    Oggi quelli che, circa 17 anni fa, potevano essere solo dei sospetti, dei flash su una realtà ancora inesplorata, possono essere considerati certezze. Già nel 2017 una relazione depositata in Parlamento sulle mafie recitava: «Il Belgio, per la propria posizione al centro dell’Europa ed in virtù dell’importante scalo portuale di Anversa, polarizza numerose attività illecite transnazionali. Da anni, il territorio, visto come opportunità di investimenti per profitti illeciti, costituisce centro di interesse per tutte le principali mafie di matrice italiana, in particolare Cosa nostra e ‘ndrangheta, dedite innanzitutto al traffico di sostanze stupefacenti ed alla commissione di reati economico-finanziari».

    L’ultima relazione della DIA, di appena poche settimane fa, è ancor più chiara: «Il Belgio è un territorio considerato fortemente a rischio di infiltrazione mafiosa, soprattutto da parte dei clan calabresi ed in particolare delle cosche ionico-reggine che, col passare del tempo, sono riuscite a permeare l’ambito economico del Paese, in prevalenza in quelle regioni quali ad esempio quella di Mons Charleroi, situata al confine con la Francia, e quella di Liegi-Limburg confinante con l’Olanda. In questi territori, ove tradizionalmente la comunità italiana è molto radicata sul territorio, è stata accertata la presenza di esponenti del crimine organizzato, che, in diverse occasioni, avrebbero anche favorito la latitanza di soggetti di rilievo delle organizzazioni criminali».

    Il porto di Anversa

    Per decenni, il porto di Gioia Tauro è stato il principale accesso per la droga commercializzata dalla ‘ndrangheta in Europa. Lo è tuttora, come testimoniato dalla recente inchiesta “Nuova Narcos Europa”, ma anche dai continui e costanti sequestri di sostanze stupefacenti, cocaina soprattutto nello scalo gioiese. Ma non è l’unico.

    In un intervento pubblico, il presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Nicola Morra, ha affermato: «La ‘ndrangheta ha delocalizzato l’arrivo di sostanze stupefacenti dal porto di Gioia Tauro verso i porti di Rotterdam e Anversa che vengono preferiti perché i loro sistemi di controllo sono più blandi». Un quadro confermato anche dalla stessa DIA, nella sua ultima relazione: «Si è visto come le organizzazioni criminali nostrane utilizzino il porto di Anversa, secondo scalo europeo per volume di scambi, per l’importazione della cocaina destinata poi al mercato italiano».

    Il porto di Anversa
    Il porto di Anversa – I Calabresi

    Nei primi tre mesi del 2021, nel porto di Anversa sono state sequestrate quasi 28 tonnellate di droga. Un’infinità. Soprattutto perché non ci troviamo in provincia di Reggio Calabria, dove la ‘ndrangheta controlla tutto. Soprattutto perché fino a pochi anni prima i flussi sembravano preoccupanti, ma sensibilmente più bassi: in tutto il 2014, solo per citare un esempio, i sequestri supererarono di poco le 8 tonnellate. Cifre, quindi, che viaggiano pericolosamente verso i numeri del 2020. Quando su 102 tonnellate di cocaina intercettate all’arrivo in Europa, quasi due terzi approderanno nel porto di Anversa.

    Le alleanze

    Da diverso tempo oramai è diffusa, sul territorio estero, tra le diverse organizzazioni criminali italiane, una politica delle alleanze. Tale strategia è riscontrata anche in Belgio, dove la cosca Commisso di Siderno e il clan Pesce hanno stabilito una sinergia criminale finalizzata alla permeazione del tessuto economico di quel Paese.

    Proprio quelle alleanze che già emergevano nel 2004 con le operazioni “Nasca” e “Timpano”. In quell’occasione, il GOA della Guardia di Finanza di Catanzaro aveva scoperto il lucroso giro di cocaina ed eroina delle famiglie della fascia ionica e tirrenica della provincia di Catanzaro. Ma, soprattutto, individuato i canali di riciclaggio. I metodi d’indagine sempre più sofisticati rendono “semplice” individuare i flussi di droga che giungono in Europa dal Sud America. Assai complesso è invece capire come i milioni di euro dello stupefacente venga reinvestito. Quasi sempre in attività apparentemente lecite.

    Colletti bianchi

    In quel caso (ma non è l’unico) le cosche avevano scelto il mercato immobiliare. Quello che, se ci trovassimo in Italia, al Sud, in Calabria, verrebbe banalmente definito il “mattone”. E invece siamo nel bel mezzo dell’Europa. Dove insistono i palazzi della politica continentale. Ventotto milioni di euro ripuliti in poco tempo. Grazie, ovviamente, agli immancabili “colletti bianchi” su cui possono contare le ‘ndrine. Addirittura, a Bruxelles, un intero quartiere sarebbe stato acquistato dalle cosche di ‘ndrangheta.

    Anche in Belgio, tanto per il traffico di droga, quanto per il riciclaggio di denaro, si punta su quegli elementi “cerniera” fondamentali per le cosche. “Facilitatori”, direttamente in contatto con il Sud America per quanto riguarda la cocaina. Oppure che sanno dove spendere (e, quindi, ripulire) i denari frutto del business delle sostanze stupefacenti.

    Gli albanesi

    Alleanze che non si limitano ai rapporti tra cosche calabresi. O, magari, tra organizzazioni mafiose diverse. Come Cosa Nostra o la Camorra. Ma anche la Stidda. Un ruolo sempre più importante, negli ultimi anni, quello dei criminali albanesi. Ancora dalla relazione della DIA del secondo semestre 2020: «La criminalità albanese è attiva prevalentemente nel traffico di sostanze stupefacenti e di armi nonché nella tratta di esseri umani e nello sfruttamento della prostituzione talvolta in accordo funzionale con organizzazioni di diversa etnia (rumena e nigeriana)».

    I sodalizi a connotazione transnazionale si avvalgono delle connessioni con gruppi delinquenziali costituiti da connazionali operativi principalmente nei Paesi Bassi, in Belgio, Austria, Germania, Regno Unito, Spagna, Francia, in centro e sud America e in madrepatria. «Tale capacità di proiezione internazionale e la disponibilità di droga a prezzi concorrenziali ha determinato l’insorgenza di stabili rapporti tra la criminalità albanese e le organizzazioni mafiose italiane. Relazioni che sono agevolate dall’assenza di conflittualità per il predominio sul territorio. Infatti, di norma gli albanesi si occupano dell’approvvigionamento delle droghe che vengono poi cedute ai sodalizi autoctoni per la gestione dello spaccio» scrive ancora la DIA.

    L’ultimo blitz

    La ‘ndrangheta, attraverso alcuni intermediari internazionali, sfrutta le rotte del narcotraffico che originano dalla Colombia, dall’Ecuador e da tutto il Sud America per far giungere in Europa grandi quantità di sostanza stupefacente attraverso lo scalo portuale belga. Un business cristallizzato anche con le indagini “Pollino” ed “Edera”. Nelle due inchieste curate dalla Dda di Reggio Calabria, le famiglie di ‘ndrangheta protagoniste erano i Pelle-Vottari di San Luca, i Cua–Ietto di Natile di Careri e gli Ursini di Gioiosa Jonica.

    Poco più di un mese fa, l’ultima operazione tra Anversa e Liegi, con decine di arresti e centinaia di perquisizioni. Oltre mille gli agenti impiegati dalle forze dell’ordine, sequestrati stupefacenti per un valore stimato di circa 80 milioni di euro, Kalashnikov, cavalli e beni di lusso. La scoperta, da parte degli inquirenti locali, anche di un laboratorio per la lavorazione e il confezionamento della cocaina. Anversa, quindi, è il punto di approdo della droga in Belgio (e in Europa). Il sospetto è che la capitale, Bruxelles sia il centro per lo stoccaggio e il confezionamento. Lo snodo per lo smistamento.

    La ‘ndrangheta è riuscita ormai a penetrare il tessuto economico del Belgio, soprattutto nelle province di Hainaut, Liegi e Limburgo. Assai forte la presenza degli Aquino, clan d’élite originario della Locride. Anche se, ormai, si può parlare di gruppi criminali italo-belgi.

    All’ombra dei palazzi del potere

    In un’intervista rilasciata a Sergio Nazzaro per il magazine dell’Eurispes, Francois Farcy, dal 2001 in forze nella Polizia Federale Belga, afferma: «La sfida futura che il Belgio deve affrontare per quanto riguarda la mafia, e più in generale la criminalità organizzata di stampo mafioso, è quella di (ri)costruire una comprensione migliore del loro insediamento nel nostro paese e di evidenziare i loro obiettivi prioritari».

