Categoria: Fatti

  • Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Pentiti, i rampolli dei clan vibonesi si ribellano

    Da delfini a pentiti. Quando si parla di casato si evoca qualcosa di aristocratico e di antico. Di nobiltà ce n’è in verità molto poca nei racconti che delle dinastie mafiose del Vibonese fanno i loro stessi rampolli. Sono cresciuti a pane e ‘ndrangheta ma, adesso, hanno cominciato a ribellarsi al loro stesso sangue e a quello che hanno visto scorrere fin da bambini tra la costa degli Dei e le montagne delle Serre. Sono storie diverse ma emblematiche quelle di Emanuele Mancuso e Walter Loielo. Viaggiano su binari distinti e paralleli ma, in determinati momenti, si avvicinano pericolosamente.

    Un tipo alternativo

    Nato il giorno di San Valentino di 33 anni fa, Emanuele secondo sua padre era come un surici. «Dove passavo io facevo danni» – dice. E il padre, che ha un nome diffuso in famiglia, Pantaleone, è conosciuto come “l’ingegnere” e per essere stato protagonista di un arresto da film. Alla fine di agosto del 2014 lo catturò la gendarmeria argentina in una città alla frontiera con il Brasile, Puerto Iguazù. Cercava di passare il confine a bordo di un bus turistico con un documento argentino falso intestato a tale Luca de Bortolo e con 100mila euro addosso.

    All’epoca, per dire che aria tirasse in famiglia, era accusato del duplice tentato omicidio di sua zia Romana e del figlio, che era avvenuto 6 anni prima al culmine di dissidi sfociati nel sangue tra i vari rami della famiglia. Il danno più grosso, osserva sornione lo stesso Emanuele in collegamento con l’aula bunker di Rinascita-Scott, lo ha fatto collaborando con la giustizia.

    I parenti e la ex compagna vogliono indurlo a ritrattare

    Secondo la stessa Dda di Catanzaro i suoi parenti, e anche l’ex compagna da cui ha avuto una bimba, volevano indurlo a ritrattare in ogni modo: la promessa di un ristorante tutto suo in Spagna, pressioni di ogni tipo facendo leva anche sulla figlia neonata, le minacce urlate dai vicini di cella al carcere di Siano. Volevano farlo passare per pazzo. In effetti lo conoscevano bene, perché Emanuele tanto “normale” non lo è mai stato. Un «tipo alternativo», si è definito lui stesso, perché non seguiva il protocollo di famiglia. Faceva furti e rapine mentre i suoi gli dicevano che «fare quelle cose fosse una vergogna perché un Mancuso non doveva abbassarsi a tanto».

    Molto ferrato nelle nuove tecnologie, tanto da essere spesso addetto alle bonifiche per gli uomini del clan, lo era altrettanto nella coltivazione di marijuana su scala industriale. Ne piantava tanta ma sostiene di non fumarla perché gli fa abbassare la pressione. La cocaina invece sì, ammette di averla usata spesso. Ma a uno degli avvocati difensori che lo controesaminava ha risposto irritato di «non aver mai sostenuto alcuna visita psichiatrica».

    Un cadavere nel bosco

    Walter lo chiamano “batteru” ed è ancora più giovane. Classe 1995, ha anche lui un padre ingombrante. Anzi, aveva: si chiamava Antonino ed è sparito nel nulla un giorno di aprile del 2017. Né suo figlio, che al contrario di Emanuele non è il primo pentito della sua famiglia, né gli altri familiari all’epoca ne denunciarono la scomparsa. Oggi invece Walter è indagato per avere occultato il cadavere del genitore. Sarebbe stato lui stesso ad indicare la carcassa di una Cinquecento rossa seminascosta nei boschi di Gerocarne vicino a cui avevano seppellito il padre. Avevano, sì, lui e suo fratello Ivan, che è quello accusato di averlo ucciso.

    Il movente è ancora un mistero: non è di ‘ndrangheta, hanno detto gli inquirenti quando hanno scoperto il corpo a novembre del 2020, il contesto evidentemente sì. Perché è quello della famiglia Loielo, una storia criminale lunga decenni che da banda di rapinatori alla fine degli anni ’70 li vede poi diventare l’ala armata della “società” di Ariola, frazione-epicentro nelle Preserre vibonesi di una faida ventennale con il clan Emanuele, che li ha scalzati dal dominio militare decapitando la loro cosca con un efferato duplice omicidio nel 2002. All’epoca caddero, per mano del boss emergente Bruno Emanuele, Pino e Vincenzo Loielo, di cui il padre di Walter era primo cugino.

    Anni dopo i rampolli dei Loielo avrebbero tentato di rialzare la testa per vendicare i loro morti. A soffiare sul loro rancore sarebbe stato un altro Pantaleone Mancuso, “Scarpuni”, tentando da dietro le quinte di ridimensionare gli odiati Emanuele. È finita con una scia di morti e altrettanti tentati omicidi. In uno di questi, ad ottobre del 2015, rimase ferito proprio Antonino mentre era a bordo della sua vecchia Panda. Con lui c’era la compagna incinta di sei mesi e un altro figlio, Alex. Pochi giorni dopo tentarono di ammazzare anche lo stesso Walter, che era assieme a due cugini e che era stato già in precedenza bersaglio di un ulteriore attentato. Sangue, vendette, famiglie non esattamente da Mulino Bianco, ma a un certo punto arriva qualcuno che la catena dell’odio la spezza.

    Il coraggio di sfidare il “supremo”

    Emanuele è iperattivo, spregiudicato, ha mostrato un’indole violenta ma anche un’intelligenza vivace. Una cosa che pochi sanno di lui, per esempio, è che era in grado di scriversi da solo le istanze da presentare ai giudici in relazione a misure di sorveglianza a cui era sottoposto. Raccontano che in alcuni casi le firmasse lui stesso, a nome dei suoi avvocati, e che qualche volta il Tribunale le abbia anche accolte. Non sorprende, dunque, il piglio con cui parla durante i processi. Il coraggio non gli difetta: è stato capace di stringere un’amicizia fraterna con Peppe Soriano – nipote del boss Leone, «uno psicopatico criminale» – a cui offriva soldi e assistenza legale proprio tramite lo zio, incurante che questi fosse parecchio inviso al “supremo” Luigi Mancuso, prozio di Emanuele che «con una parola riesce ad entrare nel tuo cervello, non usa metodi brutali ma ha un carisma inaudito».

    Cinquemila euro per ammazzare un vecchietto

    Walter è più introverso, quasi impacciato. Terza media, condizioni familiari «difficili» e qualche saltuario lavoro agricolo alle spalle. Al suo esordio in un processo, lo scorso 23 giugno, si è un po’ impappinato parlando davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro. È stato chiamato a rendere in aula le sue prime dichiarazioni da pentito nel procedimento sull’autobomba di Limbadi che il 9 aprile 2018 ha ucciso il biologo 42enne Matteo Vinci e ferito il padre Francesco. Un crimine che ha fatto rumore e che forse qualcuno della galassia Mancuso ha ordito senza farlo sapere ai boss che contano.

