Categoria: Fatti

  • Elezioni, via ai sondaggi: Bruni in testa, Occhiuto insegue

    Elezioni, via ai sondaggi: Bruni in testa, Occhiuto insegue

    Strana cosa i sondaggi politici: sempre validi per chi è in testa o risibili per chi non lo è, spesso controversi per chi li legge. Rientra nella casistica anche l’ultimo pubblicato da Affari Italiani sulle prossime elezioni regionali in Calabria. La ricerca è opera di Winpoll, il committente il sito scenaripolitici.com, il risultato quello che non ci si aspetterebbe.

    Stando ai sondaggisti, infatti, a prendere più voti dagli elettori calabresi in questo momento sarebbe l’ultima ad essere scesa in campo: Amalia Bruni (36,3%). Dietro di lei, seppur di poco, Roberto Occhiuto (35,8%). Ultimo proprio chi ha iniziato la campagna elettorale per primo, Luigi de Magistris. Finisce in un 27,9% che oltre a lui include anche Mario Oliverio ed eventuali altri possibili aspiranti governatori. Il primo partito in Calabria resta quindi quello degli indecisi e/o astenuti, col loro solidissimo 38%.

    Non è l’unico dato inatteso. Delle 1300 persone che hanno risposto a Winpoll tra il 30 luglio e il 4 agosto meno della metà (46%) dice di conoscere la Bruni, percentuale che sale al 72% con il forzista e schizza addirittura a 85% con l’ex magistrato. Il più noto in Calabria tra i tre candidati sarebbe dunque l’unico non calabrese, la più votata invece la meno conosciuta tra gli elettori.

    Voti, quelli alla Bruni, che aumenterebbero ulteriormente se si va a considerare l’intera coalizione: il 38,4% dei calabresi sostiene di voler votare per una delle sue liste, una percentuale superiore a quella relativa ad Occhiuto e i suoi (35,3%) di oltre tre punti. Il divario si quadruplica quando si parla del sindaco di Napoli (26,3%).

    Ma l’aspetto più bizzarro del sondaggio sono i passaggi sulla fiducia degli elettori nei tre candidati. Winpoll, infatti, ha suddiviso gli intervistati in aree politiche di riferimento in base a quelle che erano state le loro intenzioni di voto prima delle ultime europee. E poi ha chiesto loro quanta fiducia avessero nella Bruni, in Occhiuto e in de Magistris.

    È venuto fuori che del parlamentare di FI sono in pochissimi a fidarsi molto o abbastanza, soltanto un intervistato su tre (34%). Anche in questo caso la scienziata si conferma in cima alle preferenze col suo 58%, cinque punti in più del terzo sfidante. Ed entrambi, anche solo grazie a chi si fida abbastanza senza contare quelli che lo fanno molto, superano (rispettivamente con il 38% e il 35%) il dato complessivo dell’azzurro.

    Del candidato del centrodestra, che pure viene dato per favorito, insomma, sembrerebbero diffidare in tanti. Perfino quelli del suo stesso partito non disdegnerebbero la Bruni o de Magistris al posto di Occhiuto. Stando ai dati Winpoll, infatti, tra gli elettori berlusconiani il 63% confida nel fratello del sindaco di Cosenza. Ma il 57% si fida pure di de Magistris e il 52% della Bruni. Un dato che non trova eguali se si analizzano quelli che votano per qualsiasi altro partito, tutti più restii a dar credito a candidati di colore diverso.

  • Incandidabili o quasi, chi davvero resta fuori?

    Incandidabili o quasi, chi davvero resta fuori?

    Con l’adozione dell’emendamento al Codice di autoregolamentazione della Commissione antimafia, Roberto Occhiuto ha ottenuto quattro risultati notevoli.
    Il primo: ha ridimensionato la narrazione legalitaria e antimafia di Luigi de Magistris, i cui seguaci usano le espressioni “massomafia” e “massomafiosi” più di quanto non faccia un messicano con gli habanero nel chili.

    Il secondo: ha prevenuto le polemiche che scoppiano a orologeria a liste chiuse o, peggio, a elezioni finite, quando iniziano di solito a girare tra i giornalisti dossier a carico di chiunque si appresti a vincere o a governare.

    Il terzo: ha rigettato la palla nel campo avversario. Loro accusano gli altri di connivenze e altre pratiche poco belle? E allora che sottopongano anch’essi le proprie liste al vaglio della Commissione guidata da quel giacobino di Nicola Morra.
    Il quarto, e forse per il leader azzurro più importante: ha ottenuto un controllo più stretto sulla propria coalizione.

    Cronologia di un emendamento

    Che sia così, ci sono pochi motivi di dubitarne, soprattutto per un dettaglio cronologico non proprio irrilevante: l’emendamento, pensato e annunciato di fatto da Occhiuto a metà luglio e proposto da Wanda Ferro, è passato all’unanimità il 5 agosto. Tuttavia, sin dalla settimana prima gli aspiranti consiglieri del centrodestra hanno ricevuto un prestampato in cui gli si chiedeva di confermare la disponibilità generica a candidarsi (cioè senza indicare liste specifiche) e, quindi, a farsi valutare da Morra & co.

    Per il resto, il Codice di autoregolamentazione è immutato. La Commissione controlla se i candidati non siano stati rinviati a giudizio per reati di tipo mafioso (associazione a delinquere di stampo mafioso, concorso esterno e varie forme di corruzione elettorale legate alla criminalità organizzata), più altri crimini non necessariamente mafiosi ma collegati alle attività politica e amministrativa (corruzione, concussione, associazione a delinquere semplice e altri) o di tipo privato ma tali da rovinare la reputazione di un politico (ne è un esempio la bancarotta fraudolenta).

    Severino ma non troppo

    I criteri della Commissione antimafia sono più bassi rispetto a quelli della legge Severino, che per “bruciare” amministratori e rappresentanti politici richiede almeno la condanna in primo grado. In compenso, la valutazione dell’organo parlamentare è decisamente meno dura, perché non è vincolante: i partiti possono non tenerne conto e candidare lo stesso i presunti impresentabili.

    Ma ciò non vuol dire che sia una supercazzola, perché le valutazioni sono pubbliche. Quindi, chi non le segue si espone al ludibrio dei cittadini.
    Di sicuro Roberto Occhiuto ha capitalizzato questa logica, a dirla tutta un po’ distorta, della legalità e dell’etica pubblica. E pensare il contrario significherebbe sottovalutare la sua intelligenza politica.

    L’Orlandino furioso

    L’unico che ha intuito i rischi di questo gioco cinico – e potenzialmente assassino – è Orlandino Greco, il quale si è chiamato fuori. L’ex consigliere regionale oliveriano, sotto processo con le accuse di concorso esterno e di corruzione elettorale, ha dichiarato di rinunciare a candidarsi per evitare che il suo movimento – Italia del Meridione – subisse le facili strumentalizzazioni della propria condizione di imputato.

    Eppure, la posizione di Greco non sarebbe incompatibile con la legge Severino. Finora, infatti, l’ex sindaco di Castrolibero non è stato condannato, i fatti contestatigli sono vecchi (risalgono a tredici anni fa) e ha incassato ottimi risultati processuali dal Riesame e dalla Cassazione.

