La malavita ha tolto la vita a Luigi Gravina trentanove anni fa, ora il Comune di Paola potrebbe ucciderne il ricordo rimuovendo la scultura in sua memoria dal luogo dell’omicidio per spostarla chissà dove. A denunciarlo sono Luigina Violetta, la vedova di Gravina, e i suoi figli con una lettera indirizzata al sindaco Roberto Perrotta e al segretario generale della cittadina tirrenica.
Dal luogo del delitto a chissà dove
La signora racconta che a contattarla in questi giorni sarebbe stato un dirigente comunale, Fabio Iaccino, informandola della volontà dell’amministrazione di spostare la statua da via Nazionale – lì dove uccisero Gravina – e sollecitandola a collaborare «al fine di individuare con urgenza altra zona della città idonea ove spostare la scultura». Una proposta, questa, che non poteva che cogliere di sorpresa i familiari della vittima, che vorrebbero comprenderne le ragioni.
Stesso sindaco, idee diverse
L’aspetto più singolare della vicenda è che a volere quella scultura, la cui inaugurazione risale al 2004, in quel punto era stato proprio lo stesso Perrotta, all’epoca come oggi sindaco di Paola. A quei tempi l’amministrazione comunale scrisse di avvertire «in maniera molto forte, l’esigenza di onorare il ricordo del compianto Luigi Gravina, figlio di questa terra, deceduto tragicamente a Paola il 25.3.1982, per mano mafiosa, essendosi rifiutato, reiteratamente e con forte determinazione, di cedere alle insistenti e minacciose richieste estorsive della criminalità organizzata locale».
La cerimonia inaugurale
Il movente del delitto, infatti, era stato il coraggio di Gravina, allora 33enne, di denunciare i malavitosi che si erano presentati per estorcergli denaro in cambio di protezione. L’artigiano pagò quel rifiuto col sangue. E la sua città, seppur con grande ritardo, decise di omaggiarlo preservando la memoria di quella scelta letale. Era il 25 aprile del 2004 e all’inaugurazione, oltre ai familiari parteciparono in tanti oltre ai familiari. C’era Perrotta ovviamente e con lui Jole Santelli, all’epoca sottosegretario alla Giustizia, l’ex presidente della Camera Luciano Violante, l’allora procuratore capo Luciano d’Emmanuele, l’Avvocato generale dello Stato f.f. Francesco Italo Acri, gli ex sindaci Antonella Bruno Ganeri e Giovanni Gravina. Ma anche un’altra donna del Tirreno cosentino che aveva perso il marito per mano della ‘ndrangheta, la vedova di Giannino Losardo.
Le ultime parole famose
In quell’occasione Perrotta pronunciò parole che la signora Violetta ancora ricorda: «Con tutto il dolore che può esistere – disse il sindaco quel pomeriggio – io vorrei essere sempre il figlio di chi è stato ucciso e non di chi ha ucciso. A Luigi va il nostro ricordo, il nostro pensiero e la nostra gratitudine per aver trovato il coraggio della denuncia. Era una persona affettuosa e un artigiano onesto; la sua morte violenta e crudele ci fa sentire ancor più vicini alla sua famiglia, a cui va tutto il nostro calore. Quanto accaduto non deve succedere più soprattutto nella città di san Francesco, dove un fatto di questi è mille volte più scandaloso. Paola vuole essere una città civile che vive così come il suo grande primo cittadino ci ha insegnato».
Un passo indietro delle istituzioni
Non è dato sapere cosa penserebbe il santo paolano del trasferimento della scultura a distanza di 17 anni fa. Né si può conoscere il suo giudizio sulla profanazione, era il 2012, di due targhe dedicate allo stesso Gravina in ricordo della sua morte. In quel caso i colpevoli erano dei vandali, stavolta è il Comune e alla famiglia della vittima la scelta del municipio è andata di traverso: «Spostare quel simbolo antimafia in altro luogo, significherebbe, a nostro avviso, svilire la figura di Luigi Gravina e indebolire la lotta alla mafia. È come se la Istituzione si fosse in un certo senso tirata indietro, togliendo lustro all’iniziativa di allora».
«L’attacco criminale al patrimonio naturale della terra di Calabria ha interessi precisi e individuabili. C’è necessità di massimo impegno nel controllare il territorio ed individuare mandanti ed esecutori di questa tragedia». Il sindaco di Napoli e candidato alla presidenza della Regione, Luigi De Magistris, ne è sicuro. Dietro l’ondata di incendi che, ormai da settimane, investe la Calabria, vi sarebbero una strategia e un disegno. De Magistris, tuttavia, non indica alcunché di ulteriore rispetto alla grave affermazione. Elementi che, al momento, non sembrano essere concreti.
I boss e la montagna
Ma c’è un dato certo: da decenni, ormai, i boschi calabresi sono stati conquistati dal crimine. Comune e organizzato. Non può essere dimenticato il sangue versato nell’ambito della “faida dei boschi” scoppiata tra gli anni ’70 e gli anni ’80 tra le famiglie di ‘ndrangheta nel territorio montano a cavallo delle province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria. Che poi ha avuto una recrudescenza anche negli anni 2000, con gli ultimi delitti fino al 2013.
Gli incontri riservati
Negli anni e progressivamente, lo Stato ha lasciato, centimetro dopo centimetro, ettari ed ettari di macchia calabrese. Che è diventata terreno congeniale per effettuare incontri riservati di ‘ndrangheta, come dimostrato fin dal 1969 con il summit di Montalto, dove cosche e destra eversiva progettavano piani criminali. O per nascondere latitanti. Magari per sotterrare armi ed esplosivi. O per installare enormi e fiorenti coltivazioni di marijuana. I ritrovamenti, da parte delle forze dell’ordine, sono pressoché quotidiani. Ed è quindi, impossibile, fornire un quadro d’insieme su un fenomeno gigantesco.
Le vacche sacre
L’intervento sui boschi, in Calabria, ha percorso due strade. Prima l’antropizzazione delle campagne. Con interventi che le hanno disboscate e devastate. Poi la desertificazione del territorio, che, quindi, ha portato a migliaia di ettari sostanzialmente incontrollati. O, meglio, controllati dal crimine organizzato, soprattutto. La ‘ndrangheta. Anche il fenomeno delle “vacche sacre”, sempre in maggiore aumento, si inquadra in questo sistema in cui i boschi e le campagne sono ormai lasciati alla mercé del crimine e del malaffare.
Il re della montagna
Non è un caso che, negli anni, l’Aspromonte, più che scenario di bellezze paesaggistiche, ambientali e animali, sia stato prima teatro di numerosi sequestri di persona. Dove, peraltro, si sono sperimentate le peggiori alleanze e trattative tra Stato e ‘ndrangheta. Poi ambienti ideali dove nascondere i latitanti. E, infatti, uno dei boss più importanti che la ‘ndrangheta abbia mai avuto, Rocco Musolino, era soprannominato il “re della montagna”. Il suo feudo era Santo Stefano in Aspromonte, lì dove Gambarie doveva diventare una grande meta turistica e sciistica. E dove, in alta stagione invernale, non funziona nemmeno la seggiovia. Don Rocco Musolino, massone, in contatti di affinità con alti magistrati, è morto alcuni anni fa. Senza condanne definitive per ‘ndrangheta. Nel proprio letto, come nelle migliori tradizioni criminali.
Il business dei terreni
Quando, poco prima di Ferragosto, il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, è sceso in Calabria per monitorare la drammatica situazione di quei giorni, ha stimato in circa 11mila gli ettari bruciati sul territorio. Ovviamente, nei dieci giorni successivi il dato è certamente aumentato. Anche se non possediamo cifre ufficiali.