    Il 26enne ha raccontato che due indagati accusati di essere gli esecutori materiali – per cui però il Riesame ha annullato i relativi capi d’imputazione – tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018 gli avrebbero portato una “’mbasciata” da parte di «quelli di là sotto», locuzione con cui nel Vibonese sono inequivocabilmente identificati i Mancuso. Gli avrebbero proposto di «uccidere un vecchietto in campagna per 5mila euro». Lui, però, si sarebbe rifiutato senza nemmeno chiedere quale fosse l’identità della potenziale vittima.

    Walter ne avrebbe poi parlato con Giuseppe Mancuso, fratello di Emanuele che avrebbe aiutato in un periodo di latitanza. E quello gli avrebbe risposto che era stato un cognato degli imputati a dare l’ordine dell’omicidio senza farlo sapere ai parenti. Walter è però inciampato nel controesame. Ha detto rispondendo a un avvocato di non aver capito a quale cognato Mancuso si riferisse, ammettendo di essersi «un po’ confuso».

    Gli incroci pericolosi e la storia che cambia

    Così si sono in qualche modo incrociate le storie di questi due rampolli che pur essendo giovani ne hanno viste tante. Uno viene da un contesto rurale e, oltre ad aver seppellito il suo stesso padre, si sarebbe trovato in prima persona nel mezzo di una faida che ha visto morire ammazzati anche ragazzi che non c’entravano nulla. Come Filippo Ceravolo, che aveva appena due anni più di lui ed è stato raggiunto dai pallettoni del suo clan, appena 19enne, solo perché aveva chiesto un passaggio al vero obiettivo dei killer, un ragazzo legato agli Emanuele che è rimasto illeso.

    L’altro è un predestinato, un principino della ‘ndrangheta «di serie A». Non ha paura a bollare addirittura come «carabinieri senza divisa» alcuni dei suoi «zii grandi» accusandoli di aver coltivato per anni amicizie e collusioni tra insospettabili colletti bianchi.
    In attesa di capire se e quanto le loro dichiarazioni possano superare il vaglio della credibilità in sede giudiziaria è un fatto, inedito, che i rampolli di due casati di ‘ndrangheta rompano in questo modo il legame di omertà con i loro consanguinei e provino a riscrivere la storia. La loro e quella della loro terra.

  • Cinque cerchi, cinque zeri: quasi 600mila euro alla Rai per il Muccino olimpico

    Cinque cerchi, cinque zeri: quasi 600mila euro alla Rai per il Muccino olimpico

    La Regione pagherà poco meno di 600mila euro alla Rai per l’esordio a cinque cerchi del discusso cortometraggio di Gabriele Muccino sui canali della tv nazionale. Nonostante la presentazione dello spot risalga alla tarda estate del 2020, nei successivi undici mesi la battaglia legale tra la Cittadella e la Viola Film, società di produzione individuata dal regista, per la condivisione anticipata del filmato ha fatto sì che quest’ultimo circolasse, con non troppe fortune e numerose parodie, soltanto sul web. Passata la tempesta di critiche iniziali, le visualizzazioni si sono sempre più ridotte mentre l’estate si avvicinava.

    Un aiuto in regia per Muccino

    Il corto, però, ufficialmente è rimasto nei cassetti fino a fine luglio. La diatriba in tribunale si è chiusa in primavera con uno sconticino alla Regione, che si è accaparrata l’opera per poco meno di un milione e 400 mila euro (circa 300mila in meno del previsto), e la promessa di ritocchi – a spese (circa 90mila euro, recitano gli atti) della Viola – per qualche scena particolarmente infelice.

    spirli-palmi-muccino-rai
    Nino Spirlì sul set a Palmi per la nuova versione di Calabria Terra mia

    «Come può raccontare l’Amore, l’Eterno Bello, le profonde rughe dell’Arte, che sono l’Anima di questa Calabria, morbida e tortuosa, solennemente silenziosa e guardinga, seppur maternamente amorevole, un uomo che non conosce la fraternità, il “cum patire”, la solidarietà, l’equità?», chiedeva, d’altra parte, proprio Spirlì soltanto dieci mesi fa riferendosi a Muccino. All’inizio di giugno, invece, il successore di Jole Santelli era sul set di Palmi per la realizzazione della nuova versione riveduta e corretta dello spot.

    Tokyo costa

    Nonostante l’illustre supporto istituzionale alle riprese, per avere il remake di Calabria Terra mia – questo il titolo scelto da Muccino – in Cittadella hanno atteso il 2 luglio 2021 e altri quindici giorni sono passati per il preventivo della Rai. In Regione avranno pensato che, visto che un anno era andato già perso, tanto valeva far partire la campagna promozionale in ritardissimo ma col botto. E cosa fa più spettatori delle Olimpiadi in questo periodo? Nulla. In più Tokyo 2020 arriva un anno dopo il previsto. Proprio come lo spot, che avrebbe dovuto portare i turisti quest’anno e non il prossimo.

    Quindi ecco 482.435,45 euro per mamma Rai, di cui 417.437,45 per il piano TV e 65.000 per quello digital. Tutto condito da un altro centinaio abbondante di migliaia di euro per l’Iva. Totale 588mila e rotti euro, che sommati al milione e quattro speso per girare il corto portano il costo dell’operazione Muccino a poco meno di due milioni.

    Sulla Rai per due settimane

    Ma è un conto che presto dovrà essere aggiornato: l’accordo con la Rai prevede la trasmissione degli spot soltanto dal 24 luglio all’8 agosto. Poi per farci rivedere ancora Raul e Rojo sul piccolo schermo alla Cittadella toccherà di nuovo allentare i cordoni della borsa. Sarà anche per questo che sempre Spirlì dalla sua bacheca Facebook ha annunciato urbi et orbi gli orari indicativi della messa in onda dei filmati per il weekend, non sia mai ce ne perdessimo uno.

    Dopo il bombardamento di sabato, infatti, con il corto di Muccino andato in scena una quindicina di volte, stando al palinsesto diffuso dal presidente f.f. già domenica si era scesi a cinque passaggi in tv. Aumenteranno di nuovo? Diminuiranno? Ai followers l’ardua sentenza. Per capire se, invece, gli spot porteranno davvero nuovi turisti ormai toccherà aspettare l’estate prossima.

  • Epidemia permanente: i buchi neri della sanità e il vuoto della politica

    Epidemia permanente: i buchi neri della sanità e il vuoto della politica

    Ci sono un centralinista, un elettricista e un giardiniere. Non caricature da barzelletta, ma dipendenti della sanità pubblica almeno fin dagli anni ’70, quando a gestire gli ospedali erano i Comitati di gestione delle Unità sanitarie locali (Usl) con assunzioni scientificamente lottizzate tra i partiti della Prima Repubblica. Per capire in che condizioni sia la sanità calabrese oggi bisogna partire proprio da qui. L’emergenza non è arrivata con il Covid. Ha radici nell’epoca in cui la sanità pubblica era la vera, grande industria del Mezzogiorno, l’unica che per decenni ha permesso a tante famiglie di contrarre il mutuo e mandare i figli all’università. Poi l’assetto di potere ha cambiato forma, così come sono mutati, almeno all’apparenza, i partiti che ne costituiscono l’ossatura.