    Di padre in figlio… e in nuora

    Anche altri potenziali incandidabili potrebbero candidarsi senza problemi in base alla Severino. È, per fare un esempio vistoso, il caso di Luca Morrone, figlio di Ennio, ex presidente del Consiglio comunale di Cosenza e consigliere regionale uscente.
    Morrone jr è tuttora alla sbarra a Catanzaro nel processo Passepartout con l’accusa di corruzione elettorale: nel 2016 avrebbe sfiduciato il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto in cambio di benefici politici.

    A sentire i maligni, che coincidono coi beneinformati, Roberto Occhiuto non vedrebbe di buonissimo occhio il rampollo del potentato cosentino anche a causa della congiura di Palazzo dei Bruzi, che fece decadere suo fratello sei mesi prima della fine naturale del suo mandato di primo cittadino.

    Tuttavia, Luca Morrone non è condannato e, a dar retta agli addetti ai lavori, potrebbe uscire senza danni dal processo, dove finora non sarebbero emersi i benefici politici ottenuti per la pugnalata al sindaco.
    Ad ogni buon conto, avrebbe deciso di aggirare l’ostacolo candidando sua moglie Luciana De Francesco. Non è dato sapere se in Fdi o altrove, però, perché Morrone Jr e Orsomarso non sono quel che si dice culo e camicia (nera).

    Un trattamento non proprio Gentile

    Un discorso simile vale per il superbig Pino Gentile, ancora sotto processo per vicende riconducibili al suo ruolo di assessore nell’era Scopelliti.
    In realtà, tutti i procedimenti che lo riguardano sono prossimi alla prescrizione. Tra essi, quello legato alla vicenda delle case popolari di Cosenza, che a suo tempo fece scalpore.
    Gentile ha dalla sua un bel po’ di voti, che potrebbero tornare utili anche per le amministrative cosentine.

    Ma le accuse di cui è tuttora oggetto sollevano un interrogativo delicato: che accadrebbe se Occhiuto, dietro “consiglio” della Commissione antimafia, non candidasse l’anziano leader e questi uscisse dal processo, per prescrizione o assoluzione? I casi borderline non finiscono qui.

    Parenti serpenti

    Visto che la Commissione antimafia non emette verdetti giudiziari ma solo valutazioni politiche, è obbligatorio qualche dubbio: come comportarsi nei confronti di chi è solo indagato oppure “vociferato” in maniera pesante?
    Ancora: che accadrebbe se si consentisse la candidatura di persone solo indagate e se queste, una volta elette, venissero rinviate a giudizio? Le vicende recenti di Nicola Paris, finito in manette per concorso esterno e scambio elettorale, e di Raffaele Sainato, indagato per mafia, sono altre due bucce di banana per il centrodestra. Di sicuro non saranno ricandidati, perché le accuse sono troppo fresche e pesanti.

    Ma, senza scomodare le ’ndrine reggine, emergono altri casi dubbi. Uno è Piercarlo Chiappetta, consigliere comunale di Cosenza e occhiutiano di acciaio (tra le varie, è cognato proprio di Roberto Occhiuto) e potenziale candidato della lista del presidente del centrodestra. L’altro, nello schieramento opposto, è l’oliveriano Giuseppe Aieta, consigliere regionale uscente e conteso tra l’area Pd e i Masanielli di de Magistris.

    Il primo è risultato indagato per una presunta bancarotta fraudolenta. Le accuse a suo carico non sono leggerissime, visto che gli inquirenti hanno posto sotto sequestro anche beni riconducibili a lui. Il secondo è indagato per corruzione elettorale.
    Nessuno dei due è rinviato a giudizio e, per elementare garantismo, si augura e entrambi di uscire illesi dalle inchieste. Ma, per ripetere la domanda retorica, che accadrebbe se fossero candidati nonostante la pesantezza delle accuse e poi, una volta eletti, finissero sotto processo?

    Politica batte legalità

    Il parere della Commissione antimafia è, stringi stringi, una moral suasion che rafforza la decisione di non candidare qualcuno. Ma questa resta comunque una decisione politica su cui, nella maggior parte dei casi, pesano altri fattori, spesso più determinanti della legalità.
    Questo vale a destra come a sinistra. E vale per tutta la Calabria, dove si invoca la legalità perché ce n’è poca e si urla contro la mafia perché ce n’è troppa. E lo si fa, in entrambi i casi, per motivi politici.

    I cittadini calabresi si avviano all’election day con l’ennesimo convitato di pietra: la Commissione di Nicola Morra, a cui toccherà ridisegnare la mappa politica per evitare che lo faccia con più numeri e capacità qualche Procura, antimafia e non.
    E pazienza se questa attività si riveli funzionale soprattutto a disegni di potere ed equilibri politici: in Calabria capita anche di peggio.

  • Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Omicidio Scopelliti: un patto di sangue ancora senza verità

    Sul suo sangue sarebbe stata edificata la pax mafiosa delle cosche di Reggio Calabria e della sua provincia. A distanza di trent’anni, non c’è ancora una verità univoca. Né sotto il profilo storico, né sotto il profilo giudiziario, sull’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Una delle massime autorità uccise in Calabria a colpi d’arma da fuoco. Esattamente 30 anni fa. Oggi.

    Il delitto

    Difficile, forse impossibile, non innamorarsi del mare della Costa Viola, litorale tirrenico della provincia di Reggio Calabria. E di quel mare cristallino, che di notte si riempie di lampare, era profondamente innamorato il giudice Antonino Scopelliti. Originario di Campo Calabro, ma da anni operante a Roma, presso la Suprema Corte di Cassazione. Tornava proprio dal mare. Da quel mare. È il pomeriggio del 9 agosto 1991. I sicari lo raggiungono sulla strada che collega la Costa Viola a Campo Calabro. Le pallottole investono l’autovettura. E colpiscono alla testa il magistrato. L’auto non si ferma, sbanda e termina la propria corsa in una scarpata.

    Un “omicidio eccellente”. Due estati dopo quello dell’ex presidente delle Ferrovie, Lodovico Ligato. Un omicidio che fa tanto rumore. Sebbene Reggio Calabria e la sua provincia siano interessate da una sanguinosissima guerra tra cosche. E quindi abituate ai morti per le strade. Una guerra che, dopo l’omicidio di Nino Scopelliti, si fermerà. Come per incanto. Una pace immersa nel sangue di un alto magistrato. Sarebbe stato proprio l’omicidio Scopelliti il prezzo con cui le cosche reggine si sarebbero sdebitate rispetto all’interessamento di Cosa Nostra affinché si bloccasse la mattanza per le strade di Reggio Calabria.

    Scopelliti, infatti, avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa nel Maxiprocesso contro la Cupola di Cosa Nostra, giunto al cospetto della Suprema Corte di Cassazione. Proprio quello istruito da Giovanni Falcone. E, quindi, a un passo dalla sentenza definitiva che avrebbe avvalorato il “teorema Buscetta”. Nino Scopelliti era in vacanza nella “sua” Campo Calabro. Ma anche nella canicola d’agosto aveva con sé le carte del Maxiprocesso. Le studiava.

    Gli interessi di Cosa Nostra

    La ‘ndrangheta avrebbe eseguito l’omicidio, sul proprio territorio, in segno di “ringraziamento” nei confronti della mafia siciliana. Cosa Nostra avrebbe avuto un ruolo determinante per la stipula della pace tra gli schieramenti De Stefano-Tegano-Libri e Condello-Imerti, che a partire dal 1985 si erano dati battaglia, lasciando sull’asfalto centinaia di morti ammazzati.