È indubitabile che la maggior parte dei roghi sia di origine dolosa. Ma è ormai sempre più marginale il fenomeno dei piromani isolati, che appiccano il fuoco a causa della loro patologia e che amano crogiolarsi nel disastro causato. Molto più preoccupante è ciò che può riguardare i tentativi di lucro sui terreni. E, ovviamente, un territorio in larghi tratti incontrollato e disabitato, dove è ormai saltato da anni il sistema di controllo, anche un piccolo focolaio viene scoperto in enorme ritardo. Quando la situazione è già ampiamente compromessa.
Le autorizzazioni in Regione
Poco più di un anno fa, gli investigatori hanno effettuato un accesso agli atti degli uffici della Regione Calabria, per verificare se i tagli effettuati nei boschi calabresi siano in numero superiore rispetto alle autorizzazioni rilasciate. Un meccanismo abbastanza rodato è quello delle aste boschive per poter lucrare sulla vendita del legame.
Le ‘ndrangheta tra i boschi della Sila
L’altopiano della Sila e suoi boschi sono zone franche. I controlli pressoché inesistenti. E, quindi, bocconcini succulenti per la ‘ndrangheta. Una recente inchiesta della Dda di Catanzaro avrebbe dimostrato come i boschi della Sila fossero nella loro totalità ad appannaggio delle cosche di ‘ndrangheta. Con il monopolio del taglio boschivo. Perché l’enorme fenomeno di disboscamento abusivo delle foreste calabresi non indica un’assenza di controllo di quei luoghi. Bensì l’esatto opposto. Se si taglia, se si disbosca, se si porta via la legna, è perché qualcuno lo permette. Accadeva in Sila con gli imprenditori Spadafora, coinvolti nel maxiprocesso “Stige”. Anche grazie alla presunta complicità del maresciallo Carmine Greco, ex comandante della stazione forestale di Cava di Melis, nel Comune di Longobucco. Un soggetto attorno a cui ruotano vicende torbide che hanno coinvolto o sfiorato anche magistrati.
Il lucro sui terreni bruciati
Proprio dalle carte raccolte sul conto di Greco, emergerebbe il ruolo degli Spadafora in un affare che riguarda l’acquisizione di un bosco molto grande. Che era stato recentemente aggredito da un incendio. Ecco il meccanismo di lucro sui terreni bruciati. L’area, per essere tagliata, aveva bisogno di una autorizzazione regionale. Che doveva poi prevedere anche la possibilità di una nuova semina per il rimboschimento. L’interesse dei gruppi criminali sui terreni interessati dagli incendi è fatto notorio, anche attraverso stime al ribasso dei terreni. Dietro il disastro che ad agosto ha (fin qui) causato sei vittime in Calabria, potrebbe esserci proprio questo business. Sempre in uno dei filoni d’indagine sul conto di Greco, degli Spadafora e della ‘ndrangheta dei boschi, è stata ritrovata contabilità occulta riguardante i profitti realizzati col traffico di materiale nelle centrali a biomasse.
Un forestale ogni 190 abitanti
Figure mitologiche. Al centro di scandali, ma anche tanta ironia sul web. Sono gli operai forestali calabresi. Uno studio di qualche anno fa, aveva dimostrato come fossero in un numero più elevato rispetto ai Rangers canadesi. Con proporzioni tragicomiche: un forestale ogni 190 abitanti, a fronte di un Rangers ogni 7800 abitanti. Figure istituite per risanare il suolo calabrese, devastato dalle alluvioni degli anni ’50. Ma la Sila, l’Aspromonte e il Pollino non sembrano aver beneficiato di tali figure. Anzi. Ogni anno il governo centrale doveva rifinanziare il settore e, ciclicamente, si aveva notizia di sprechi, malversazioni. Infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle schiere infinite.
Clientele e prebende
Trenta, forse quarantamila i forestali calabresi nei tempi d’oro. Come in ogni grottesca vicenda calabrese, la realtà si mischia alla leggenda. Attualmente sarebbero 3.000 gli operai che dipendono da Calabria Verde, l’azienda regionale che ha assorbito l’Afor. E poi circa altre 1700 unità tra i Consorzi di bonifica e i parchi. Insomma, molti di meno rispetto al passato. Ma costerebbero ancora circa un milione e mezzo di euro all’anno. E hanno un’età media di 60 anni. Segnalati, raccomandati. Talvolta con precedenti penali. Imboscati. Nel vero senso della parola. Al di là delle cifre, il problema è concettuale. I boschi calabresi (e ciò che ruota attorno a essi) sono stati, ancora una volta, una camera di compensazione per piazzare i propri uomini. Per fare clientele e pagare prebende. E, ovviamente, anche la ‘ndrangheta ha pasteggiato.
Le nomine dei Parchi
Le nomine dei presidenti dei Parchi, di scelta politica, spesso non mettono al riparo dalle ingerenze del potere. E tutto ciò, poi, porterebbe a una gestione talvolta carente, talvolta pedestre. Se si pensa che il Piano Antincendi del Parco Nazionale dell’Aspromonte, oggi presieduto da Leo Autelitano, verrà completato solo il 6 agosto scorso. Quando già le fiamme avevano avvolto ettari ed ettari di territorio. Degli 11mila ettari in fumo comunicati da Curcio prima di Ferragosto, ben 5.400 sarebbero quelli bruciati solo in Aspromonte.
Le presunte pressioni sul presidente del Parco
Sono di alcuni mesi fa le dichiarazioni rese in aula nel processo “Gotha” dall’ex presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte, Giuseppe Bombino. Ha riferito delle presunte ingerenze dell’allora consigliere regionale della Calabria e oggi deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro, per la nomina del Direttore del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Sponsorizzando un soggetto, nonostante questi non avesse i requisiti necessari per essere inserito nella terna di persone da sottoporre al Ministro per la nomina. Bombino avrebbe ricevuto pressioni sia da destra che da sinistra, anche su un soggetto ritenuto vicino all’ex assessore regionale, Demetrio Naccari Carlizzi: «Non volevo una persona locale alla direzione del Parco, perché temevo che più che rispondere al territorio potesse rispondere ai propri sponsor» – dirà in aula.
Attività predatoria sui fondi
Sempre in quell’occasione, l’ex presidente del Parco parlerà di una «assegnazione clientelare dei fondi» gestiti dall’Ente Parco. Secondo il suo racconto, in passato, le attività non venivano promosse secondo piani organici ma, al contrario, erano i singoli Comuni che, tramite associazioni e/o cooperative, richiedevano finanziamenti per attività di loro esclusivo interesse. L’ex presidente del Parco parlerà anche di «attività predatoria» sui fondi e di un metodo per «fregare l’ente pubblico per interessi localistici».
Forse il disastro dei boschi calabresi potrebbe avere come causa anche questo tipo di dinamiche.
D’accordo che siamo la patria di Cetto, ma qualche occhiatina al dizionario, anche distratta, non fa male. Ci aiuterebbe a capire, per esempio, che “civico” è sinonimo di “civile” o “urbano” e che il contrario di civico non è “partitico”, ma cafone, villico, in definitiva tamarro.
A questo c’erano arrivati già i picciotti di Stefano Bontate, che prima di farsi sterminare come le mosche, chiamavano viddani, cioè villici, i corleonesi di Luciano Liggio e Totò ’u Curtu. Ma questa è un’altra storia, grande e tragica, che riguarda ben altre classi dirigenti.
Quella cosentina, a partire dai problemi col vocabolario, è decisamente peggio.
Faccio danni quindi rivinco
Squadra vincente non si cambia, recita l’adagio. A Cosenza si va oltre e si mantiene quella perdente, con la quasi certezza di vincere.
Prendiamo il caso dell’amministrazione uscente. Forse non è del tutto colpa di Mario Occhiuto se il Comune è finito in default: lui aveva solo “ereditato” una situazione disastrosa, il famigerato debito mascherato di cui si era favoleggiato a lungo nei bar “che contano”. Tuttavia, la Corte dei Conti la pensa altrimenti. E ha pure condannato in primo grado Mario l’Archistar e una buona fetta del suo Stato Maggiore a risarcire danni erariali ai cosentini per altre vicende.
