Categoria: Inchieste

  • Quel Mig avvolto nel mistero delle Magare

    Quel Mig avvolto nel mistero delle Magare

    Ero un bambino di undici anni nell’estate del 1980. Vivevo a Feruci, una frazione di Trenta, un piccolo paese incastonato tra le colline sopra Cosenza, dove il tempo scorreva lento, scandito dal sole cocente e dal chiacchiericcio dei compaesani.

    Era un pomeriggio come tanti, di quelli in cui il caldo ti spinge a cercare l’ombra. Giocavo con i miei amici – Francesco, Michele, Gianluca, Enzo – tra i vicoli stretti, con le nostre risate che rimbalzavano tra le case di pietra. Ogni tanto ci fermavamo a riprendere fiato, seduti sui gradini della chiesa vicino casa mia. Lì, sotto l’ombra del campanile, c’era Zu Franciscu, che tutti chiamavano, chissà perché, “Mappappu”. Seduto con le sue canne di vimini, le sue mani nodose intrecciavano panieri che sembravano opere d’arte.

    Ogni tanto alzava lo sguardo, borbottava qualcosa e tornava al suo lavoro, mentre noi lo osservavamo con una sorta di reverenza. Quel giorno, però, l’aria era diversa. Non era solo il caldo soffocante di giugno o il ronzio delle cicale. Le voci degli adulti erano più concitate, i toni più gravi. Sentivo frammenti di discorsi su un aereo caduto, un Mig libico, dicevano, precipitato a Castelsilano, non lontano da noi. La notizia arrivava dai telegiornali, quelli che i grandi guardavano la sera davanti ai vecchi televisori a tubo catodico. “Un aereo militare”, “i libici”, “la strage di Ustica”: parole che, per me, erano solo pezzi di un puzzle troppo complesso per un bambino di undici anni. Seduto sui gradini, con il rumore delle canne di Zu Franciscu in sottofondo, ascoltavo i grandi.

    Le autorità e i servizi controllano l’area dove è caduto l’aereo libico

    Quell’aereo caduto sulle montagne 

    Parlavano di quel MiG caduto sulle montagne, qualcuno lo collegava a un altro disastro, un aereo di linea scomparso nel mare vicino Ustica. Non capivo tutto, ma parole come “guerra”, “mistero”, “aereo abbattuto” accendevano la mia immaginazione. Nella mia mente di bambino, vedevo aerei sfrecciare nel cielo e scoppi improvvisi, ma tutto sembrava lontano, quasi irreale, anche se Castelsilano – appena oltre San Giovanni in Fiore, verso Crotone – non era poi così distante. Potevo quasi immaginarlo, quell’aereo, precipitare tra le colline del marchesato. Zu Franciscu, con il suo cappello di paglia sgualcito, scuoteva la testa. “Cose grosse, troppo grosse,” borbottava, senza smettere di intrecciare. Non so se capisse davvero, ma il suo tono tradiva inquietudine. I miei amici continuavano a giocare, ma ogni tanto si fermavano, incuriositi. “Ma che ci faceva un aereo libico qui?” chiese uno di loro. Nessuno seppe rispondere.

    Il pilota e l’ombra scura della guerra

    Io mi immaginavo un pilota straniero, con una divisa piena di medaglie, perso in un cielo che non era il suo. Quella sera, a casa, la televisione era accesa, e i miei genitori parlavano a bassa voce, come se non volessero farsi sentire. “Strage di Ustica“, “Il Mig di  Castelsilano”: parole che si mescolavano al profumo dei pomodori freschi, al suono delle posate, alla normalità di una serata estiva. Eppure, qualcosa era cambiato. Per la prima volta, il mondo dei grandi mi sembrava più complicato. Non era solo il gioco nei vicoli o i panieri di Zu Franciscu. C’era qualcosa di più grande, che non capivo ma che sentivo pesare. Oggi, a distanza di quarantacinque anni, quel ricordo è ancora vivido. Non so se il MiG di Castelsilano fosse davvero legato alla strage di Ustica, come dicevano i grandi. So solo che per un bambino di undici anni, seduto sui gradini di una chiesa, con il suono delle canne di vimini e le voci preoccupate dei compaesani, quel giorno d’estate del 1980 fu il primo in cui il mondo sembrò improvvisamente più grande, più misterioso, e forse più spaventoso.

    Un frammento identificativo di quel che restava dell’aereo da guerra

    Il mistero custodito dalla Timpa delle Magare

    Il mistero della Timpa delle Magare, dove il MiG-23 libico precipitò, resta vivo. A Castelsilano alcuni testimoni raccontarono di aver visto un aereo volare basso, seguito da pennacchi di fumo, prima del silenzio e del bagliore delle fiamme.

    Accanto ai rottami, il corpo del pilota, Ezzedin Fadah El Khalil, in avanzato stato di decomposizione, suggeriva una morte risalente forse al 27 giugno 1980, il giorno della strage di Ustica, quando un DC-9 Itavia si inabissò nel mar Tirreno con 81 persone a bordo.

    La Timpa delle Magare non è solo un luogo fisico. Nel dialetto calabrese, “magare” significa “streghe”, e il nome evoca leggende di donne sapienti, spiriti della montagna, custodi di segreti antichi. Un aereo militare straniero che precipita in un posto così non è solo un evento: è un’interruzione, uno strappo nel tessuto della comunità. Le autorità parlarono di un malore del pilota, ma le incongruenze – il corpo decomposto, le testimonianze discordanti, i fori sulla fusoliera – alimentano teorie di complotti e battaglie aeree. Secondo il giudice Rosario Priore, che condusse un’inchiesta monumentale, il DC-9 Itavia fu abbattuto durante un’azione militare, forse per intercettare un aereo libico che si pensava trasportasse Gheddafi.

    Il giudice Rosario Priore

    Alcuni testimoni parlarono di due caccia che inseguivano un terzo velivolo, lungo una rotta che da Ustica portava a Castelsilano. Il MiG potrebbe essere stato abbattuto o essersi schiantato durante quell’azione, finendo tra i boschi della Sila. Per gli abitanti di Castelsilano, la Timpa delle Magare è diventata un luogo della memoria, ma anche del silenzio. Come in molte comunità rurali, hanno imparato a convivere con i segreti, a non fare troppe domande.

    Tutta la verità ancora manca, ma forse a saperla sono le “magare”

    Ripensando a quel bambino di undici anni, oggi gli occhi di adulto e la consapevolezza di come le cose non siano come appaiono, mi restituiscono l’impressione che la Timpa delle Magare non è sia solo un spazio geografico, ma un luogo simbolico. È un crocevia di narrazioni, dove la memoria collettiva si intreccia con il trauma di un evento inspiegabile. È un luogo liminale, sospeso tra realtà e mito, dove la verità sbiadisce e si sottrae allo sguardo degli uomini rifugiandosi tra le ombre delle “magare”

     

    Un frammento scelto dal film Il Muro di gomma, di Marco Risi: le scene dell’indagine del giornalista sull’altopiano silano, dove il Mig era precipitato.