    Perché il Belgio, da tempo, è ormai un crocevia fondamentale per le mafie. Per la ‘ndrangheta, soprattutto. Proprio all’ombra dei palazzi del potere europeo, a Bruxelles. Da dove partono miliardi e miliardi di euro di finanziamenti europei. Che, spesso, vanno in pasto alle cosche. Ma questa, è un’altra storia…

  • Aeroporto Minniti, Reggio è la cenerentola degli scali calabresi

    Aeroporto Minniti, Reggio è la cenerentola degli scali calabresi

    L’aeroporto Tito Minniti fu pensato per essere porta d’ingresso per le due città metropolitane, canale d’arrivo e di partenza privilegiato per una fetta di Sud da oltre un milione di abitanti. Ma è finito nell’angolino più angusto del sistema dei trasporti del fondo dello Stivale. Lo scalo di Reggio Calabria arranca tra un emorragia di passeggeri che non conosce sosta – è all’ultimo posto per utenti trasportati tra gli scali calabresi – e un’offerta anemica che si limita a Roma e Milano, con prezzi da tratte internazionali che dirottano su altri aeroporti (Catania e Lamezia) anche buona parte dell’utenza “domestica”.

    Il prezzo dell’incanto

    Incastrato tra le ultime ombre d’Aspromonte e la meraviglia dello Stretto, lo scalo reggino paga, tra le altre cose, una serie di limitazioni dettate proprio dalla posizione in cui lo hanno costruito e dalla difficoltà nelle manovre di atterraggio. Dotato di due piste (anche se i voli di linea atterrano e decollano solo su quella principale) è uno dei pochi scali italiani a prevedere un’abilitazione particolare per il pilota (in fase di atterraggio è necessaria una manovra gestita direttamente in cabina).

    Limitazione che si somma a quelle legate all’impossibilità di dotare lo scalo con i moderni sistemi di radiofaro per l’atterraggio strumentale degli aerei e che, di fatto, resta come un macigno sospeso sui progetti di sviluppo visto che molte compagnie, low cost in testa, preferiscono puntare su scali incatenati da minori restrizioni e quindi accessibili a costi più bassi.

    Uno scalo per due

    Reggio e Messina come bacino naturale, il Tito Minniti (in memoria dell’aviatore reggino protagonista della guerra colonialista d’Abissinia) non è mai riuscito a diventare veramente attrattivo per i viaggiatori in partenza e in arrivo dalla sponda siciliana dello Stretto. Più veloce e più comodo per l’area metropolitana di Messina (nonostante la maggiore distanza) raggiungere lo scalo catanese di Fontana Rossa, che garantisce una maggiore offerta e prezzi decisamente più competitivi.

    Oggi, se un utente messinese volesse decollare da Reggio servendosi di mezzi pubblici potrebbe scegliere tra: prendere un autobus (privato) dalla città peloritana che, attraversato lo stretto via traghetto fino a Villa, lo lasci in aeroporto dopo il tragitto in autostrada o, in alternativa, prendere un aliscafo fino al porto di Reggio e da lì raggiungere lo scalo con un mezzo Atm: in entrambi i casi, oltre un’ora di tragitto scomodo e costoso che scoraggerebbe anche il più entusiasta dei viaggiatori.

    Arrivare in aeroporto dal mare

    Eppure qualcosa era stato fatto in passato per migliorare il collegamento. Nata durante la primavera di Reggio con Italo Falcomatà, l’idea di dotare il Minniti con un approdo pensato per gli aliscafi, si concretizzò nell’era Scopelliti, ma le cose non andarono bene. Modificato il vecchio molo della stazione aeroporto e “sistemata” la via d’accesso diretta tra la stazione e il Minniti, il nuovo percorso che consentiva l’accesso diretto allo scalo (con check in possibile direttamente a Messina) non riuscì mai a sfondare.

    Troppo lungo il tragitto via mare (nell’entusiasmo di quei giorni un consigliere comunale arrivò a invocare l’adozione degli hovercraft per il collegamento super veloce delle due sponde dello Stretto), scomodo e lento il trasbordo sulla navetta dalla stazione. Il servizio rimase in piedi per una manciata di mesi soltanto. Poi, così come era venuta, l’idea di arrivare al Minniti dal mare è naufragata in fretta. E ha lasciato come (costosa) dote, un molo ristrutturato e ormai in disuso e un sottopassaggio inutilizzato prima vandalizzato da una discarica abusiva e poi mestamente chiuso al traffico.

    Scartamento ridotto

    Il Minniti è passato sotto la gestione di Sacal all’indomani del rovinoso fallimento della Sogas, la compartecipata pubblica che gestiva lo scalo andata a gambe per aria nel 2016 con uno strascico di 10 indagati. Ha evitato così una rovinosa chiusura grazie a una gestione provvisoria che gli ha consentito di non perdere le necessarie autorizzazioni. Ma l’aeroporto reggino ha continuato a perdere collegamenti e passeggeri in un’emorragia senza fine aggravata dal baratro Covid e dalle scelte di Sacal che, accusano da Reggio, «spinge Lamezia e lascia al palo Reggio e Crotone».

    Il biglietto costa il doppio di Lamezia

    Sul piatto restano i milioni del rinnovato piano industriale previsti dal gestore per i tre scali calabresi. Una fetta dovrebbe essere destinata a Reggio per l’adeguamento della pista e dell’aerostazione e il rilancio dello scalo: «Vogliamo portare Reggio a un milione di viaggiatori», disse l’allora facente funzioni Spirlì durante una conferenza stampa della scorsa estate.

     

    In attesa del milione di passeggeri, al Minniti, nel mese di ottobre, si sono avventurati poco più di 13 mila utenti che rendono lo scalo reggino ultimo tra i tre aeroporti calabresi per numero di passeggeri. Anche perché, prenotare per la settima di Natale, un andata e ritorno sia da Roma che da Milano (uniche tratte sopravvissute alla desertificazione dei voli) costa al malcapitato viaggiatore poco meno di 400 euro. Circa 200 euro in più delle medesime tratte in vendita, nel medesimo periodo, sullo scalo lametino.

  • Aborto, l’ospedale degli obiettori dove un solo medico dice sì a un diritto

    Aborto, l’ospedale degli obiettori dove un solo medico dice sì a un diritto

    Per abortire, la prima porta a destra. Percorri il corridoio, evitando di guardarti intorno, ti chiedi cosa ti aspetta e hai già la risposta a quella domanda: «Adesso non è il momento».
    Non è il momento giusto per un figlio, lo dicono quasi sempre le donne quando arrivano in ospedale con il certificato rilasciato dal consultorio familiare o dal medico curante, entro le dodici settimane di gestazione la loro gravidanza verrà interrotta.

    All’ospedale di Cosenza 250 Ivg l’anno

    Ospedale civile di Cosenza, reparto di ostetricia e ginecologia: qui ogni anno nascono in media oltre 2000 bambini e – sempre qui – vengono effettuate circa 250 interruzioni volontarie di gravidanza, a praticarle c’è un solo ginecologo, l’unico non obiettore di coscienza.

    aborto-cosenza
    Francesco Cariati, ginecologo dell’Azienda ospedaliera di Cosenza

    È il giovedì il giorno delle Ivg: una sigla per non dire, per capirsi al volo. È il giorno della settimana in cui l’unico medico pro-aborto dell’intera azienda ospedaliera si occupa delle donne che hanno deciso di non portare avanti la gravidanza ed esercitano il loro diritto a interromperla, un diritto sancito dalla legge 194. Fino alla nona settimana di gestazione l’aborto avviene attraverso il metodo farmacologico, dalla nona alla dodicesima settimana – ma fortunatamente si ricorre a questa pratica sempre meno – si deve intervenire chirurgicamente. Il turno in reparto del dottor Francesco Cariati il giovedì è diviso tra le gestanti e le donne in attesa di Ivg.

    L’ingresso dell’ospedale dell’Annunziata a Cosenza
    Un solo ginecologo non obiettore

    «Io sono abituato a dare la vita, è il mio lavoro – chiarisce – ed è molto difficile far coesistere la mia attività di ginecologo che accompagna le donne fino al parto con quella di medico non obiettore che aiuta ad abortire. Da una parte do la vita, dall’altra devo interromperla. Perché lo faccio? Per garantire un diritto: quello che hanno le donne di accedere a un servizio che la legge impone agli ospedali di fornire». Una questione che ne implica molte altre, che spesso rischiano di disperdersi nella pozza torbida del pregiudizio: «ci sono donne disperate – spiega Cariati – che se non hanno la possibilità di abortire in ospedale potrebbero finire in situazioni di illegalità e mettere a rischio la loro vita». Si sente solo? «Molto – ammette -. Soprattutto perché è complicato garantire ogni settimana questo servizio. I ginecologi obiettori di coscienza sono animali in via di estinzione» scherza. Ma poi torna serio, «lavoriamo sul filo dei giorni, il tempo è prezioso. Per le Ivg chirurgiche ho bisogno di anestesisti, ostetriche e infermieri anche loro non obiettori e sono pochissimi, bisogna organizzare e incastrare i turni di lavoro. Al di là delle ferie programmate sempre tenendo conto delle urgenze delle pazienti, non possiamo permetterci di assentarci. Altrimenti il servizio si interrompe».

