Categoria: Fatti

  • PNRR e Mezzogiorno: risorse incerte, riusciremo a usarle?

    PNRR e Mezzogiorno: risorse incerte, riusciremo a usarle?

    Stiamo ormai entrando nella fase di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non abbiamo dinanzi a noi un tempo molto lungo per realizzare tutti gli obiettivi che sono stati tracciati: entro il 2026 le azioni definite debbono essere completate.
    Il futuro del Mezzogiorno si lega in buona parte agli investimenti ed alle riforme da completare in questo arco temporale, mettendo a terra quella montagna di risorse finanziarie a disposizione grazie al PNRR. Veniamo da una lunga stagione difficile, nella quale il divario tra il Sud ed il resto del Paese si è allargato.

    La spesa pubblica dimezzata in dieci anni

    Il PNRR dovrebbe consentire di invertire il trend che, tra il 2008 e il 2018, ha visto scendere di più della metà la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno, da 21 miliardi di euro a poco più di 10. Secondo quanto espressamente indicato nel documento del Governo, il Piano mette a disposizione del Sud un complesso di risorse pari a non meno del 40 per cento delle risorse territorializzabili del PNRR (pari a circa 82 miliardi), incluso il Fondo complementare, per le otto regioni del Mezzogiorno, a fronte – si sottolinea nel Piano – del 34 per cento previsto dalla attuale normativa vigente in favore del Sud per la ripartizione degli investimenti ordinari destinati su tutto il territorio nazionale.

    Non solo risorse europee

    Il Piano prevede, in aggiunta alle risorse europee, ulteriori 30,6 miliardi di risorse nazionali che confluiscono in un apposito Fondo complementare al PNRR finanziato attraverso lo scostamento di bilancio approvato nel Consiglio dei ministri del 15 aprile e autorizzato dal Parlamento, a maggioranza assoluta, nella seduta del 22 aprile scorso.

    Il Piano nazionale per gli investimenti complementari al PNRR è stato approvato dal decreto legge n. 59 dal 6 maggio 2021, con una dotazione di 30.6 miliardi di euro per gli anni dal 2021 al 2026. Il D.L. n. 59/2021 provvede altresì alla ripartizione delle risorse del Fondo tra le Amministrazioni centrali competenti, individuando i programmi e gli interventi cui destinare le risorse ed il relativo profilo finanziario annuale.

    I conti che non tornano

    Il PNRR si propone insomma l’ambizioso obiettivo di ridurre sensibilmente il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese. La quota del Mezzogiorno sul PIL nazionale salirebbe dal 22 per cento del 2019 al 23,4 per cento nel 2026.
    Secondo il governo 82 miliardi sono destinati al Mezzogiorno nel PNRR. Per verificarlo, per ogni misura Gianfranco Viesti ha controllato se sia stata indicata una precisa e vincolante allocazione territoriale delle risorse.

    Si è così potuto appurare che una precisa quantificazione dell’investimento nel Mezzogiorno è contenuta in 33 delle 157 misure del PNRR, e in 5 del Fondo Complementare (FC). Tali misure indirizzano verso il Mezzogiorno investimenti per un totale di 22,2 miliardi di euro. Nei documenti ufficiali è quindi individuabile solo poco più di un quarto delle risorse ipoteticamente destinate al Mezzogiorno.

    Quanto andrà davvero al Sud?

    Tuttavia, in altre 22 Misure del PNRR e in altre 6 del FC vi sono degli indirizzi tali da lasciar prevedere che una parte delle risorse disponibili sarà allocata nel Mezzogiorno. Su ciascuna di queste misure è stata operata una stima, con un margine di errore. Il totale degli importi di queste misure ammonta, secondo le stime effettuate da Gianfranco Viesti, a 13,126 miliardi. Sommando le cifre appostate chiaramente al Mezzogiorno (22,2 miliardi) con le stime riconducibili al Sud (13,1 miliardi), si ottengono 35,3 miliardi di euro, ben al di sotto della metà della somma teoricamente destinata al Mezzogiorno dal PNRR.

    Quali sono le misure che non hanno un’allocazione territoriale predefinita? Da che cosa dipenderà questa allocazione? Vi sono in primo luogo alcune misure di incentivazione degli investimenti di imprese, che saranno allocate sulla base delle richieste. In altre misure i beneficiari non sono le imprese ma soggetti del settore pubblico.
    Laddove non vi è alcun indirizzo di allocazione territoriale, essa scaturirà dalle decisioni relative al riparto delle risorse effettuate dai decisori pubblici nazionali incaricati dell’attuazione delle misure. Assai frequenti sono i casi nei quali ciò avverrà attraverso meccanismi a bando fra le amministrazioni pubbliche destinatarie finali.

    Nessun indirizzo chiaro

    Il principale problema consiste nella mancanza di un indirizzo politico verso la perequazione delle dotazioni infrastrutturali e della disponibilità dei servizi nelle diverse aree del paese, in presenza di divari territoriali estremamente ampi.
    Particolarmente interessante è il caso degli asili nido, per i quali vengono destinati ben 4,6 miliardi; la misura, sia pur con una indicazione generica, è priva di qualsiasi indirizzo territoriale, in presenza di disparità estremamente ampie.
    Ciò significa che il Governo non ha ritenuto di dover garantire, seppur tendenzialmente, pari diritti ai cittadini italiani in più tenera età, ma di affidarli all’alea di procedure competitive.

    L’allocazione delle risorse tra le ripartizioni territoriali del Paese dipenderà in buona parte dai criteri che saranno definiti nei bandi competitivi previsti per la realizzazione di una parte consistente degli investimenti del PNRR.
    Da questo punto di vista l’esperienza italiana è particolarmente critica e richiederà la massima attenzione. Sono infatti molto numerosi i casi in cui i criteri per i bandi hanno contenuto indicatori e criteri tali da penalizzare le regioni più deboli del Paese.

    Le amministrazioni locali saranno all’altezza?

    Certamente conteranno anche le capacità delle amministrazioni di volta in volta chiamate a concorrere per queste risorse. Pur non essendovi evidenze univoche a riguardo, è possibile ipotizzare che proprio nelle aree più deboli del paese, le amministrazioni possano essere meno attrezzate proprio a queste progettualità. Tutto ciò si vedrà con i processi di attuazione degli interventi previsti dal PNRR e dal Fondo Complementare.
    Quindi, solo 35 miliardi di euro sono certamente allocati nel Mezzogiorno. Ciò non significa, è bene ricordarlo, che il resto delle risorse del PNRR siano allocati tutti fuori dall’area. Ma lascia un dubbio assai rilevante, dato lo scarto fra le cifre, sull’esito finale.