  • Sfruttati sin da bambini

    Sfruttati sin da bambini

    «Nel 2015, il mondo si è impegnato a porre fine al lavoro minorile entro il 2025. Il termine è scaduto, ma il lavoro minorile esiste ancora». Questa amara constatazione, che riecheggia nei rapporti internazionali, suona come una condanna in Calabria, terra di perenni contrasti, dove una bellezza mozzafiato convive con un’oscurità sociale che inghiotte il futuro dei suoi figli. Questo è il paradosso di una regione che è epicentro di un’emergenza silenziosa e inaccettabile: il lavoro minorile, un fenomeno che in Italia coinvolge una stima di 336 mila bambini e adolescenti .

    Un fatto sociale diffuso nel Sud, soprattutto in Calabria

    Mentre il mondo ha visto una, seppur lenta, diminuzione del fenomeno, la Calabria sembra marciare in direzione contraria. Qui, i dati nazionali, già allarmanti, assumono i contorni di una vera e propria voragine. È nel Mezzogiorno che questo sfruttamento rivela il suo volto più feroce e la Calabria si distingue come un’area ad altissimo rischio, in un’emorragia di futuro che prosciuga la regione delle sue energie più vitali e la cui reale dimensione rimane in gran parte invisibile alle statistiche ufficiali .

    All’origine del fenomeno un diffuso disagio sociale e forme di povertà

    Le nuove forme di povertà alla base del fenomeno

    I numeri non descrivono il freddo di un cantiere, l’odore acre dei campi o la stanchezza di un servizio ai tavoli che si protrae per ore. Sono storie di ragazzi costretti a barattare i sogni per garantire un presente alla propria famiglia. La spinta è quasi sempre la vulnerabilità socioeconomica, quella stessa fragilità che colpisce quasi un terzo dei minori calabresi in povertà relativa, lasciando le famiglie prive di strumenti e rendendo il lavoro precoce una drammatica necessità 

    Sul lavoro invece che a scuola

    Questo dramma sociale si intreccia inestricabilmente con un’altra piaga: la dispersione scolastica. Lavoro precoce e abbandono degli studi sono due facce della stessa medaglia, un circolo vizioso che condanna intere generazioni. Un adolescente che lavora ha una probabilità quasi doppia di essere bocciato e più che doppia di interrompere la scuola. È la negazione del diritto primario all’istruzione, in un contesto dove il tempo per lo studio è divorato dalla fatica  In Calabria, il lavoro non è solo precoce, è spesso pericoloso, con la regione che figura tragicamente tra le sei in Italia che concentrano oltre la metà dei decessi sul lavoro di minori. A questa realtà si aggiunge la presenza asfissiante della ‘Ndrangheta, che si nutre del disagio e trova nei più giovani una manovalanza a basso costo, trasformando lo sfruttamento in uno strumento di controllo e reclutamento criminale 

    La fuga dalla scuola verso un lavoro sfruttato

    La sostanziale assenza delle istituzioni

    A fronte di questo scenario, la risposta delle istituzioni appare drammaticamente inadeguata. Mentre si invocano normative più stringenti, la Calabria soffre di una cronica carenza di controlli. Con circa 110 ispettori per 180.000 imprese, la vigilanza è un miraggio, lasciando migliaia di minori esposti a rischi e abusi senza alcuna tutela effettiva .

    Eppure, in questo quadro desolante, si accendono piccole luci di speranza. Sono le iniziative del terzo settore e progetti coraggiosi come “Liberi di Scegliere”, che tentano di spezzare le catene che legano i figli delle famiglie di ‘ndrangheta a un destino criminale, offrendo loro una possibilità di futuro diversa, una via d’uscita basata sulla legalità e sulla dignità .

    Serve un intervento dello Stato e della Regione

    Per essere pienamente efficaci, però, le iniziative isolate non bastano. La lotta al lavoro minorile deve diventare una priorità nazionale e regionale. Serve un intervento straordinario, un piano Marshall per l’infanzia calabrese che metta al centro l’istruzione, i servizi e la creazione di lavoro legale. Perché il futuro della Calabria non può e non deve essere costruito sulle macerie dei sogni dei suoi figli, in un Paese che, nonostante gli impegni, non è ancora riuscito a proteggerli tutti.

    Tommaso Scicchitano

  • Diario di un presidente di seggio

    Diario di un presidente di seggio

    È un onore singolare, quasi sacro, quello di presiedere al rito della democrazia. Per due giorni, un’aula scolastica è diventata un tempio laico: il seggio 12, nella valle di Montalto Uffugo. In questo spazio sospeso, ho avuto il privilegio di essere il custode di un meccanismo delicato e potente, oliato dalla dedizione di persone splendide. Un segretario la cui esperienza era una bussola sicura, scrutatori che non hanno misurato il tempo né la fatica, rappresentanti di lista che hanno deposto le armi della dialettica per impugnare gli strumenti di una collaborazione leale. A sorreggere l’intera impalcatura, la professionalità e la disponibilità assolute dei dipendenti comunali, pronti a rispondere a ogni mia richiesta e a risolvere ogni imprevisto per garantire che la volontà popolare si esprimesse senza il minimo ostacolo. Eravamo davvero un’orchestra intonata, e per questo sento di aver servito il mio Paese nel suo volto migliore.

    Il rito del voto e l’importanza del gesto

    In questo fluire ordinato di gesti ripetuti – la matita copiativa, il documento, la firma – un’immagine si è scolpita nella mia memoria, trasformando il rito civico in un atto di profonda umanità. Una madre si è avvicinata all’urna tenendo per mano sua figlia, una bambina dai cui tratti somatici traspariva il disegno di un mondo che si incontra, frutto di un amore che ha superato i confini. Con la pazienza che si riserva ai gesti fondativi, la madre le ha spiegato che quel pezzo di carta era un seme, una leva per spostare il futuro.

    La madre e la bambina

    Poi ha preso la quinta scheda, quella gialla, sulla cittadinanza. “Questa,” le ha sussurrato con una gravità carica d’amore, “è la più importante di tutte”. E ha lasciato che fossero le piccole mani della figlia a compiere l’ultimo passo, a far scivolare quella promessa nell’urna. In quel gesto, ho visto una madre che non depositava un voto, ma piantava una radice per sua figlia nella terra che già chiamava casa.

    Lo spoglio e i risultati

    Poi è venuto il momento dello spoglio. Il flusso dei votanti si è interrotto, ma le porte del seggio sono rimaste aperte, come la legge vuole. L’aula si è trasformata in un palcoscenico pubblico dove, sotto gli occhi di chiunque volesse assistere, la volontà della nostra comunità stava per essere svelata. Fuori la luce del sole era ancora alta, ma mentre le nostre mani cominciavano a danzare sui tavoli, rovesciando le urne, una notte diversa, più intima e profonda, ha cominciato a scendere dentro di me.

    Il prevalere dei Sì, la presenza dei No

    Le prime schede gialle erano un canto di speranza. Un “Sì”. Un altro. Un altro ancora. Si è creato un ritmo, una melodia di accoglienza che sembrava la risposta diretta alla preghiera di quella madre. Il mio seggio stava scegliendo, stava disegnando un orizzonte di inclusione. Alla fine, il conto è stato un’onda di speranza: 220 “Sì”. Una vittoria. La testimonianza che in questa piccola porzione d’Italia, la fiducia era più forte del sospetto. Eppure, in questa musica, una nota stonata, insistente, tornava a farsi sentire. Novantasei volte. NO. Una cifra che sulla carta è solo un numero, il residuo di una sconfitta. Ma in quel momento, per me, erano certamente troppi. Novantasei “no” non erano un’opinione politica; erano 96 porte sbattute in faccia a quella bambina. 96 muri eretti contro il suo futuro. Ogni “no” era la negazione di quel gesto d’amore a cui avevo assistito. La luce del sole illuminava la vittoria del “Sì”, ma l’ombra di quei “no” proiettava una notte sullo spirito.