    Nel nuovo millennio per fare nuove clientele si esternalizzano i servizi. Le Usl diventano Aziende (prima Asl e poi Asp) e il lavoro che dovrebbero fare il centralinista, l’elettricista e il giardiniere va in appalto a coop private che assumono le persone indicate dal politico di turno. Senza dimenticare i legami, cementati con milioni di euro pubblici, tra politica e sanità privata. La bolla alla fine scoppia perché è un sistema che proprio non si sostiene. Tutto a un tratto ci si accorge che si devono far quadrare i conti e arrivano i tagli orizzontali. Si chiudono anche ospedali di zone molto disagiate che erano l’unico approdo sanitario per tanta gente che sopravvive nella periferia della periferia del Paese.

    Oltre dieci anni di commissari, ma la sanità peggiora

    L’involuzione della sanità calabrese si è dunque tramutata in un commissariamento ultradecennale accentuato da quel “decreto Calabria” che, nelle ultime ore, la Corte costituzionale ha bocciato solo in parte. Le reazioni e le interpretazioni circa la pronuncia della Consulta si sprecano, ma è sempre bene ricordare come e quando questa vicenda abbia avuto origine.

    La “tutela” governativa sulla Salute dei calabresi inizia con il governatore-commissario Peppe Scopelliti – anche se i tagli erano arrivati già con Agazio Loiero – e prosegue con i suoi successori: l’ingegnere toscano Massimo Scura; il generale dei carabinieri in pensione Saverio Cotticelli; l’ex superpoliziotto Guido Longo. Quest’ultimo è attualmente in carica, gli altri si sono avvicendati in un decennio in cui le cose non sono affatto migliorate.

    Spulciando tra le carte del Ministero della Salute ci si accorge infatti che i Livelli essenziali di assistenza (Lea) nel 2011 si attestavano a un «punteggio pari a 128», collocando la Calabria «in una situazione “critica”». Dopo 10 anni, stando ai verbali del Tavolo interministeriale (detto “Adduce”) che monitora le Regioni in Piano di rientro, la situazione è addirittura peggiore di prima. Nella riunione romana del 22 dicembre 2020 si registra, per il 2019, un «punteggio provvisorio pari a 119, in rilevante peggioramento rispetto alla precedente annualità e collocando la regione nella soglia di non adempienza».

    Nelle ultime ore dalla nuova riunione del Tavolo Adduce è emerso che il disavanzo al 2020 si dovrebbe attestare sui 90 milioni. È una voragine finanziaria da cui non sembrano in gradi di farci risalire né i commissari-poliziotti con i superpoteri dei decreti Calabria né tantomeno gli stessi politici che in questa cavità ci hanno precipitato e che ora scalpitano per riprendersi “tutt’ chell’ ch’è o’ nuost”.

    Le (poche) proposte dei candidati

    La candidata del centrosinistra Amalia Bruni è del mestiere, le forze politiche che la sostengono, a partire da Pd e M5S, hanno fatto subito sapere che lei «conosce perfettamente i limiti del sistema sanitario regionale». E che questo sarà un «tema centrale dell’azione politica e amministrativa a cui intendiamo guardare».

    L’aspirante presidente del centrodestra Roberto Occhiuto ha annunciato di volere chiedere al governo di «mettere a disposizione della Regione la Ragioneria generale dello Stato insieme ai reparti operativi della Guardia di Finanza per ricostruire i conti della sanità».

    Luigi de Magistris si è schierato «per la sanità pubblica, per una sanità che funzioni e dia garanzia a tutte e tutti» attaccando non tanto Bruni quanto chi la sostiene che, a suo dire, «ha contribuito in questi anni, come il Pd a livello regionale, allo smantellamento della sanità pubblica». Insomma, come proposta politica ancora c’è davvero poco di sostanziale sul piatto della campagna elettorale.

    I ritardi della sanità

    In attesa che si faccia chiarezza (documenti alla mano) sull’ultimissima riunione del Tavolo interministeriale, vale la pena ricordare che a Roma hanno già messo nero su bianco nei mesi scorsi «la gravità concernente la mancata adozione dei bilanci 2013-2017 della Asp di Reggio Calabria», aprendo un capitolo sui buchi milionari finiti al centro di indagini giudiziarie che di recente hanno investito anche l’Asp di Cosenza. E poi le «fortissime criticità sui tempi di pagamento da parte degli enti del Servizio sanitario della Regione Calabria: sulla base delle informazioni fornite dalle aziende, Tavolo e Comitato rilevano che tutte le aziende del Servizio sanitario calabrese non rispettano la direttiva europea sui tempi di pagamento, con ritardi fino a oltre 800 giorni».

    Persistono, secondo i tecnici dei Ministeri, «gravi criticità nell’adesione ai programmi di screening oncologici» e anche le assunzioni restano ferme, tanto da spingere il governo a sottolineare «l’urgenza di dare piena attuazione ai decreti Covid». Al di fuori delle carte ministeriali, invece, va ricordato che se da un lato gli operatori sanitari sono stati costretti a combattere a mani nude la guerra al Covid, con gli infermieri che hanno denunciato turni massacranti e straordinari non pagati, dall’altro sono stati annullati o posticipati migliaia di ricoveri e di interventi. Per non parlare delle prestazioni ambulatoriali, letteralmente crollate.

    I vuoti sul territorio

    In un quadro simile sono in forte ritardo sia la conversione degli ospedali dismessi in Case della salute che la piena operatività delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale). Sono strumenti che, con la pandemia in atto, avrebbero potuto rivelarsi essenziali per evitare le morti, le code delle ambulanze, il caos vaccini, i dati aggiornati a mano perché nessuno ha ancora effettuato la digitalizzazione del sistema.

    «Siamo una regione “ospedalocentrica” ma senza avere gli ospedali», spiega Rubens Curia, ex manager della sanità pubblica e portavoce di “Comunità competente”. Si tratta di una rete di enti di terzo settore, associazioni, persone, sindacati, che da due anni porta avanti una «battaglia culturale» invocando gli interventi previsti dalla legge per la medicina territoriale. «Quando abbiamo rilanciato le nostre proposte, a novembre scorso, c’erano solo 17 Usca attive in tutta la regione, nei mesi successivi ne hanno attivata qualcun’altra ma a ranghi ridotti e con giovani medici che fanno un lavoro massacrante».