    La cifra di circa 82 miliardi di investimenti nel Mezzogiorno indicata nel Piano appare dunque, seguendo l’attenta analisi di Gianfranco Viesti, come un “totale in cerca di addendi”. Conseguentemente, l’impatto del PNRR sull’economia e l’occupazione del Mezzogiorno, così come presentato nel Piano è anch’esso al momento solo una ipotesi; è possibile, ma non garantito.

  • Geni, zampogne e fritture: i cv dei candidati alle Regionali

    Geni, zampogne e fritture: i cv dei candidati alle Regionali

    Il dono ce lo ha fatto la legge “Spazzacorrotti” voluta dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Obbliga ogni candidato a qualsiasi elezione, eccetto quelle dei piccoli Comuni, a mettere online, al massimo due settimane prima del voto, il certificato penale e il curriculum vitae. A campione, come fosse un sondaggio, abbiamo dato un’occhiata ai cv dei quasi 500 candidati che si contendono un posto all’interno del consiglio regionale della Calabria. Ne sono venute fuori delle perle che restituiscono un quadro singolare, più antropologico che politico, della varia umanità che si presenta come potenziale protagonista della vita pubblica calabrese. Eccone alcune.

    Baby democristiani

    Molti cv, piuttosto che un riepilogo schematico come da formato europeo, sono brevi scritti spesso coniugati in prima persona. È il caso di due seguaci di Carlo Tansi candidati nella lista “Tesoro Calabria”. Pietro Lirangi (circoscrizione Nord) fa sapere: «La mia attività politica nasce in tenerissima età, avevo nove anni quando frequentavo la DC di Bisignano, l’attività organizzativa, che poi, anche per merito della mia professione, ha fatto sì che mi sono sempre trovato in prima linea con impegno e dedizione con occhio vigile al bene comune e al servizio di tutti, specialmente delle classi più deboli». La prosa di Lucia Quattrocchi (circoscrizione Sud) è più fluida, ma ci permette di sperare che in consiglio regionale arrivi una «liturgista, cantante, direttore, gregorianista, citarista, salmista, suonatrice di tuba, zampognara, insegnante di Religione da circa 22 anni».

    Chi lo ha più lungo

    Lo stesso ex capo della Protezione civile ha ripercorso in 7 pagine tutte le sue skills, comprese le attività di conferenziere, le apparizioni televisive e l’impegno nel Rotary Club di Rende. Ma se Tansi si è spesso vantato di avercelo lungo (il curriculum) c’è chi lo ha superato di brutto: Daniele Nicola, ingegnere di Petilia Policastro candidato con la Lega, ha avuto bisogno di addirittura 40 pagine per elencare tutte le sue esperienze.

    Di tutt’altra pasta, anche se il partito è lo stesso, il mitologico Leo Battaglia. Già agente immobiliare, imprenditore nel settore dell’arredamento e «responsabile per la Calabria» del mensile di annunci gratuiti “Leo Business”, il noto lanciatore di mascherine in mare tiene a far sapere che il nonno è stato «il primo farmacista di Castrovillari» e che, da «cattolico praticante», lui è stato «per anni chierichetto nella Parrocchia della S. S. Trinità». Nel collegio Nord dovrà vedersela con un altro leghista promettente: Santo Capalbo, imprenditore agricolo e della ristorazione, nonché vicepresidente della società sportiva “Tiro a volo”, ha fatto dei corsi di ausiliario del traffico e di «Sefty e Securiti» (testuale).

    Piatti caldi e freddi

    L’Udc ha riversato i cv di tutti candidati in un unico file di 150 pagine, 26 delle quali occupate da Giuseppe Graziano, già generale del Corpo forestale e capogruppo uscente in consiglio regionale. Ma c’è anche Filippo Scalzi, dipendente Arsac, che oltre a dichiarare la militanza nel movimento giovanile Dc si proclama «poeta dialettale ed autore di testi di musica popolare», nonché di 22 poesie diventate «canzoni musicate» depositate presso la Siae.

    Almeno 7 candidati dello scudo crociato, nella sezione dedicata a capacità e competenze varie, riportano la stessa formula copiaincollata. Ma per chiudere degnamente il capitolo centrista va segnalata, nella lista di Coraggio Italia (Centro), la candidata Denise Priolo che tra le «altre capacità e competenze» include «cucina e tavola calda, piatti caldi e freddi, friggitoria».

    Nel Pd c’è il 43enne Gianluca Cuda che tra le esperienze lavorative, oltre all’essere socio di una società di recupero metalli, inserisce per lo più incarichi di partito o istituzionali come segretario provinciale del Pd catanzarese, sindaco di Pianopoli, componente dello staff del presidente della Provincia di Catanzaro e presidente delle sezioni locali di Emergency e dell’Avis (in teoria sarebbe volontariato).

    Cuda ha un diploma da geometra, ma come titolo di studio si fa notare un altro volto noto del centrosinistra che oggi è candidato con Mario Oliverio nella circoscrizione Sud: Francesco D’Agostino, patron dell’azienda “Stocco & Stocco”, è stato consigliere comunale, provinciale, nonché vicepresidente del consiglio regionale, ma ha solo – non è l’unico tra i candidati – la licenza media.

    Neurogenetica e cittadini per antonomasia

    Nel M5S si fanno notare il vibonese Domenico Santoro che da architetto illustra le sue attività professionali con un «curriculum grafico» e l’ufficiale dell’Esercito Nicola Vero che, oltre alle missioni militari in Italia e all’estero, specifica nella sezione hobby di aver viaggiato molto per il mondo in Harley Davidson e in Jeep off-road, nonché di essere istruttore di nuoto e body building.

    Restando nella coalizione di Amalia Bruni emerge come diversi candidati della lista che porta il suo nome pare abbiano avuto rapporti di lavoro o di volontariato con il Centro di neurogenetica da lei diretto. E spicca nella circoscrizione Sud Antonino Liotta, che scrive nella presentazione di essere «cittadino dello Stretto per antonomasia» e, nel cv, include tra le esperienze l’aver vissuto e lavorato per 6 mesi in Irlanda, l’essere stato studente Erasmus a Siviglia per 4 mesi, l’essere ippoterapista, donatore di sangue dal 1988 e volontario Unitalsi.

    Quel gran genio di Talarico

    Il gradino più alto del podio lo guadagna senza dubbio la lista “Dema” (circoscrizione Nord) di Luigi de Magistris. Ugo Vetere, avvocato e sindaco di Santa Maria del Cedro, nella voce «attività e interessi» inserisce solo di essere «tifoso Juventino». Ma il capolavoro situazionista lo ha senza dubbio compiuto un altro volto noto della politica regionale, il rendese Mimmo Talarico. Già nel 2006 «è promotore dei comitati a sostegno di Luigi de Magistris che si oppongono al trasferimento del pm ad opera del Ministro Mastella».