    Il quorum mancato

    È la strana malinconia di una vittoria locale che si scontra con la desolazione nazionale. Mentre noi contavamo i nostri 220 “Sì”, nel resto del Paese il silenzio di chi non ha votato era assordante, lasciando che il referendum fallisse senza raggiungere il quorum. E anche qui, in questo nostro piccolo successo, quasi cento persone si erano prese il disturbo di venire a dire “no”. Ecco la vera sfida che ci attende. Non la rabbia, ma un’empatica tristezza per quelle 96 paure. La paura di chi si sente fragile, di chi vede il cambiamento non come una promessa ma come una minaccia. Paure reali, che una politica troppo impegnata a contare voti invece che a interpretare anime, si rifiuta di ascoltare.

    La speranza che rimane

    La vita di quella bambina, la sua storia, sarà più grande e importante dei “no” e dei “sì”, e più forte di una politica colpevole che insegue le paure invece di guidare il Paese. Il suo gesto è stato più che un seme: è stata la miccia di un cambiamento necessario, a prescindere da ciò che in questo momento teme la maggioranza del Paese. Perché la vita, nel suo corso inarrestabile, è sempre più potente dei voti che cercano di contenerla.

     

    Tommaso Scicchitano

  • La fatica di accogliere

    La fatica di accogliere

     

                                                                                         di Tommaso Scicchitano

    L’Italia, terra di approdi e crocevia di storie millenarie, si confronta da decenni con il complesso mosaico dell’accoglienza a migranti e richiedenti asilo. Al centro di questo sforzo, c’è un sistema con un nome che è una promessa: SAI, Sistema di Accoglienza e Integrazione. Immaginatelo come un tentativo ambizioso di offrire non solo un tetto e un pasto, ma un sentiero verso una nuova vita, una “accoglienza integrata” che punta a tessere nuove trame nel tessuto sociale italiano. Ma come ogni grande impresa umana, il SAI cammina su un filo teso tra ideali luminosi e ombre insidiose. E la Calabria, con le sue coste bagnate da arrivi e il suo entroterra ricco di umanità ma segnato da fragilità, diventa uno specchio impietoso di questa realtà a due facce.

    Accogliere creando comunità

     Quando l’accoglienza diventa comunità

    Nelle sue aspirazioni più alte, il SAI è un faro. Non più grandi centri isolati, ma una rete di “accoglienza diffusa”: piccoli appartamenti o strutture disseminate nei comuni, dove le persone possono iniziare a ricostruire la normalità. Qui, uomini, donne e bambini fuggiti da guerre, persecuzioni o miseria, incontrano gli “artigiani dell’accoglienza”: operatori sociali, psicologi, mediatori culturali, insegnanti di italiano. Professionisti altamente qualificati che, con dedizione spesso eroica, li accompagnano nell’imparare la lingua, nel comprendere i propri diritti e doveri, nell’iscrivere i figli a scuola, nell’orientarsi verso una formazione o un lavoro.

    Un meccanismo virtuoso

    Quando questo meccanismo funziona, i progetti SAI diventano linfa vitale per i territori, specialmente per quei piccoli borghi che rischiano lo spopolamento. Le case abbandonate tornano a vivere, le scuole riaprono, si creano scambi culturali che arricchiscono tutti. Si costruiscono ponti, si abbattono muri di diffidenza, si sperimenta una micro-società dove l’altro non è una minaccia, ma una risorsa.

    La Calabria terra di passaggio

    Quel sistema inceppato che logora speranze e operatori

    Purtroppo, la macchina del SAI, pur progettata con nobili intenti, spesso si inceppa. La prima ombra è quella di un’instabilità normativa cronica. Decreti che si susseguono, cambiando le regole del gioco, restringendo o allargando le maglie dell’accesso, creando un’altalena legislativa che non dà tregua né agli enti locali né alle cooperative che gestiscono i progetti. Immaginate di dover continuamente riprogrammare il vostro lavoro, la formazione del personale, la documentazione, con la spada di Damocle di un nuovo cambio di rotta.

    Il lavoro degli operatori sociali è spesso precario.

    Il male della burocrazia

    Poi c’è il labirinto della burocrazia. La rendicontazione delle spese, pur necessaria per la trasparenza, diventa un “fardello sproporzionato”, che assorbe tempo ed energie preziose che potrebbero essere dedicate alle persone. E i budget, spesso rigidi come corsetti, lasciano poca flessibilità per rispondere a imprevisti o a bisogni specifici.

    Il lavoro degli operatori tra sofferenza sociale e precariato

    Ma l’ombra più dolorosa è forse quella che si proietta sulle condizioni dei lavoratori. Quegli “artigiani dell’accoglienza” sono spesso giovani laureati, mossi da “principi personali” e forte motivazione, ma costretti a equilibrismi con stipendi non sempre adeguati al ruolo e alle responsabilità, contratti part-time diffusi, carichi di lavoro pesanti e il rischio costante di burnout. Un lavoro che logora, a contatto quotidiano con la sofferenza e la vulnerabilità, e che meriterebbe ben altro riconoscimento. A questo si aggiungono i ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione, una “piaga sociale” che mette con l’acqua alla gola le cooperative, costringendole ad anticipare stipendi e forniture per mesi, minandone la sopravvivenza economica. E infine, la volontarietà dell’adesione dei Comuni al SAI crea una copertura “a macchia di leopardo”, lasciando ampie zone scoperte e alimentando il sistema parallelo dei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), spesso meno orientati all’integrazione e più soggetti a logiche emergenziali.

    La Calabria: uno specchio fedele delle fragilità nazionali

    In Calabria, terra di approdi per chi attraversa il Mediterraneo e regione essa stessa segnata da emigrazione e da un tessuto socio-economico fragile, le criticità nazionali si acuiscono e assumono contorni specifici. La regione ospita un numero significativo di progetti SAI, gestiti con passione da cooperative locali. Tuttavia, la Calabria è anche la regione dove il “caos amministrativo e affidamenti diretti” nel sistema di accoglienza più ampio è stato denunciato con forza. Un dato emblematico è quello sui Minori Stranieri Non Accompagnati (MSNA): a fine 2023, si registravano decine di posti letto inutilizzati nei progetti SAI dedicati a loro, mentre altri minori erano ospitati in CAS o addirittura in centri per adulti. Un paradosso che grida inefficienza, specialmente quando si tratta di proteggere i più vulnerabili.

    Senza soldi niente accoglienza

    Le difficoltà finanziarie degli enti gestori sono palpabili. Storie come quella della cooperativa Rose Blu di Villa San Giovanni, con lavoratori che hanno accumulato mesi e mesi di stipendi arretrati, sono un campanello d’allarme che non può essere ignorato. La rigidità delle tariffe nazionali pro-die, se non adeguata ai costi reali di un contesto come quello calabrese (pensiamo solo ai trasporti in aree interne o alla necessità di un supporto all’integrazione lavorativa ancora più intenso), rischia di strangolare chi opera sul campo con serietà. E poi c’è la “doppia sfida” dell’integrazione socio-lavorativa. Trovare un lavoro e una casa in una regione con alti tassi di disoccupazione, forte presenza di lavoro sommerso e un mercato immobiliare spesso ostile, diventa un’impresa titanica. Il rischio è che l’uscita dal SAI sia dettata più dalla “scadenza del progetto” che da una reale autonomia conquistata, con persone che ricadono nella precarietà.