    Secondo la legge dovrebbe essercene una ogni 50mila abitanti, ma quella che c’è a Cosenza in via degli Stadi, per esempio, ne ha serviti oltre 160mila. Gli ospedali da campo non hanno impedito che si ingolfassero di nuovo i reparti. E non si sa che fine abbiano fatto i Covid Hotel – il bando della Protezione civile prevedeva per le strutture individuate il pagamento di 65 euro per le camere occupate e 15 euro per quelle rimaste inutilizzate. Ci sono stati anche tanti anziani che, per seguire le paradossali indicazioni della piattaforma di prenotazione, hanno dovuto fare fino a 200 km per vaccinarsi. Qualcuno, addirittura, è dovuto arrivare fino in Sicilia per la sua dose.

    Intanto alla Cittadella si avvicendano ciclicamente gli stessi burocrati che sopravvivono ai commissari inviati dal governo per gestire questa epidemia permanente. Inamovibili più del centralinista, del giardiniere e dell’elettricista.

  • Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Amianto, voti e lavoro dalle fabbriche del Tirreno

    Lavoro, amianto e voti sulla strada che porta alle fabbriche del Tirreno cosentino. Qui a Nord della Calabria non solo il turismo ha creato un po’ di reddito e tanta ricchezza per pochi. Migliaia di uomini e donne erano impiegati in quelle che adesso sono soltanto  archeologia industriale. Operai nelle fabbriche della Marlane e Lini e Lane di Praia a mare, donne alla camiceria di Scalea, alla Foderauto di Belvedere, alla Emiliana tessile di Cetraro. Di tutto questo lavoro oggi non rimane niente.

    Le fabbriche abbandonate
    fabbriche-lino-e-lane-stabilimento
    Il vecchio stabilimento abbandonato della Lini e Lane

    La Foderauto di Belvedere e la Lini e Lane sono abbandonate, la Emiliana di tessile riconvertita ad altro, la Marlane ancora invasa da rifiuti tossici sotterrati. E sembra incredibile che una struttura di questa grandezza, maestosità, imponenza, totalmente in preda al degrado stia al centro di una cittadina, considerata turistica, come Praia a Mare. Uno scheletro enorme emerge fra campi ancora coltivati, il vicino cimitero, palazzi per turisti e residenti. Si entra da un lato, quasi nascosto, proprio alle spalle del cimitero. Di fronte c’è la linea ferroviaria, dall’altra parte scorre la strada provinciale che delimita un altro scheletro: quello della famigerata Marlane.

    Era una fabbrica con 400 operai

    Quando entri nello stabilimento della Lini e Lane campeggia gigantesco, sulla sinistra, a mo’ di guardiano un enorme serbatoio in cemento e amianto. Una discarica invisibile che non vede nessuno, né il sindaco Praticò, né l’Asl. I tetti sono in amianto, così altre strutture. I topi sono dappertutto. Il silenzio è rotto solo dai treni che passano e che rimbombano all’interno vuoto della vecchia fabbrica. Negli anni Sessanta, questo capannone, era il fiore all’occhiello di tutta la Calabria con 400 operai. Da qui uscivano lenzuola, ricami, fazzoletti, tovaglie per tutta Italia.

    fabbriche-lino-lane
    Il vecchio serbatoio della “Lini e Lane”
    Dalla fabbrica uscivano voti alla Dc

    Lo Stato di allora, i governi di allora, i vari panzoni, forchettoni democristiani venivano a visitarla periodicamente rivendicandone nuovi finanziamenti e nuovi incentivi. Così come alla Marlane e in tutte le fabbriche tessili dell’epoca, a Castrovillari come a Cetraro ed a Scalea, da qui non uscivano solo lini e lane, ma anche voti a profusione per la DC. Basta leggere le interrogazioni parlamentari, finte, che gli stessi democristiani calabresi rivolgevano ai loro stessi governi democristiani. Le facevano dimostrando interesse per gli operai e poi in parlamento votavano per le dismissioni. Le interrogazioni del 1967 portano la firma di Mariano Luciano Brandi, socialista saprese, di area manciniana che fu deputato dal 1968 al 1972. Le altre del 1979 portano la firma di Romei, Buffone, Cassiani, Pucci. Democristiani doc che hanno fatto la storia del partito e della Calabria.

    I sindacati reggevano il sacco ai partiti

    I sindacati non disturbavano i partiti. Si accontentavano di esistere con le loro tessere ed anche loro ne approfittavano per ottenere qualche indotto lavorativo. Come avveniva alla Marlane dove la “triplice” si era spartita tutto l’indotto esterno della Marzotto costituendo cooperative guidate proprio dai segretari di Praia a Mare. Loro sapevano che quelle industrie tessili si reggevano solo con i cospicui finanziamenti delle varie Isveimer, Imi, Gepi, Cassa del Mezzogiorno.

    Non avevamo mai visto uno stipendio mensile

    Sono gli operai che non lo sapevano. Operai che provenivano tutti dal mondo contadino, che non avevano mai visto uno stipendio mensile, e che per loro anche una cifra modesta ricevuta ogni mese, serviva loro per incentivare i loro sogni. Vedere il figlio laureato, pagare qualche debito, comprarsi l’auto, magari una Cinquecento o un tre ruote per andare il pomeriggio in campagna, finirsi la casa costruita mattone per mattone da loro stessi.

    Quel che resta delle fabbriche

    Oggi tutto è ridotto a scheletri industriali. Potrebbero diventare musei questi fabbricati. Ma il loro destino è ben altro. Nonostante le denunce fatte dal Comitato cittadino per le bonifiche dei terreni, nessuno è intervenuto. Il Comune dice di non poter intervenire in quanto l’area apparterrebbe ad un privato di Scalea, il privato non ha soldi per intervenire e cerca un compratore. Intanto la struttura continua a vivere mangiando i rifiuti che solerti cittadini praiesi avvezzi alla differenziata continuano a portarle.

     

  • Oliverio verso De Magistris? Sono più di tre indizi

    Oliverio verso De Magistris? Sono più di tre indizi

    Come Ernesto Magorno anche Mario Oliverio non correrà alla presidenza della Regione Calabria. Due rinunce con sorpresa. Mentre il primo ha scelto il centrodestra di Roberto Occhiuto, il secondo si dirige verso Luigi de Magistris.
    L’ex presidente aveva provato a forzare la mano come nel 2014 ma non c’è stato niente da fare. Forte del consenso e della rete costruita tra sindaci e amministratori locali ha deciso di giocare comunque la sua partita e cercherà da gregario le soddisfazioni che non è riuscito a trovare da protagonista.

    Tre indizi fanno una prova

    Lo farà, però, spendendosi fuori dal partito dove ha militato per anni decidendo di offrire il suo patrimonio politico al sindaco di Napoli. Se tre indizi fanno una prova basterebbero i nomi di Giuseppe Giudiceandrea, Mimmo Lucano e Ugo Vetere per confermare quella che per il momento è una voce insistente. E in queste ore diverse sono le indiscrezioni di consiglieri ed ex consiglieri regionali del Cosentino e del Vibonese che hanno avuto un abboccamento con Luigi de Magistris. I nomi che circolano con maggiore insistenza sono quelli di Aieta, Di Natale e Censore.