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    La conclusione del curriculum, aggiornato a poche settimane fa, di Mimmo Talarico

    Sempre «su indicazione» del sindaco di Napoli alle Regionali del 2010 viene candidato «come indipendente nell’Italia dei Valori a sostegno dell’imprenditore Pippo Callipo e risulta eletto». Si definisce «tra i più produttivi consiglieri regionali» nella legislatura 2010-2014. Specifica di avere due lauree e altrettanti Master, di lavorare all’Unical come Responsabile amministrativo gestionale della Scuola Superiore di Scienze delle amministrazioni pubbliche». Ma soprattutto Talarico, chiudendo il suo curriculum, si proclama solennemente «uno dei più grandi pensatori del ‘900». E poi c’è chi parla di cervelli in fuga dalla Calabria.

  • Diavolo o santo? La politica prende posizione su Lucano

    Diavolo o santo? La politica prende posizione su Lucano

    C’è stato un tempo – neanche troppo lontano, tra il 2014 e il 2015 – in cui Nino Spirlì scriveva corsivi per un giornale ormai chiuso ma dal nome inequivocabile: Le cronache del Garantista. Com’è facile intuire, su quelle pagine si predicava un principio cardine della giustizia italiana: fino a sentenza definitiva, la presunzione di innocenza vale per tutti. La memoria, si sa, può giocare brutti scherzi. E il nostro ff pare aver dimenticato quei suoi trascorsi, così come non aver notato che la condanna a Lucano è in primo grado e altri due ne serviranno per stabilire la sua eventuale colpevolezza.

    Spirlì e la fiction nel cesso

    Dal momento in cui il verdetto avverso all’ex sindaco di Riace è diventato di dominio pubblico, gli uomini di via Bellerio hanno dato fondo a tutto il loro entusiasmo nel festeggiare la sentenza contro l’odiato accoglitore di migranti. Spirlì non ha esitato a definire Lucano «un truffatore», aggiungendo che sia il riacese che de Magistris (nelle cui liste l’ex primo cittadino è candidato) ora dovrebbero ritirarsi dalle elezioni del 3 e 4 ottobre. Poi, con eleganza oxoniana, l’erede pro tempore di Jole Santelli ha aggiunto che la Rai «di sinistra» ora ha del «materiale da buttare nel cesso», in riferimento alla mai trasmessa fiction prodotta dalla televisione di Stato sul modello Riace.

    Epurazioni in Rai

    Più sintetico – su twitter è d’obbligo – Matteo Salvini, che se l’è sbrigata con un «La Calabria non merita truffatori e amici dei clandestini». D’altra parte, a detta di Massimiliano Romeo (capogruppo della Lega in Senato), Salvini è «l’unico contro la mangiatoia della finta accoglienza», mentre l’ex sindaco di Riace è «uno che fa soldi sulla pelle altrui».
    Tornando alla Rai, il solerte forzista Maurizio Gasparri ha già annunciato che chiederà in Commissione Vigilanza l’epurazione degli ideatori della serie tv su Lucano. Mentre Massimiliano Capitanio – membro di quella stessa Commissione, ma in quota Lega – ha tuonato contro il direttore del Tg1 per non aver inserito tra i titoli di testa dell’edizione delle 13.30 la sentenza di condanna pronunciata a Locri.

    Due pesi e due misure

    L’unico nel centrodestra a cui pare davvero fregar poco della questione pare Roberto Occhiuto, che mentre i commenti sulla vicenda impazzavano metteva video su facebook in cui disserta dei suoi trascorsi giovanili e di aiuti alle imprese. Un altro big leghista, Roberto Calderoli, giusto all’indomani dell’esplosione del caso Morisi – quasi derubricato a una ragazzata dai suoi, contrariamente a quando episodi simili coinvolgevano persone qualunque – sale invece sul pulpito per accusare la sinistra di usare «due pesi e due misure» quando le condanne la riguardano. Tesi anche valida, se non si comportasse nel medesimo modo pure la sua parte politica.

    Uno scandalo per la sinistra

    A sinistra (o quasi), in effetti, è tutto un gridare allo scandalo per quanto deciso dai giudici a Locri. La sentenza sarebbe «abnorme» per Matteo Orfini e Laura Boldrini (Pd), così come per Gennaro Migliore (Iv); «incredibile» secondo Nicola Fratoianni (Sinistra italiana); «inaudita» per Loredana De Petris (Leu). L’Anpi si dice «sconvolto», l’Arci parla di «sentenza vergognosa», mentre +Europa la reputa «sproporzionata». Il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, la definisce invece «inaudita».

    De Magistris, Oliverio e Bruni

    E in Calabria, dove Lucano corre nelle liste di de Magistris? Il primo a pronunciarsi è stato ovviamente il sindaco di Napoli. Che ha promesso di raggiungere Mimmo “il curdo” già domani a Riace perché per lui è «un uomo che è l’antitesi del crimine, un simbolo di umanità e di fratellanza universale». Sarà, alla peggio, il classico “compagno che sbaglia”: «Non è certo un cultore del diritto amministrativo, avrà pure commesso delle irregolarità ed illegittimità, ma sono convinto – scrive Dema – che alla fine del suo calvario verrà assolto perché ha agito per il bene e mai per il male».

    Vicino all’ex primo cittadino di Riace anche Mario Oliverio, che ha affidato a una nota stampa – e una telefonata in privato – la sua solidarietà e stima per quel Lucano che a suo avviso uscirà immacolato dai successivi gradi di giudizio. Campionessa di sintesi, invece, Amalia Bruni. Che ha liquidato l’evento del giorno con 17 parole in totale: «Le sentenze non si commentano, si rispettano. Dispiaciuta dal punto di vista umano, non smetta di combattere».

  • Mimmo Lucano, se questo è un fuorilegge

    Mimmo Lucano, se questo è un fuorilegge

    Finisce sepolto sotto 13 anni e due mesi di reclusione il sogno di Mimmo “il curdo” Lucano. Un sogno fatto di integrazione reale, di solidarietà dal basso, di ricerca della pari dignità tra uomini di terre diverse. Un sogno che si infrange su una sentenza piombata come un asteroide in una terra di frontiera come la Locride, dove gli sbarchi dei disperati in fuga da guerra e fame si susseguono al ritmo di uno ogni due giorni.

    Una condanna pesantissima – praticamente il doppio della richiesta avanzata dai Pm durante la requisitoria – arrivata in coda ad un processo dai tratti vagamente surreali e che, in poco meno di due anni, potrebbe avere posto una pietra tombale su un modello di accoglienza unico nel panorama europeo. Un modello, nato a due passi e in contrapposizione agli slum per immigrati di Rosarno, che era riuscito nel doppio intento di tendere la mano ai migranti e di ripopolare un paese, Riace, che aveva visto i propri abitanti originari, emigrare alla ricerca di lavoro e stabilità. Una sorta di sistema di vasi comunicanti interrotti dall’indagine che ha portato alle condanne di oggi.