    Accogliere costa e mancano le risorse

    Barlumi di speranza e resilienza calabrese

    Eppure, anche in questo quadro complesso, la Calabria offre esempi di straordinaria resilienza e di accoglienza che funziona. L’eco del modello Riace, con le sue intuizioni sulla rivitalizzazione dei borghi attraverso l’accoglienza e l’integrazione lavorativa in piccole realtà artigiane, pur con le sue vicissitudini e le attuali difficoltà operative dentro il circuito SAI formale, continua a ispirare.

    Piccoli fari come il progetto SAI di Vena di Maida (CZ), descritto come un “esempio luminoso” di integrazione, dimostrano che la dedizione degli operatori e il coinvolgimento della comunità possono fare la differenza. L’impegno continuativo di comuni come Corigliano-Rossano nel sistema SAI, o iniziative come il progetto Su.Pre.Me 2 per il contrasto allo sfruttamento lavorativo, sono segnali che un’altra via è possibile.

    In Calabria esperienze virtuose di accoglienza, oltre il modello Riace

    Un sistema da salvare, per le persone accolte e per chi accoglie

    Il Sistema di Accoglienza e Integrazione, in Italia come in Calabria, è un gigante dai piedi d’argilla, un sogno a metà che rischia di svanire sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Per salvarlo, servono interventi strutturali: stabilità normativa, procedure più snelle e flessibili, pagamenti puntuali e tariffe adeguate che riconoscano i costi reali di un’accoglienza di qualità. Serve un sostegno vero agli enti locali e alle cooperative, che sono l’ossatura del sistema.

    Ma soprattutto, serve rimettere al centro le persone: la dignità di chi arriva, spesso portando con sé ferite invisibili e la speranza di una vita migliore; e la dignità di chi lavora nell’accoglienza, con una professionalità e un carico emotivo che meritano condizioni di lavoro sicure e gratificanti. Perché un’accoglienza che funziona non è solo un dovere morale o un obbligo di legge: è un investimento sul futuro di tutta la società. E la luce, in fondo a questo percorso, può brillare più forte delle ombre.

  • L’intellettuale che spiegava la Calabria

    L’intellettuale che spiegava la Calabria

    Il 30 maggio 2022, la Calabria e il Sud perdevano una delle loro voci più interessanti, un intellettuale che ha saputo illuminare le ombre di una terra spesso incompresa: Luigi Maria Lombardi Satriani. Antropologo, narratore, guida civile, il suo nome risuona ancora come un canto che intreccia le radici profonde della cultura popolare con l’aspirazione a un Sud consapevole della propria dignità. Nato nel 1936 a San Costantino di Briatico, nel cuore pulsante di una Calabria viva e complessa, Lombardi Satriani non si è limitato a studiare la sua terra, ma l’ha abitata con il pensiero, l’ha raccontata con il cuore, l’ha difesa con la mente.

    La Calabria laboratorio di significati

    La sua Calabria non è mai stata solo un luogo, ma un laboratorio vivo di significati, un crocevia di resistenze culturali che ha saputo esplorare con uno sguardo acuto, empatico, lontano dai cliché di un Meridione ridotto a stereotipo. All’Università della Calabria, ad Arcavacata, ha lasciato un’impronta che ancora oggi vibra nei corridoi accademici e nelle comunità studiate, fondatore del Centro Interdipartimentale di Documentazione Demoetnoantropologica (Cidd), insieme a studiosi come Ottavio Cavalcanti, Vito Teti, John Trumper, Giovanni Sole, Fulvio Librandi ha trasformato il folklore in un atto di ribellione culturale, dando voce agli “ultimi” e dignità alle tradizioni popolari. Le sue opere, per esempio – da Il folklore come cultura di contestazione (1966) a Lo sguardo dell’angelo (1992) – sono mappe per decifrare un Sud che non si arrende, che si autorappresenta, che sfida i pregiudizi con la forza della propria storia.

    L’antropologo accanto ai Giganti Mata e Grifone, figure del folklore calabrese. Foto di Mario Greco

    Sacro e profano osservati col rigore dello studioso

    La religiosità popolare, il rapporto tra sacro e profano, figure come Natuzza Evolo – esplorata con rispetto in lavori come Natuzza Evolo. Il dolore e la parola (2006) – sono stati per lui non solo oggetti di studio, ma dialoghi vivi con l’anima di una terra. Lombardi Satriani non si è mai rinchiuso nella torre d’avorio dell’accademia. Senatore della Repubblica (1996-2001), membro della Commissione Cultura e della Bicamerale antimafia, ha portato la sua riflessione antropologica nelle aule della politica, dimostrando che comprendere il Sud significa anche affrontarne le ferite sociali. La fondazione del periodico Voci e la presidenza dell’AISEA sono stati ulteriori tasselli di un impegno che ha ispirato generazioni.

    Lombardi Satriani agli inizi della sua carriera accademica

    L’omaggio dell’Unical

    Nel 2016, l’Unical gli ha reso omaggio con una laurea honoris causa in Filologia Moderna, riconoscendo un intellettuale che ha fatto della Calabria e del Meridione in generale, non una periferia, ma un centro di significati universali. A tre anni dalla sua scomparsa, il suo “sguardo da vicino” continua a parlarci, a ricordarci che il Sud è un sentimento, una narrazione, una sfida. Luigi Maria Lombardi Satriani non è solo un ricordo, ma è una presenza che ci invita a guardare, ascoltare e raccontare la nostra terra con intelligenza e amore.

  • Lo scrigno celato e irraggiungibile

    Lo scrigno celato e irraggiungibile

                                                                           Testo e foto di Tommaso Scicchitano

    A Cosenza Vecchia, le antiche pietre raccontano un passato glorioso e un presente ferito. Qui, un gioiello di rara bellezza, il Chiostro di San Francesco, è perfettamente conservato ma inaccessibile. Un contrasto che lacera il cuore della città e dei suoi abitanti, testimoni di uno splendore negato.

    Un viaggio nel tempo

    Camminare nei vicoli di Cosenza Vecchia è un viaggio attraverso secoli di storia. Si attraversano nobili facciate, testimoni di antiche grandezze, e angoli che oggi rivelano il peso dell’incuria. In questo scenario di luci e ombre, dove la bellezza combatte ogni giorno contro il degrado, sorge il Chiostro di San Francesco. È il primo complesso francescano costruito in Calabria. Le sue geometrie armoniche, le linee pulite e la cura evidente di ogni pietra creano un’immagine quasi surreale. Appare come un frammento di ordine e serenità, quasi fermo nel tempo. Chiaramente, mani attente ne conservano l’integrità, custodendolo come un segreto prezioso.