    È questa la tesi più accreditata. Una sentenza che tuttavia nessun Tribunale ha mai scritto in maniera definitiva. L’omicidio del giudice Scopelliti è senza responsabili. Ancora oggi. Dopo 30 anni. Tante sono state, nel tempo, le ipotesi riguardanti i motivi che portarono all’omicidio del magistrato. Alcuni dissero che i Corleonesi avevano tentato di avvicinare il sostituto procuratore generale presso la Cassazione. Volevano chiedesse la nullità del processo, come invocato dalle difese nei motivi d’appello, ma ricevettero un secco “no”. Per altri, invece, l’eliminazione di Scopelliti era utile affinché i tempi di decisione si allungassero eccessivamente. In quel modo sarebbero scaduti i termini di custodia cautelare. Una circostanza che avrebbe riportato in libertà centinaia di boss e affiliati alla mafia siciliana. E verosimilmente in latitanza.

    Le indagini e i processi

    In primo grado, l’impianto accusatorio regge con la condanna all’ergastolo di personaggi come Totò Riina, Bernardo Brusca, Pippo Calò e Pietro Aglieri. L’accusa però si dissolve in appello. Arrivando poi alla definitiva sentenza assolutoria in Cassazione. Poco o nulla, invece, si è fatto nei confronti degli esponenti della ‘ndrangheta. Sebbene gli inquirenti, negli anni, abbiano potuto contare sulle dichiarazioni di alcuni importanti collaboratori. Come Filippo Barreca e Giacomo Lauro. Lauro parla di un confronto tra due boss di rango, Nino Mammoliti e Pasquale Condello. Mentre Barreca cita esponenti di spicco del clan De Stefano. Le cosche avrebbero tentato di avvicinare il magistrato in vista dell’ultimo grado di giudizio.

    Per decidere l’esecuzione del giudice Scopelliti si sarebbero scomodati personaggi di livello criminale immenso, Totò Riina su tutti. Il quale, peraltro, in Calabria era già stato. Ad Africo, ospite del “Tiradritto” Giuseppe Morabito. Riina avrebbe raggiunto in motoscafo il boss Pasquale Condello per affrontare l’argomento dell’eliminazione del magistrato. Rimasti impuniti i presunti mandanti. Invisibili, ectoplasmi, gli esecutori materiali.

    Un omicidio così eclatante, di una persona così in vista, non poteva essere deciso senza l’accordo degli esponenti principali della ‘ndrangheta reggina. Tanto le schiere dei Condello, quanto quelle dei De Stefano. Anche in virtù della nuova pace, dovevano essere informate del progetto. E non sarebbe nemmeno da escludere che su quella moto che seguiva l’auto di Scopelliti, vi fossero due killer scelti da entrambi gli schieramenti. Uno in rappresentanza dei condelliani, l’altro inviato dai destefaniani. Sicuramente personaggi spietati. Di comprovata e certa fiducia. E di rara abilità e precisione. I “migliori”.

    Nell’aprile del 1993, scattano le manette a carico dei componenti della Cupola palermitana. Arrestati anche i calabresi Antonino, Antonio e Giuseppe Garonfolo, come soggetti inseriti a livello verticistico nell’omonima organizzazione operante a Campo Calabro e collegata ai De Stefano. Arrestato anche Gino Molinetti, uno dei killer più spietati della ‘ndrangheta. Le dichiarazioni dei pentiti mettono in luce il ruolo determinante di Cosa Nostra nella definizione della seconda guerra tra cosche del reggino. E, quindi, il conseguente credito acquisito presso i due schieramenti contrapposti.

    Per l’uccisione del giudice furono istruiti e celebrati presso il Tribunale di Reggio Calabria ben due processi. Uno contro Salvatore Riina e sette boss della “Commissione” di Cosa Nostra. E un secondo procedimento contro Bernardo Provenzano ed altri sei boss, tra i quali Filippo Graviano e Nitto Santapaola. Furono tutti condannati in primo grado nel 1996 e nel 1998. E successivamente assolti in Corte d’Appello nel 1998 e nel 2000. Le accuse dei diciassette collaboratori di giustizia (cui si aggiunsero quelle del boss Giovanni Brusca) non bastarono. Vennero giudicate discordanti.

    Speranza in fumo

    Un primo, vero, atto di pace tra i cartelli che fino al giorno prima si erano rincorsi, individuati e trucidati. Per le strade cittadine. In una vera e propria guerra. Combattuta con pistole, fucili di precisione, autobombe e bazooka. Un omicidio di livello altissimo, di cui solo poche persone avrebbero dovuto sapere. L’uccisione del giudice Scopelliti rappresenta, di fatto, uno spartiacque fondamentale nella storia della società reggina. E della ‘ndrangheta, diventata negli anni una delle più potenti e ricche organizzazioni criminali del mondo. Da quell’omicidio passano le nuove dinamiche criminali che hanno portato Reggio a vivere sotto una cappa. Quella della pax mafiosa.

    Lo scenario inquietante, da sempre paventato, e quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Una pianificazione che sarebbe avvenuta in un summit mafioso svoltosi nella primavera del 1991 a Trapani. Lì avrebbe partecipato lo stesso Matteo Messina Denaro.

    Un paio di anni fa, il collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola farà ritrovare nelle campagne siciliane un fucile. A suo dire, sarebbe stata l’arma utilizzata per il delitto. Da qui la nuova indagine della Dda di Reggio Calabria, che coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche il boss latitante Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola. Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano. Il gotha della ‘ndrangheta. Cui si aggiungono Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti. Ancora lui.

    Ma mesi dopo, anche quest’ultima speranza di arrivare a una verità storica e giudiziaria, sembrerà tramontare quasi definitivamente. Gli accertamenti eseguiti sul fucile calibro 12 di fabbricazione spagnola fatto ritrovare da Avola non danno alcun esito. Arma troppo vecchia. Ossidata e incrostata. Le sue pessime condizioni strutturali non consentirebbero, quindi, di poter effettuare tutti gli esami previsti. Verrebbe meno, così, una prova regina utile alla ricostruzione del delitto.

  • Occhiuto tra alibi di Ferro e ritorni di… Fiamma

    Occhiuto tra alibi di Ferro e ritorni di… Fiamma

    A Roma verranno sciolti a breve gli ultimi nodi del centrodestra. E questi nodi non dovrebbero riguardare (o non del tutto) le Regionali. Infatti, stando ai bene informati, resta confermato, al momento, il ticket Occhiuto-Spirlì. Non solo per una questione di continuità amministrativa ma anche di cinica Realpolitik. Grazie ai suoi irriverenti coming out, il presidente facente funzioni è diventato un’icona gay particolare, un simbolo di quella parte del mondo Lgbt che non si identifica nelle frange “estreme” o – parole sue – nelle «lobby frocie».

    E questo ruolo dell’ex vicejole ha assunto un valore politico non proprio secondario in seguito allo stop al ddl Zan, ottenuto da Lega e Forza Italia e poi da Italia Viva con innegabile abilità nella manovra parlamentare.
    Il centrodestra (tranne Fdi) e i renziani hanno evitato il muro contro muro con una soluzione efficace: la proposta di una versione attenuata del ddl antiomofobia.
    Il risultato, tra l’altro prevedibilissimo, è arrivato subito. Gli ambienti gender si sono spaccati. E la fazione (incluse alcune importanti componenti dell’Arci) che riteneva eccessiva la proposta di Zan si è schierata con Renzi o avvicinata al centrodestra.