    La tarantella in Prefettura

    Alla genesi dell’indagine della Guardia di finanza ci sono una serie di relazioni della Prefettura che, a leggerle, raccontano realtà completamente diverse: tra gennaio e giugno del 2017, sono cinque le ispezioni che si susseguono a Riace inviate dall’allora prefetto Michele Di Bari, il funzionario che durante il suo mandato in riva allo Stretto si fece notare per il numero di comuni commissariati e che, con nomina del governo Conte 1 e in seguito alla inarrestabile chiusura dei progetti Sprar in provincia di Reggio, fu promosso nel 2019 a capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione al ministero dell’Interno, all’epoca sotto la gestione di Matteo Salvini.

    Ed è in quelle relazioni così diverse tra loro che emergono le differenze più marcate sul modello finito sul banco degli imputati. Nella prima relazione consegnata dai funzionari sbarcati a Riace, con gelido linguaggio burocratico, si evidenziano numerose criticità legate ai residenti “a lungo termine”, sulla condizione delle case e sulla gestione del denaro. Una relazione che, nella sostanza, sembra guardare solo all’aspetto burocratico dell’integrazione senza accorgersi della quotidianità “diversa” di Riace e che tra i suoi estensori vedeva anche la presenza di un funzionario, Salvatore Del Giglio, finito invischiato pochi mesi dopo, ironia della sorte, in un’indagine della Procura di Palmi che lo accusava di avere steso una relazione falsa sul progetto Sprar operativo a Varapodio, sul versante tirrenico d’Aspromonte. Sarà questo il documento che darà il via all’inchiesta.

    E se la prima relazione aveva “smontato” il modello Riace, nel maggio del 2017 arrivano nel piccolo borgo jonico altri tre funzionari della Prefettura di Reggio che di quel piccolo paese, tracciano un quadro che sembra venire da un’altra dimensione rispetto a quello precedentemente redatto dalla Prefettura. I funzionari ministeriali girano per il paese, ne respirano il profumo e raccontano di una scuola riaperta che grazie alla nuova linfa dei bambini venuti dal mare era diventata «un miscuglio di razze, dialetti, diademi e treccine» perché, annotano «una scuola senza bambini è la conclusione ingloriosa di un mondo, un universo senza futuro. Riace ora ha la sua scuola, degli insegnanti, dei ragazzi che apprendono».

    Un mondo al contrario

    Scuola che, in seguito alla serrata dei progetti d’accoglienza, ha mestamente richiuso i battenti, costringendo i pochissimi bimbi rimasti in paese a raggiungere l’istituto della Marina, dieci chilometri a valle. E poi le case «umili ma pulite e confortevoli» e le botteghe e le cooperative per la raccolta rifiuti a dorso di mulo, per una realtà che rappresenta «un microcosmo strano e composito che ha inventato un modo di accogliere e investire sul proprio futuro e che ha ricominciato a fare tante cose» per un’esperienza «che è segno distintivo di quelle buone pratiche che possono far parlare bene di questa regione».

    Una relazione che, superando l’aspetto burocratico, raccontava di un paesino minuscolo che splendeva di luce propria, nel deserto sociale ed economico della Locride, finendo per incuriosire intellettuali e artisti, da anni in pellegrinaggio sulle colline dello Jonio reggino per toccare con mano quel mondo al contrario creato nella Calabria degli ultimi. Wim Wenders, per dirne uno, a Riace ci ha girato anche un film. Una relazione che, a leggere il dispositivo della sentenza e in attesa delle motivazioni, sembra non avere rivestito nessun ruolo.

    Il valzer dei processi

    E poi i vari giudizi così diversi che, nel tempo, sono arrivati dai magistrati che si sono occupati dell’affaire Riace. Dai pm di Locri che ipotizzavano l’associazione che «mitizzava l’accoglienza sulle spalle dei migranti», al Giudice per le indagini preliminari che, in prima istanza, disponendo gli arresti domiciliari per Lucano, ridimensionava fortissimamente le accuse, dispensando bordate sulla fragilità delle indagini, passando per il Gup Monteleone, che quelle accuse di associazione a delinquere, abuso d’ufficio, concussione e malversazione le aveva resuscitate rinviando Lucano e altri 26 a giudizio, finendo al Presidente Accursio che, nel disporre il giudizio, raddoppia di fatto, la richiesta di condanna avanzata dalla Procura.

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    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    E mentre la parola fine, almeno in primo grado, chiude il discorso sul modello Riace, nei 13 anni inflitti a Lucano, finisce anche la carta d’identità che l’ex sindaco rilasciò a un bambino di una manciata di mesi e alla sua mamma: documento senza il quale il bambino non avrebbe potuto accedere alle cure mediche di cui necessitava (cure garantite dalla Costituzione) che per Lucano rappresenta una bandiera, ma che per la giustizia italiana invece, resta solo un illecito amministrativo.

  • Lucano a sentenza: quale finale per il modello Riace?

    Lucano a sentenza: quale finale per il modello Riace?

    Dalla copertina di Fortune ad un’aula del tribunale di Locri, dalle continue richieste d’aiuto arrivate dalla Prefettura durante la crisi di Lampedusa, all’accusa di «ricerca e di mantenimento a tutti i costi del potere politico»: è prevista per giovedì la sentenza su Mimmo Lucano, l’ex sindaco ideatore del “modello Riace”, trascinato in giudizio con accuse pesantissime (rischia una condanna a 7 anni e 11 mesi di reclusione) e protagonista di quella che da più di venti anni è bollata come “emergenza” immigrazione.

    E così, ad una manciata di ore dal silenzio elettorale – Lucano è capolista alle regionali tra le fila del candidato presidente Luigi de Magistris – arriverà la parola fine, almeno in primo grado, per un processo «che non è e non vuole essere – disse il Procuratore capo di Locri D’Alessio in fase di requisitoria – un processo politico» ma che, per usare le parole dell’ex primo cittadino di Milano e avvocato difensore di Mimmo “il curdo” Lucano, Giuliano Pisapia, certamente assomiglia «a un caso di accanimento non terapeutico» nei confronti di un modello di integrazione, operativo dal 1998 e studiato, per la sua unicità, nelle università di mezzo pianeta.

    Le accuse

    Sono 27 gli imputati del procedimento Xenia, considerati, a vario titolo, come cardini di un sistema nato per caso con l’arrivo sulle coste di Riace, nell’autunno del 1998, di un barcone carico di disperati curdi, e cresciuto negli anni fino a diventare un “caso” internazionale. Lucano viene arrestato dalla Guardia di finanza all’inizio di ottobre del 2018 con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fraudolento affidamento del servizio di raccolta della spazzatura, nell’ambito di un’inchiesta più vasta che uscì fortemente ridimensionata dal vaglio del giudice per le indagini preliminari.