    Un tesoro nascosto

    Uno scrigno segreto

    Proprio questa perfezione, questa evidente cura, genera una profonda amarezza. Lo scrigno, infatti, rimane sigillato, inaccessibile ai cittadini. Il Chiostro di San Francesco, con la sua serena bellezza, potrebbe infondere pace e orgoglio. Invece, si erge come un miraggio irraggiungibile. È come un banchetto sontuoso, preparato con cura, a cui nessuno è invitato. È come una musica sublime, suonata a porte chiuse, mentre fuori il rumore del degrado si fa sempre più forte. Questo gioiello intatto brilla solitario, quasi indifferente al destino del tessuto urbano circostante. A pochi metri dalle sue mura impeccabili, il resto del centro storico – uno dei più vasti e antichi d’Italia – mostra le sue ferite aperte. Si vedono palazzi che perdono lentamente la loro dignità e vicoli trasformati in trappole di silenzio e abbandono. Si percepisce il respiro affannoso di una comunità sempre più isolata, stretta tra le memorie di un grande passato e le incertezze di un presente difficile. Gli abitanti di Cosenza Vecchia, custodi ostinati di un’identità che resiste, vivono ogni giorno questo paradosso. Sanno di avere un’oasi di bellezza a portata di mano, ma inaccessibile, mentre intorno a loro avanza il deserto dell’incuria.
    Il fascino delle antiche pietre

    Una delle molte occasioni perdute

    La domanda sul perché di questa inaccessibilità aleggia, muta e persistente, come un’ombra sulla magnificenza del Chiostro. Il contesto urbano avrebbe un disperato bisogno di simboli positivi, di luoghi di aggregazione e di bellezza condivisa. In questa situazione, la chiusura del Chiostro al pubblico è un’occasione perduta, un potenziale inespresso che grida in silenzio. Non si tratta di denunciare l’incuria del monumento, visibilmente ben tenuto. Si tratta, piuttosto, di constatare l’effetto di una separazione, di un distacco dalla vita pulsante della città che invece lo meriterebbe.

    La bellezza e il declino

    Così, il Chiostro di San Francesco resta lì, custode silenzioso della sua perfezione: un’isola di ordine in un mare di crescente abbandono. È un paradosso che pesa sul cuore di Cosenza Vecchia. È uno specchio che riflette non solo la sua impeccabile bellezza, ma anche l’amara constatazione di ciò che potrebbe essere per la sua gente e, inspiegabilmente, non è. Un tesoro intatto, ma distante. La sua luce filtrata illumina a stento le crepe di un centro storico che cerca disperatamente ogni raggio di speranza. Per i figli di questa terra, rimane l’immagine struggente di una ricchezza vicina, eppure irraggiungibile. Diventa un simbolo potente delle contraddizioni che pesano sull’anima della Calabria.
  • Genocidio: la parola vietata

    Genocidio: la parola vietata

    Nel frastuono assordante della guerra e nel pianto silente di chi ha perso tutto, un dibattito tormentato scuote le coscienze all’interno di Israele. Dalle aule universitarie e dai centri di ricerca, voci accademiche si levano per confrontarsi con una delle questioni più angoscianti del nostro tempo: l’ipotesi di genocidio nei confronti del popolo palestinese. È una discussione che lacera, che costringe a guardare in faccia verità scomode, avvolta nel pesante sudario del dolore per le vittime innocenti, sia israeliane che palestinesi. Gli eventi del 7 ottobre 2023 hanno inferto una ferita profonda, riaccendendo antiche paure e inaugurando nuovi orrori, rendendo ancora più urgente la necessità di comprendere e analizzare.

    Anche dentro Israele si comincia a parlare di “genocidio” in Palestina

    All’interno del mondo accademico israeliano, le posizioni divergono radicalmente. Un numero significativo di studiosi, inclusi noti “Nuovi Storici”, non esita a parlare di “genocidio”, “pulizia etnica” o di “aspetti genocidari” nelle azioni di Israele in Palestina. Tra questi, Ilan Pappé sostiene da tempo che nel 1948 sia avvenuta una “pulizia etnica” della Palestina, introducendo già nel 2006 il concetto di “genocidio incrementale” per descrivere le politiche successive di Israele. Vede negli eventi attuali la continuazione di una logica eliminazionista. Anche Avi Shlaim, altro influente Nuovo Storico, definisce le azioni israeliane a Gaza “pulizia etnica e genocidio”, inquadrandole in decenni di occupazione e nelle ripercussioni della Nakba del 1948. Per Shlaim, il blocco degli aiuti umanitari a Gaza, unitamente alle “dichiarazioni genocidarie di leader israeliani e alla vastità delle vittime”, ha rappresentato un punto di svolta.

    I bombardamenti di Israele hanno causato migliaia di morti tra i bambini

    Studiosi israeliani lanciano l’allarme

    Omer Bartov, stimato studioso dell’Olocausto, si è espresso a favore dell’applicazione del termine “genocidio” a Gaza), citando “la scala delle uccisioni e mutilazioni, e l’imposizione deliberata di condizioni di vita calcolate per provocarne la distruzione fisica”. Bartov critica l’uso “perverso” della memoria dell’Olocausto per giustificare tali azioni, affermando che la mentalità osservata in alcuni soldati israeliani a Gaza gli ricordava quella dei soldati della Wehrmacht in Russia. Presso l’Università Ebraica di Gerusalemme, Amos Goldberg, anch’egli studioso dell’Olocausto, ha dichiarato esplicitamente: Sì, questo è genocidio” riguardo a Gaza. Sostiene che non sia necessario un paragone con Auschwitz per parlare di genocidio, indicando come prove “la completa distruzione di Gaza, le uccisioni indiscriminate, la carestia deliberata e l’annientamento delle élite” ed evidenziando “un’atmosfera radicale di disumanizzazione dei palestinesi” nella società israeliana.

    Il suo collega, lo storico dell’Olocausto Daniel Blatman, rincara la dose, affermando che Israele  sta “bombardando a morte bambini affamati” a Gaza e definendo il “Piano dei Generali” israeliano “un terribile crimine di guerra che spazia dalla pulizia etnica al genocidio”. Raz Segal, studioso di genocidio, è stato tra i primi a etichettare la guerra di Israele a Gaza come un “caso da manuale di genocidio“, basandosi sulle dichiarazioni di funzionari israeliani e su atti come uccisioni di massa e politiche di affamamento.

    Negare il genocidio di Israele in Palestina

    Diametralmente opposta è la posizione di un altro gruppo di accademici, che contesta fermamente l’etichetta di genocidio. La loro analisi si fonda spesso su un’interpretazione legale restrittiva della Convenzione sul Genocidio del 1948, la quale richiede la prova di un “intento specifico” (dolus specialis) di distruggere un gruppo in quanto tale. Molti sostengono che, per quanto distruttive, le azioni di Israele manchino di questo intento specifico e che le dichiarazioni ufficiali possano essere interpretate diversamente. Un argomento frequente è che la campagna militare israeliana miri ad Hamas, e non al popolo palestinese nel suo complesso, e vengono citati gli sforzi per minimizzare i danni ai civili come prova contraria a un intento distruttivo.

    Alcuni, pur ammettendo la possibilità di crimini di guerra, li distinguono nettamente dal genocidio. Israel W. Charny, ad esempio, considera le azioni di Hamas del 7 ottobre come “genocidio” e la risposta di Israele come “guerra” con molte vittime civili, suggerendo che Israele debba evitare un “picco genocidario”. Il professore di diritto internazionale Amichai Cohen, pur riconoscendo la “retorica odiosa proveniente da Israele” come un “punto debole”, ritiene problematica l’accusa di genocidio, suggerendo che le azioni di Israele possano essere spiegate da ragioni tattiche o strategiche.