Un estratto della sentenza di primo grado con cui la Corte dei Conti nel 2020 ha condannato per danno erariale Mario Occhiuto, parte della sua Giunta e alcuni ex dirigenti per spese relative allo staff del sindaco
Normalmente, l’esperienza di Occhiuto finirebbe archiviata perché i cittadini, stanchi delle tasse a palla, girerebbero i propri consensi altrove. Anche a dispetto del fatto che il fratello Roberto Occhiuto sia l’aspirante governatore regionale in predicato di vincere.
Invece no: a Cosenza manca l’“altrove” a cui rivolgere consensi e su cui sfogare dissensi e mal di pancia più o meno motivati. Per le deficienze dell’attuale centrosinistra la città rischia di assistere allo spettacolo non bellissimo del 2016, quando Mario l’Archistar vinse in maniera bulgara a dispetto della sfiducia del Consiglio comunale, a cui si associarono elementi importanti della sua stessa maggioranza.
Solo che allora qualche scusa per la disfatta c’era. Ad esempio, c’era la prepotenza di Renzi, che aveva imposto Lucio Presta in un sussulto di fighetteria. E ci fu la candidatura tardiva di Carlo Guccione, già logorato dai suoi alti e bassi nell’amministrazione regionale Oliverio, che non riuscì ad assicurare nemmeno l’onore della bandiera.
Ora non c’è alcuna pezza. Ci sono solo gli appetiti dei big che mirano a ritagliarsi spazi e ruoli, col metodo più facile (e vecchio): sputano veleno sui partiti, che nei loro confronti hanno solo la colpa di non elargire abbastanza. In termini di potere, si capisce.
La quadra dei partiti
Una cosa va detta: gli Occhiuto non sono fessi, quindi non faranno a meno delle sigle di partito, che utilizzeranno forse con le solite accortezze un po’ tamarre: Forza Cosenza per far capire che è Forza Italia, Fratelli di Cosenza, Lega Cosenza ecc.
D’altronde, non potrebbero eliminarle neppure se volessero: la legittimazione civica per loro è difficile, dopo lo sfascio del Comune, e in questo settore c’è chi è più “bravo” di loro. Ad esempio, Francesco De Cicco, la cui candidatura è civica perché non riesce a essere politica neppure sotto sforzo; lui è il punto zero della politicità.
A chi storce il naso è possibile obiettare che De Cicco è il civismo su misura di una città invecchiata, in decrescita demografica e in arretramento culturale, in cui il ceto medio si è assottigliato paurosamente.
Il problema vero per chi aspira a riprendersi il territorio dopo un decennio di lamentele improduttive e di opposizione più urlata che fattiva, è la mancanza di fisionomia politica.
Già: perché i cosentini dovrebbero votare chi non è carne né pesce, e magari deve tutto al sistema da cui prende le distanze?
L’interrogativo non riguarda, ovviamente, Franz Caruso, che è contentissimo di essere candidato a sindaco dal Pd e dal Psi, dopo anni di tentativi elettorali e di presenze nelle istituzioni coi marchietti socialisti e post socialisti.
Il problema è che dietro Caruso ci sono (e, se non cambia qualcosa, ci saranno) Nicola Adamo, Carlo Guccione e Luigi Incarnato. Ovvero, tre spezzoni della sinistra che ha gestito potere. Il che, in parole povere, si traduce in poche briciole per tutti gli altri.
Una post democristiana civica
Bianca Rende ha attribuito la sua candidatura a Palazzo dei Bruzi alle esortazioni del gruppo What Women Want, di cui lei fa parte. Una roba civica e neofemminista, insomma.
Eppure, la Rende ha legami più che solidi con la politica, che datano alla Prima Repubblica più “profonda”. Suo padre Piero è stato un big di lungo corso della Dc, quando la Dc dettava le regole e dava le carte a tutti i tavoli, anche quelli comunisti.
Lei stessa ha aderito al Pd, nella sua cosiddetta “area popolare”, il centro di stoccaggio per orfani e cuccioli della Balena Bianca.
Eletta nella lista del Pd alle elezioni del 2016, Bianca Rende punta a succedere a Occhiuto come rappresentante del civismo
E c’è stata in buona compagnia: quella di Stefania Covello, figlia del superbig democristiano Franco Covello e anch’essa protagonista di una carriera non proprio piccola, vissuta a cavallo tra centrodestra e centrosinistra. Un’esperienza in consiglio comunale tra i banchi di Forza Italia, eletta parlamentare nel Pd, Stefania ha saltato il fosso e ha aderito a Italia viva, trascinando con sé Bianca.
Peccato solo che quello di Renzi sia un gruppo parlamentare molto coeso che, tuttavia, pesa poco nella società civile. Detto altrimenti: difficile negoziare qualcosa di serio se il proprio referente romano è l’ex premier. Meglio giocarsi la carta del civismo, magari con l’aiuto della famiglia Covello.
Con lei ci sarebbero, per quel che pesano, anche i Cinquestelle cosentini. In realtà ci sarebbe pure Carlo Tansi, che pesa altrettanto, ma ingombra di più.
Giusto una curiosità: non era proprio Bianca Rende quella che tuonava dalle colonne del Quotidiano del Sud nel 2018contro i finti civici, responsabili a suo dire di generare indisciplina e mettere a repentaglio la governabilità?
Sergio Nucci, l’irriducibile centrista
A Sergio Nucci molti giornalisti devono dire grazie, perché con il suo sito ha letteralmente rimpiazzato l’albo pretorio del Comune e rimpinzato i cronisti di tutti i documenti relativi agli strafalcioni dell’amministrazione Occhiuto.
Anche il dentista cosentino è civico. S’intende: nella misura in cui possono essere civici gli esponenti del notabilato politico che non trovano spazio adeguato nei partiti.
Nucci, infatti, respira politica da sempre, grazie alla Dc in cui aveva militato e in cui vanta una parentela illustre: quella con Annamaria Nucci, la compianta ex deputata Dc e poi Ppi e donna forte dell’esecutivo Perugini.
Crollata la Prima repubblica, il Nostro si è posizionato prima nell’area manciniana e poi si è messo in proprio in nome del civismo: nel 2011 si è candidato a sindaco alla guida di una minicoalizione, in cui, oltre alla sua associazione Buongiorno Cosenza, c’erano due liste partitiche: i finiani di Fli e i rutelliani di Api.
Forte di un buon consenso, il Nostro ha appoggiato Mario Occhiuto al ballottaggio e poi, a causa di una negoziazione finita male, è passato all’opposizione. Ora ci riproverebbe, più civico che mai. Non si sa mai che uno dei due Caruso (Franz o l’occhiutiano Francesco) risulti più malleabile…
Marco Ambrogio, dal postcomunismo all’infinito
Anche Marco Ambrogio è un altro civico per autoproclamazione. Il giovane avvocato cosentino vanta, tuttavia, una gavetta forte e radici familiari importanti negli ambienti postcomunisti. È parente di Franco Ambrogio, già eminenza grigia del Pci e poi regista delle successive trasformazioni dei compagni (anche di merende…) fino al Pci.
Forte di un certo radicamento nella sua Donnici, a cui vorrebbe restituire la circoscrizione, Ambrogio Jr è stato assessore con Salvatore Perugini e capogruppo del Pd. Poi ha tentato il colpaccio nel 2014, schierandosi con Gianluca Callipo in occasione delle primarie per la scelta del governatore.
Di fatto, si è tarpato le ali da solo. Ma, tra una cosa e l’altra, è riuscito a impalmare Rosaria Succurro, assessora di Occhiuto (e condannata assieme a lui per danno erariale) nonché attuale sindaca di San Giovanni in Fiore.