    Il Gip infatti rigettò le accuse più pesanti ipotizzate dai magistrati locresi (associazione a delinquere, concussione, truffa ai danni dello Stato e malversazione) definendo la gestione del denaro arrivato a Riace come «disordinata ma senza illeciti». Un giudizio severo (e correlato di numerose critiche sulla superficialità delle indagini) a cui nel tempo si sono aggiunte le sentenze del tribunale del Riesame, della corte di Cassazione e della corte dei Conti che hanno ulteriormente smontato buona parte dell’ipotesi accusatoria. Pronunciamenti che però non convinsero il Gup Monteleone che, disponendo il giudizio, dopo 7 ore di camera di consiglio e 4 udienze preliminari, resuscitò le accuse più pesanti, a partire dall’ipotesi di associazione a delinquere e abuso d’ufficio.

    A giudizio un modello

    Ora, a distanza di tre anni da quell’arresto salutato con soddisfazione dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, sarà la Corte guidata dal neo presidente del Tribunale Fulvio Accursio a decidere sulla sorte degli imputati e, di conseguenza, sul modello Riace. Un modello rappresentato dai Pm come «l’opposto dello spirito dell’accoglienza; un sistema che ha attirato congrui finanziamenti e che è caratterizzato da una “mala gestio” che vede come parte lesa i migranti stessi».

    Non aveva usato mezzi termini il Procuratore D’Alessio, nel descrivere l’ipotesi dell’accusa: da una parte la difesa del procedimento «che non ha nulla di politico, né nella sua genesi, né nel sul sviluppo successivo ma che ha avuto una eco mediatica molto difficile da sostenere», e dall’altra la “demolizione” di ciò che aveva portato il piccolo centro jonico al centro dell’attenzione mondiale per il suo modello di integrazione “controcorrente”. «Qui l’accoglienza è stata mitizzata. Il denaro arrivava cospicuo, ma ai migranti finivano solo le briciole perché tutto veniva gestito mirando al consenso personale per coltivare le proprie clientele elettorali – diceva ancora D’Alessio – personalmente auspico che Riace possa tornare al centro dell’attenzione del mondo intero per l’accoglienza, ma non sulle spalle di tutte queste persone “portate dal vento”».

    La difesa

    «È un santo o un diavolo? Io credo che sia solo un uomo che ha messo la sua vita a disposizione dell’umanità. Un uomo senza un soldo, che viveva con l’aiuto economico del padre e che ha rinunciato a candidature sicure al Parlamento italiano e a quello europeo per restare fedele ai suoi ideali». Si potrebbe compendiare in queste poche parole il senso dell’arringa di Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e avvocato di Lucano che più volte, difendendo l’ex sindaco ha posto l’accento sul senso stesso del sistema Riace.

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    Giuliano Pisapia

    «Un sistema che durante il mio mandato di sindaco – ha detto ancora Pisapia – portò Riace ad accogliere 100 immigrati sbarcati a Lampedusa negli stessi giorni in cui la mia città, Milano, ne accoglieva solo 20, perché un conto è parlare di leggi, codici e opportunità, e un conto è dare una risposta nel momento del massimo bisogno per evitare il disastro. Era la Prefettura a dare a Lucano le liste con i migranti da accogliere. E ora si imputa a Lucano di non averli allontanati, ma chi può davvero pensare che Mimmo potesse cacciarli dal paese? Loro non volevano andarsene e Mimmo non voleva cacciarli. La Prefettura era a conoscenza di questa situazione».

    Un finale da scrivere

    Nelle parole di Pisapia e Daqua – arrivate in aula mentre sulle coste della Locride si vive l’ennesima emergenza sbarchi con migliaia di disperati arrivati negli ultimi due mesi – rivive il progetto che trasformò Riace da borgo in fin di vita a centro di integrazione, capace di ripopolare la scuola e le strade di un paese che si era negli anni desertificato. Un progetto creato da Lucano «perché credeva in quell’idea che sta scritta nella nostra Costituzione e non per la ricerca del potere» ha detto ancora Pisapia che, citando Calamandrei, ha ricordato alla Corte che «un giudice è anche uno storico, nel senso che scrive la storia». Una storia che, in un modo o in un altro, troverà conclusione giovedì.

  • Debito della sanità azzerato, tutti promettono ma Roma dice no

    Debito della sanità azzerato, tutti promettono ma Roma dice no

    Il debito della sanità calabrese? Azzeriamolo. Questa è la parola magica pronunciata in campagna elettorale dalla politica che promette di risolvere il dramma del buco nero del debito, la cui portata reale non è ancora stata interamente quantificata. Comprensibilmente è pure l’argomento cui i calabresi sono maggiormente sensibili, perché qui si decide se ci si può curare oppure no, se si devono cercare altrove centri specializzati e terapie che qui non funzionano.

    Per questo è anche il terreno di gioco dove si consuma la partita più importante, quella in cui si possono vincere oppure perdere le elezioni e l’idea di azzerare il debito della sanità è così suggestiva che finisce per accomunare tutti i candidati. Un desiderio destinato ad infrangersi contro l’ultimo verbale del “Tavolo Adduce”, la commissione che vigila sullo stato dei conti della sanità calabrese. E che spiega impietosamente che ogni ipotesi di stralcio non ha reale fondamento. Il documento evidenzia come «al momento non è stata quantificata l’entità del debito pregresso».

    Annunci da destra…

    Eppure in mille occasioni ogni candidato continua a sostenere la promessa di cancellare il disavanzo. Il primo a sollevare questa ipotesi è stato Roberto Occhiuto, che già nel dicembre del 2020 annunciava trionfante che grazie ad un suo emendamento «di fatto si azzera il debito». In realtà la supposta conquista del candidato della destra è piuttosto una rateizzazione del «debito sanitario diluendolo in 30 anni con un tasso d’interesse del 1,2%». Ma nel gioco delle parole il parlamentare, che ancora non era candidato alla presidenza della Calabria, nel settembre di quell’anno spiegava che «il problema del debito verrà azzerato».

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    Nino Spirlì e Roberto Occhiuto, il ticket che il centrodestra propone per la guida della prossima Giunta regionale

    Sullo stesso fronte nel marzo dello scorso anno il presidente facente funzioni Spirlì proclamava in una delle sue dirette social, ma anche in maniera più ufficiale, di aver avanzato «la richiesta di azzeramento al ministro della Salute Speranza». Il leghista spiegava che tale ipotesi «si poggia sulla constatazione che se non si riparte da zero sarà impossibile poter prevedere nuovi investimenti».