    Lo sterminio della popolazione palestinese evoca la tragedia dell’Olocausto

    Lo spettro dell’Olocausto incombe sul dibattito

    L’ombra dell’Olocausto si proietta in modo complesso e doloroso su questo dibattito. Per studiosi come Bartov e Goldberg, la sua memoria è un monito universale: il “mai più” deve applicarsi a tutti, e le atrocità subite non possono giustificare l’inflizione di nuove sofferenze. Essi vedono nell’orrore del passato un imperativo etico a denunciare la disumanizzazione. Altri, invece, e più diffusamente nel discorso pubblico israeliano, invocano l’unicità dell’Olocausto per sostenere che le azioni di Israele non possono essere genocidarie, una prospettiva contestata da chi, come Goldberg, ribadisce che “Gaza non ha bisogno di essere Auschwitz per essere genocidio“.

    Le voci critiche vengono censurate

    Il contesto istituzionale in cui questo dibattito si svolge è tutt’altro che sereno. Pesanti accuse di “complicità istituzionale” delle università israeliane con le politiche statali e militari emergono da più fronti. Si descrive un ambiente in cui il “nazionalismo” sarebbe diventato l’”unico punto di riferimento”, limitando il pensiero critico e la discussione sulla sofferenza palestinese, spesso liquidata come “danno collaterale inevitabile”. La libertà accademica appare sotto forte pressione, con numerosi casi documentati di docenti e studenti, soprattutto palestinesi, sottoposti a procedimenti disciplinari, sospensioni e persino arresti per aver espresso posizioni critiche. Figure come la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, sospesa dall’Università Ebraica per aver definito la guerra a Gaza un genocidio, e la professoressa Nurit Peled-Elhanan, sospesa per aver fatto riferimenti alla violenza coloniale, sono diventate emblematiche di un clima che scoraggia il dissenso. Nonostante ciò, voci critiche continuano a farsi sentire, sia individualmente sia attraverso iniziative collettive.

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    Anche dentro Israele cominciano a crescere le proteste

    In questo scenario straziato, è fondamentale ribadire che ogni vita spezzata, ogni sogno infranto, ogni lacrima versata, da qualunque parte provenga, rappresenta una tragedia immane. L’empatia non può conoscere confini. La sofferenza dei civili palestinesi a Gaza, sotto i bombardamenti, privati di beni essenziali, è un grido che interpella la coscienza del mondo, così come il dolore delle famiglie israeliane colpite dagli attacchi del 7 ottobre e l’angoscia per gli ostaggi meritano ascolto e profondo rispetto.

    La pace giusta necessaria ma lontana

    Il cammino verso una pace giusta appare oggi più impervio che mai. Tuttavia, nel coraggio di chi, anche all’interno della società israeliana, osa interrogarsi, criticare e sfidare le narrazioni dominanti, si può forse scorgere un barlume di speranza. Ascoltare queste voci, comprendere la complessità delle loro argomentazioni e riconoscere il peso del loro tormento è un passo necessario per chiunque voglia tentare di navigare questo doloroso abisso, nella speranza che un giorno si possa spezzare la spirale di violenza e costruire un futuro in cui il “mai più” sia davvero una promessa universale.

                                                                                                     Tommaso Scicchitano

  • Quegli israeliani che aiutano i palestinesi

    Quegli israeliani che aiutano i palestinesi

    Immaginate di svegliarvi ogni giorno in una terra dove l’eco della guerra è la colonna sonora della vita, dove i muri non sono solo di cemento, ma barriere invisibili di paura e sospetto che dividono cuori e menti. In questo paesaggio irto di dolore, dove la speranza sembra un fiore calpestato, ci sono uomini e donne israeliani che scelgono la via più difficile: quella del dissenso, della mano tesa, della costruzione ostinata della pace. Non sono eroi da copertina, ma persone comuni – madri, padri, figli, soldati che hanno visto troppo, rabbini che interrogano la loro fede, medici che onorano il loro giuramento – che hanno deciso di non voltare le spalle all’umanità dell’altro, il palestinese, e alla propria. Le loro organizzazioni sono fari nella nebbia, spesso alimentati solo dalla fiamma della loro incrollabile coscienza.

    Gli israeliani che dicono basta alla guerra

    Il loro cammino è lastricato di sfide che spezzerebbero chiunque non fosse sorretto da una profonda convinzione etica. Ogni giorno, si scontrano con un’opinione pubblica spesso indifferente quando non apertamente ostile, plasmata da anni di conflitto e da narrazioni che dipingono l’altro come una minaccia perenne. Essere una voce per la pace, in un contesto simile, significa spesso essere etichettati come ingenui, nel migliore dei casi, o come traditori, nel peggiore. Significa sentire il peso dello stigma, talvolta l’isolamento persino all’interno della propria cerchia sociale, e affrontare campagne di delegittimazione orchestrate da chi ha interesse a mantenere vivo il fuoco del conflitto.

    Sono migliaia le vittime innocenti della guerra tra cui moltissimi bambini

    Il difficile compito di essere voce di pace

    Pensiamo a chi opera in B’Tselem. Questi ricercatori, israeliani e palestinesi fianco a fianco, non si limitano a sfogliare documenti negli archivi. Percorrono strade polverose, entrano in case segnate dal lutto o dalla minaccia della demolizione, raccolgono con pazienza certosina le schegge di verità dalle voci spezzate delle vittime o dai testimoni oculari. Il loro lavoro di documentazione delle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati è un atto di accusa implacabile, ma anche un disperato tentativo di squarciare il velo della negazione che avvolge parte della società israeliana. E quando, dopo anni di meticolose analisi, arrivano a definire il sistema vigente come “apartheid”, lo fanno con il peso di chi sa che quella parola è una ferita aperta nella storia, ma necessaria per nominare l’ingiustizia. La loro ricompensa? Spesso, accuse infamanti e tentativi di minarne la credibilità internazionale, da cui, paradossalmente, dipende gran parte del loro sostegno.

    Anche ex militari tra i volontari

    Poi ci sono i soldati, giovani uomini e donne gettati nel crogiolo dell’occupazione. Alcuni ne escono induriti, altri con cicatrici invisibili nell’anima. È da queste ferite che nasce Breaking the Silence. Gli ex-militari che animano questa organizzazione hanno sentito sulla loro pelle il corto circuito morale tra gli ordini ricevuti e i valori su cui credevano si fondasse il loro paese. Rompere il silenzio, per loro, è un imperativo etico, un modo per liberarsi di un fardello e, contemporaneamente, per costringere la propria società a guardare ciò che preferirebbe ignorare. Raccontano la quotidianità degradante dei checkpoint, gli ordini ambigui, la pressione a disumanizzare l’altro per poterlo controllare. E mentre lo fanno, diventano bersaglio di una virulenta campagna d’odio da parte di chi li accusa di lavare i panni sporchi in pubblico, di indebolire l’esercito, di fare il gioco del nemico. Eppure, continuano, organizzando tour a Hebron per mostrare con i propri occhi la realtà sul campo, perché la verità, per quanto dolorosa, è il primo passo verso un possibile cambiamento.