    Leggere nello sguardo delle donne

    Nel silenzio ovattato rotto solo dai pianti dei neonati che reclamano la poppata, ad accogliere le donne che arrivano per abortire – dietro porte anonime per garantire la privacy di chi entra – c’è un piccolo staff di professionisti che, innanzitutto, non le giudicheranno. Proveranno ad afferrare sguardi sfuggenti, dopodiché, nel rispetto della volontà di ogni donna, si avvierà l’iter dell’Ivg.

    Manuela Bartucci, assistente sociale in ospedale a Cosenza

    Manuela Bartucci fa l’assistente sociale in ospedale e lavora in stretta sinergia con Cariati, ha costruito un dialogo costante con la rete territoriale dei consultori familiari. Con lei le pazienti hanno il primo colloquio quando arrivano in ospedale. «Ho imparato con il tempo e l’esperienza a leggere negli sguardi delle donne – racconta – a cogliere un segnale di tentennamento, a decifrare la comunicazione non verbale. Io sono lì per capire se c’è qualcosa che potrebbe far cambiare il destino di quella donna».

    Le precarie e le lavoratrici che non vogliono figli

    Alla base della scelta di interrompere una gravidanza, racconta, spesso – ma non sempre – c’è una condizione di precarietà: grosse difficoltà economiche, mancanza di una relazione stabile, situazioni lavorative senza garanzie. Ci sono ragazze che hanno appena trovato un impiego e hanno paura di perderlo o studentesse universitarie che temono di non riuscire a portare a termine gli studi. «In questi casi metto sul tavolo tutte le soluzioni che potrebbero rappresentare un appiglio – dice -. Magari non hanno consapevolezza delle opportunità e dei diritti, dal reddito di cittadinanza all’assegno unico. Sono sempre loro a scegliere, ma – afferma con orgoglio – molti bambini alla fine sono nati».

    aborto
    Un cartello di protesta del collettivo Fem.In contro gli antiabortisti

    Sono soprattutto italiane

    Le donne che intraprendono il percorso di interruzione della gravidanza arrivano sole, oppure accompagnate da un genitore, dal compagno o dal marito. Sono soprattutto italiane, hanno in media tra i 25 e i 35 anni. Poche, circa il 5%, le minori tra i 16 e i 18 anni, qualcuna al di sotto dei 15. Ci sono poi molte donne migranti soprattutto marocchine, nigeriane, romene, moldave.

    Ma il quadro non è completo. Dal lockdown ad oggi si è fatto largo un dato nuovo: a richiedere l’Ivg sono sempre di più donne italiane sopra i trent’anni, con una posizione lavorativa stabile ma fortemente determinate a non avere figli, «in questi casi ci troviamo di fronte ad una scelta di vita e dunque a una decisione irremovibile».
    Storie di ripensamenti e storie di abbandoni

    Adesso sua madre non vede l’ora di essere nonna

    Le storie sono tante e rimangono attaccate addosso a chi fa l’assistente sociale in un posto come questo, «è difficile tornare a casa e liberarsene facilmente». Ne ricorda tante, alcune a lieto fine altre no. «Qualche settimana fa si è presentata qui una donna di circa trent’anni. Voleva abortire ma nei suoi occhi ho letto il tormento. Ho provato a parlarle, lei è scoppiata a piangere, si è aperta. Non posso dirlo a mia madre, ha detto. In paese la gente mi criticherebbe e la mia famiglia si vergognerebbe di me. L’ho invitata ad affrontare tutto con lucidità e coraggio, a prendersi qualche giorno per parlare senza timore con sua madre. Beh, lo ha fatto e all’inizio non è stato semplice, ma continua a mandarmi dei messaggi, mi ringrazia per averla aiutata, adesso sua madre non vede l’ora di diventare nonna».

    La bimba affidata a una nuova famiglia

    Ci sono poi vicende che si evolvono seguendo strade imprevedibili. A luglio una donna si è presentata in un ospedale della provincia per abortire, aveva superato il limite delle settimane di gestazione, non ha potuto farlo. Ha portato avanti la gravidanza e la bimba è nata qui nell’ospedale di Cosenza ma la madre ha confermato la volontà di non riconoscerla. «Ho accompagnato questa donna all’uscita – ricorda – . Le ho chiesto di pensarci, di non avere fretta. Tieni il mio numero, le ho detto. Se dovessi ripensarci avrai tutto il sostegno che ti serve. Quella telefonata è arrivata, ma per comunicarmi la volontà di non tornare a riprendersi sua figlia. Alla piccola è stato dato un nome scelto dalle ostetriche, per venti giorni ha vissuto qui in neonatologia, accudita e coccolata da tutti. Poi è stata affidata ad una nuova famiglia».

    L’ingresso della Degenza ostetrica all’ospedale di Cosenza
    Le difficoltà non mancano

    Sono racconti che fanno brillare gli occhi dietro le mascherine, «spesso si danno dei giudizi sommari sull’aborto, diventa un tema politico, scalda i dibattiti – dice Francesco Cariati – ma bisognerebbe ricordare che dietro ogni storia c’è un dolore da rispettare. Noi qui facciamo il massimo per tutelare le donne e la loro scelta. Certo, le difficoltà non mancano. A partire dalla logistica».

    L’aborto è anche un problema di privacy e lingua

    Le donne che vengono in ospedale per abortire devono condividere gli spazi con le donne col pancione e con quelle che hanno appena partorito, s’incrociano, si sfiorano. «Siamo molto attenti a garantire la privacy, ad agire con il massimo tatto – aggiunge Cariati – ma il problema c’è, non si può negare. È necessario avere un’ala riservata per le interruzioni di gravidanza. Siamo in attesa che venga realizzata, questo renderà tutto più semplice». Quando? «Non ho informazioni certe sui tempi. Posso dire però che il progetto c’è».

    Un altro problema è quello della mediazione linguistica, le donne che non parlano l’italiano precipitano nel vortice di adempimenti burocratici e qualche volta si perdono. «Spesso ho di fronte ragazze sperdute, con le quali ho difficoltà anche solo a spiegare dove devono andare, cosa devono fare, quando devono tornare» dice Cariati. Molte di loro non sono informate sui metodi contraccettivi e capita che tornino anche due o tre volte in un anno. «Ecco, in momenti come questi, in cui rivedo in reparto una donna che ha già avuto più di un aborto volontario, ho qualche difficoltà, la redarguisco. Sono un ginecologo – ripete – il mio compito è dare la vita, questo non lo dimentico mai».
    La chiacchierata si è protratta oltre i tempi stabiliti, ma le storie sono tante e tutte raccontano un pezzo di verità sull’aborto. Un’infermiera si avvicina alla porta, sta cercando proprio lui, da lontano gli fa segno con la mano, indica la sala parto. «Devo andare – dice Cariati – c’è un bambino che ha fretta. Lo faccio nascere e torno».

  • Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Piccoli don crescono: quei gran figli di ‘ndrangheta

    Qualcuno è convinto che la via maestra sia allontanarli dalla famiglia d’origine. Quei nuclei dove si cresce a pane e ‘ndrangheta. Qualcun altro considera questa pratica – peraltro ormai consolidata da alcuni percorsi istituzionali – una barbarie. Altri ancora, studiando il fenomeno ‘ndranghetistico, hanno parlato di “familismo amorale”, mutuando il concetto sociologico introdotto da Edward C. Banfield.

    Il tentativo di togliere acqua fresca e corrente al mulino della ‘ndrangheta tramite le nuove leve dei clan, è, fin qui, riuscito a fasi alterne. Le cosche possono contare su un esercito di giovani pronti a rischiare vita e carcere. Guidati da altri giovani, spesso figli e/o discendenti diretti dei vecchi capibastone. Nel frattempo deceduti o costretti al carcere da lunghe pene detentive.