    In questo scenario, il recupero di Spirlì risulterebbe funzionale all’accreditamento di una destra più gender friendly o, comunque, non omofoba.
    Oltre i simbolismi, resta la prosaica necessità di non turbare troppo gli equilibri della coalizione, soprattutto tra Lega e Fdi, e quelli interni alla Lega. Mantenere Spirlì nella casella di vice scoraggerebbe gli appetiti dei centometristi del voto, vecchi e nuovi. E garantirebbe a Salvini, legato da amicizia personale all’attuale facente funzioni, un ruolo di controllo.

    L’armata

    È difficile definirla “gioiosa” o “invincibile”, ma comunque l’armata c’è. E, salvo sorprese dell’ultimo minuto, sembra vincente. Già: il problema di Roberto Occhiuto non è la penuria ma la sovrabbondanza.
    L’aspirante governatore non deve dare la caccia ai candidati, ma cercare di collocarli senza far danni. Così, ad esempio, per Pino Gentile, di cui è ancora dubbia la candidatura in Fi, per un problema politico non secondario: la lista azzurra stando a voci attendibili, si annuncia fortissima nel collegio Calabria Nord. E di questa forza è un indizio più che consistente la presenza dell’assessore uscente Gianluca Gallo.

    In questa situazione, l’eventuale compresenza di due big del calibro di Gallo e dell’evergreen Gentile diventerebbe un deterrente per altri candidati potenziali. Che temerebbero, non a torto, di restare schiacciati tra i due moloch.
    Tuttavia, di Gentile non si può fare a meno, perché la sua presenza resta determinante per gli equilibri politici delle imminenti amministrative di Cosenza, l’altro piatto dell’election day calabrese. Ad ogni buon conto, problemi di spazio non ce ne sono. Occhiuto e il suo staff hanno a disposizione sette simboli per almeno sei liste, quasi tutte collegate ai partiti.

    Le liste

    Vediamole nel dettaglio. Di Forza Italia si è già detto. Ma sono in fase avanzata anche le liste di Lega, Fratelli d’Italia e Udc. Resta un dubbio sulle liste politiche minori: “Cambiamo!”, che si rifà al movimento di Giovanni Toti, e “Noi con l’Italia” di Maurizio Lupi. Queste due liste sono appetibili, almeno sulla carta, per i calibri medi, tra cui l’ex big dell’Udc cosentino Franco Pichierri. Che, appunto, si starebbe dando un gran da fare per assicurare una bandierina calabrese a Lupi.

    Altri notabili si sarebbero rivolti invece al governatore della Liguria, per capitalizzare al massimo i propri voti in liste che, sperano, superino il 4%. Il rischio sarebbe di scatenare competizioni feroci all’ultimo voto e di creare “liste Coca Cola” costruite attorno a pochi candidati. Per scongiurarlo, lo stato maggiore occhiutiano ipotizza di fondere i simboli di Toti e Lupi in una sola lista.
    A proposito di personalismi, l’aspirante governatore coltiverebbe una mossa di marketing: spersonalizzare la lista del presidente, che si chiamerebbe Azzurri.

    Legalità…

    In non pochi hanno notato l’ambiguità della mossa tentata da Roberto Occhiuto a metà luglio: la richiesta di un vaglio preventivo delle liste da parte della Commissione antimafia per espellerne gli incandidabili. Una richiesta quantomeno strana, soprattutto nel momento in cui il centrodestra spingeva (e spinge tuttora) compatto sulla riforma Cartabia e sul depotenziamento della legge Severino.

    Che Occhiuto facesse sul serio, lo si evince da un particolare: da circa una settimana girano tra gli aspiranti candidati dei moduli con cui si richiede loro una generica disponibilità a candidarsi. E, quindi, a farsi vagliare dalla Commissione guidata dal gelido Nicola Morra.
    La tempistica ha giocato a favore di Occhiuto. La modifica, proposta dalla meloniana Wanda Ferro, al codice di autoregolamentazione dell’Antimafia è passata da circa un giorno. Ora l’aspirante governatore, che ha giocato d’anticipo, ha la possibilità di dire dei no motivati.

    … e opportunismi

    Quanto in questi eventuali “no” pesino le ragioni legalitarie e quanto le dinamiche politiche è difficile da dire. Certo è che, a ben guardare, non c’è quasi un big del centrodestra che non abbia qualche peccatuccio, più o meno veniale (o venale…).
    E questi peccati verrebbero senz’altro notati, visto che il codice di autoregolamentazione non si ferma alle ipotesi di reato degli articoli 416bis e ter. Comprende anche l’associazione a delinquere semplice, i reati contro la pubblica amministrazione (concussione e corruzione innanzitutto), ma anche reati comuni come estorsione e usura. Mancano gli ormai banali abusi di ufficio (un amministratore che non ne abbia almeno uno è quasi uno sfigato…).

    Per attivare la Commissione basta il semplice rinvio a giudizio e, dato non secondario, le sue valutazioni sono politiche e non giudiziarie. E, soprattutto, non vincolanti.
    Detto altrimenti: Occhiuto e i suoi competitors non sarebbero obbligati a “espellere” nessuno, perché l’eventuale parere negativo dell’Antimafia fornirebbe solo un’autorevole pezza di appoggio per negare una candidatura.
    Ci fermiamo qui: gli scenari aperti da questa novità meritano un approfondimento a parte.

    Il nodo Cosenza

    Lo ripetiamo fino alla nausea: le Regionali si vincono e si perdono nel Cosentino. E per il centrodestra le Amministrative di Cosenza hanno lo stesso peso che per l’area Pd.
    Rispetto alle Regionali, la corsa a Palazzo dei Bruzi è un piatto modesto: un secondo magro, quasi un contorno. Un municipio dissestato in cui i conti si ostinano a restare in rosso e una città in decrescita demografica sono poco appetibili.

    Eppure, i big che contano sono tutti cosentini (le famiglie Occhiuto, Gentile e Morrone) o hanno a Cosenza il loro quartier generale (Fausto Orsomarso). La contesa interna si annuncia accesa e ci sono già le premesse, che ruotano attorno a un dato certo: il candidato sindaco tocca a Fratelli d’Italia. Un ostacolo non insormontabile, visto che il partito degli ex An ha strutture così minime da far sembrare il vecchio Udeur di Mastella un mostro di solidità.

    Fiammella, fiamma e super fiamma

    Infatti, Mario Occhiuto ha designato come proprio successore il mite Francesco Caruso, dopo averne propiziato l’adesione a Fdi, motivata in maniera non proprio banale. Il delfino del sindaco, infatti, è figlio del compianto Roberto Caruso, deputato di An a inizio millennio. Il giovane sodale di Occhiuto non avrà il piglio e l’attitudine del missino, ma ne ha comunque i galloni.

    Sempre a proposito di fiamme, Fausto Orsomarso insiste invece sulla candidatura di Pietro Manna, il quale non ha forti esperienze politiche dirette (è un segretario comunale, con trascorsi da dirigente regionale nell’era Scopelliti). Ha, però, un pedigree missino di tutto rispetto: appartiene all’ultima generazione del Fronte della Gioventù cosentino, di cui ha fatto parte assieme all’ex vicesindaco Luciano Vigna e allo stesso Orsomarso. Camerati di merende.

    Resta in campo, sempre a proposito di fiamma, la candidatura di Fabrizio Falvo, già consigliere provinciale e più volte consigliere comunale. Professionista stimato, Falvo è l’erede di una tradizione familiare importante: suo padre, l’ex deputato Benito, è stato per decenni sinonimo di destra, a Cosenza e non solo. Per lui simpatizza essenzialmente Luca Morrone, che tuttavia si allineerebbe senza problemi alle decisioni della coalizione (più realisticamente, ai diktat dello stato maggiore).