    … E da sinistra

    Ma se credete che il sogno della cancellazione del disavanzo appartenga solo alla destra vi sbagliate: la candidata del centro sinistra, Amalia Bruni, ha in più occasioni affermato la necessità di ricorrere a questa cura, perché «la ricetta necessariamente deve passare dall’annullamento del debito». Sulla stessa linea si è espressa Dalila Nesci, unica calabrese tra i sottosegretari del governo dei Migliori guidato da Draghi. L’esponente dei 5 Stelle, parlando della sanità regionale ha esortato a «lavorare per azzerare il debito». A questo miraggio non si sottrae nemmeno de Magistris, nel cui programma è scritto con chiarezza che si deve ottenere la «fine immediata di ogni commissariamento» e procedere «all’azzeramento del debito sanitario»

    I casi di Reggio e Cosenza

    La proposta dell’azzeramento rivela la misura della distanza tra il meraviglioso mondo della teoria e il severo mondo della realtà. E a marcare questa distanza è la dimensione del debito che gela ogni ipotesi di stralcio. Ma, soprattutto, sono le parole con cui si chiude la relazione del Tavolo Adduce.

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    L’Asp di Cosenza: l’ultimo bilancio consuntivo approvato risale al 2017 e sulla sua attendibilità sussistono parecchi dubbi

    «Con riferimento alla richiesta di costituire gestione stralcio per affrontare la questione del debito pregresso, con particolare riferimento alle ASP di Reggio Calabria e Cosenza, valutano che eventuali modifiche normative che potrebbero rendersi necessarie, dovranno essere valutate una volta definita la quantificazione del debito pregresso». Fuori dalla rigidità del lessico burocratico, vuol dire che non potete stralciare nulla, anche perché non siete stati in grado di dirci a quanto ammonta il debito e soprattutto come coprire l’eventuale azzeramento.

    Roma dice no

    Ma non è finita. La stessa relazione mette sull’avviso che «occorre poi attentamente valutare eventuali proposte normative che potrebbero generare effetti emulativi e ricadute in termini di finanza pubblica nel breve e nel lungo periodo, dopo un lavoro di risanamento dei conti del SSN che ha richiesto impegno pluriennale da parte di tutte le regioni». Tradotto in soldoni significa che le altre regioni che stanno affrontando piani di rientro con successo e sacrifici, potrebbero esigere di azzerare anch’esse il debito residuo.

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    La sede del Ministero della Salute

    E in conclusione di tutto ciò, lapidariamente si afferma che «pertanto la proposta di una gestione stralcio per il debito pregresso, per le motivazioni su esposte, non si ritiene percorribile». Se qualcuno pensava di risolvere la questione con un fantasioso scurdammoce ‘o passato, si è sbagliato alla grande.

  • Consiglio regionale: un anno e mezzo che «si illustra da sé»

    Consiglio regionale: un anno e mezzo che «si illustra da sé»

    Il 3 e il 4 ottobre si vota per rinnovare il consiglio regionale della Calabria, decaduto all’indomani della scomparsa della presidente Jole Santelli.
    Gli ultimi dodici mesi di amministrazione regionale, sono trascorsi in regime di prorogatio e a stipendio pieno –  sotto la guida del presidente ff, Nino Spirlì. In questo contesto, gli unici atti che la legge consente di emanare, sono quelli indifferibili caratterizzati da somma urgenza.

    E difatti, la maggior parte dei 113 provvedimenti licenziati da questa assemblea legislativa, sono riconducibili all’ordinaria amministrazione: approvazioni di rendiconti finanziari, presa d’atto di indirizzi della Unione Europea, approvazione dei bilanci di previsione degli enti strumentali o delle società partecipate dalla Regione più una infinità di proroghe a scadenze prodotte dall’emergenza Covid. Non fanno eccezione neppure atti datati nel tempo e dal forte valore simbolico come la liquidazione di Calabria Etica e dell’Afor, slittati a data da destinarsi.

    Per il resto, lo spartito seguito durante questa consiliatura è rimasto sempre lo stesso sin dai primi atti. E di rado è andato oltre le formalità: proclamazione degli eletti, nomine e surroghe nelle commissioni.

    Un passo avanti e uno indietro

    L’undicesima legislatura sarà ricordata per l’approvazione all’unanimità della legge sulla doppia preferenza di genere e sulla parità di accesso alle candidature tra uomini e donne.
    La legge, attesa da almeno cinque anni, è arrivata dopo una diffida del Governo che “sollecitava” la Calabria ad adeguarsi alla legislazione nazionale. Con la nuova normativa, nessun genere potrà essere rappresentato nelle liste elettorali per oltre il 60%.  E si possono esprimere due voti di preferenza per candidati di sesso diverso.
    La proposta di legge era stata presentata dai consiglieri Tallini, Minasi, Vito Pitaro, Aieta, Pietropaolo, Arruzzolo, Francesco Pitaro, Crinò, Graziano, Anastasi.

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    Domenico Tallini (Forza Italia)

    Sempre Tallini, il plenipotenziario forzista nel capoluogo di regione, è tra i protagonisti di un pasticcio legislativo difficile da dimenticare. È il 26 maggio del 2020 e Palazzo Campanella approva all’unanimità la legge sull’estensione del beneficio del vitalizio ai consiglieri regionali decaduti. Un provvedimento che «si illustra da sé», come lo definì presentandolo all’aula Fortugno il consigliere Graziano (Udc), approvato in meno di due minuti senza ulteriori discussioni o chiarimenti.
    Siamo in piena pandemia e la notizia deflagra a rete unificate. La pressione mediatica provocata da una ondata di indignazione popolare è tale che i consiglieri sono costretti a fare rapidamente dietrofront. E dopo appena una settimana la legge viene abrogata.

    Così come viene cassata, ma questa volta in silenzio e senza troppo clamore, anche la legge regionale 25/2009 che regolamentava le “Elezioni primarie per la selezione dei candidati alla presidenza della Regione”. La motivazione sempre nelle parole di Tallini: «L’abrogazione comporterà un notevole risparmio alle casse della Regione».

    Il Consiglio fa marcia indietro

    Alla chetichella vengono anche emendate una serie di leggi promulgate nel corso della legislatura con un fine lavoro di taglio e cucito semantico.
    Legge regionale sulle Pro Loco:

    proloco

    Alla legge per la “Promozione dell’istituzione delle Comunità energetiche da fonti rinnovabili” si aggiunge la parola “anche” all’art. 2 così da non limitare il potere delle Comunità energetiche alla sola iniziativa dei soggetti pubblici. Via la frase “zone archeologiche” dalla legge che istituisce il “Consorzio Costa degli Dei”: la materia è di competenza dei Beni Culturali, meglio evitare sovrapposizioni.