    Giovane, ma già narcotrafficante

    L’ultimo caso noto è quello emerso nell’ambito della maxi-inchiesta della Dda di Reggio Calabria, “Nuova Narcos Europa”. Un blitz congiunto con le Dda di Milano e Firenze, volto a contrastare l’enorme business della droga gestito dalla potente cosca Molè. Un casato storico che, da sempre, si divide Gioia Tauro con l’altra celebre famiglia dei Piromalli. Proprio i dissidi con i Piromalli avrebbero causato, negli anni, un momento di difficoltà, di declino, da parte dei Molè. Dissidi e frizioni culminate con l’eliminazione, l’1 febbraio del 2008, del boss Rocco Molè. Ma la cosca, secondo gli inquirenti, sarebbe stata tutt’altro che in declino. Proprio le nuove leve avrebbero contribuito a far rialzare la testa al casato di ‘ndrangheta.

    Rocco Molè
    Il giovane Rocco Molè – I Calabresi

    Lo dice anche in un’intercettazione il giovane Rocco Molè, nipote omonimo del capo ‘ndrangheta assassinato. Appena 26 anni, ma sarebbe stato lui, insieme all’anziano nonno Antonio Albanese, il leader del sodalizio criminale. Il giovane Molè, intercettato, fa proprio riferimento ai fasti di un tempo. E al fatto che, una volta completata la rinascita, tutti sarebbero dovuti tornare a bussare alla loro porta. E che lui, nonostante la giovane età, si sarebbe ricordato di chi, negli anni, è rimasto fedele. Ma, soprattutto, di chi ha voltato le spalle. Così, quindi, i Molè hanno provato a rialzare la testa. Anche grazie ai rapporti con la potente famiglia Pesce di Rosarno e con i Crea di Rizziconi. Ma anche con la ‘ndrangheta del territorio vibonese.

    Il progetto “Liberi di scegliere”

    Il giovane Rocco Molè è stato per 3 anni, quando ancora era minorenne, a Torino in una struttura di recupero gestita da Libera nell’ambito del progetto “Liberi di scegliere” promosso dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria per il reinserimento nella società dei figli dei boss mafiosi. Si tratta di un percorso elaborato ormai diversi anni fa dall’allora presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella. Protocollo di intesa tra vari Enti, anche governativi, Libera e la Chiesa, che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri, provenienti da famiglie mafiose.

    Una pratica ormai consolidata, che, in diversi casi, ha dato frutti importanti. Sono più di 100 i minori coinvolti e circa 25 le donne andate via con i propri figli. Alla ricerca di un futuro diverso. Sebbene non siano mancate le polemiche circa la logica – secondo alcuni “militare” – di sottrarre i giovani alle famiglie di origine. Sottovalutando, sempre a detta dei detrattori, l’aspetto pedagogico, culturale e formativo che deve necessariamente avere la lotta alla ‘ndrangheta. Il giovane Molè – Roccuccio per tutti – era rientrato in questo programma proprio alla morte dello zio omonimo Rocco, assassinato nel 2008 nell’ambito di un conflitto interno con gli alleati storici Piromalli. Un recupero fallito, evidentemente.

    Malefix

    Scardinare i modelli ‘ndranghetistici non è affatto semplice. Soprattutto in famiglie che hanno fatto la storia della ‘ndrangheta. I Molè e i Piromalli sono tra questi. Ma la cosca che più di tutte ha contribuito a modernizzare la criminalità organizzata calabrese è, probabilmente, quella dei De Stefano. Con i suoi rapporti privilegiati con massoneria e servizi segreti. Con il potere, in generale. Ascesa e caduta di “Malefix” sono emblema di quel familismo amorale della ‘ndrangheta. Giorgio Condello Sibio, conosciuto a Reggio Calabria come “Giorgetto” o “Giorgino” ha capito ben presto che il cognome De Stefano, forse, può essere un biglietto da visita, un brand, più interessante. Anche e soprattutto a Milano, dove si era trasferito. Dove faceva la bella vita.

    Giorgio Condello Sibio
    Giorgio Condello Sibio con l’ex fidanzata Silvia Provvedi – I Calabresi

    Soggetto misterioso fin quando non verrà arrestato su mandato della Dda di Reggio Calabria. Balzato alle cronache dei giornali scandalistici per la sua relazione con la showgirl Silvia Provvedi, ex del paparazzo pregiudicato Fabrizio Corona ed ex partecipante del Grande Fratello Vip. I giornali di gossip lo definivano “imprenditore di origini calabresi, membro di una famiglia molto importante”. La “famiglia importante” era quella dei De Stefano. Giorgetto Condello Sibio, infatti, è il figlio naturale di don Paolino De Stefano, assassinato nel 1985 agli albori della seconda guerra di ‘ndrangheta. La madre di Giorgetto, Carmelina Condello Sibio, sarebbe stata l’amante di don Paolino, da cui avrebbe avuto tre figli.

    È quindi fratellastro dei più noti Carmine, Dimitri, ma, soprattutto, di quel Peppe De Stefano considerato al vertice dell’ala militare della ‘ndrangheta. In riva allo Stretto, Giorgetto/Giorgino aveva iniziato a essere troppo esposto. E così, la decisione di delocalizzare. E Milano, da sempre, per i De Stefano è una seconda casa. Basti ricordare i rapporti con il boss Franco Coco Trovato. Ma anche il boss Paolo Martino, cugino dei De Stefano e loro avamposto nel capoluogo lombardo.

    Il peso criminale

    Non solo bella vita, però. Stando alle indagini a suo carico, Giorgio Condello Sibio/De Stefano avrebbe avuto un ruolo molto importante nel dirimere le questioni interne al quartiere Archi, considerato una roccaforte della ‘ndrangheta reggina e non solo. Nelle conversazioni captate, il giovane De Stefano parla già da veterano e sottolinea come le spaccature tra i sodali – che iniziavano ad essere note nel sottobosco criminale reggino – avrebbero indebolito la cosca, facendola apparire più vulnerabile.

    Se Giorgetto/Giorgino ha ben capito, fin da subito, l’importanza del cognome De Stefano, c’è chi con cognomi importanti ci nasce. Proprio come in una monarchia, il peso criminale, nella ‘ndrangheta, ha anche un valore di discendenza diretta. Per questo Roccuccio Molè poteva gestire flussi di cocaina così enormi. Il 25 marzo 2020 – siamo quindi nel pieno del primo lockdown – in una masseria di Gioia Tauro sono stati rinvenuti e sequestrati oltre 500 kg di cocaina, suddivisi in panetti di 1 kg circa, alcuni dei quali marchiati con il logo “Real Madrid”, giunti nei giorni precedenti al porto di Gioia Tauro, occultati all’interno di un container commerciale. Tutta droga che avrebbe una firma chiara. Quella del giovane Rocco Molè.

    C’è chi il cognome se lo sceglie. E chi ci nasce. È il caso anche di Luigi Greco, figlio secondogenito del boss Angelo, soprannominato Lino. Una famiglia egemone a San Mauro Marchesato, nel Crotonese, che da tempo, però ha spostato il suo core business in Lombardia, a Milano. Proprio nel cuore della City Life, tra sfarzo e auto di lusso, gli inquirenti censiscono incontri e cene tra gli uomini di ‘ndrangheta e importanti imprenditori. Evidentemente per parlare di affari. Ma anche di politica.

    vincenzo macrì
    Vincenzo Macrì scortato nel viaggio dal Brasile all’Italia dopo l’estradizione – I Calabresi

    Nel 2017 viene invece arrestato in Brasile Vincenzo Macrì. Considerato elemento di spicco della cosca Commisso di Siderno, dedito al narcotraffico internazionale. Figlio di Antonio Macrì, classe 1904, leader carismatico, soprannominato per la sua caratura criminale “Boss dei due mondi”, particolarmente influente anche oltreoceano (Canada e Stati Uniti), il celebre don ‘Ntoni venne ucciso in un agguato a Siderno nel 1975, nell’ambito della prima guerra di ‘ndrangheta. Quel delitto sul campo di bocce, che era la sua passione, segnò la presa del potere da parte della nuova ‘ndrangheta dei De Stefano.

    ‘Ndrangheta e movida

    Da sempre legata ai De Stefano e originaria di Archi è la cosca Tegano. Cresciuta tra la prima e la seconda guerra di ‘ndrangheta grazie a boss del calibro di Giovanni Tegano, recentemente scomparso. Dopo il suo arresto, in seguito ad anni di latitanza, qualcuno, tra la folta folla fuori dalla questura di Reggio Calabria, gridava «uomo di pace». Proprio per testimoniare le sue capacità di mediatore. Per mantenere equilibri che, da sempre, sono la forza della ‘ndrangheta. Non la pensano così, evidentemente, i rampolli della cosca Tegano. Giovani, ma già con un curriculum criminale importante. Ma, soprattutto, ben visibile. Molesto. A fronte di una ‘ndrangheta che ha sempre amato rimanere sotto traccia. I “Teganini”. Così è soprannominato il gruppo di giovani del clan, che, negli anni, hanno seminato il panico nei locali della movida di Reggio Calabria.