    Amalia, l’amica di Mario

    Il Pd ha provato a ricucire lo strappo mettendo in difficoltà l’ex governatore con la candidatura della scienziata Amalia Cecilia Bruni, professionista stimata e amica di lungo corso dell’ex governatore tanto da essere stata nominata  nel Consiglio superiore della Sanità proprio durante la presidenza del sangiovannese. Ma non è stato sufficiente. Tutt’altro, se l’effetto è stato quello di spingere Oliverio ad utilizzare tutto il suo ascendente per svuotare le liste del Pd a favore del Polo civico dell’ex sindaco.

    Cosa vuoi di più dalla vita? Un Lucano

    Ad indicare la via, un mese e mezzo fa, era stato l’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano che nel web talk KlausCondicio ha dichiarato: «Non sono nessuno per dare indicazioni, il mio è solo un auspicio che si possa avere un orizzonte più largo possibile. Questo non significa tornare al vecchio politichese. Verso Mario Oliverio così come Agazio Loiero c’è un rapporto di affetto. Mi rendo conto che non sono la sinistra antagonista ma sulla questione che ha fatto volare l’immagine della Calabria intesa come terra di solidarietà e inclusione nel mondo sono stati presenti e partecipi. È un auspicio, una speranza».

    Il 30 luglio è prevista una riunione a Lamezia Terme tra tutti i candidati di Luigi de Magistris, il giorno della verità. Dentro o fuori.

  • Sequestri e vacche sacre, c’è del marcio nell’Arma?

    Sequestri e vacche sacre, c’è del marcio nell’Arma?

    Qual è stato il ruolo delle forze dell’ordine nei sequestri di persona avvenuti tra gli anni ’80 e ’90 in provincia di Reggio Calabria? È vero che dei carabinieri collusi con la ‘ndrangheta hanno favorito e sono stati parte attiva nei sequestri? Che uso è stato fatto delle camionette in dotazione all’Arma? È vero che servivano per trasportare i sequestrati ed eludere i posti di blocco delle altre forze dell’ordine? Ma soprattutto, fu proprio perché vide un sequestrato su un mezzo dell’Arma che Stefano Bonfà fu ucciso? Esiste un legame tra i sequestri di persona di ieri e il fenomeno delle vacche sacre di oggi? A questi e ad altri interrogativi, cerca risposta Bruno Bonfà, figlio dell’uomo ucciso il 3 ottobre 1991.

    La ricerca della verità

    Tanti gli esposti denuncia presentati dall’imprenditore agricolo specializzato nelle colture di bergamotto. Diversi i destinatari: ministri dell’Interno e della Giustizia, prefetti, procuratori capo della Dda, commissari straordinari del Governo, il procuratore nazionale Antimafia, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E per ultimo il primo ministro Mario Draghi.
    La richiesta di accertamento di Bruno Bonfà è circostanziata e dettagliata. Chiede di verificare i rapporti tra criminalità, servizi segreti e forze dell’ordine in relazione ai sequestri di persona avvenuti in Aspromonte. Nello specifico, quelli nella vallata de La Verde.
    «Mio padre ha pagato con la vita l’aver visto qualcosa che non doveva vedere. Molto probabilmente uno dei sequestrati a bordo di una camionetta dell’Arma. La mia è una battaglia per la verità – spiega – sui tanti morti trucidati solo perché fortuiti testimoni di quei passaggi inconfessabili».

    vacche sacre-sequestri-bonfà
    Il frontespizio dell’ultima denuncia presentata dall’imprenditore Bruno Bonfà
    Seguire il denaro per verificare eventuali collusioni

    Bonfà sollecita accurati controlli. Vuol capire come all’epoca la ‘ndrangheta disponesse di informazioni riservate, poi usate per evitare di percorrere strade e sentieri controllati dalle forze dell’ordine presenti sul territorio.
    Per questo motivo chiede di verificare le dichiarazioni rilasciate da un dirigente di Polizia. che confermavano la collusione di parte dei militari dell’Arma di Bianco. Il dirigente fu improvvisamente trasferito in altra sede e Bonfà vorrebbe accertare anche le vere ragioni di quel trasferimento. Ma per individuare i deviati basterebbe «seguire i soldi».

    L’imprenditore, nelle sue denunce, suggerisce un accertamento patrimoniale per tutti i militari in servizio coinvolti nella gestione dei sequestri di persona sul territorio ricadente nella giurisdizione della Compagnia dei Carabinieri di Bianco. In particolare, quelli che operavano «nella vallata La Verde, alle spalle di Africo, nel bosco di Ferruzzano, lungo la fiumara La Verde, direzione Motticella, ai piedi di Samo e nelle relative diramazioni perché crocevia tra San Luca e Motticella».
    «Per scoprire se ci sono stati militari deviati basterebbe – afferma l’imprenditore – fare un semplice incrocio dei dati tra mezzi a disposizione dell’Arma. Percorsi svolti, personale in servizio, eventuali posti di blocco e attuali risorse economiche dei Carabinieri in servizio all’epoca per individuare gli eventuali collusi».
    Su un punto Bonfà non transige: «Tutti gli accertamenti sulla presenza o meno di forze militari deviate devono essere svolte da forze investigative non calabresi. Troppo alto il rischio insabbiamento».

    Sequestri e vacche sacre

    Dal 1998 l’azienda agricola Bonfà, produttrice di bergamotto, è oggetto di incursioni delle vacche sacre della ‘ndrangheta che, a più riprese, hanno distrutto il 70% delle 3500 piante esistenti.
    Grazie alla legge 44/99 è riuscito ad ottenere un indennizzo per i danneggiamenti avuti.
    Circa 200mila euro, elargiti in più tranche. Poca roba rispetto al reale danno subito. Che oggi ammonterebbe a 20 milioni di euro.
    Con le risorse ricevute Bonfà ha ripreso le produzioni che contraddistinguono l’azienda in Italia, ma non basta. Anche perché i pascoli delle vacche sacre sono continuati nel tempo, così come i piccoli danneggiamenti e gli incendi.
    In un primo momento le forze dell’ordine hanno registrato quanto denunciato dall’imprenditore e ci sono stati anche interventi di abbattimento di alcuni capi di bestiame.
    Ma poi, improvvisamente, nulla si è più mosso. Nonostante le decine di foto testimonianza c’è chi ha persino tentato di addebitare i danni presenti all’interno dell’azienda «alla presunta incuria» di Bonfà che l’imprenditore respinge al mittente: «È in corso l’elettrificazione della mia azienda, un servizio di cui godranno tutti gli agricoltori della vallata. Assurdo».

    Gli avvistamenti a marzo 2021

    Del suo caso si sta occupando la Procura di Reggio Calabria e la X Commissione parlamentare. Ma la sua pratica per ricevere un nuovo indennizzo grazie alla legge 44/99 è ferma.
    «A causa – spiega – delle ennesime informative deviate che hanno prodotto le forze dell’ordine e che io ho prontamente denunciato». Silenzi, omissioni e accuse che per l’imprenditore hanno un unico emissario: la ‘ndrangheta. Obiettivo: portare l’azienda al collasso e rilevarla. Ma Bonfà ha la testa dura e ha scelto di continuare la sua battaglia di verità nonostante tutto. «Lo faccio per la memoria di mio padre, non si può far finta di niente. Se tacessi sarei anch’io connivente».