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    Ritocchi per il Governo

    Taglia di qua, aggiusta di là. Il lavoro di adeguamento delle norme regionali alla legislazione nazionale è continuo. Su impulso della Giunta regionale, il Consiglio approva la modifica dell’art. 14 della Legge 21/12/2009 per le “Attività di sviluppo nel settore della Forestazione”. Una rettifica dovuta all’illegittimità della norma così come intesa in Calabria per l’esercizio della delega delle funzioni amministrative sull’area del demanio marittimo.

    Per evitare una impugnativa del Governo – il Consiglio aveva “dimenticato” di fare riferimento al codice degli Appalti – viene modificata anche la legge regionale 23/4/2021 (“Disciplina delle modalità e delle procedure di assegnazioni delle concessione di grandi derivazioni idroelettriche della Regione Calabria”).

    Via di bianchetto anche per la legge 20/12/2012 “Istituzione dell’Arsac e disposizioni in materia dello sviluppo dell’agricoltura”. Onde evitare richiami del Governo per la mancata composizione del Comitato tecnico di indirizzo previsto dalla legge, il Consiglio abroga la figura del comitato stesso: problema risolto.

    Una sola legge di sinistra

    Porta la firma di Graziano Di Natale l’unica legge presentata da un esponente di minoranza e approvata all’unanimità dal consiglio regionale. La norma “Disposizioni per garantire condizioni controllate e/o sicure in ambito ospedaliero tra degenti e familiari” punta a istituire un protocollo operativo che garantisca accessi regolamentati ai reparti Covid e al contempo consenta di alleviare le sofferenze dei degenti.

    Se il farmacista è meglio di un caposala

    Nonostante non rivesta il carattere della necessità e dell’urgenza, trova l’approvazione dell’aula la “norma per l’utilizzo dei farmaci nelle strutture pubbliche e private” promossa da Giannetta, Anastasi e Arruzzolo.
    La norma introduce la figura di un farmacista abilitato nelle strutture sanitarie per l’approvvigionamento, allestimento e somministrazione dei farmaci all’interno delle strutture sanitarie pubbliche e private.

    «Allo stato attuale, infatti, nelle strutture sanitarie i caposala infermieri – si legge nella relazione descrittiva – , al di fuori delle loro competenze, detengono un armadio farmaceutico e dispensano i farmaci. Questa anomala situazione comporta un costo elevato per il sistema sanitario perché i frequenti errori nella gestione, somministrazione e controllo della terapia farmaceutica possono provocare danni ai pazienti, aumentare i giorni di ricovero, non garantire prestazioni sanitarie ottimali e aumentare gli oneri a carico del sistema sanitario calabrese».
    Una legge, a detta dei firmatari, che non comporta alcun aggravio per le casse regionali ma che forse peserà sui bilanci delle strutture sanitarie con i conti già in rosso.

    Liquidazioni lunghe per enti strumentali e comunità montane

    Il consiglio regionale è intervenuto con una legge ad hoc per impedire che la liquidazione delle comunità montane finisse in un indistinto pignoramento di massa. L’iter legislativo è partito dopo che i creditori di una comunità montane del reggino avevano bloccato i conti di una comunità montana cosentina per il solo fatto che facevano riferimento allo stesso soggetto.
    In questo caso, il Consiglio è intervenuto per ribadire che «sebbene il commissario liquidatore fosse unico, l’entità giuridica delle comunità montane è da considerarsi separata e nessuno poteva avanzare pignoramenti presso terzi».

    Molinaro e la passione per l’agricoltura

    Si concentra sui Consorzi di bonifica e sul patrimonio forestale, l’attività legislativa del leghista Pietro Molinaro. Forte del suo passato al timone della Coldiretti, il consigliere propone una modifica nella procedura di trascrizione – pubblicazione dei parametri dei contribuenti dei consorzi che ottiene il via libera dall’assemblea. Si passa così da una trascrizione e da una pubblicazione dei computi per ogni singolo consorzio a una sola pubblicazione per conto della Regione Calabria.

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    Pietro Molinaro (Lega)

    Disco verde anche per la modifica apportata alla gestione, tutela e valorizzazione del patrimonio forestale regionale (art. 2 legge regionale 12/10/2021) che introduce la modifica dei piani di coltura per la sostituzione delle piante esotiche con specie autoctone. Via libera all’eradicazione delle piante non gradite, senza troppi problemi.

    Più dettagliata la modifica e l’integrazione legislativa introdotta da Pitaro, Arruzzolo, Neri, Pietropaolo, Minasi, Graziano e Crinò alla legge regionale 30/4/2009 sull’esercizio delle attività formative previste per le aziende agricole.
    Il consiglio regionale approva la sostituzione di “dieci ore obbligatorie di stage” con “l’impegno a presentare attestazione di formazione entro sei mesi dalla data della domanda di iscrizione”.

    Questione di euro

    Per dare una scossa al sistema produttivo regionale in piena emergenza Covid, su impulso del consigliere Pietropaolo viene approvato un provvedimento per lo “Sviluppo dell’industrializzazione e dell’insediamento dell’attività produttive”: tre milioni di euro da FinCalabra al Corap.

    Commissioni

    A rilento anche il lavoro delle commissioni consiliari. La più produttiva risulta la Commissione sanità. Che tenta più volte di introdurre un sussidio per i malati oncologici affetti da alopecia, senza riuscire però a fare approdare la discussione in Consiglio.
    Ferma al palo la Commissione riforme, riunitasi solo nel luglio 2020. Nessuna proposta di rilievo dalle altre commissioni, neanche dalla commissione speciale contro la ‘ndrangheta. Eppure di stimoli ne avrebbe parecchi.

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    Il consigliere regionale uscente Graziano Di Natale

    L’attivismo in Consiglio è prerogativa della maggioranza, in questa legislatura l’opposizione è apparsa particolarmente sonnacchiosa e priva di mordente. Poche interrogazioni, interpellanze e mozioni. La palma del più sveglio alla new-entry Graziano Di Natale che ha presentato 69 interrogazioni e 22 mozioni. Eterea la presenza di Aieta: due provvedimenti in due anni.

    Al Consiglio che uscirà dalle urne il prossimo 3 e 4 ottobre, l’incarico di vincere la sfida lanciata dai loro predecessori. A conti fatti, non dovrebbe essere un compito impossibile.

  • Pesca da Aprile: de Magistris fa il pieno di “terroni”

    Pesca da Aprile: de Magistris fa il pieno di “terroni”

    Avevano promesso fuoco e fiamme. Volevano portare la rivoluzione nel Sud e da qui, estenderla a tutto il Paese. Gianfranco Viesti era il loro mito, Pino Aprile la loro musa. Adesso, dopo circa due anni di vita, il Movimento 24 agosto-Equità territoriale, annunciato nell’estate 2019 al Parco nazionale della Grancia, in Basilicata, fondato a Scampia con regolare atto notarile e presentato a Cosenza, è evaporato.
    Di tanti entusiasmi, esplosi soprattutto nei social, è rimasto poco: sei candidati spalmati nelle liste di Luigi de Magistris, l’unico interlocutore con cui il partitino meridionalista guidato da Aprile era riuscito a quagliare. Nessuno dei sei ha il simbolo e, se non fosse per le polemiche esplose su Facebook, sembra quasi che il M24a-Et non sia davvero esistito.