    Mico Tegano
    Mico Tegano – I Calabresi

    Sì perché i giovani di ‘ndrangheta amano la movida. Proprio come Giorgio Condello Sibio/De Stefano. Ma se del figlio naturale di don Paolino, fino a poco tempo fa, non esistevano nemmeno foto sui social, i “Teganini” sono diversi. Soggetti come Mico Tegano, figlio del boss ergastolano Pasquale, o Giovanni Tegano, nipote omonimo del cosiddetto “uomo di pace”, fanno parte della ‘ndrangheta 2.0. Quella che si spalleggia sui social. Ma quella, soprattutto, che fa soldi con i nuovi modi di delinquere. Il gioco d’azzardo online, soprattutto. Come testimoniano le inchieste “Gambling” e “Galassia”. Ma, soprattutto, terrorizzano avventori ed esercenti dei locali più “in” di Reggio Calabria. Chiedendo, anzi, pretendendo, di non pagare. Oppure per una parola di troppo. Talvolta per uno sguardo. Molti di loro sono già dietro le sbarre.

    Chi va avanti e chi si ferma

    Ma è lungo l’elenco di figli che hanno proseguito le orme dei genitori. Da Rocco Morabito, figlio del boss Peppe Morabito, “il tiradritto” di Africo. A Peppe Pelle, figlio di don ‘Ntoni Pelle, che negli anni ha ricoperto anche il ruolo di capo crimine a Polsi. E, ancora, Antonio Piromalli, figlio del boss Pino Piromalli, detto “facciazza”, a sua volte fratello del celebre don Mommo Piromalli.

    Uno dei punti di forza della ‘ndrangheta – che la rende quindi anche più immune al fenomeno del pentitismo – è la sua struttura familiare. Ruoli che vengono acquisiti per discendenza. Casi emblematici sono quelli della cosca Mancuso. Una famiglia d’elite della ‘ndrangheta. Sebbene, negli anni, sia stata pesantemente colpita da indagini giudiziarie, non risulta indebolita. Proprio per la capacità di attingere sempre a nuove leve. Domenico Mancuso, 45 anni, figlio del boss ergastolano Peppe, alias “Mbrogghjia”, è stato recentemente condannato a oltre 20 anni di reclusione nel processo “Dinasty”, una delle indagini caposaldo contro i Mancuso.

    Ma c’è chi, all’interno di quella famiglia, cerca di spezzare la catena. È il caso di Emanuele Mancuso, figlio del carismatico boss Pantaleone, detto “l’ingegnere”. Si tratta del primo caso di pentimento all’interno della storica cosca di Limbadi, al centro di molti traffici criminali anche a livello internazionale. Emanuele Mancuso, tra l’altro, è il nipote di Rosaria Mancuso, accusata di essere stata la mandante dell’omicidio di Matteo Vinci, con una bomba collocata sotto la sua automobile. Una collaborazione storica, nell’ambito della quale, Emanuele Mancuso sta raccontando fatti e dinamiche criminali della sua famiglia, ma non solo.

    E non è l’unico. Anche Francesco Farao, oggi poco più che 40enne, ha deciso di passare dalla parte della giustizia. Figlio del boss ergastolano Giuseppe, racconta degli affari del clan crotonese. Con propaggini anche al Nord.
    Perché, da sempre, nella ‘ndrangheta chi collabora è considerato un infame. L’anello debole. Ma l’anello debole è anche quello più forte. Perché spezza la catena.

  • Aeroporto Crotone, due milioni per un radiofaro inutilizzato

    Aeroporto Crotone, due milioni per un radiofaro inutilizzato

    Royalties da investire e radiofari da collaudare, rotte a singhiozzo e utenti inferociti. Nemmeno un bar dove prendere un caffè o un’edicola per un cruciverba e un quotidiano in attesa di uno dei (pochissimi) voli. È tratteggiato a tinte fosche il futuro del moribondo aeroporto Pitagora, lo scalo aereo più anziano (e più derelitto) della regione.

    Tra chiusure, riaperture, finti rilanci e progetti di sviluppo, si trascina in un limbo fatto di disservizi e incompiute. Relegato a Cenerentola tra i tre aeroporti calabresi (con cui condivide la governance sotto le insegne di Sacal), quello di Crotone ha vissuto un’esistenza estremamente travagliata cambiando più volte utilizzo e rimanendo chimera di un territorio già confinato agli ultimi posti delle graduatorie nazionali.

    Cronaca di un fallimento

    Costruito, primo in Calabria, nel comune di Isola Capo Rizzuto come aviosuperficie per le esigenze belliche del secondo conflitto mondiale, il Pitagora apre alle rotte commerciali alla metà degli anni ’60. Lega il suo nome alla compagnia Itavia, che garantisce le prime rotte su Roma e Bergamo. E inaugura a stretto giro anche il servizio cargo e una serie di tratte coperte da voli charter che collegano quel pezzo di Calabria a diverse destinazioni internazionali.cc

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    Il DC-9 Itavia precipitato ad Ustica

    Ma le cose sono destinate a durare poco. E quando, alla fine dei ’70, si inaugura lo scalo di Lamezia la situazione per Crotone cambia drasticamente. «Hanno trasferito la rappresentanza Itavia a Catanzaro, di notte. Poi – racconta Nicola Fodaro, per anni presidente dell’Aeroclub cittadino – hanno trasferito anche il servizio cargo spogliando San’Anna di ogni servizio. La chiusura era inevitabile, la tragedia di Ustica che ha mandato a gambe all’aria la compagnia ha fatto il resto».

    Sull’altare di Lamezia

    Sacrificato sull’altare della più appetitosa Lamezia e senza più traffico civile, l’aeroporto resta in piedi solo grazie all’aeroclub, che si garantisce un contratto con Alitalia per la prima formazione dei futuri piloti. Ma di prendere un volo per raggiungere una qualsiasi destinazione, neanche a parlarne. Si dovrà attendere il 1996, con l’arrivo di AirOne, per rivedere una aereo di linea atterrare a Crotone. Sembra la rinascita. Nel 2003 arriva l’inaugurazione del nuovo terminal, capace – almeno in teoria, visto che quei numeri non si sono mai raggiunti – di sopportare un traffico annuo di 250 mila passeggeri. Comunque l’aeroporto in quegli anni funziona e garantisce una serie di collegamenti (Venezia, Torino, la Germania) in grado di allentare l’isolamento di una città ristretta tra una statale da incubo e una linea ferroviaria da film in costume.

    Aeroporto-Crotone-Ryanair
    Un aereo fermo sulla pista del Pitagora

    Arrivano anche nuovi investimenti – la nuova torre di controllo, il sistema di radiofaro per gli atterraggi che però non entrerà mai in funzione – ma anche in questo caso la favola dura poco. La “Sant’Anna spa”, la società che gestisce lo scalo, comincia a mostrare il fiato corto e volare da Crotone torna ad essere piuttosto complicato con i collegamenti ridotti al lumicino. Fino al 2018 quando la società finisce in bancarotta, e dallo scalo di Sant’Anna partono, di fatto, solo i charter del Crotone calcio e qualche sparuto volo turistico. Poi il bando Enac e l’approdo, assieme a Reggio e Lamezia, sotto la gestione Sacal.

    Terno al lotto

    Oggi, partire da Crotone è un terno al lotto. Quattro voli settimanali con destinazione Bergamo, tre collegamenti con Bologna, in attesa della primavera e del nuovo, temporaneo, collegamento con Venezia. Devono bastare per un’utenza calcolata sulla carta in oltre 450 mila utenti (compresi nel dittico 100km/1h di spostamento) lungo tre province. Anche perché il bando per le nuove tratte indetto a dicembre 2020, nonostante gli aiuti di Stato che avevano garantito allo scalo la continuità territoriale così come succede in Sicilia e in Sardegna, è andato mestamente deserto. E di quello nuovo ancora non si è vista traccia.