     

     

  • Cosenza, quartieri popolari alla conquista del Palazzo

    Cosenza, quartieri popolari alla conquista del Palazzo

    L’attuale balcanizzazione del quadro politico di Cosenza, ha un aspetto curiosamente nuovo: su sei aspiranti sindaco, tre provengono da via Popilia, che con i suoi oltre 20mila abitanti è un terzo della città. Di questi pretendenti allo scranno di Palazzo dei Bruzi, uno solo ha percorsi politici di rilievo (e conseguenti numeri potenziali): Francesco De Cicco, già vicino al notabile Ennio Morrone e poi sostenitore di Mario Occhiuto. Ora De Cicco balla da solo, con un programma minimale e “tutto cose”, probabilmente concepito sugli stessi marciapiedi in cui viene diramato prima che inizi la campagna elettorale. 

    Gli altri due sono Luigi Bevilacqua, self made man di origine rom che vanta un’ascesa culturale non scontata (da operaio ha conseguito il diploma di maturità e ora fila come un treno a Scienze politiche all’Unical), e Francesco Civitelli, che gareggia in pragmatismo (ma non in consensi) con De Cicco.

    I tre hanno un tratto comune: la voglia di dare una voce autonoma ai quartieri popolari, a partire da quello più rilevante, anche a livello simbolico.
    Sempre a proposito di quartieri popolari: se si sommano gli oltre ventimila “popiliani” ai circa diecimila cosentini sparsi tra via degli Stadi e San Vito Alto si arriva a metà abitanti della città. Se a questi si sommano gli oltre cinquemila che resistono nel Centro storico, che ha perso il suo carattere interclassista ed è in fase di “popolarizzazione” avanzata, fare i conti è facile: i quartieri popolari predominano. 

    Una demografia in declino

    Questa trasformazione è dovuta alla demografia e alle mutate condizioni economiche della città, che si è impoverita tutta.
    C’è un’espressione non bellissima che gira tra alcuni addetti ai lavori, che forse l’hanno ripresa dagli intellettuali: “città policentrica”, che, riferita a Cosenza, non è proprio un complimento. 

    Al più, è un modo di indorare la pillola: i cosentini si sono sparsi in tutta l’hinterland, hanno colonizzato Rende e Montalto a Est, determinandone crescita demografica ed economica, Vadue, Mendicino, Laurignano a Ovest e, praticamente, il municipio del capoluogo ne rappresenta solo una parte. Quindi, è un’espressione soft per spacciare il dimagrimento demografico del capoluogo per un’espansione urbana, visto che di realizzare la Grande Cosenza – che fu un sogno urbanistico fascista prima e socialista poi – se ne parla a pezzi e bocconi.

    Quarant’anni, 40mila abitanti in meno

    Ma il dimagrimento demografico, iniziato negli anni ’80 avanzati, ha acquisito due aspetti tragici: quello tipicamente meridionale dell’emigrazione, ripreso alla grande a partire dagli anni ’90, e quello più global (almeno per quanto riguarda l’Occidente) della denatalità.

    Ed ecco che Cosenza, dopo aver raggiunto il massimo della popolazione residente nel 1981 con 106mila e rotti abitanti (dato Istat), si è ridotta agli attuali 65mila e rotti (dato del 2019). In pratica, è sprofondata nella sua stessa Provincia, dove l’ha battuta la nuova città Corigliano-Rossano, con i suoi oltre 70mila abitanti. Ed è diventata una città di peso secondario nel contesto regionale, visto che viene anche dopo Lamezia Terme, che non è capoluogo e non vanta importanti tradizioni storico-urbane. Ma ha quasi 70mila abitanti e l’unico aeroporto funzionante della Regione. 

    Chi sono i cosentini?

    A dirla tutta, Cosenza non è mai stata una città di grandi numeri. Si presentò all’Unità d’Italia con poco più di 18mila abitanti, raggiunse un primo picco demografico nel Ventennio, quando superò i 40mila ed ebbe il boom urbanistico a partire dal dopoguerra.

    La crescita di Cosenza si è basata su un fenomeno tipico delle aree marginali: l’inurbazione, che in questo contesto riguardò gli abitanti del contado e della provincia, attratti dalle maggiori opportunità offerte dalla città e la minoranza rom, che crebbe in maniera forte a partire dagli anni ’50. I cosentini “puri”, che potevano vantare più di quattro generazioni nel perimetro urbano, sono diventati minoranza in una popolazione che si è rimescolata più volte.

    Alla crescita artificiale, stimolata dalle opere pubbliche e dalle assunzioni più o meno clientelari nelle amministrazioni e negli enti pubblici nati come i funghi durante la Prima Repubblica, è seguita una decrescita naturale, che tuttavia prosegue a rilento perché, mentre i rampolli del ceto medio emigravano per studiare o lavorare, i quartieri popolari hanno tenuto a livello demografico. E ora, giustamente, presentano il conto.

    È il caso di chiarire un passaggio: l’aggettivo “popolare” è anche sinonimo di “povero” e “disagiato”. Questo chiarimento aiuta a capire un altro aspetto amaro della realtà: dal 2001 in avanti è andato via soprattutto chi ha potuto, in cerca di prospettive di vita e di lavoro migliori.

    Sono i migranti col trolley e col laptop a tracolla, ben descritti dal rapporto della Fondazione Migrantes per il 2018. La Calabria ne vanta circa 200mila, il 10 per cento circa della popolazione, in larghissima parte under 50 e in buona parte (il 30 per cento) laureati. Somigliano poco o nulla ai braccianti con le valige di cartone che li avevano preceduti il secolo scorso. Ma con essi hanno un tratto comune: sono partiti con poche speranze di tornare.

    Cosenza si svuota

    Proiettiamo questo dato su Cosenza. Nel 2019 sono morti 871 cosentini di fronte a 448 nuovi nati, le persone coniugate di entrambi i sessi oscillano tra 14 e 15mila, meno di mille in più dei single ambosessi, che oscillano tra i 13 e i 14mila. Il dato più inquietante riguarda l’invecchiamento: il blocco maggioritario della popolazione (circa il 52%) è compreso tra gli over 45 a salire, i minori non toccano il 15%, i cosiddetti “giovani”, compresi tra i 18 e i 35 anni, superano di poco il 33%.

    Dove sono spariti quei gruppi sociali da cui la città reclutava le classi dirigenti? Sono in buona parte al Nord, attratti dalle opportunità delle grandi aree metropolitane e all’estero. Logico, allora, che a questa trasformazione demografica segua un cambiamento antropologico e politico.