    Gaza ridotta in macerie

    Avvocati per difendere i diritti dei palestinesi

    La battaglia per i diritti si combatte anche nelle aule di tribunale, sebbene spesso con la frustrante consapevolezza che la giustizia per i palestinesi è una chimera. Organizzazioni come Yesh Din (“C’è una legge”) e Adalah (Il Centro Legale per i Diritti della Minoranza Araba in Israele) si ostinano a percorrere questa via irta di ostacoli. Forniscono assistenza legale a chi ha subito espropriazioni di terre, violenze da parte dei coloni o abusi da parte delle forze di sicurezza. Ogni singolo caso seguito è una goccia nell’oceano, ma testimonia la volontà di non arrendersi all’impunità, di affermare che ogni individuo ha diritto alla protezione della legge. I loro rapporti, che documentano la bassissima percentuale di incriminazioni a seguito di denunce palestinesi, sono un atto d’accusa verso un sistema che troppo spesso fallisce nel suo compito primario.

    La costruzione della pace passa attraverso il dialogo

    Ma la pace non si costruisce solo con la denuncia e la rivendicazione dei diritti. Si nutre anche di incontri, di dialogo, della faticosa ma indispensabile opera di umanizzazione reciproca. È qui che entrano in gioco realtà toccanti come il Parents Circle–Families Forum. Immaginate il coraggio di queste famiglie israeliane e palestinesi, unite dallo stesso, lancinante dolore per la perdita di una persona cara a causa del conflitto. Invece di lasciarsi consumare dall’odio e dal desiderio di vendetta, hanno scelto la via più impervia: quella di incontrarsi, di ascoltare la narrazione dell’altro, di piangere insieme le proprie vittime. Ogni loro incontro è un piccolo miracolo di riconciliazione, una dimostrazione vivente che il nemico ha un volto, una storia, un dolore identico al proprio. Non offrono soluzioni politiche preconfezionate, ma qualcosa di forse ancora più fondamentale: la guarigione delle ferite del cuore, senza la quale nessuna pace potrà mai essere duratura.

    Famiglie palestinesi e israeliane unite per la pace

    Ex combattenti e medici costruttori di pace

    Sulla stessa lunghezza d’onda si muovono i Combatants for Peace, ex-combattenti di entrambe le parti che, dopo aver conosciuto l’orrore della violenza, hanno deciso di deporre le armi per diventare costruttori di pace. Il loro percorso di trasformazione personale è la testimonianza più potente che un’alternativa è possibile. Organizzano azioni congiunte nonviolente, proteggono i pastori palestinesi dalle aggressioni, riparano scuole. E ogni anno, la loro Cerimonia Congiunta del Giorno della Memoria, in cui israeliani e palestinesi commemorano insieme tutte le vittime del conflitto, è un pugno nello stomaco del nazionalismo escludente, un faro di speranza che indica la possibilità di un lutto condiviso e, quindi, di un futuro condiviso. Ci sono poi coloro che la solidarietà la praticano sul campo, con gesti concreti che alleviano le sofferenze quotidiane. I medici e volontari di Physicians for Human Rights–Israel portano cure e assistenza sanitaria nelle comunità palestinesi più isolate o a chi, come i migranti a Tel Aviv, è invisibile per il sistema.

    Rabbini al fianco dei contadini palestinesi

    I rabbini di Rabbis for Human Rights, fedeli ai principi più profondi della loro tradizione religiosa che impongono di perseguire la giustizia, si frappongono fisicamente tra i coloni e i contadini palestinesi durante il raccolto delle olive, diventando scudi umani per proteggere un diritto elementare: quello al lavoro e al sostentamento. Questi atti di coraggio quotidiano non cambieranno forse gli equilibri geopolitici, ma riaffermano, giorno dopo giorno, il valore insopprimibile della dignità umana. E mentre alcuni lavorano sul campo, altri, come gli attivisti di Peace Now, da decenni si dedicano all’infaticabile lavoro di advocacy politica, cercando di mantenere aperta la prospettiva di una soluzione a due stati, monitorando l’espansione degli insediamenti che, come un cancro, divora la terra e la possibilità stessa di una pace futura. È una lotta impari, contro forze politiche soverchianti e un’apatia diffusa, ma la loro perseveranza è la testimonianza di chi non si rassegna al “conflitto eterno”.

    Anche una associazione di rabbini a favore del popolo palestinese e contro la guerra

    Vivere da pacifista, da difensore dei diritti umani in questo contesto, è una scelta che ha un costo elevatissimo. Non si tratta solo delle minacce o delle intimidazioni. È il peso di sentirsi minoranza, di predicare nel deserto, di vedere le proprie motivazioni più profonde distorte e calunniate. È la fatica di reperire fondi, spesso provenienti dall’estero e per questo usati come arma per accusarli di essere “agenti stranieri”, in un paradosso crudele che vede il sostegno internazionale, necessario alla loro sopravvivenza, trasformarsi in un capo d’accusa.

    Pace tra Israele e Palestina: una forma di resistenza

    Eppure, in queste donne e in questi uomini, brilla una luce che nessuna campagna d’odio, nessuna delusione, nessuna minaccia sembra poter spegnere. È la luce della coscienza, della responsabilità verso l’altro, della convinzione ostinata che un futuro diverso non solo è possibile, ma è un dovere morale perseguirlo.

    Sono loro, con il loro impegno quotidiano, spesso misconosciuto e irto di pericoli, a tenere aperta una fessura di speranza nel muro dell’odio e della violenza. Sono i seminatori di un domani che, forse, non vedranno, ma per il quale continuano a lottare, con la tenacia di chi sa che anche il viaggio più lungo inizia con un piccolo, coraggioso passo. La loro esistenza e la loro resistenza sono, in sé, un messaggio potente: l’umanità può e deve trovare un’altra via.

                                                                                                        Tommaso Scicchitano

  • Un americano a Roma

    Un americano a Roma

    Immaginate un’anima forgiata nel silenzio contemplativo delle antiche biblioteche agostiniane, dove il sussurro delle pagine sfogliate si mescola alla ricerca interiore della Verità. Da queste profonde radici, nutrite dalla linfa sapienziale di Sant’Agostino, emerge la figura di Leone XIV, il cardinale Robert Francis Prevost, ora chiamato a vestire il bianco abito papale. Il suo motto, “In illo uno unum” – “In quell’uno siamo uno” – non è semplice epigrafe, ma il respiro stesso di una vita spesa nella comunione, un eco che dalla quiete del chiostro si proietta ora sul mondo.

    Da missionario in Perù fino al soglio di Pietro

    Sentite il vento arido e le speranze tenaci del Perù, terra che lo ha visto missionario per lunghi, decisivi anni. Là, dove le Ande si ergono come giganti silenziosi e le periferie pulsano di una vita indomita, la sua vocazione si è temprata. Immaginate i villaggi remoti, le comunità strette attorno alla fiamma della fede in tempi difficili, segnati da ombre e incertezze. È in quel crogiuolo di umanità e sfida che si è scolpito il pastore, l’uomo capace di ascoltare il grido inespresso, di farsi ponte tra le rive scoscese dell’esistenza. La cittadinanza peruviana, più che un dato anagrafico, è un sigillo impresso nell’anima, testimonianza di un cuore che ha imparato a battere al ritmo di un altro popolo, di una Chiesa altra.