    Due milioni di euro per nulla

    In attesa delle nuove, fantomatiche, tratte verso Roma e Torino, se si ha la fortuna di trovare un biglietto (prenotando online in questi giorni, un collegamento andata/ritorno con la Lombardia nella settimana di Natale varia tra i 250 e i 400 euro) si deve sperare di trovare una bella giornata. In caso di maltempo e di scarsa visibilità infatti gli aerei non possono atterrare nello scalo di Sant’Anna che tra le sue mille contraddizioni, è riuscito a dotarsi di un moderno sistema Ils che garantisce l’atterraggio strumentale ma non lo ha mai messo in funzione. Siglato il contratto d’utilizzo e ultimata l’installazione infatti, il radiofaro (costato oltre 2 milioni) non è mai stato collaudato e di conseguenza mai utilizzato. Con buona pace delle speranze di capacità attrattiva dello scalo.

    aeroporto_crotone

    Le royalties

    Eppure, per garantire i necessari collegamenti del crotonese con il resto del paese, qualcosa era stato fatto. Nel 2018, la Regione e i comuni del comprensorio (oltre al capoluogo, anche Crucoli, Isola, Cirò, Cutro, Strongoli e Melissa) avevano trovato un accordo con Sacal per la ripartizione di parte delle royalties (il 15% del totale) derivanti dallo sfruttamento in mare dei giacimenti di metano. Avrebbero dovute essere investite per la sopravvivenza dello scalo e lo sviluppo turistico dell’intera zona. Un gruzzolo di circa un milione di euro l’anno «che i comuni hanno garantito con la stipula di un formale protocollo, ma che è servito a ben poco» dice amareggiato Giuseppe Martino che da anni guida il comitato cittadino Crotone vuole volare.

  • Cosenza, la città che fa acqua da tutte le parti

    Cosenza, la città che fa acqua da tutte le parti

    Quando si chiede ai cosentini quali siano stati i fallimenti dell’amministrazione Occhiuto, rispondono tutto d’un fiato: il traffico, il centro storico e l’acqua. Che il servizio idrico in città sia carente lo confermano migliaia di testimonianze e lamentele quotidiane affidate da cittadini di quartieri diversi ai social media. Su questo grave disservizio, sia in passato che in anni recenti sono stati scritti libri e realizzate inchieste.
    Autorevoli esperti hanno studiato il problema, analizzato le cause, individuato le responsabilità, prospettando delle possibili soluzioni.

    Propaganda vs Realtà

    Il video diffuso più di un anno fa da Sorical in merito alla questione della mancanza d’acqua a Cosenza attesterebbe il miglioramento quantitativo del servizio, in virtù di un’asserita razionalizzazione del sistema. È un report che testimonia un impegno per cercare di affrontare il problema, ma traspira un tono propagandistico che rivela una scarsa aderenza alla realtà dei fatti.

    Sebbene rispetto ai decenni precedenti un sensibile miglioramento della situazione in effetti sia avvenuto, è proprio il caso di dire che questa rappresentazione fa acqua da tutte le parti. In ogni quartiere, dal centro alla periferia, nella fase attuale dell’anno i rubinetti domestici rimangono a secco dal tramonto all’alba. L’acqua arriva nelle case solo in ore diurne. Nelle stagioni calde la durata dell’erogazione si riduce ulteriormente.

    L’ultima classifica

    Non se ne accorgono le famiglie che usufruiscono di cisterne condominiali. Un po’ di più lo percepisce chi ha installato nella propria abitazione un serbatoio autonomo: il rumore della pompa idraulica segnala che nei tubi la pressione è talmente bassa da richiedere l’attivazione del motorino. Soffrono invece, e bestemmiano in cosentino stretto, commercianti e residenti sprovvisti di autoclavi.

    Eppure, a leggere i dati forniti una settimana fa da Legambiente nella classifica annuale pubblicata da “il Sole 24 ore”, Cosenza sarebbe la quindicesima città italiana nella graduatoria sull’efficienza del servizio idrico, la più virtuosa del meridione. La differenza tra l’acqua immessa in rete e consumata per usi civili, industriali e agricoli si attesterebbe al 22,6%, contro il 50 di Catanzaro. Stando a questi dati, nel capoluogo calabrese metà dell’acqua si disperderebbe a causa delle condutture colabrodo. Nella città dei Bruzi, invece, il problema sarebbe addirittura ridotto della metà.

    Acqua e fonti

    Viene da chiedersi come sia possibile. Una prima risposta è contenuta nelle spiegazioni che Legambiente fornisce sui criteri adottati nel redigere la speciale classifica: «Fonte: dati originali dei Comuni».
    È noto che ormai per i gestori di ristoranti, pizzerie, hotel e B&B vale più una recensione positiva di qualsiasi altro attestato di merito. Qualche lamentela pubblicata da un cliente su una delle tante piattaforme dedicate al turismo può imbrattare un’immagine luminosa della propria attività ricettiva, costruita con tanti sacrifici nel tempo. Nel caso dell’indagine Quanto è verde la tua città, è come se Legambiente avesse chiesto a un ristoratore di recensirsi da solo.

    Un ulteriore elemento di dubbio sui risultati dello studio sorge quando si osservano le differenze tra le cifre relative al 2016 e all’anno successivo. In soli 12 mesi a Cosenza la percentuale di dispersione dell’acqua si sarebbe ridotta dal 77 al 36%. A meno che, pur di rattoppare la rete idrica, nelle viscere della terra l’amministrazione Occhiuto e la Regione Calabria non abbiano impiegato forze paranormali, è molto difficile valutare questo dato come attendibile.

    Gli interventi effettuati

    I lavori di rifacimento ci sono stati, sì, non v’è dubbio. Nell’aprile scorso, l’ingegner Giovanni Ioele, capo struttura del Dipartimento tutela dell’ambiente della Regione Calabria, informava la commissione Ambiente di Palazzo dei Bruzi che in tre anni sul territorio comunale sono stati sostituiti 12 chilometri di rete idrica e riparate circa 200 perdite, 400 gli interventi di rifacimento degli allacci, 360 le saracinesche sostituite e 44 gli idranti installati.

    Preso atto anche di questa relazione, la tempistica appare però ancor più anomala. Se gli interventi sono stati effettuati solo a partire dal 2018, non si capisce come la situazione sia potuta migliorare già nel biennio precedente, addirittura fino a dimezzare la dispersione. In realtà le perdite continuano a riguardare gran parte della città. E sono di almeno tre tipi:

    Sotto accusa rimangono anche le autoclavi condominiali. Secondo alcuni esperti e amministratori di Palazzo dei Bruzi, essendo prive di “sistemi di ritenuta”, cioè di valvole e galleggianti, continuerebbero ad accaparrare milioni di litri per scaricarli direttamente nelle fogne.

    Tutta colpa dei cittadini?

    C’è chi fa notare che per le amministrazioni locali è ormai tattico colpevolizzare la cittadinanza su presunti comportamenti incivili nella raccolta differenziata dei rifiuti come nel rispetto del codice della strada. Non poteva mancare lo scorretto utilizzo dell’acqua. Ed è comunque spontaneo chiedersi come mai in questi anni il Comune non abbia ordinato delle ispezioni tecniche, condominio per condominio.

    Nel tentativo di recuperare crediti derivanti da tributi, multe e canoni d’affitto delle case popolari, l’amministrazione guidata da Mario Occhiuto ha affidato onerosi incarichi a società private. A prescindere dagli scarsi risultati conseguiti con questi affidamenti, se avesse agito con la medesima solerzia nel pretendere il corretto funzionamento delle cisterne condominiali e nei controlli sull’effettiva funzionalità dei contatori, forse il problema sarebbe stato in parte risolto.

    Beni comuni e privatizzazioni

    Intanto, mentre per gran parte della giornata i rubinetti cosentini rimangono a secco, il prossimo sabato 20 novembre a Napoli è prevista la manifestazione nazionale per l’acqua bene comune «minacciata – scrivono i promotori del corteo – dal governo Draghi di privatizzazione con il DDL Concorrenza. In più il neosindaco di Napoli tra le prime cose da fare intende privatizzare l’azienda pubblica dell’acqua e lo stesso Draghi tramite i soldi del PNRR vuole realizzare la Multiutility SUD, raggruppando e privatizzando tutta l’acqua delle 6 regioni Sud continentali».

    Dal canto loro, l’assemblea dei sindaci dell’Autorità Idrica della Calabria e la Giunta regionale avrebbero idee poco chiare su chi dovrà amministrare la nostra acqua e quanto ci costerà. Si profilano due strade. O il gestore sarà una società per azioni a capitale pubblico oppure la captazione e l’adduzione spetterebbero a Sorical, ma distribuzione e depurazione passerebbero nelle mani di un nuovo soggetto, che potrebbe essere una Spa a capitale pubblico oppure un’azienda speciale consortile.
    Il coordinamento calabrese “Bruno Arcuri” sostiene che «acqua bene comune non vuol dire capitale pubblico, ma gestione pubblica».
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    L’azienda speciale

    In sintonia con quanto prospettato dal presidente della Regione Roberto Occhiuto, il coordinamento chiede che il servizio sia affidato a un’azienda speciale, purché tale forma giuridica sia permanente, non temporanea.
    La situazione è resa ancor più complicata dalla nota indirizzata due giorni fa al presidente della Provincia Franco Iacucci, dal presidente dell’Autorità idrica della Calabria, Marcello Manna. Al momento la decisione non è ancora definita, ma la Sorical dovrebbe restare come gestore all’ingrosso, mentre a valle si avrebbe un’azienda speciale. Questo cozzerebbe però con l’indicazione del presidente della Regione sulla gestione unitaria.