    Il consenso che cambia

    Esistono un “prima” che stenta a finire e un “dopo” che si sta delineando con una certa velocità. Il “prima” è rappresentato dai vecchi gruppi dirigenti, che pescavano voti a man bassa nei quartieri popolari, grazie a pratiche clientelari consolidate, ma si legittimavano sui ceti medio-alti.

    È il caso della famiglia Gentile, partita dal Centro storico, che ha trovato la sua roccaforte nella Sanità. Il suo rapporto con le aree popolari è diventato man man sempre più mediato. Si pensi al fedelissimo Massimo Lo Gullo, se possibile più gentiliano dello stesso Pino Gentile: è stato uno dei consiglieri comunali più votati nella zona compresa tra via degli Stadi e San Vito Alta. I suoi consensi sono irrinunciabili per la famiglia politica più vecchia di Cosenza (ad eccezione dei Mancini, per i quali vale un discorso diverso), che tuttavia basa il suo potere sulle Aziende sanitaria e ospedaliera.

    Un discorso simile, ma minore nei numeri vale per i Morrone, il cui ruolo nella Sanità privata è più che noto: pure loro hanno pescato a man bassa nei quartieri popolari grazie all’attività di sodali più o meno turbolenti e fedeli come il menzionato De Cicco o l’effervescente Roberto Bartolomeo, che non è stato rieletto per poco in Consiglio Comunale.

    Un meccanismo analogo è applicabile a Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio: fortissimi nel Centro storico, ma capaci di proiettarsi a livello regionale e nazionale grazie ai loro legami col mondo istituzionale e imprenditoriale “che conta”.

    Un patto che scricchiola

    Tuttavia, è importante un altro passaggio: il consenso dei quartieri popolari si limita spesso all’immediato (le buche per strada, l’acqua che manca, le fogne che scoppiano, i marciapiedi inesistenti ecc) e ha come referente immediato il Comune. Chi guarda oltre perché può permetterselo è il ceto medio, che mira invece al buon posto di lavoro e alla carriera. In questo caso, i target istituzionali si alzano: sono la Regione e i ministeri. 

    Ma che succede quando il Comune va in dissesto e non è in grado di soddisfare più le richieste minime, clientelari e non? Succede che il meccanismo si rompe e il “patto feudale” tra i “vassalli” popolari e i loro potenti scricchiola.

    Voglia di protagonismo

    Tra i vassalli che tentano di mettersi in proprio (De Cicco) e i nuovi aspiranti leader, è facile delineare il trend: una buona fetta di abitanti dei quartieri popolari vuol far sentire i propri bisogni più direttamente possibile. Forse non si fida più dei “potentes” vecchi e nuovi (tra i quali è doveroso includere Enzo Paolini) e riversa i propri consensi su figure percepite come simili. O perché, come l’assessore occhiutiano, vivono le stesse situazioni e parlano lo stesso linguaggio. Oppure perché incarnano un sogno di riscatto e di ascesa almeno culturale, come Bevilacqua.

    La partita vera deve ancora iniziare, ma i presupposti attuali rendono il caos cosentino più interessante del solito. E – perché no? – più divertente e istruttivo per gli osservatori.

  • Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    Tirreno inquinato, Magorno come Orsomarso: dalle querele all’imbarazzo

    La realtà è sotto gli occhi di tutti quotidianamente: l’acqua appare sporca in molti tratti del Tirreno cosentino. Chiamatelo come volete questo sporco: polvere della spiaggia, fioritura algale, mare mosso, detersivi dei fondali. Il dato è che la voglia di fare un bagno è sempre meno. I turisti sui social sono scatenati. Furiosi, pubblicano foto da ogni spiaggia tirrenica con il mare tutt’altro che limpido. E ne hanno piena ragione: una settimana in un hotel o casa privata presa in affitto arriva a costare fino a 1500 euro. Aggiungete il costo dei lidi, dei parcheggi e del sostentamento e alla fine ci si ritrova con una bella spesa.

    Bandiere Blu

    L’esborso si sosterrebbe anche volentieri se si potesse fare un bagno nel Tirreno in tranquillità. Ma se si arriva sulle spiagge e si trovano sporche e il mare, in più, non è balneabile allora ci si sente truffati. Se poi si è venuti in questa zona spinti dalle nuove Bandiere Blu, la sensazione aumenta. Già, le Bandiere Blu: Per ottenerne una – è scritto sul sito che le assegna -, bisogna rispondere a ben 35 criteri che vanno dall’accesso dei disabili alle spiagge al controllo sulla depurazione, passando per l’affissione pubblica dei dati sulla balneabilità. Criteri forse rispettati altrove, mentre ad oggi in nessun paese sul Tirreno cosentino che abbia ottenuto la bandiera Blu tutto ciò si è avverato.

    L’inchiesta sulla depurazione

    Cade come un macigno a mezza estate l’inchiesta del procuratore Bruni sulla depurazione, un macigno grande come un palazzo che ha sconvolto tutti i centri del Tirreno. In particolare, i comuni di Diamante, Buonvicino e San Nicola, paesi sui quali vigeva la legge dei gestori dei depuratori e di funzionari degli uffici tecnici, forti tutti dall’appoggio di un infedele tecnico dell’Arpacal che li avvertiva dell’arrivo di eventuali ispezioni ai depuratori. Il sistema scoperchiato da Bruni dà l’idea di individui presi da delirio di onnipotenza per il tanto danaro che ricevevano dai Comuni con delibere a cadenza mensile. Quasi fossero sicuri dell’impunità, parlavano liberamente fra loro sui cellulari delle loro malefatte e dei traffici in atto.

    https://www.facebook.com/456580921189432/videos/745458892971276

    Dall’inchiesta apprendiamo cose che confermano i timori di quanti da anni lottano per avere un mare pulito individuando le cause della sporcizia e proponendo i metodi per eliminarle. Nell’indagine è finito anche un video che i militanti dell’associazione ambientalista Italia Nostra avevano effettuato a San Nicola Arcella filmando in diretta la rottura della condotta sottomarina e la conseguente fuoruscita dei liquami in mare. Quel video, appena apparso su Facebook, aveva allarmato le ditte, i tecnici, il sindaco di San Nicola, che immediatamente erano corsi ai ripari. Con buona pace di quegli amministratori che vedono negli ambientalisti l’equivalente di un’invasione di cavallette o altre sciagure.

    Magorno come Orsomarso, querele per chi dissente

    L’ultimo ad intervenire in questa direzione è stato proprio il sindaco di Diamante, Ernesto Magorno. Il renziano, infatti, ha stigmatizzato l’intervento di Italia Nostra che ha mostrato proprio il mare sporco fra Diamante e Belvedere in una bellissima giornata. E con una delibera subito approvata dalla giunta ha messo in guardia le associazioni per future querele da parte dell’ente a tutela di un mare pulito per decreto. Neanche due settimane dopo e l’inchiesta di Bruni ha cambiato le carte in tavola.

    magorno-delibera-tirreno
    La delibera della Giunta di Diamante firmata meno di due settimane fa dal sindaco Ernesto Magorno

    Gli arresti scattati dopo l’operazione Archimede hanno messo in pausa la questione, con il sindaco che ha commentato l’accaduto lanciando uno striminzito comunicato di appoggio all’azione giudiziaria, come se la cosa non lo riguardasse. Ma il tecnico ai domiciliari è del suo comune, così come i vari responsabili delle ditte in questione. Sono presenti da decenni a Diamante, non solo per il depuratore, ma anche per altre gestioni. Quella dell’acquedotto, per esempio, sulla quale sembra che penda un’altra inchiesta, o quella di diversi appalti su opere pubbliche. Sono sempre gli stessi a vincere le gare e sono sempre gli stessi a poter lavorare.