L’avvocato cosentino è riuscito a rientrare in Consiglio comunale candidandosi con Carlo Guccione in una lista civica. Civico per civico, ora balla da solo. Non si sa mai che la vicinanza indiretta con Occhiuto, propiziata dal talamo nuziale, non torni utile…
Giacomo Mancini, l’evergreen postsocialista
Giacomo Mancini riscuote ancora simpatia, affetto e qualche consenso nella sua roccaforte del centro storico. Ovviamente, tutto questo non basta per motivare una sua candidatura a sindaco al di fuori dei partiti, nei quali, invece, si è mosso alla grande e con forti risultati.
È stato consigliere comunale nel gruppo socialista quando ancora era forte la nostalgia per suo nonno, il vecchio Giacomo, ed è diventato deputato con la Rosa nel pugno, il partitino radicalsocialista messo in piedi da Daniele Capezzone.
Al pari del suo leader, ha saltato il fosso nel 2008, quando l’agibilità del centrosinistra era agli sgoccioli. Giusto in tempo per diventare assessore con Peppe Scopelliti. Il ritorno a sinistra non gli ha portato molto bene, visto che non è riuscito a tornare a Montecitorio nel 2018. Peccato, perché rispetto ad altri Giacomo è almeno presentabile. Il suo tentativo di candidarsi a sindaco sarebbe motivato, secondo i bene informati, da alcune proposte arrivategli da una parte del Pd. Ma dopo che Guccione e Adamo hanno fatto pace, nel partito di Letta lo spazio è esaurito.
Il suo civismo è quello di chi non ha più partiti: li ha finiti tutti.
Formisani: a volte i compagni ritornano
Come tutti i neocomunisti, anche Valerio Formisani ha una tendenza a spaccare l’atomo.
Lo prova il comunicato con cui i vertici cosentini di Sinistra Italiana hanno lanciato la candidatura in solitaria del “medico del popolo”, che ha contribuito a far saltare il tavolo del centrosinistra.
A Formisani, già vicino a Rifondazione e poi a Vendola, si può rimproverare tutto fuorché l’opportunismo: fa il “civico” il minimo indispensabile per evitare di dar fastidio ai compagni e cercare di prendere qualche decimale in più per arrivare almeno in Consiglio comunale. È poco. Ma quando si spaccano gli atomi, ciò che conta è sopravvivere alle esplosioni e alle radiazioni. E l’amministrazione? Un’altra volta.
Occhiuto è vivo
Se il centrosinistra continua così, Mario Occhiuto rischia di fare il suo terzo mandato come sindaco ombra del suo attuale vice.
Ma tutto si può rimproverare all’Archistar fuorché l’incoerenza: perseguire un progetto di potere non è un reato. E conseguire una vittoria perché il campo avversario gliela propizia non è un crimine.
E allora: il contrario di “partitico” non è “civico”. Ma il contrario di “civico” è senz’altro “incivile”, in tutti i significati possibili. E si è incivili anche quando ci si traveste, per infiltrarsi nei partiti e, appunto, spacciarsi per “civici”.
Già: incivile è anche chi vuol male alla propria città.
Se a Vibo i trasversalismi potrebbero essere oggetto di studi antropologici,Catanzaro è certamente la capitale dell’eterno ritorno. Il passato che non passa, nel capoluogo di regione, lo incarna uno come Sergio Abramo che sembra sia sindaco, oltre che presidente della Provincia, da sempre e per sempre. È però convinzione comune che il bottino grosso sia alla Regione. Dunque, in vista delle elezioni del 3-4 ottobre, sono in tanti, tutti arcinoti, a sgomitare per piazzare la propria bandierina nell’Astronave di Palazzo Campanella. Ecco alcuni profili di chi fuori dai giochi non riesce proprio a stare ed è già a caccia di una riconferma o (appunto) di un ritorno nella politica che conta.
Sergio Abramo, sindaco di Catanzaro
Due big ingombranti
Tra i più ingombranti, nel centrodestra, ci sono due big che già nel 2020 hanno giocato un ruolo di primo piano. E che anche a distanza di un anno e mezzo, magari a ruoli invertiti, sono pronti a dare spettacolo. Si tratta di Mimmo Tallini e Claudio Parente, eminenze azzurre del capoluogo che hanno attraversato alterne fortune mantenendo, sempre e comunque, ampi pacchetti di voti. Di Tallini si sa: è stato “incandidabile” secondo l’Antimafia e, nonostante l’Antimafia, è stato candidato, eletto e pure incoronato – con un aiutino dal centrosinistra – presidente del consiglio regionale.
Poi la bufera giudiziaria lo ha investito con “Farmabusiness”, ma il Riesame e la Cassazione hanno detto che non doveva andare ai domiciliari. È tornato a Palazzo Campanella da consigliere semplice, ha battagliato spesso col facente funzioni Nino Spirlì ma, nel frattempo, si è indebolito sul fronte interno. Politicamente è certo che venderà cara la pelle. Ma se vorrà essere candidato oppure puntare su qualcun altro o su un patto di ferro proprio con Parente è difficile dirlo. Perché a Catanzaro ognuno si impegna a far apparire sempre il contrario di quello che realmente è.
Un Parente alla Regione
In molti danno lo stesso Parente come già dentro la lista ufficiale di Forza Italia. «Nel 1997 – si legge in una sua biografia sul sito del consiglio regionale – ha rinunciato alla carriera universitaria per intraprendere la libera professione di medico specialista ed avviare e dirigere diverse iniziative imprenditoriali di successo nel settore sanitario. Dall’anno 2016 presiede il Movimento Politico Sociale “Officine del Sud”».
Claudio Parente, presidente Officine del Sud
Dei suoi interessi diretti o indiretti nella sanità privata si è parlato molto a proposito del boom di contagi a Villa Torano, ma anche il suo movimento gli dà un po’ da pensare: il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri vuole mandarlo a processo per peculato assieme a due “suoi” consiglieri comunali. Al centro dell’inchiesta c’è una convenzione firmata tra l’amministrazione comunale e la “Vivere Insieme”, società che ha fondato proprio Parente e di cui il politico, nonostante le dimissioni, avrebbe mantenuto secondo l’accusa la gestione e il controllo.
L’Udc piglia tutti
Il sito istituzionale del Comune di Catanzaro lo dà ancora come capogruppo di «minoranza» ma per le Regionali è già ufficialmente passato dall’altra parte. Se mai si dovesse indicare un corrispondente politico maschile di Flora Sculco (ancora all’opposizione in consiglio regionale ma già candidata col centrodestra) si chiamerebbe Sergio Costanzo. Con lei condivide la caratteristica di stare sia da una parte che dall’altra ma anche l’essere una new entry di un partito che dei “due forni” ha fatto un tratto identitario: l’Udc.
Sergio Costanzo, new entry nelle file dell’Udc
Nel 2014 si presentò a sostegno di Mario Oliverio con “Calabria in rete” e proprio la Sculco, nonostante le sue 6687 preferenze, gli soffiò il posto in Consiglio. Nel 2020 provò a bazzicare ancora dalle parti del centrosinistra ma non trovò sponda nella coalizione guidata allora da Pippo Callipo. Gli fu preferito Libero Notarangelo (Pd) che lo ha poi nominato suo segretario particolare.
C’è anche un’ombra che lo insegue da tempo, ma va detto che non è indagato per niente che abbia a che fare con reati di mafia: è cugino di Girolamo Costanzo, noto come “compare Gino”, storico capoclan dei Gaglianesi. In alcune intercettazioni contenute in “Farmabusiness” si parla di una presunta “ambasciata” partita dal carcere di Opera, ancora tutta da verificare in sede di indagine, per farlo votare.