    Da un Occhiuto all’altro

    Dunque, mentre un Occhiuto si appresterebbe a trovare una risposta concreta alle istanze dei comitati per l’acqua pubblica in Calabria, l’altro Occhiuto, impegnato com’era nella ricerca del “bello”, si è congedato dal ruolo di primo cittadino senza però aver garantito il funzionamento effettivo di questo come di altri settori nevralgici del Comune bruzio. La “grande bellezza” sarà pure un orizzonte monetizzabile, ma rimane un risultato superficiale. Per ingegnerizzare davvero la rete idrica, per riparare i guasti, sarebbe necessario impegnare risorse consistenti, scendere in profondità, scavare, svolgere un lavoro oscuro che tuttavia non fornirebbe alla cittadinanza l’immediata evidenza dei fatti.

    Se il servizio idrico fosse garantito per 24 ore, forse in tanti nemmeno se ne accorgerebbero, perché le cisterne private e condominiali ammortizzano la drammaticità del disservizio. Nella società virtuale, quel che non appare non esiste. E ci si abitua a tutto. Persino dell’acqua si può fare a meno, magari fingendo a se stessi di averla a disposizione per tutta la giornata. Se poi si vive in una città ai primi posti della graduatoria nazionale, «è una città che ci ha reso orgogliosi». Allora la doccia può attendere.

  • I libri superano i videogame, sembra un miracolo ma è vero

    I libri superano i videogame, sembra un miracolo ma è vero

    «Tutto nasce da una libreria, in piazza dei Bruzi a Cosenza, dei miei genitori, Gustavo Brenner e Emilia Iaconianni, che nel secondo dopoguerra diventa casa editrice, con il primo libro pubblicato nel 1953. Dal disastro della guerra l’obiettivo era quello di avviare un risveglio culturale e riappropriarsi della identità culturale calabrese. Costruire una base da cui ripartire».
    Walter Brenner, 68 anni, racconta le origini della sua attività imprenditoriale, con l’omonima casa editrice.

    La libreria al tempo, dice, fungeva anche da biblioteca circolante fornendo testi a chi non poteva acquistarli e l’attività editoriale era principalmente rivolta alla riedizione di testi antichi locali attraverso la riproduzione fotomeccanica.

    Il rapporto umano con il libraio

    «Dal 1975 ho preso il timone della casa editrice – spiega ancora Brenner – Qui oggi trovi il punto vendita e luogo di incontro con gli scrittori e il pubblico. Vengono persone da Cosenza e da tutta la regione.

    Boom di vendite? Non è così per noi, le vendite sono assai limitate, nel periodo del lockdown le persone hanno però letto molto e, quindi, comprato più libri. Abbiamo sfruttato anche i benefici del web, per aumentare la nostra offerta, con un sito internet e appoggiandoci ai portali di vendita online. Preferisco l’acquisto nelle librerie fisiche e a mio avviso il rapporto con il personale adeguato nei punti vendita dà sicuramente migliore soddisfazione e indirizzo nella ricerca del libro stesso».

    «Negli ultimi tempi, comunque, stiamo pubblicando testi nuovi e seguiamo diversi filoni editoriali. Per il futuro, sperando di superare questo periodo pandemico, continuiamo a lavorare con la nostra bella comunità e siamo felici per le numerose proposte giunte dagli autori», conclude l’editore.

    Libri, un settore in crescita

    L’editoria è sicuramente un settore in crescita, supportato dai numeri sulla vendita nel 2021 dell’Associazione italiana editori (Aie), per il mercato dei libri a stampa di narrativa e saggistica, venduti nelle librerie fisiche e online e nella grande distribuzione, il giro d’affari è tra gli 1,6 e 1,7 miliardi di euro.

    Nel 2021 le librerie fisiche sono tornate a vendere di più delle librerie online, ha esultato il presidente di Aie, Franco Levi, durante il Salone del libro di Torino che si è svolto, dopo lo stop dell’anno scorso, nel mese di ottobre. Soddisfatto anche il presidente dell’associazione degli editori indipendenti, Marco Zapparoli, che sottolinea quanto siano le case più piccole, con un fatturato inferiore a 300mila euro, a registrare quest’anno una vera propria impennata di vendite.

    I libri superano i videogame

    Anche nel 2020, secondo le rilevazioni, sono arrivati ottimi risultati dal libro che nell’industria culturale è stato, dopo le pay-tv, il contenuto più acquistato e di molto superiore al mercato del videogame. A tal proposito va considerato sicuramente lo stop di cinema, concerti, teatri, mostre, con il propagarsi del virus. Durante il lockdown i comportamenti degli italiani hanno trainato questo settore: pensiamo alla prenotazione via telefono o alla possibilità/voglia di leggere di più e alla permanenza in casa che fornisce più “tranquillità”. Insomma, hanno comprato di più i clienti e oggi nelle piccole librerie si mantiene l’abitudine di prenotare e ordinare i testi telefonicamente, magari ricevendoli a domicilio.

    La Calabria che legge meno libri degli altri

    I dati Istat certificano, invece, per quanto riguarda la Calabria, bassissime percentuali (ultimi in Italia) in termini di lettori di giornali e libri, fruitori di biblioteche, spettacoli o concerti. Anche se la Calabria contribuisce alla vendita e alla diffusione del settore editoriale, sforna numerosi talenti nel campo della letteratura (Nuccio Ordine, Mimmo Gangemi, Carmine Abate), ospita una serie di festival ed eventi dedicati agli scrittori e al loro pubblico.

    Abbiamo dunque intrapreso un viaggio a più puntate per raccogliere una serie di testimonianze di piccole e grandi librerie, autori e imprenditori, su come hanno vissuto l’ultimo anno e per chiedere qual è la loro soluzione per sopravvivere in un futuro sempre più proiettato verso il digitale.

    Chiude la storica Domus

    Dal punto vendita di Walter Brenner, percorrendo la strada in discesa, si trovava un’altra storica attività cosentina nel campo dell’editoria, la libreria Domus. Punto di riferimento per lettori e studenti, il negozio è chiuso e sono ancora visibili i locali commerciali semi svuotati. «Una vera famiglia si vede dalla libreria presente in casa – dice Francesco Paolo Piro, antiquario con una bottega a pochi passi da lì – vedere le luci spente e tutto chiuso, in pieno centro cittadino, è una grande mancanza da tutti i punti di vista, Domus era un luogo di civiltà, ora anche visivamente è una pena».

    libri
    La crisi del mercato dei libri ha colpito anche la storica libreria Domus di Cosenza
    Da libraio a ristoratore 

    La sede principale della libreria, vicino l’autostazione cittadina, ha chiuso già nel 2014 e al suo posto ora si trova un supermercato di una grande catena.

    «Prima ha chiuso mio zio Franco – spiega Aldo Caldarola, 43, ex proprietario della libreria e ora ristoratore – nei primi mesi del 2018 ho cominciato a liquidare anche questa attività. Con la pandemia per me è arrivato il colpo definitivo. Ho provato a resistere la concorrenza delle catene ma ci siamo trovati di fronte ad un calo di vendite lento e costante soprattutto con l’ingresso nel mercato delle multinazionali dell’e-commerce. Il nostro commercio – aggiunge – si basava principalmente sulla vendita di testi per gli studenti che ormai si trovano in supermercati e autogrill a prezzi bassissimi, anche le scuole e le biblioteche ci hanno abbandonato limitando l’acquisizione di libri. L’Italia doveva imitare la Francia estendendo il tetto dello sconto al 5% (ora è al 15%) anche sui libri di scuola. Non ho più intenzione di continuare».

    Aldo Caldarola, ex libraio diventato ristoratore
    Il ritorno delle librerie

    Le librerie ricoprono un ruolo fondamentale, insieme a musei e biblioteche, nell’accesso e nel consumo culturale. Secondo i dati contenuti nell’analisi periodica del mercato che Aie realizza in collaborazione con Nielsen, le librerie fisiche, aiutate dal web, tornano a essere primo canale di vendita quest’anno: sono a quota 500 milioni, contro i 479 milioni delle librerie online e i 58 milioni della grande distribuzione.