    Una variabile a questa partita interna alla destra, la porta il già menzionato Franco Pichierri, che per puntellare le sue ambizioni regionali, starebbe preparando più liste a Cosenza. Anche nel centrodestra il quadro è complesso. Forse non incasinato come quello del Pd e di chi gli fa concorrenza a sinistra, ma comunque divertente.

  • Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    Paviglianiti in manette: chi è il principe della coca con 6 cellulari

    La sua è una storia da romanzo. Sotto il profilo criminale, inizia ormai decenni fa, con i primi crimini di ‘ndrangheta e l’avvio del traffico internazionale di stupefacenti. Dal punto di vista giudiziario, invece, raggiunge l’apice proprio due anni fa. Era l’agosto del 2019. Ora Domenico Paviglianiti è stato nuovamente arrestato. Lo scorso 3 agosto, i carabinieri di Bologna e la polizia spagnola lo hanno scovato a Madrid, dove l’uomo, 60enne, era latitante.

    Uno dei principi del narcotraffico internazionale

    La sua carriera criminale si dipana tra gli anni ’80 e gli anni ’90.È in quel periodo che Paviglianiti si guadagna l’appellativo di “boss dei boss”. Dall’area grecanica della provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti è diventato uno dei broker del narcotraffico internazionale più potenti e longevi della storia.

    Da sempre considerato un elemento apicale della sua cosca, tuttora attiva e potente nei comuni di San Lorenzo, Bagaladi e Condofuri nel Reggino. Ma con ramificazioni importanti in Lombardia e, ovviamente, in Sud America per la gestione dei traffici di droga.

    La sua cosca si è sempre inquadrata nell’alveo dello schieramento “destefaniano”. Fin dai tempi della seconda guerra di ‘ndrangheta, che tra il 1985 e il 1991 insanguinò con oltre 700 morti la provincia di Reggio Calabria, Paviglianiti ha sposato la causa dei De Stefano. La cosca che, più di tutte, ha modernizzato la ‘ndrangheta.

    La complessa vicenda giudiziaria

    Su di lui pende un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti per 11 anni, 8 e 15 giorni, emesso il 21 gennaio dalla Procura di Bologna per i reati di associazione di tipo mafioso, omicidio e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Dall’ottobre 2019 aveva lasciato l’Italia, rifugiandosi in Spagna.

    Proprio da quel 2019, in cui, nell’arco di due mesi, verrà arrestato e scarcerato diverse volte. Fino a diventare uccel di bosco.

    Paviglianiti, condannato all’ergastolo, era stato catturato in Spagna nel 1996. L’estradizione era stata concessa a condizione che l’Italia non applicasse il carcere a vita. In quel periodo, infatti, l’ordinamento spagnolo non prevedeva il “fine pena mai”.

    Per questo motivo venne condannato a 30 anni, che, nell’agosto 2019 (anche per via di alcune riduzioni) risultavano già scontati. I suoi legali, infatti, avevano rilevato come a febbraio 2019, dopo 23 anni, tra indulto, liberazione anticipata, era già scontata tutta la pena. Da qui la scarcerazione.

    Ma, dopo due giorni, un successivo ricalcolo portò a un nuovo ordine di carcerazione. Paviglianiti venne così nuovamente arrestato, quando ancora non aveva lasciato il Nord Italia, dove era detenuto. Poi, la scarcerazione nell’ottobre dello stesso anno. Liberato, nel giro di due mesi, due volte per fine pena.

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    Di nuovo in pista?

    Adesso il nuovo arresto. In Spagna i carabinieri sono arrivati seguendo le tracce di alcuni familiari. Il concreto sospetto degli investigatori è che Paviglianiti avesse ripreso in mano il business del traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

    Quando è stato preso era da solo ma ci sono accertamenti in particolare su una donna sudamericana. I contatti con il Sud America spingono infatti gli inquirenti a ritenere che Paviglianiti fosse ritornato a essere il potente broker del narcotraffico che era prima della lunga detenzione.

    Piuttosto sospetto, in tal senso, il fatto che quando il boss è stato bloccato in strada, nei pressi della propria abitazione di Madrid, avesse con sé sei cellulari in un borsello, seimila euro in contanti e documenti falsi con un’identità portoghese.

  • La Calabria brucia nei suoi roghi di speculazione e indifferenza

    La Calabria brucia nei suoi roghi di speculazione e indifferenza

    La Sardegna quest’anno rischiava di soffiarci il campionato dei roghi. Che di solito è calabrese. C’entra poco il caldo e la scusa del global warming non basta. La Calabria brucia. È la regione più ustionata d’Italia, ci sono stati già adesso più di 1200 incendi boschivi. La provincia più colpita negli anni scorsi è stata quella di Cosenza, con ben 413 kmq di aree percorse dal fuoco, l’equivalente di 60.000 campi di calcio, 45,8 kmq di boschi in cenere, come succede ormai quasi ogni anno, da troppi anni. Comunque è buona abitudine che la Sila e il Pollino brucino per mesi durante estati sempre più torride e arse. La Calabria è un lungo ininterrotto barbecue silvestre. Un olocausto verde. L’ustione più vasta di tutta l’Europa continentale.

    Ma quale autocombustione?

    I boschi qui non sono mai bruciati per autocombustione e comportamenti distratti. La montagna in Calabria è stata il regno dei mistici e dei briganti, il deserto spirituale dei santi ecologisti in fuga dal mondo e il rifugio preferito di furfanti e irregolari in lotta col potere.
    La storia della Calabria dice che qui la gente non ama la natura che regna per sé. Le montagne che incombono incontrastate sui paesi dalla marina alla Sila fanno paura, e i boschi e le foreste un tempo fitte ed estese sono stati considerati sin dall’antichità un danno più che una ricchezza, «terra rubata» all’agricoltura.

    I tagli dei boschi per far legna e il debbio, l’incendio regolato di porzioni del manto forestale per far posto alle coltivazioni e ai pascoli, sono sempre stati praticati da contadini e pastori per limitare l’estensione delle superfici considerate improduttive.

    Cancellata la più grande risorsa di questa regione

    La più grande risorsa pubblica di questa regione, la terra e le aree protette, negli ultimi 50 anni è stata cancellata e immiserita in nome della speculazione continua e degli scambi incrociati del consenso. Il settore della forestazione in Calabria è un’altra delle piaghe dolorose della crisi civile di questa regione.
    Le inchieste sulla corruzione dei dirigenti sono all’ordine del giorno. Chi appicca i roghi delle aree verdi che ogni anno a centinaia divorano con ordine geometrico macchie e boschi in ogni contrada della Calabria? Non c’è forse una regia occulta anche per gli incendi che scoppiano ogni estate in questa regione in cui tutto ormai è occulto e trasversale? Chi ha interesse a bruciare, e perché?

    La Calabria brucia, ma non è solo colpa della mafia

    La colpa è, solo, della mafia? E gli speculatori che dopo i roghi incettano biomasse per le centrali, gli intermediari che a vario titolo si disputano fette di territorio per i loro comodi? E i costruttori senza scrupoli di nuovi slums abusivi, e i vecchi pastori di una perduta arcadia che fanno terra bruciata per ridurre i boschi a pascolo per pecore e capre? E gli stessi forestali, che (si dice sempre sottovoce) bruciano quello che loro stessi piantano per assicurarsi il lavoro sui cantieri di rimboschimento?