Bruno, un delfino tra le correnti
Si riaffaccia sul fronte del centrosinistra un volto non proprio nuovo come quello di Enzo Bruno. Partito da Vallefiorita, bazzicava la Provincia di Catanzaro già alla fine degli anni ’90, quando guidava anche la Comunità montana “Fossa del lupo”. È stato poi eletto presidente dell’ente intermedio per il Pd nel 2014 e saltella tra le correnti dem con la naturalezza di un delfino che attraversa lo Stretto: è passato da Nicola Adamo ad Agazio Loiero, è stato con e contro Oliverio, quindi vicino a Ernesto Magorno quando era segretario regionale del Pd e, ora, è pronto per la candidatura al consiglio regionale.
Enzo Bruno, presidente della Provincia di Catanzaro
Nel suo curriculum la parola «funzionario» ricorre continuamente in riferimento all’Asp di Catanzaro e alla Regione Calabria, ma altrettanto frequentemente vi è affiancato anche il termine «comando», ovvero il distacco di un dipendente pubblico della stessa amministrazione nella struttura di qualche componente della Giunta o del Consiglio. Adesso proverà ad essere lui quello che “comanda”. Sotto i vessilli della nuova/vecchia corrente zingarettiana “Prossima”, si appresta a lottare per un posto al sole di Reggio.
L’iperattivo Pitaro
Nel collegio di Enzo Bruno potrebbe creare un certo fastidio elettorale Francesco Pitaro, eletto per il rotto della cuffia con la creatura callipiana “Io resto in Calabria” nel 2020. Non ci ha pensato un attimo, quando gli hanno negato la nomina nell’Ufficio di Presidenza del Consiglio, a “tradire” l’imprenditore del tonno e a mettersi in proprio nel gruppo Misto.
Francesco Pitaro, consigliere regionale del Gruppo misto. I retroscena politici lo danno vicino al Pd
Ora pare sia entrato, accolto da parecchi mugugni, nel Pd, e il suo attivismo – non solo nel capoluogo e nell’hinterland, ma da Crotone fino a Lamezia e Vibo – potrebbe tradursi in una crescita di consenso. Un lavorio incessante, il suo, che poi, magari, potrebbe tornare utile anche al fratello Pino, avvocato amministrativista ed ex sindaco di Torre di Ruggiero coinvolto nell’inchiesta “Orthrus“ – rispetto alla quale professa da tempo la sua «assoluta estraneità» –, per un’eventuale corsa a primo cittadino di Catanzaro.
Vi sentite poco bene? No problem: se alle comunali dovesse vincere Marco Ambrogio avrete un ospedale sotto casa. La proposta del candidato post Pd, soccorritore di Occhiuto in questi due mandati e oggi scopritore del civismo, sarebbe la soluzione dei molti e antichi guai della sanità calabrese.
Più ospedali per tutti
Il leader della lista La più bella Cosenza di sempre oggi si è prodotto in un’idea rivoluzionaria: perché non costruire piccoli ospedali in ogni quartiere? Ed ecco inserita l’intuizione dentro il programma elettorale. Ogni area cittadina avrà il suo mini nosocomio, con medici pronti a produrre diagnosi. Peccato che una cosa del genere già esista: si chiamano ambulatori e basterebbe farli funzionare.
In realtà l’idea di Ambrogio è parecchio più ambiziosa. Gli ospedali di quartiere, benché “piccoli”, avrebbe a loro disposizione strumenti diagnostici sofisticati e medici specialisti. Il candidato non spiega dove trovare le risorse per realizzare questo progetto con una sanità che boccheggia ed è assediata da emergenze. Ma in campagna elettorale certi dettagli contano poco. Senza considerare che nel corso di tutto il secondo mandato di Occhiuto uno dei temi roventi è stato proprio l’individuazione del luogo dove costruire il nuovo (vero) ospedale, con il conflitto tra Oliverio e Occhiuto che frapponeva veti ed ostacoli tali da mandare per adesso nel dimenticatoio la soluzione del problema.
Cosenza indipendente
Ma a ben guardare non è meglio avere venti piccoli ospedali a pochi passi – avrà pensato Ambrogio – che uno nuovo e grande ma distante? In fatto di proposte audaci lui stesso recentemente aveva anche annunciato che – in caso di vittoria elettorale – avrebbe ridato vita alle circoscrizioni comunali, che nel suo programma sarebbero «il vero front office tra le esigenze quotidiane e la politica delle alte stanze».
Una bella idea, quella di ridurre le distanze tra i cittadini e la burocrazia, velocizzando le pratiche e snellendo le procedure. Tuttavia il Governo potrebbe non essere d’accordo, visto che una legge dello Stato le ha abolite.
Forse dentro le pieghe del programma di Ambrogio però c’è la soluzione: una repubblica autonoma di Cosenza. Non sappiamo se sarà la più bella di sempre, certamente sarà indipendente e con molte circoscrizioni e più ospedali per tutti.
Dal 1969 ad oggi un abuso lungo 52 anni segna la storia di uno dei tratti di costa più suggestivi della Calabria. Caminia, provincia di Catanzaro, comune di Stalettì, è una lingua di terra costeggiata da macchia mediterranea e da un mare caraibico. Un paradiso che si è riusciti a deturpare stuprandolo con abusi di ogni tipo: costruzioni “ignoranti” ammassate una sull’altra, casette poggiate sulla spiaggia a pochi metri dal mare, canaloni di scolo di cemento armato da cui non scola più niente perché non hanno mai visto neanche un’ora di manutenzione.
Un mostro sul mare
Ci sono voluti più di 45 anni perché qualcuno, in questo caso la Procura di Catanzaro, accendesse un faro su questa vergogna nazionale.
Inizia tutto nel 2015 con il progetto per la costruzione di un megavillaggio proprio sopra la baia di Caminia. Arrivano le ruspe e fanno il loro lavoro. Scavano e producono detriti, una enorme quantità di detriti, che vengono gettati a valle e ostruiscono i 2 canaloni di scolo che costeggiano un villaggio vacanze. Sono nove piccoli bungalow e un parcheggio sorti sul demanio marittimo proprio sotto il costone del fondo Panaja di Caminia.
L’area recintata al cui interno sorgevano i bungalow demoliti e quel che resta degli arredi interni
È a questo punto che Caminia esce dal cono d’ombra e si scopre, grazie all’indagine coordinata da Nicola Gratteri, che si tratta di un’area demaniale di 5.000 mq sottoposta a vincolo paesaggistico e identificata come zona a rischio frana, alluvione e inondazione dal Piano Stralcio per l’Assetto Idrogeologico Regionale.
Il 17 dicembre 2020 i proprietari di un villaggio e i residenti di una settantina di villette a schiera a pochi metri dalla spiaggia di Caminia ricevono il provvedimento di sequestro dei fabbricati.
Passano altri 6 mesi e, il 22 giugno scorso, la Procura della Repubblica di Catanzaro invia il provvedimento esecutivo. Le demolizioni iniziano il 20 luglio e terminano come da cronoprogramma il 16 agosto 2021.
Il deserto degli abusivi
Oggi il paesaggio è spettrale: i bungalow sono stati rasi al suolo e uguale sorte dovrebbe toccare a tutte le villette che dal “villaggio Aversa” arrivano alla fine della spiaggia di Caminia. Una schiera interminabile di casette – tutte rigorosamente abusive – abbandonate in fretta dai proprietari che dopo la comunicazione dell’Autorità giudiziaria non possono più abitarle anche se hanno presentato un ricorso in Tribunale per bloccare l’esecutività delle demolizioni. Ci vorrà del tempo, ma la sorte, anche per queste costruzioni, dovrebbe essere la stessa.
Case abusive sotto sequestro a pochi metri dalla spiaggia di Caminia
In un primo momento i proprietari del villaggio hanno tentato la strada della mediazione con l’aiuto di un legale. A quanto è dato sapere la famiglia Aversa era anche riuscita ad arrivare a un compromesso. Avrebbe dovuto sborsare oltre 2 milioni di euro per arrestare l’iter delle demolizioni senza la certezza però di acquisire la proprietà del terreno. Un incognita per il futuro e un rischio troppo grosso.