    Un problema diffuso

    Nei mesi scorsi altre inchieste hanno riguardato ulteriori comuni tirrenici come Maierà, Tortora, Scalea, Praia a mare. Un filo unico che la Procura di Paola sta cercando di portare a galla dopo anni ed anni di acquiescenza . Ma nell’inchiesta c’è di più. Ed è davvero grave.

    I fanghi depurati del depuratore di Buonvicino finivano sotterrati in terreni agricoli e a portarceli erano propri i dipendenti della ditta, autorizzati dal loro capo. Operazioni senza scrupoli che mettevano in pericolo le falde acquifere del territorio circostante oltre che i terreni stessi e le coltivazioni che vi erano. Un’attività criminale scoperta da poco, ma che secondo gli inquirenti andava avanti da tempo. E che si spera l’inchiesta blocchi immediatamente.

  • Catanzaro, Garofalo nuova presidente della Corte d’appello

    Catanzaro, Garofalo nuova presidente della Corte d’appello

    Il giudice Francesca Garofalo è la nuova presidente della terza sezione penale della Corte d’appello di Catanzaro. L’insediamento è arrivato questa mattina, col procuratore generale Beniamino Cortese nel ruolo di cerimoniere. Garofalo subentra all’ex presidente Marco Petrini, finito nella bufera e condannato in primo grado dal Tribunale di Salerno per corruzione in atti giudiziari.

    Da trent’anni a Catanzaro

    La carriera della nuova presidente, iniziata 30 anni fa, si è svolta tutta a Catanzaro.
    Entrata in magistratura nel 1991, Garofalo è stata in servizio fino al 2004, prima alla Pretura e in seguito al Tribunale civile del capoluogo calabrese. Il passaggio in Corte d’Appello, nel ruolo di consigliere, arriva nel 2005. Da allora e fino al 2014 la giudice è rimasta in servizio al civile per poi occuparsi di penale. Quindi, il passaggio alla Corte d’assise di appello, sempre a Catanzaro.

    Tradizioni di famiglia

    Quella tra la famiglia Garofalo e i tribunali locali è una lunga storia. Nata a Lamezia Terme, la nuova presidente è figlia di Giulio Sandro Garofalo, che ha guidato il tribunale di Lamezia all’inizio degli anni 2000. Una carica che adesso ricopre suo figlio Giovanni, insediatosi alcuni giorni fa.

  • Ponte di Calatrava, se l’archistar risolve l’emergenza abitativa

    Ponte di Calatrava, se l’archistar risolve l’emergenza abitativa

    Non è vero che il ponte di Calatrava, costruito anche coi fondi Gescal destinati all’edilizia popolare, ha indirettamente negato un tetto a chi ne ha bisogno.
    Di tetti ne offre quattro – due su ogni lato – e almeno uno è abitato, con tanto di vista sul centro storico. Non solo: questo è uno dei pochi posti della città in cui non manca mai l’acqua – solo che è quella del Crati.
    Benvenuti nel lato B dell’opera faraonica per eccellenza, il manufatto dei record inaugurato con una cerimonia da Olimpiadi e passerella a favore di tg nazionali.

    Un momento della faraonica inaugurazione del ponte nel 2018

    Perché se per ogni cosa di questo mondo esiste il rovescio della medaglia, mai come in questo caso il “sotto” è così diverso dal “sopra”: il pennone sempre lampeggiante e gli stralli proiettati verso un alto che sembra infinito hanno una proiezione speculare verso un mini-girone dantesco abitato da spettri e presenze solo percepite.

    All’ombra del Planetario – un altro feticcio della città che doveva essere – e pochi metri più a nord della confluenza col suo scenario da bombardamento sull’ex Jolly, ecco la versione pulp di quella che doveva essere una promenade parigina; siamo nel territorio molto frequentato della Cosenza che si ferma al condizionale. Potrebbe essere, ma non può.

    Il mondo sotto il ponte

    Avventurarsi per le scale nel “mondo di sotto” col traffico che scorre nel livello dei “normali” spalanca una finestra sui marginali: due preservativi, bidoni, bottiglie rotte, lattine di birra. Due piattini di plastica da piccola pasticceria con avanzi di cibi bruciati. Quattro mattoni che reggono una griglia adattata a brace. Un giaciglio di emergenza ottenuto ammassando su uno strato di cartoni coperte e piumoni: una sensazione di provvisorietà trasformata in consuetudine, come quelle emergenze tutte calabresi divenute norma – la sanità, la gestione dei rifiuti, la casa come diritto di tutti, appunto…
    Una felpa nera appesa ad asciugare al passamano della scalinata che conduce al “mondo di sopra”.
    Il rifugio che affaccia a nord, invece, porta i segni di un rogo che ha annerito il cemento esasperando lo stridore con il bianco lucente della maxiopera che ha stravolto lo skyline bruzio.

    Un collegamento tra il nulla e il niente

    Così si vive a un minuto di auto dal salotto musealizzato dell’isola pedonale (cinque a piedi) vicino ad altri fantasmi come quello di Felicetta, la prostituta di lungo corso che per anni ha abitato la casetta da poco cancellata con la fontanella annessa: al loro posto una rotatoria, al servizio dell’ennesimo ipermercato, grazie alla quale al ponte di Calatrava è stato reso possibile “collegare il nulla al niente” come qualcuno ha scritto.

    E appare fantasmatica anche la presenza degli antichi abitatori di via Reggio Calabria: a dicembre saranno passati 20 anni dal “trasloco più bello dell’anno” osannato dall’amministrazione Mancini, quello che un ghetto cancellò per crearne un altro in via degli Stadi.

    La desolazione sulla sponda del ponte più vicina al centro città

    Oggi ne beneficia il privato, mentre l’intervento pubblico – in questo caso la bretella da saldare con via Sprovieri in funzione di decongestionamento del traffico su via Popilia, ora che viale Mancini è a senso unico – arranca, manco a dirlo. La Giunta ha approvato il progetto soltanto un paio di giorni fa.
    Quando da sotto il ponte vedi sbuffare un altro trenino pensi alla metroleggera, ennesimo feticcio, e alla sua futuribile utilità.
    Il fantasma del ponte chissà da dove arriva, tutte queste cose non le conosce, o forse gliele avranno raccontate: intanto prepara il fuoco e indossa la felpa, ché siamo a luglio ma di notte lungo il fiume è umido.