    In prossimità delle centrali a biomassa

    Un dato soprattutto fa riflettere: praticamente tutti gli incendi estivi in Calabria si sviluppano da anni in prossimità delle centrali a biomassa, disposte ad anello rispetto ai roghi. Si consideri che in situazioni normali non è possibile tagliare nemmeno un ramo all’interno dei parchi, mentre in caso di incendi si ottiene un permesso speciale per la potatura degli alberi. E in questi casi parliamo di alberi carichi di resina, cioè facilmente infiammabili.

    Il doppio ruolo di Calabria Verde 

    L’azienda che in Calabria si occupa dello spegnimento dei roghi è poi la stessa che è incaricata della bonifica delle aree incendiate: Calabria Verde (che con legge regionale 25 del 2013 ha sostituito le funzioni delle Comunità Montane). Altro dato anomalo registrato dalla Protezione Civile calabrese, è il boom di iscrizioni di nuove ditte boschive nate negli ultimi 5 anni. Non poche sono in odore di mafia.

    La favola dell’autocombustione

    Sarà pure l’estate più calda del secolo questa, ma riesce sempre difficile credere all’autocombustione (puntiforme), ai piromani isolati, ai fanatici del fuoco in gita di piacere, ai mozziconi gettati distrattamente dai finestrini. Forse il totale che assomma i fuochi che estate su estate divampano incontrastati è il risultato di tutte queste scelleratezze messe assieme. C’è un bel mucchio di persone che appiccano incendi dolosi conto terzi.

    Nessuno sa più come custodire i boschi

    Il fatto è che nessuno sa più come custodire i boschi. Nessuno più sa come si fa. Non più i forestali riformati, con il nuovo Corpo Forestale (diventati Carabinieri, sono scarsi di mezzi e con poca esperienza), non gli eclettici volontari-disoccupati delle squadre antincendio. Sapeva come farlo la gente di montagna. Che in montagna, spopolata da tempo, non vive più. La buona volontà di ambientalisti e gruppi ecologici è un palliativo da fine settimana en plen air. Una volta lo facevano pastori, i boscaioli e i «mannesi», gli operai forestali di un tempo. E persino i carbonai sapevano come trattare e accudire il fuoco nei boschi.
    Di questi tempi invece non bastano i Canadair, le squadre di vigili del fuoco e gli interventi antincendio della Protezione Civile a mettere fine a questo scempio di roghi incontrollati che da anni fa olocausto dei boschi e dei monti della Calabria che brucia.

    La Calabria va a fuoco

    La Calabria va a fuoco, in tutti i sensi. Il nostro è un mondo democraticamente caduto nella follia dei roghi autostradali e dell’olocausto incurante di boschi e foreste. Si bruciano i boschi secolari, si brucia la Sila, il Pollino, l’Aspromonte, si bruciano i parchi nazionali e le oasi naturalistiche da cui dovremmo, si dice tra l’altro, ipocritamente, saper trarre opportunità di sviluppo per un “turismo sostenibile”.
    La verità è che qui la tragedia della natura è il seguito degli altri disastri di una democrazia senza qualità, degenerata in abuso, governo caotico di un blocco di potere disordinato, tetragono e quasi privo di regole intellegibili.

    Il sacco del territorio

    Domani pagheremo di nuovo con le frane e con le alluvioni ciò che il fuoco ha distrutto in estate. Con il seguito dissimulato e peloso di pretese e lamentazioni rituali. La pianificazione del territorio in questa regione continua ad essere una piaga. Si costruisce ovunque, sparisce la campagna, il sacco del territorio favorisce l’espansione senza limiti. Il paesaggio è abusato senza soste, la bellezza dei luoghi stuprata di continuo.

    Il delirio nichilistico

    La natura stessa, in tutte le sue molteplici manifestazioni, resta cosa dissacrata, spazio da occupare, materia denudata a disposizione di ogni sfregio: res extensa. Non più natura vivente al centro di pratiche e sapienze tramandate provenienti dal passato e dalla spiritualità popolare. E, quel che è peggio, nemmeno argomentata da ragioni e strumenti di un pensiero del moderno che possa dirsi tale.
    La Calabria continua a bruciare. Brucia per il delirio nichilistico di una volontà umana ebbra e devastante.

  • Ponte sullo Stretto, progetto di fattibilità entro la primavera del 2022

    Ponte sullo Stretto, progetto di fattibilità entro la primavera del 2022

    «Il progetto di fattibilità del Ponte sullo Stretto sarà redatto entro la primavera del 2022». Sono parole pronunciate da Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture durante l’audizione alle commissioni Ambiente e Trasporti della Camera. Dopo la prima fase il Governo ha intenzione di avviare un dibattito pubblico in vista di una scelta che – Giovannini – precisa «condivisa».
    Il volume dei traffici dello Stretto di Messina ha una certa rilevanza su scala nazionale. I dati forniti dal ministro Giovannini: «11 mln di passeggeri l’anno, 0,8 mln di veicoli pesanti l’anno e 1,8 mln veicoli leggeri l’anno».

    Cinquecento milioni di euro

    Al di là dei progetti stabili per il Ponte sullo Stretto, sono previsti una serie di interventi per velocizzare l’attraversamento ferroviario e dei passeggeri. «Sono già finanziati – sostiene Giovannini – attraverso il fondo complementare o la nostra proposta di Fsc 21/27 o attraverso risorse statali o il Pnrr». Complessivamente si pianificano «interventi per mezzo miliardo». Il cronoprogramma, ha precisato il ministro, parte dall’istituzione di un gruppo di lavoro permanente entro l’autunno 2021, fino al completamento del programma entro il 2025.

    Contattato anche Spirlì

    «Ho già contattato i presidenti della Regione Calabria e Sicilia, potrebbero essere coinvolte le città metropolitane, le autorità portuali, comitati di associazioni di categorie». Il ministro delle Infrastrutture ritiene necessario «migliorare la collaborazione istituzionale, attraverso l’istituzione di un tavolo di natura tecnico-politica ma anche della società civile per la gestione dell’intero processo di realizzazione delle proposte individuate».

    Perché costruire il Ponte sullo Stretto?

    Perché costruire il Ponte sullo Stretto? Giovannni rimanda a «considerazioni socio-economiche legate anche agli andamenti negativi della popolazione, occupazione e Pil per l’area che sono decisamente superiori a quelli nel Centro-Nord e nello stesso Mezzogiorno».
    E quelle legate ai trasporti. «Il tempo medio di attraversamento attuale dello Stretto – ha detto il ministro Giovannini – è paragonabile al tempo di viaggio che un’auto impiega, se si considera anche il pedaggio, per percorrere dai 100 ai 300 km».

    Treni e navi più veloci

    Il ministro Giovannini ha previsto «la riqualificazione del naviglio per trasbordo ferroviario con 2 nuove navi di ultima generazione ed infrastrutture a terra». E in più è in programma «il rinnovo del materiale rotabile ferroviario con 12 nuovi treni e inserimento di batterie su 16 locomotori». In questo modo, eliminando la trazione diesel, «il trasbordo sarebbe più veloce fino a un’ora già dalla prossima estate».
    Previsto anche l’acquisto di «3 mezzi navali di nuova generazione con la Propulsione NLG/Elettrica e rinnovo delle flotte navali private». Giovannini ha aggiunto anche: «Saranno riqualificate le stazioni ferroviarie RFI di Messina, Reggio Calabria e Villa S. Giovanni e potenziamento e riqualificati gli approdi e le stazioni marittime».