Hanno desistito, anche su consiglio del procuratore Mariano Lombardi, storico frequentatore della spiaggia di Caminia.
E gli Aversa, che oltre al villaggio abbattuto gestiscono lo stabilimento balneare lido Panaja, quest’ultimo perfettamente in regola per concessione e pagamento dei tributi, hanno preferito prendere in locazione una vasta area nella zona di Pietragrande, a poche centinaia di metri da Caminia, da adibire a parcheggio. Da lì, con le navetta, accompagnano i clienti alla spiaggia.
Il Comune in cerca di idee
Il futuro comunque qualche porticina la lascia aperta. Si parla di un bando del comune di Stalettì per la gestione dell’area in cui sorgeva il villaggio. Notizie precise ancora non ce ne sono. Sulla questione il sindaco di Stalettì, Alfonso Mercurio ci ha detto: «Stiamo lavorando a un concorso di idee per l’area oggetto di demolizione. Il bando sarà pubblicato in autunno e il miglior progetto sarà scelto da un’apposita commissione e riceverà i finanziamenti previsti dalla Regione Calabria».
La baia di Caminia, il golfo di Copanello, le vasche di Cassiodoro sono solo tre dei tesori naturali del Comune di Stalettì. «Siamo un piccolo comune – precisa Mercurio – e non abbiamo le risorse sufficienti. Per portare a reddito e rendere attrattive queste aree abbiamo bisogno di contributi pubblici. Ben vengano dunque le risorse stanziate dalla Regione per il rifacimento delle fognature e per il ripristino della zona archeologica Fonte di Panaja».
La baia di Caminia vista dall’alto
Ma perché solo uno dei villaggi presenti sul demanio è stato raso al suolo? «La Cabana – spiega Mercurio – è titolare di concessione. Gli Aversa, invece, hanno costruito senza mai riconoscere la proprietà del demanio a differenza di quanto fatto con lo stabilimento balneare Panaja».
Legambiente teme il bis
La presidente di Legambiente Calabria, Anna Parretta, commenta così la vicenda: «Restiamo in attesa della demolizione di tutte le villette abusive, incluse quelle ancora sub iudice, un vero ecomostro diffuso per come è stato definito, e del conseguente recupero ambientale effettivo del territorio. Non vogliamo che restino ferite aperte come quella, ben visibile, rimasta a Stalettì dopo l’abbattimento di parte di villaggio Lopilato, seguito ad anni di lotte ambientali». Nei progetti dell’amministrazione il rilancio di Caminia passa da «un adeguato piano parcheggi e da una mobilità sostenibile. E quando arriveranno le risorse del Recovery plan noi saremo pronti».
Speriamo che non abbia in mente un’altra colata di cemento.
La doppia sortita di Mario Oliverio e Giuseppe Aieta contribuisce a seminare altro caos nel centrosinistra. Dopo la discesa in campo post ferragostana dell’ex governatore, arriva l’invito all’unità e alla pacificazione, almeno per limitare i danni.
I due, il consigliere uscente e l’ex presidente, hanno giocato a “poliziotto buono e poliziotto cattivo”: il primo ha esortato i “compagni” a cercare la concordia in chiave anti destra, il secondo ha lanciato un ricatto vero e proprio. Si farà da parte, ha detto senza troppi giri di parole, solo se gli altri due competitor faranno altrettanto.
Questo appello, oltre che tardivo, risulta senz’altro irricevibile per de Magistris, il quale si è spinto troppo avanti per fermarsi ora. Ma è altrettanto irricevibile per Amalia Bruni?
Sei scatole mezze vuote
Allo stato dell’arte, le liste schierate a fianco della scienziata sarebbero sei: quel che resta del Pd, il Movimento 5 Stelle – che, detto francamente, non ha mai avuto presa sul territorio e non ha neppure le statistiche a favore -, le due liste di Carlo Tansi(Tesoro Calabria e Calabria Libera) e il Psi, che ricambia coi suoi piccoli numeri la benedizione dello stato maggiore dem alla candidatura di Franz Caruso a sindaco di Cosenza. Più la lista del presidente, che rischia di essere la vera grana.
A differenza del suo predecessore Pippo Callipo, che aveva esperienze e frequentazioni forti, Bruni è una neofita della politica “politicata”, e soffre di un problema doppio: la penuria di candidature forti al di fuori del Pd (le quali, presumibilmente, si sfogheranno nella lista di bandiera) e la mancanza di strutture organizzate che possano attrarre la società civile. Per riempire le sue liste personali le resterebbero gli amministratori locali. Ma chi sarebbe disposto a rischiare in una contesa percepita comunque come perdente?
I tre dell’Ave Maria
Infatti, si sarebbero impegnati a dare una mano tre consiglieri uscenti: il cosentino Graziano Di Natale, il catanzarese Francesco Pitaro e il reggino Marcello Anastasi.
I tre hanno un dato in comune: sono stati eletti nelle liste di Io resto in Calabria, il movimento civico del Re del tonno.
Ma questo non fa di loro dei civici “puri”. Senz’altro non lo è Graziano Di Natale, che mastica la politica con competenza (e in maniera piuttosto incallita): è il genero dell’ex big Mario Pirillo – che è un pezzo della storia politica del Tirreno cosentino – ed è il “dominus” incontrastato del circolo del Pd di Paola, la città in cui ha iniziato la propria fulminea ascesa politica.
Tuttavia, il consigliere uscente non ha rinnovato la tessera di partito per presentarsi come civico (e, suggeriscono i maligni, per non doversi misurare coi big del Pd). Meglio la lista del presidente, che però non può essere lasciata vuota, perché quando si perde il quorum è più difficile da raggiungere.
Di Natale, forte dell’esperienza che manca alla neurologa, si starebbe dando un gran da fare per reclutare candidati, senza andare troppo per il sottile: infatti, riferiscono i bene informati, si sarebbe rivolto a Marcello Manna, il sindaco di Rende.
L’interrogativo, a questo punto, è banale e sconcertante allo stesso tempo: a cosa è dovuta questa richiesta a un primo cittadino che regge la propria amministrazione su una maggioranza di centrodestra, piena tra l’altro di recalcitranti fedelissimi della famiglia Occhiuto e dell’assessore regionale uscente Gianluca Gallo?
La risposta non è banalissima: alla sostanziale impraticabilità del capoluogo e di buona parte dei Comuni dell’hinterland, presidiati con piglio militare da Carlo Guccione e Nicola Adamo.
Il caos cosentino
Manna, ovviamente, non si sarebbe sbilanciato. Anzi, riferiscono sempre i bene informati, che il sindaco rendese sarebbe intenzionato ad agire come nel 2020, cioè a restare fuori dalla contesa per non restarne travolto. Tanto più che è diventato rappresentante dell’Anci Calabria col voto di sessantasette sindaci. Un po’ pochi, visto che i primi cittadini con diritto al voto sono più di quattrocento. Ma, c’è da notare, tra questi i sostenitori di area dem sono stati praticamente la maggioranza.
I nomi disponibili per una candidatura con la Bruni nella città universitaria sarebbero due, uno più impraticabile dell’altro: Fabrizio Totera e Ariosto Artese. Il primo, infatti, è legato a Nicola Adamo, che sull’area urbana di Cosenza gioca la partita della sopravvivenza politica, il secondo è diviso tra due lealtà. La prima è di natura familiare: Ariosto è il fratello di Annamaria Artese, assessora nella giunta di Manna. La seconda è costituita dal legame con i Gentile, in particolare con l’ex senatore Tonino.
Il bottino, per di Natale, insomma si preannuncerebbe magro.