    Il nuovo pontefice si chiamerà Leone IV

    Ora, quella stessa talare bianca, simbolo universale di una vita trasfigurata e donata, avvolge le sue spalle. Non è solo un paramento, ma un vessillo di nuova luce, un invito a guardare oltre. E dalle sue prime parole, come da una sorgente a lungo attesa, fluisce l’urgenza della missionarietà, non come conquista, ma come abbraccio; della pace, non come tregua, ma come armonia faticosamente costruita; della sinodalità, quel camminare insieme, polifonia di voci unite nella stessa direzione.

    Prevost e e i “piccoli principi”

    Egli è descritto come un convinto sostenitore dell’enfasi di Papa Francesco sulla sinodalità, vedendola come uno strumento per affrontare la polarizzazione all’interno della Chiesa. Immagina vescovi non come “piccoli principi”, ma come pastori umili, vicini al popolo, pronti a camminare e soffrire con esso.

    Certo, l’orizzonte non è privo di nubi. Le complessità del presente avvolgono la Chiesa come una fitta nebbia, un intrico di sfide che potrebbero risucchiare energie e speranze. Ma chi ha conosciuto la solitudine feconda della missione e la complessità della Curia Romana – quel delicato ingranaggio al cuore della Chiesa universale, dove ha operato come Prefetto del Dicastero per i Vescovi – porta con sé una bussola interiore affinata. La sua esperienza transcontinentale, la sua anima intrisa di due mondi, l’americano e il peruviano, lo rendono interprete privilegiato di un cattolicesimo plurale, un tessitore di dialoghi possibili.

    Leone XII, il primo Papa a prestare attenzione alle questioni sociali ed economiche del mondo moderno

    Prevost e il nome: Leone

    E poi, il nome: Leone. Una scelta che è di per sé un programma, un faro che illumina il cammino. Impossibile non scorgervi un omaggio e una profonda fonte d’ispirazione nel suo grande predecessore, Papa Leone XIII. Quel Leone che, in un’epoca di sconvolgimenti non meno profondi dei nostri – segnata dalla perdita del potere temporale, dall’ascesa di nuove ideologie e dalle sfide dell’industrializzazione – seppe guidare la Chiesa con acume strategico e coraggio profetico.

    Con la “Rerum Novarum”, Leone XIII non solo affrontò la questione operaia, ma gettò le fondamenta della Dottrina Sociale della Chiesa, dimostrando come la fede cristiana potesse e dovesse dialogare criticamente e costruttivamente con le istanze della modernità. Papa Leone XIV, scegliendo questo nome, sembra voler attingere a quella stessa vena di saggezza pastorale e intellettuale, per una Chiesa che non si ritrae dal mondo, ma vi si immerge per illuminare le “res novae”, le cose nuove e spesso tumultuose del nostro oggi.

    Rerum Novarum, lo sguardo della Chiesa verso le ingiustizie sociali e il mondo moderno

    Strategie di unità

    Di fronte a una Chiesa che talvolta manifesta le fatiche della divisione, la figura di Leone XIV si profila con una peculiare “forza gentile”, un amalgama di ascolto profondo, pragmatismo e una visione saldamente radicata nella sinodalità. Echi dell’approccio leonino del suo illustre predecessore sembrano risuonare nelle strategie che potrebbe adottare per ricucire gli strappi e rimettere in cammino l’intero popolo di Dio.

    Al centro della sua strategia vi è, senza dubbio, l’impulso deciso verso una sinodalità vissuta. Considerata da lui non come mero slogan, ma come via maestra per affrontare le polarizzazioni interne, Leone XIV potrebbe promuovere processi consultivi e partecipativi a ogni livello ecclesiale. Le sue note “attente capacità di ascolto, capacità di sintetizzare questioni complesse e interrogativi giudiziosi” sarebbero il motore di questo stile, trasformando le divergenze da ostacoli a occasioni di confronto fecondo. Il suo “approccio discreto e riflessivo” potrebbe favorire un clima meno urlato e più incline alla costruzione paziente del consenso.

    Una pastoralità vicina alle persone

    Una seconda direttrice si delinea nel rafforzamento di una leadership pastorale di prossimità. La sua visione di vescovi che rifuggono ogni tentazione di potere principesco per farsi autenticamente “umili, vicini alle persone che servono, camminando e soffrendo con loro”, se diffusa e incarnata, ha il potenziale di ricostruire la fiducia dal basso. Il suo stesso ruolo di “creatore di vescovi” sotto il precedente pontificato ha mirato a promuovere “nomine più sinodali, pastori vicini al popolo e meno concentrati sui titoli ecclesiastici”. Questo richiama l’impegno di Leone XIII nel ridefinire l’influenza papale attraverso strumenti morali e pastorali, più che temporali.

    Piazza San Pietro gremita di fedeli

    La grande esperienza internazionale di Prevost

    La sua identità bi-nazionale e la vasta esperienza internazionale rappresentano un capitale prezioso. Leone XIV potrebbe agire come un “ponte vivente” tra le diverse culture e sensibilità che compongono il mosaico cattolico globale. Questa capacità di comprendere e valorizzare le legittime diversità, anziché temerle, è una chiave per superare le incomprensioni. Come Leone XIII si adoperò diplomaticamente per migliorare le relazioni con Stati diversi e risolvere conflitti, così il nuovo Leone potrebbe usare la sua esperienza interculturale per tessere nuove trame di unità.

    Nel segno di Bergoglio, in maniera “pragmatica”

    Un’altra strategia potrebbe risiedere nel suo essere un “successore pragmatico”. Pur mantenendo la “sostanza” delle aperture del suo predecessore, una leadership “più pragmatica, cauta e discreta” potrebbe rassicurare chi teme derive o accelerazioni eccessive. Questo approccio misurato, che non teme il silenzio riflessivo su alcune questioni “calde”, ricorda la prudenza diplomatica con cui Leone XIII seppe affrontare le complesse realtà politiche e sociali del suo tempo, cercando il dialogo critico piuttosto che la condanna indiscriminata.

    Prevost alla ricerca dell’unità della Chiesa

    Infine, l’insistenza di Prevost sulla missione e su una “Chiesa povera per i poveri” potrebbe fungere da catalizzatore di unità. Orientare le energie della Chiesa ad extra, verso le sfide del mondo e il servizio ai più bisognosi, spesso aiuta a ridimensionare le contese interne, unendo le diverse componenti attorno a obiettivi evangelici condivisi. La “gioia” e il “buon umore” che, come ricordano i suoi collaboratori, sa mantenere anche in mezzo ai problemi, possono infondere speranza e stemperare le tensioni, manifestando quella “forza gentile” capace di disarmare e ricomporre.

    Il vento nuovo che arriva

    Ascoltate, dunque, il vento nuovo che spira su Roma. È il vento della speranza agostiniana, il vento caldo della missione peruviana, il vento del dialogo e della fraternità. È il vento di Leone XIV, chiamato a tracciare un solco di luce nel cuore di questo tempo, ispirato dalla lungimiranza del grande Leone XIII e armato della forza mite di chi sa che l’unità è frutto paziente di ascolto, servizio e cammino condiviso.

    Tommaso Scicchitano