  • Codice etico o conta dei voti? Bruni e Pd al bivio

    Codice etico o conta dei voti? Bruni e Pd al bivio

    La supercandidata civica Amalia Bruni ha iniziato a scaldare i motori in maniera aggressiva. Sa che deve recuperare terreno a sinistra, dove i Masanielli di de Magistris sono piuttosto avanti, e mettere in riga lo schieramento che si sta completando a fatica attorno a lei.
    La sua ricetta è piuttosto semplice: il civismo (a cui si è già accennato), appena curvato in chiave tecnocratica e dirigista, progressismo quel che basta e, ovviamente, tanta tanta etica, dentro e fuori i codici, proposti da Tansi e dal Pd.
    Ma l’etica è moneta usurata: l’ha invocata Roberto Occhiuto (che però si è limitato all’antimafia), la predica Tansi da due anni, è nel dna dei grillini (per il poco che pesano a livello territoriale), ne fa una bandiera il quasi ex sindaco di Napoli.

    Semmai, a questo punto, l’interrogativo vero è un altro: quanto potrà reggere tanto afflato di fronte ai compromessi che i big dovranno accettare, perché le liste si devono pur riempire e le elezioni si affrontano coi voti?
    «Io ci metto la faccia, quindi decido io», ha dichiarato la Bruni la sera del due agosto in occasione del suo primo bagno di folla a Lamezia.

    Ma la scelta dei candidati può essere una questione decisamente più prosaica: come si fa a dire no a chi si presenta con un carico di consensi? Ed è davvero così facile imporre regole ai partiti, che, anche se malridotti come il Pd calabrese, restano macchine organizzative di cui non si può fare a meno, soprattutto quando manca poco al voto?

    L’asticella

    Non è solo una questione di casellario giudiziale. Un altro aspetto determinante è quello, piuttosto grillino, del numero di mandati già svolti. Al riguardo, è praticamente certo che il centrosinistra della Bruni (come, del resto, quello dei Masanielli), abbia fissato in due il limite dei mandati. Detto altrimenti: chi ha fatto due mandati è dentro, chi più di due è fuori.

    Per quel che riguarda il Pd, l’esclusione eccellente sarebbe una: Carlo Guccione, che di mandati in Consiglio regionale ne ha svolti già tre. Il suo girovita, perciò, sarebbe piuttosto largo per passare sotto l’asticella. Viceversa, possono ballare tranquillamente il limbo Mimmo Bevacqua, Graziano Di Natale e altri centometristi del voto per frenare l’emorragia a sinistra.

    Questo limite, intendiamoci, non implica necessariamente il ricambio: Bevacqua, per esempio, prima di approdare a Palazzo Campanella, è stato dirigente di lungo corso della Margherita e poi del Pd e consigliere provinciale di Cosenza per altre due consiliature.
    Ma resta l’unica misura praticabile, per non sacrificare troppo l’esperienza politica – che sarà diventata un marchio d’infamia, ma serve – e, soprattutto, il legame coi territori.

    La partita cosentina

    A proposito di territori, la scienziata di Lamezia dovrà fare i conti con gli equilibri cosentini. Anche per questa tornata elettorale vale la regola secondo cui la Regione si vince o si perde a Cosenza, dove il Pd vanta ancora buoni numeri, sia a livello provinciale sia a livello cittadino.
    E il problema che le si pone non è piccolo né leggero, visto che il capoluogo andrà anch’esso al voto. Quindi, quel che succederà alle Amministrative cosentine sarà determinante per i risultati regionali.

    Si è già parlato, a proposito della corsa a Palazzo dei Bruzi, del ticket tra Franz Caruso, principe del Foro ed esponente storico dell’area socialista, e Bianca Rende, esponente dell’ala popolare (leggi: ex Dc) e vicina alla famiglia Covello. Questo ticket avrebbe la benedizione dei vertici Dem cosentini, in particolare di Francesco Boccia.

    Ma la partita non finisce qui, perché c’è un’altra presenza illustre che scalpita per giocarsi la partita a sindaco: Giacomo Mancini, che avrebbe ancora la benedizione di Tommaso Guzzi, segretario del IV circolo cittadino del Pd, che racchiude i seguaci di Carlo Guccione. La candidatura dell’ex assessore regionale avrebbe avuto la benedizione, tra le altre, di Marco Miccoli, ex commissario del Pd, uscito di scena dopo la sconfitta a Roma.
    Ma tutto lascia pensare che la mente dell’operazione sia stato Carlo Guccione.

    Il vespaio

    Parlare di Guccione a Cosenza significa evocare un attrito di lunghissimo corso: quello tra l’ex assessore di Oliverio e Nicola Adamo.
    I maligni, che coincidono coi bene informati, sussurrano che i due big abbiano messo da parte i vecchi livori, in seguito alla dissidenza di Mario Oliverio, che si appresterebbe a travasare i candidati e gli uscenti di Dp (la storica lista civetta dei centrosinistra calabrese e cosentino) nella coalizione di De Magistris.
    Questa dissidenza mutila senz’altro l’area Pd nell’enorme territorio provinciale, dove l’ex governatore è stato sempre fortissimo e popolare. Ma lascia campo libero nel capoluogo, dove il big resta Nicola Adamo, che, pur non occupando da un pezzo posizioni istituzionali e a dispetto dei guai giudiziari, mantiene un forte ascendente.

    Per venire a capo di tanta complessità, è importante completare la mappa politica. Franz Caruso è legatissimo da sempre a Luigi Incarnato, ex assessore dell’era Loiero, commissario della Sorical e segretario regionale del Partito socialista. Incarnato, a sua volta, è vicino ad Adamo, col quale ha collaborato a stretto contatto sempre, soprattutto nelle situazioni più delicate.

    Basti ricordare quel che accadde nel 2011, quando il Pd si spaccò in due in seguito alla lite tra Oliverio e Adamo: Incarnato mise a disposizione il marchietto del Psi per accogliere i candidati del Pd che non si erano allineati alla scelta di appoggiare la candidatura a sindaco di Enzo Paolini (allora “campione” di Oliverio e Guccione) e sostenne la ricandidatura di Salvatore Perugini. Sembra un secolo fa, ma certe dinamiche di provincia sono dure a modificarsi.
    Mancini, al contrario, è un outsider, che tenta per la terza volta la candidatura a sindaco, sulla base della sua tradizione ed esperienza politica.

    Il nodo si scioglie?

    A questo punto si capisce benissimo come dietro le candidature di Caruso e Mancini covino le dinamiche tra Adamo e Guccione. Se davvero i due, come sussurrano i malevoli, hanno fatto pace, una candidatura è di troppo.
    Tramontata l’ipotesi della coalizione sociale vagheggiata da Miccoli, che avrebbe dovuto includere le sinistre radicali e i movimenti civici, prende quota la candidatura di Caruso. Anche senza ticket perché, si apprende da credibilissime voci, Bianca Rende (che tra l’altro non risulta iscritta ad alcun partito) non sarebbe disposta ad accettare il ruolo di vice.