Inutile pescare fuori Rende, neppure dove qualche realtà grossa vicina al Pd ci sarebbe. Ad esempio, il popoloso Comune di Luzzi. In effetti, Umberto Federico, il sindaco del paese della Valle del Crati, sarebbe pronto a candidarsi, ma lo farebbe nel Pd, in ticket con Enza Bruno Bossio, la moglie di Adamo.
Quest’ultima, inoltre, sarebbe in ticket anche con Franco Iacucci, l’attuale presidente della Provincia, su cui ha puntato le proprie fiches Carlo Guccione.
Un triangolo delicato, il cui baricentro è a Cosenza, dove lo stato maggiore del Pd gioca la partita della vita.
Squilibri precari
Proprio da Cosenza arriva la prova della fragilità della coalizione di Amalia Bruni. Com’è noto, il Pd si è schierato, non senza qualche difficoltà, a favore della candidatura a sindaco di Franz Caruso.
Tuttavia, c’è chi non gradisce troppo il penalista cosentino, espresso formalmente dal Psi ma graditissimo da Nicola Adamo: Carlo Tansi e i Cinquestelle, che sono al lavoro, nemmeno troppo sottotraccia, per spingere la candidatura di Bianca Rende, la quale non ha gradito di candidarsi in ticket con Caruso.
Tansi, che non è mai stato tenero con Adamo (anzi, lo considera uno dei pezzi più estremi del Put), ha abbassato i toni dopo aver fatto l’accordo con Bruni. E, al momento, non è dato sapere se ha intenzione di esternare qualcosa sulla candidatura di Enza Bruno Bossio. la quale, va detto, è in regola sia coi criteri del codice etico del Pd sia con quelli della Commissione antimafia.
Sotto ricatto
Questo gioco di intrecci, che rischia di far collassare il Pd proprio a partire da Cosenza, fa capire l’efficacia del “ricatto” di Oliverio.
In un’eventuale contesa, l’ex presidente comprometterebbe in maniera irrimediabile le liste di Bruni, che rischierebbe addirittura di arrivare terza. E forse è proprio questo il «bagno di sangue» di cui ha parlato Giuseppe Aieta.
Tra liste deboli (quelle di Tansi e dei grillini) o di difficile compilazione, pollai diventati troppo stretti per galli troppo forti (il Pd) e residui di vecchie glorie (Psi), le possibilità di evitare che la sconfitta si tramuti in disastro sono diventate poche.
E sembra un beffardo paradosso che l’unica mano tesa arrivi da chi sa benissimo di non avere più nulla da perdere e gioca al tanto peggio tanto meglio, perché anche il crollo del Pd sarebbe un suo successo.
Oliverio ha fatto il suo gioco con grande efficacia. Chi è disposto, ora, a vedere le sue carte?
La sopravvivenza fisica di Cosenza vecchia passa per la necessità di intervenire sulle abitazioni private. Non serve essere urbanisti per capirlo. I crolli si moltiplicano, così come le famiglie costrette a vivere sotto la spada di Damocle di in un soffitto che può venire giù da un momento all’altro. Al fondo resta la domanda posta da Domenico Gimigliano, uno degli attivisti di Prima che tutto crolli: «Quale è il senso del centro storico di Cosenza»? L’Atene della Calabria ha abbandonato Telesio per abbracciare la forza effimera e seducente della leggenda di Alarico tanto cara al sindaco Mario Occhiuto.
E come sempre, alla vigilia delle elezioni amministrative, tornerà ad affacciarsi, sotto forma di slogan o proposte fantasiose, il tema della ripresa della parte più antica della città. Senza tenere conto di quanto sia cambiata. Oggi interi quartieri sono un suk dove si mescolano culture e parlano lingue diverse.
I 90 milioni per il centro storico
Prosegue il percorso di avvicinamento dei 90 milioni di euro del Cis (Contratto istituzionale di sviluppo) per il centro storico di Cosenza. Anna Laura Orrico – parlamentare ed ex sottosegretario ai Beni Culturali in quota M5S – continua a seguire la vicenda: «Il Mibact compie passi in avanti con la procedura. Sta raccogliendo documentazione degli enti. In seguito saranno firmati i disciplinari. Quindi saranno indette le gare d’appalto, speriamo entro il 2021 affinché i lavori partano nel 2022». Ma con quei soldi si potrà intervenire solo su edifici pubblici, mentre quelli più a rischio sono tutti privati.
Superbonus 110%, un treno per pochi
In linea teorica il Superbonus 110% è quel treno che passa una sola volta anche per Cosenza vecchia. In pratica la parcellizzazione delle proprietà degli stabili ne rende improbabile un’applicazione generalizzata, producendo l’impossibilità della cessione del credito.
Cosa si può fare? Il coordinatore della commissione Lavori pubblici dell’Ordine degli ingegneri di Cosenza, Marco Ghionna, suggerisce comunque una «mappatura accurata di tutti gli stabili, un censimento degli immobili e, contestualmente, un’interrogazione pubblica sull’albo pretorio». Al termine di questa procedura, forse, il Comune avrà informazione utili e spazio di agibilità. Peccato che servirebbero 10 anni per legge. Tempo entro il quale anche l’erede più sperduto potrebbe legittimamente pretendere di esercitare un diritto su una porzione anche piccola di uno stabile.
Come muore una proposta di legge
Servirebbe una legge speciale per Cosenza vecchia allo stesso modo di Agrigento e Siracusa. Peccato non essere una Regione a Statuto speciale come la Sicilia. Ma per Vittorio Sgarbi, già assessore di Occhiuto proprio con delega al Centro storico, era tuttavia una strada da percorrere seppure impraticabile.
Un’altra strada è stata tentata da una serie di associazioni e cittadini raggruppati sotto il titolo “Prima che tutto crolli”, depositando in Regione una proposta di legge (273/10) di iniziativa popolare, applicabile ai centri storici calabresi. Anche il candidato a sindaco Franz Caruso ha di recente parlato di un legge speciale.
Crolli nel centro storico di Cosenza
Crolli all’ingresso del rione Santa Lucia
Nonostante la minuziosa analisi – completa di spunti storici e soprattutto dotata di copertura economica – il testo non ha riscontrato il favore concreto della maggioranza guidata dall’allora governatore Mario Oliverio. Dopo un primo passaggio favorevole in commissione Ambiente, presieduta da Mimmo Bevacqua, la proposta di legge non è arrivata mai in commissione Bilancio. Una morte lenta e annunciata, dopo un piccolo oblio.
Da vergogna a tesoro: il caso Matera
«Se il Mibact riconosce il centro storico di Cosenza come bene culturale è possibile che ci sia una legislazione alternativa a quella regionale». Sarebbe molto più semplice agire sui patrimoni privati preda dell’incuria e dell’abbandono. A suggerire questo percorso, di difficile attuazione, è Raffaello De Ruggieri, presidente della Fondazione Zetema, uno dei protagonisti del miracolo compiuto a Matera: da vergogna nazionale (come disse Togliatti) a Capitale europea della cultura 2019, anno in cui era sindaco della città lucana. «Siamo riusciti – sottolinea De Ruggieri – nell’impresa epica di trasformare la questione culturale in una questione politica, di instillare nella comunità il veleno buono dell’appartenenza. Il modello Matera è replicabile, abbiamo vinto perché ha partecipato la comunità».
Il centro storico di Matera
Matera, capitale europea della Cultura 2019
La storia di Matera insegna quanto contino – aggiunge – «costanza e caparbietà, oggi le configurano come resilienza». Quando tutti scappavano dai sassi, De Ruggieri nel 1969 comprò casa nel posto che avrebbe stregato Pierpaolo Pasolini, Henri Cartier-Bresson, Adriano Olivetti.
«Il notaio non voleva redigere l’atto, sconsigliandomi l’acquisto», commenta con ironia l’ex primo cittadino, aggiungendo: «Le battaglie si fanno con le testimonianze e noi creammo il partito dei salmoni, nuotando controcorrente».