    Il mercato dei bambini

    La filiale di Cosenza di un grande gruppo editoriale preferisce, invece, non ascoltare le nostre domande sullo stato dell’arte, allora il nostro approfondimento nel mondo dei libri continua verso un piccolo negozietto nato prima del lockdown. A dimostrare quanto l’editoria stia cambiando è il peso relativamente contenuto dei best seller, i primi 50 libri più venduti in Italia pesano sul mercato solo il 6%.
    «Abbiamo aperto la nostra libreria per bambini a Cosenza nel dicembre 2019 – spiega Valentina Mari, titolare del negozio Juna insieme ad altre due donne under 40 – con la pandemia ci siamo dovuti adeguare con letture e dirette sui social e vendite a domicilio (anche grazie ai canali di vendita nazionali)».

    La libreria per bambini, “Juna”
    Il lockdown è stato un alleato della lettura

    La filiera del libro – aggiunge Mari – è aumentata nettamente «e con il lockdown la lettura è stata di nuovo apprezzata dalla gente. I genitori hanno avuto più tempo per stare con i bambini – leggendo spesso insieme a loro – e questo ha facilitato la vendita di testi per i più piccoli. A ciò si è aggiunto il sostegno del ministero, che ci ha accreditato alle biblioteche del territorio, in un quadro dove la concorrenza delle librerie online è molto forte. Appena abbiamo potuto aprire – conclude la libraia – ci siamo dedicati ad attività culturali all’aperto e adesso nell’ottica di ritornare alla normalità, puntiamo ad aumentare il nostro impegno con laboratori artistici, teatrali e lettura animata».

  • L’assalto agli aeroporti calabresi, la Lega e il fuggi fuggi

    L’assalto agli aeroporti calabresi, la Lega e il fuggi fuggi

    Quando la politica si è svegliata l’assalto era già bell’e consumato. Qualcuno ci aveva già provato nel 2014 senza riuscirci, oggi invece la privatizzazione della società che gestisce la principale porta d’ingresso della Calabria si è concretizzata nell’indifferenza degli enti pubblici coinvolti. Solo a cose fatte Roberto Occhiuto, «un po’ arrabbiato», si è reso conto che proprio appena prima che lui diventasse presidente «il privato ha messo in atto strane procedure per trasformare l’assetto proprietario ed avere così la maggioranza delle quote» della Sacal, che gestisce i tre aeroporti calabresi.

    L’ira di Roberto Occhiuto

    Secondo il neo governatore la scalata sarebbe «contro la legge», secondo i privati che l’hanno condotta – i Caruso, famiglia di imprenditori lametini che possiede la società Lamezia Sviluppo –tutto sarebbe invece avvenuto nel rispetto della legge e dello statuto di Sacal «nell’interesse di salvaguardare i dipendenti e la continuità dell’azienda». Al di là delle rispettive convinzioni giuridiche e degli asseriti intenti filantropici, in questa storia il privato ha fatto il privato acquisendo le quote che gli enti pubblici hanno lasciato scoperte. Se lo abbia fatto legittimamente lo verificheranno, eventualmente, la Procura di Catanzaro, l’Antitrust e l’Autorità nazionale anticorruzione a cui l’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) si è rivolta avviando il procedimento di revoca della concessione per l’aeroporto di Lamezia e proponendo la nomina di un commissario per la gestione operativa dello scalo.

    Il centrodestra gioca a scaricabarile

    Scoppiata la bomba è subito partito lo scaricabarile tra, per esempio, Comune/Provincia di Catanzaro – entrambi guidati da Sergio Abramo, approdato prima delle elezioni a “Coraggio Italia” – e la stessa Regione, guidata fino ad appena due settimane fa da Nino Spirlì, uomo di punta della Lega a cui Matteo Salvini fa spesso sapere di essere molto grato «per quello che ha fatto per la sua gente».

    Un tutti contro tutti che ha visto anche Mimmo Tallini criticare il sindaco di Catanzaro, a cui ha risposto anche lo stesso Spirlì sostanzialmente scaricando le responsabilità sul presidente Sacal Giulio de Metrio che però è stato voluto proprio dalla Lega. Insomma i vari Abramo, Spirlì, lo stesso Occhiuto che era già in piena campagna elettorale, erano distratti mentre i privati si prendevano Sacal e solo ora sono diventati loquaci.

    L’allarme inascoltato della Cgil

    Nessuno però può dire che non si sapesse quanto il rischio della privatizzazione fosse concreto. I Calabresi ne ha scritto a inizio agosto  quando Spirlì aveva assicurato il consiglio regionale che la maggioranza sarebbe rimasta pubblica. La Filt Cgil lanciava allarmi da mesi. E se non bastasse tutto ciò ci sono anche atti ufficiali come la delibera con cui il Comune di Lamezia, retto in quel momento da un commissario prefettizio, approvava per le quote una variazione di bilancio da 150mila euro, comunque non sufficienti a confermare il 19,2% dell’ente (maggior azionista) che oggi è sceso all’11%.

    Aeroporti in crisi di liquidità

    La S.P.A. che gestisce i tre aeroporti calabresi si è trovata quest’anno in una crisi liquidità – secondo la stessa società e la Regione esclusivamente riconducibile al crollo del traffico aereo durante la pandemia – che ne ha messo a rischio la tenuta. Si è così arrivati a una ricapitalizzazione da circa 10 milioni di euro ed erano state anche fissate delle scadenze precise per i soci. Le riporta nero su bianco la stessa delibera del Comune di Lamezia, che risale ai primi di agosto: per la sottoscrizione dell’aumento di capitale il termine fissato era il 30 luglio; per l’esercizio del diritto di opzione sulle azioni non sottoscritte dagli aventi diritto il termine era al 30 settembre; per esercitare il diritto di prelazione sulle azioni rimaste inoptate la deadline era quella del 4 novembre.

    Cronaca di un assalto annunciato

    È la cronaca di un assalto annunciato. E mentre gli alleati di Occhiuto guardavano altrove i privati sono riusciti a fare ciò che non era stato possibile nel 2014. All’epoca era appena stato eletto Mario Oliverio ma non era ancora stato indicato per la guida della Sacal il superprefetto/poliziotto Arturo De Felice, chiamato a spendere il suo prestigio legalitario dopo la bufera dell’inchiesta “Eumenidi”.

    La Spa che ha accorpato gli aeroporti

    Sotto la sua presidenza, nel 2017, la Spa ha accorpato a sé anche agli aeroporti di Reggio e Crotone reduci dai fallimenti delle rispettive società di gestione. Da lì sono cominciati anche i problemi finanziari, sfociati nell’anno del Covid in una crisi di liquidità senza precedenti.
    La Regione ci ha dunque messo i soldi approvando in Consiglio la sottoscrizione da 927mila euro che doveva servire a confermare il 9,27% delle azioni, misteriosamente però oggi Occhiuto parla di una quota minore in capo alla Cittadella, ovvero il 7%.

    ll supermanager in quota Lega

    Spirlì aveva addirittura annunciato cantieri «per 60 milioni di euro» sui tre scali, forte dell’asse con il supermanager di area leghista chiamato alla guida di Sacal nell’era Santelli. De Metrio ha tenuto nascosto il Piano industriale e ingaggiato una lotta durissima con i sindacati che, indignati per il suo super stipendio da 240mila euro l’anno, in estate hanno chiesto certezze occupazionali per lavoratori stagionali e part time.

    A Lamezia, inoltre, ancora aspettano che sia de Metrio che la Regione trasformino in fatti le parole sulla nuova aerostazione: bocciato dalla Commissione europea un progetto da 50 milioni di euro, si è parlato di un altro che dovrebbe costare la metà. Il finanziamento da 25 milioni di euro però doveva arrivare dall’Europa passando proprio dalla Cittadella, ora invece non lo si potrà certamente destinare a un privato. Per non parlare del mitologico collegamento «multimodale» tra stazione ferroviaria e aeroporto, un ultimo miglio di cui si parla da anni e che ancora è solo sulla carta.

    La scalata agli aeroporti calabresi 

    Alla luce di questo quadro non proprio edificante, il rimpallo di responsabilità della classe dirigente che guida la Calabria da due anni risulta un’ulteriore beffa. La scalata dei privati è avvenuta nel momento in cui la governance della Sacal e quella della Regione erano appannaggio della Lega, che a quanto se ne sa è ancora oggi un’alleata di ferro di Occhiuto (con tanto di rappresentanza in Giunta e Presidenza del consiglio regionale già aggiudicata) e addirittura ora, con un certo sprezzo del ridicolo, «plaude» alla sua «azione di chiarezza» parlando di «malaffare» e di «lobby di potere» su una Sacal che sostanzialmente ha finora governato tramite i suoi uomini.

    Un fuggi fuggi indecoroso di fronte a uno scandalo enorme. Nessuno può dire di essersi accorto solo adesso degli «strani accordi» che hanno fatto finire in mano privata un settore di enorme interesse strategico per l’intera regione. E nessuno può negare che nel recente passato siano scattate inchieste e misure cautelari per molto meno.