    A favore della candidatura dell’avvocatissimo pende anche un sondaggio commissionato da Boccia, che lo darebbe per favorito. Ovviamente, questo sondaggio non è stato accolto bene da tutti. E, anzi, qualcuno lo avrebbe contestato. In particolare, Luigi Aloe, coordinatore cosentino dei Cinquestelle, e Saverio Greco, altro socialista storico vicino da sempre a Giacomo Mancini. Una rondine non fa primavera. E nemmeno due, considerato che si vota in autunno.
    Come nei film e telefilm Highlander, ne resterà solo uno. Anche perché sulla candidatura di Caruso reggono (ancora…) gli equilibri cosentini e le loro importanti proiezioni sulle Regionali.

    Verso palazzo Campanella

    I dolci (magnifici i cannoli) e i gelati in riva allo Stretto sono irrinunciabili per chiunque faccia politica in Calabria.
    Ad esempio, lo sono per Franco Iacucci, sindaco storico di Aiello Calabro con un importante passato nel Pci, presidente della Provincia di Cosenza. Oliveriano storico, ha rotto col suo leader e cerca di trovare la propria nicchia nel Pd sgombro dall’illustre sangiovannese. In prima battuta, Iacucci portava (e porta tuttora: è solo questione di convinzione) Felice D’Alessandro, attuale sindaco di Rovito e consigliere provinciale di Cosenza. D’Alessandro, forte di un buon risultato alle Regionali 2020 preso proprio nel capoluogo, carezzerebbe l’idea dell’assalto a Palazzo dei Bruzi.

    Tuttavia, la pax Adamo-Guccione ha il suo peso. E, soprattutto, una posta: le liste per il Consiglio regionale. Iacucci, infatti, sarebbe l’erede di Guccione a palazzo Campanella. Adamo, invece, carezza ancora l’idea di mandare la deputata Enza Bruno Bossio (che, come sanno anche i muri, è sua moglie) in Consiglio regionale.
    Nessuno dei due è fresco di politica, non Iacucci né la Bruno Bossio. Ma entrambi hanno due elementi a favore, a prova di codice etico: nessun incidente giudiziario in corso né una presenza, se non da “turisti politici” nel palazzone reggino.

    La forma è salva, almeno per Bruni e Tansi, gli unici ad aver parlato di codice etico.
    Tant’è: le guerre e i matrimoni nascono sempre dalle passioni. Le paci, invece, dagli interessi e dalle necessità. E l’area del Pd ne ha almeno tre: limitare i danni, che comunque ci saranno (e non pochi), tutelare posizioni politiche e tenere più caselle possibili, in attesa di tempi migliori (e, al momento, per soddisfare le indicazioni romane).
    Il dissestato Comune di Cosenza, in questo casino, può diventare benissimo la classica Parigi che vale una messa…

  • Comunali Cosenza, Franz Caruso non è il candidato dei grillini

    Comunali Cosenza, Franz Caruso non è il candidato dei grillini

    Franz Caruso non è il candidato dei grillini alle elezioni comunali di Cosenza. Alle 11:30 di oggi è così. Lo conferma, Luigi Aloe, coordinatore cittadino del Movimento 5 Stelle per la campagna elettorale. «Ho una stima enorme per il professionista, però – prosegue Aloe – i percorsi politici restano incompatibili». Stessa cosa vale per «Giacomo Mancini» – sottolinea.

    A sinistra del Pd tutti contro il penalista

    Il M5S non è solo in questa guerra dei veti. Contro la candidatura dell’avvocato socialista si schierano pure Cosenza in Comune, Buongiorno Cosenza, Progetto Meridiano, What women want, Controcorrente, Pse. Sigle pronte a mettere sul tavolo di una eventuale trattativa con il Pd i nomi di Valerio Formisani, Bianca Rende e Sergio Nucci. Questo è emerso dalla riunione di ieri nella sede della Cgil. Tra i commensali della serata anche il Movimento 5 stelle.

    L’incontro on line con i parlamentari del M5S

    La posizione del coordinatore Luigi Aloe e le decisioni prese nella riunione di ieri con le altre sigle saranno discusse oggi on line. Una riunione alla quale parteciperanno i deputati Anna Laura Orrico, Alessandro Melicchio e Massimo Misiti. In collegamento da Bruxelles interverrà anche l’europarlamentare Laura Ferrara. Da Cosenza si collegheranno gli attivisti. Particolarmente agguerriti.

    Boccia non ci ascolta

    Con il commissario del Partito democratico, Marco Miccoli, era un’altra musica per il Movimento 5 Stelle. Francesco Boccia ha cambiato sinfonia. Il coordinatore del M5S, Lugi Aloe: «Noi abbiamo proseguito la nostra collaborazione con il Pd rispettando le regole di ingaggio». E poi? «Boccia ha interloquito separatamente con ogni formazione politica, con Miccoli le candidature erano state azzerate per fare sintesi».

    Il sondaggio che divide

    Il sondaggio commissionato dal Pd ha alimentato la rabbia dei grillini. Sono stati sottoposti ai cittadini «nomi del M5S che non possono essere presenti perché non candidabili in base al nostro statuto» – puntualizza Aloe. Si riferisce al senatore Massimo Misiti, nome circolato insieme a quelli di Franz Caruso e Bianca Rende proprio nel sondaggio commissionato dal Pd.

    La guerra dei voti

    Non è solo una questione di sigle. Sul tavolo peserà pure la consistenza elettorale dei protagonisti. Il blocco composto da grillini, associazioni e sinistra può dire la sua anche da questo punto di vista? E orientare Il Partito democratico verso la cancellazione delle candidature in atto? Candidature, peraltro, non ancora ufficializzate.

  • Cosenza, stavolta ci siamo: sarà Serie B

    Cosenza, stavolta ci siamo: sarà Serie B

    La notizia che tutti a Cosenza aspettavano è arrivata. Con tutta calma, ma è arrivata. Il Chievo è fuori dalla serie B e dal calcio professionistico, respinto anche dal Tar del Lazio il suo ricorso per chiedere l’iscrizione al campionato. Troppe le inadempienze dei veronesi con il fisco, anche il tribunale amministrativo ha confermato quanto già ampiamente sancito dalla giustizia sportiva. Niente più X sul calendario della Serie B 2021/2022, la casella finora vuota ha un nuovo inquilino: la società di Eugenio Guarascio.

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    La decisione del Tar sull’istanza presentata dal Chievo

    Si chiude così una telenovela prolungatasi fin troppo, per la strana decisione della Figc di non dare seguito immediato a quanto stabilito a più riprese dai suoi organi a luglio. Una prudenza, quella di Gabriele Gravina e i suoi, apparsa ingiustificata agli occhi di molti e rivelatasi superflua. La decisione della sezione I-Ter del Tar del Lazio non si discosta da quelle già arrivate, per cui niente sospensiva al provvedimento di esclusione come richiesto dal Chievo. Niente procedura d’urgenza come volevano i veneti. Infondato il reclamo avverso la sentenza emessa dal Collegio di Garanzia dello Sport del Coni. Il provvedimento fissa l’udienza in camera di consiglio nei tempi stabiliti dal giudice. Ora la Figc dovrà ratificare la decisione, poi per il Cosenza sarà serie B.

    Sarà la quarta stagione consecutiva per i Lupi tra i cadetti, la seconda di fila per merito dei gialloblù. La penultima stagione, infatti, si era chiusa in trionfo grazie a un goal last minute del clivense (ma cosentinissimo) Luca Garritano, che aveva evitato al Cosenza i playout dopo una rincorsa da record. In quest’ultima, invece, è stato l’autogol di Campedelli e i suoi a spalancare le porte per una permanenza in B che il Cosenza non aveva fatto nulla per meritare sul campo.