Quando, era il 19 luglio, il nostro sito è apparso sul web per la prima volta sapevamo di dover affrontare una sfida. Conquistare lettori, specie in una regione dove i giornali online abbondano, è difficile. Riuscirci per un giornalista significa cercare di raccontare quello che accade in maniera diversa dai colleghi delle altre testate e noi in questi trenta giorni abbiamo provato a farlo. E a mantenere quanto, fin dal primo editoriale del nostro direttore Francesco Pellegrini – che vi riproponiamo in home page – avevamo promesso: non avere vincoli di alcun genere, essere immuni da pregiudizi.
Giudicare se ci siamo riusciti o meno non è certo compito nostro, ma di voi lettori. Quelli che come noi credono che «nessuno dei calabresi possa accettare passivamente che l’immagine della loro, della nostra splendida terra sia insozzata dal crimine mafioso, dalle connivenze occulte, più o meno deviate, da amministrazioni opache e autoreferenziali, da una politica – fatte le debite e non poche eccezioni – che si autoperpetua nella irrilevanza e nel discredito dei cittadini». Quelli a cui abbiamo chiesto di non lasciarci soli, aiutandoci a crescere insieme.
A un mese dalla prima uscita, i risultati de I Calabresi ci dicono che non mancano i cittadini disposti a sostenerci. E di ora in ora nuovi lettori si aggiungono a quelli che già avevamo: 100mila visitatori sul sito, oltre 12mila followers sulla nostra pagina Facebook. Numeri alti o bassi? Di certo numeri che non erano scontati prima di cominciare, di cui andiamo orgogliosi e che vogliamo far crescere ancora.
Se non ci avete mai letti prima, qui sotto potete trovare una piccola selezione degli articoli più apprezzati di questo primo mese. Non possiamo che ringraziarvi per l’attenzione che ci state dedicando in queste settimane. Cercheremo di meritarne ancora di più, giorno dopo giorno.
È pure un flop a 5 stelle la mancata riapertura dell’ex Tribunale di Rossano. Il M5S poteva fare di più con 4 parlamentari della Sibaritide. Ci sarebbe da aggiungere Vittoria Baldino, originaria di Paludi ma eletta nella circoscrizione Lazio 1.
Al Governo il ministro della Giustizia è stato fino a poco tempo fa un grillino ortodosso e giustizialista come Alfonso Bonafede. Nessun partito o movimento politico ha mai avuto una pattuglia così grande da quelle parti. Centrodestra e centrosinistra non hanno fatto meglio.
La città adesso è diventata Corigliano-Rossano e conta 80mila persone. Ha il Pil più alto della Calabria e tanta storia ma non si è mai arresa allo scippo del Tribunale. Almeno nella sua componente rossanese. Perché il campanilismo qui non è morto con la città unica.
L’ingresso dell’ex tribunale di Rossano Calabro durante l’occupazione
La Scutellà si batte in solitaria
Eppure qualcuno nel Movimento 5 Stelle in questi anni ha tentato di muovere le acque. Elisa Scutellà, deputata grillina di Corigliano-Rossano, ha presentato una proposta di legge per la riapertura dei 31 tribunali. Adesso si attende che arrivi in Commissione Giustizia, di cui lei fa parte. Poi seguirà il normale iter alla Camera di competenza. Non è così facile. Perché gli equilibri politici sono cambiati. Non poco. Tra Bonafede e la Cartabia esiste una distanza siderale. Così come tra Conte e Draghi.
La proposta di legge porta la firma anche delle parlamentari calabresi Enza Bruno Bossio (Pd) e Wanda Ferro (Fdi). Ma non quella di Vittoria Baldino, Francesco Forciniti e Francesco Sapia. Gli ultimi due hanno lasciato il movimento quando Grillo ha imposto di votare la fiducia a Draghi.
Elisa Scutellà, parlamentare del Movimento 5 stelle
E in Senato?
La senatrice Rosa Silvana Abate non poteva tecnicamente firmare la legge della Scutellà. Invece poteva essere tra i firmatari dello stesso testo presentato a Palazzo Madama da un’altra 5 stelle, Felicia Gaudiano. Non lo ha fatto. Anche la Abate però fa parte della squadra di parlamentari della Sibaritide.
In principio fu la Cancellieri
La Riforma della Giustizia del ministro Annamaria Cancellieri ha di fatto emesso la sentenza di morte verso il tribunale di Rossano e altri 30 in tutta Italia. Era il 2012. Non è andata meglio con Andrea Orlando, ex guardasigilli del Pd da sempre vicino al consigliere regionale della Calabria, Carlo Guccione. Il centrodestra ha, pure, la sua quota di responsabilità. E su Jole Santelli, allora parlamentare di Forza Italia e in passato sottosegretario alla Giustizia, è sempre circolata insistentemente la voce che si fosse spesa per la salvezza del Tribunale di Paola. Lei si è sempre opposta con forza a questa versione. Vennero un po’ tutti alla protesta per la riapertura del Tribunale, soprattutto il Pd con i suoi parlamentari.
Nel 2013 erano tutti nel Pd. Da sinistra Stefania Covello, Enza Bruno Bossio, Ernesto Magorno e Mimmo Bevacqua a sostegno della protesta pro Tribunale
Il colpo a vuoto di Graziano
L’ultimo tentativo di portare avanti la battaglia per il tribunale di Rossano si è scontrato con la mancanza del numero legale. Così gli stessi colleghi di maggioranza e opposizione hanno affossato la proposta di legge del consigliere regionale dell’Udc, Giuseppe Graziano. Voleva essere un atto di impulso verso il Parlamento. A questo punto ci si chiede se la trovata di Graziano fosse o meno velleitaria ed elettorale, visto che si vota a ottobre e rimane forse una sola seduta a Palazzo Campanella per approvare il testo del “Generale”.
Era uno Stasi di lotta
Da sinistra l’ex governatore della Calabria, Peppe Scopelliti con Mauro Mitidieri e Flavio Stasi, allora impegnati nello sciopero della fame in difesa del tribunale
Fatta la nuova città, trovato il nuovo sindaco: Flavio Stasi. Una parte di credito e fiducia se l’era conquistata proprio quando fece – insieme all’attuale assessore agli Affari legali, Mauro Mitidieri – lo sciopero della fame in difesa del Tribunale di Rossano. Allora Stasi era militante e attivista di Terra e Popolo. Adesso è tutto cambiato. Da primo cittadino ha presieduto nel 2020 un consiglio comunale aperto. Per sensibilizzare deputati e cittadini sulla vicenda dell’ex tribunale. Ma anche lui ha mollato la presa su un problema così difficile come la ridefinizione della geografia giudiziaria.
La manifestazione contro la chiusura dell’ex Tribunale di Rossano
Castrovillari non ha risolto i problemi
L’avvocato Maurizio Minnicelli è stato uno dei protagonisti del movimento in difesa del tribunale di Rossano. Un presidio poi accorpato a Castrovillari. Dove, sostiene il penalista: «Abbiamo assistito nel corso degli anni a un aumento delle pendenze e nessuna riduzione dei tempi dei processi, ad aggravi di spesa senza alcun risparmio».
Minnicelli analizza non senza autocritiche rivolte alla comunità di appartenenza. «Forse non siamo stati molto in allerta 20 anni fa – aggiunge – quando si parlava di questa riforma». Le colpe sono anche della «società civile» secondo l’avvocato di Corigliano-Rossano «incapace di comprendere che la battaglia per il tribunale non fosse una lotta di casta». Di casta no e nemmeno di classe. In un territorio dove la criminalità organizzata non molla la presa, il presidio di giustizia copriva un bacino di 150mila persone sulla fascia jonica. Questo lo sa bene Nicola Gratteri. Non a caso il procuratore di Catanzaro aveva riportato a galla in Commissione antimafia la vicenda dell’ex tribunale di Rossano.
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