    La versione di de Magistris

    Sull’evaporazione del partito di Aprile de Magistris ha detto la sua in maniera poco equivocabile: non sono io che ho “divorziato” da Pino, ma viceversa.
    Poi, il quasi ex sindaco di Napoli ha rivelato un dettaglio: il no dello stato maggiore del Movimento 24 agosto sarebbe arrivato alla fine dello scorso mese, proprio mentre era in corso una manifestazione di de Magistris nel Lametino.
    Il no alla coalizione col primo cittadino di Napoli si è risolto in un boomerang: gli aderenti a M24a-Et sono passati armi e bagagli col candidato Masaniello e il partito si è svuotato.
    Questo travaso è il terminal di mesi di frizioni, polemiche e dubbi.

    I terroni in trincea

    Prima di raccontare la storia è il caso di capire chi siano i sei candidati, alcuni dei quali non proprio sconosciuti.
    Nella circoscrizione nord ci sono Mario Bria, noto per i suoi trascorsi di sindaco a Rose e di consigliere provinciale durante la prima giunta Oliverio, e Marianna Avolio, che corrono in ticket in de Magistris presidente.

    Nella circoscrizione centrale c’è Amedeo Colacino, ex sindaco di Motta Santa Lucia, candidato in Dema. Con lui è in ticket Francesca Gallello. Poi c’è Bruno Aversa, candidato in Per la Calabria con de Magistris.
    Nella circoscrizione sud c’è, invece, Maria Stella Morabito, che corre in de Magistris presidente.

    Una postilla è doverosa: Amedeo Colacino, già vicino a Orlandino Greco e legato da anni agli ambienti neoborbonici, fu protagonista, all’inizio dello scorso decennio, di una lunga battaglia giudiziaria contro il Museo Lombroso di Torino, accusato nientemeno che di razzismo antimeridionale.
    Insomma, un avanguardista del terronismo, che legò con Aprile sin dai tempi d’oro del bestseller “Terroni” (2010).

    La campagna elettorale

    In politica i pesci piccoli partono per primi. Così è stato per M24a-Et.
    I primi colloqui sono iniziati a novembre e si sono svolti con Carlo Tansi, che subito dopo ha litigato di brutto con Aprile sulla questione delle candidature.
    Solo l’ingresso di de Magistris ha placato gli animi, ma per poco.
    Le cose sono precipitate con la fine del Tandem, l’effimera liaison tra Tansi e de Magistris e con l’ingresso di una buona fetta di sinistra scontenta del Pd.
    Sono cose note: Aprile è diventato direttore di testata proprio in Calabria e il Movimento ha iniziato a perdere colpi.

    I capi terroni

    I movimenti non sono solo i loro leader. Con loro operano sempre dei dirigenti che si danno da fare nei territori. Ciò vale anche per M24, che qui in Calabria  contava su quattro “colonnelli”.
    Due non sono volti nuovi: Paolo Spadafora e Paolo Mandoliti, per citare i cosentini, erano vicini ai fratelli Occhiuto.

    Per quel che riguarda gli altri, uno solo è un neofita del terronismo: Mario Cosenza, un medico fisiatra cosentino. L’altro, il reggino Pasquale Zavaglio, ha un’estrazione neoborbonica simile a quella di Colacino.
    Tolto Spadafora, uscito dal Movimento circa un anno fa, gli altri tre sono rimasti alla guida. 

    La ribellione

    I “terronisti” si sono divisi in due blocchi: da una parte chi non ha gradito il nuovo impegno professionale del leader, dall’altra chi lo ha giustificato.
    Le cose si sono aggravate in seguito alle difficoltà incontrate nella compilazione delle liste, perché i candidati disponibili erano solo undici.
    Il tentativo è naufragato di fronte alla decisione dei vertici di non appoggiare de Magistris e di correre da soli.

    Questo proposito è collassato perché la lite interna, era deiventata pesantissima. Tant’è che è mersa il venticinque agosto sulla pagina Fb del Movimento, grazie a un post firmato dai suoi fondatori, tra cui lo stesso Colacino: sono volate accuse di scarsa democraticità e insulti. Tanto più rumorosi quanto più è piccolo l’ambiente che li ha prodotti.
    E la rivoluzione? Un’altra volta.

     

  • Ciccio Pakistan estradato, ritratto del boss della montagna

    Ciccio Pakistan estradato, ritratto del boss della montagna

    Dalla vendetta a colpi di pistola a bordo di un vespino 50, alla strage di Natale; dall’attentato che lo costringe alla sedia a rotelle, fino alla follia sanguinaria di Duisburg. E in mezzo, evasioni, fughe all’estero e ricoveri sotto falso nome: la storia di Francesco Pelle, alias Ciccio Pakistan, riportato giovedì in Italia dopo il suo arresto in Portogallo, si lega a doppio filo con quella della faida di San Luca e chiude il cerchio, a 16 anni dall’eccidio tedesco, con una delle pagine più violente della storia criminale italiana.

    Trenta anni di omicidi, agguati e lupare bianche sullo sfondo di un paese, San Luca, in ginocchio. Trenta anni in cui l’uomo che fu la causa scatenante della strage davanti al ristorante “da Bruno”, ha avuto il tempo di ritagliarsi un posto alla tavola di quelli che contano. Un posto guadagnato sul sangue di una faida senza fine, iniziata con quella che sembrava un’innocua bravata nel giorno di Carnevale del 1991, e terminata a Ferragosto del 2006 con i sei cadaveri di Duisburg.

    Sangue caldo

    Francesco Pelle è ancora un ragazzino quando entra in diretto contatto con le guerre di ‘ndrangheta. È il primo maggio del 1993 – il crimine organizzato calabrese lega da sempre le proprie azioni omicide con le giornate di festa – e San Luca è diventato un posto pericoloso già da due anni, con i primi morti della guerra sulla montagna. Durante la mattina del giorno dei lavoratori, in una stalla arroccata in una frazione montana, cadono sotto i colpi dei killer, Giuseppe Vottari e Vincenzo Puglisi, organici della potente cosca dei “Frunzu”, giustiziati da un commando degli storici rivali dei Nirta – Strangio.

    Un agguato a cui sarebbe dovuto seguire una nuova azione degli alleati dei killer, con il “pattugliamento” del paese per frenare sul nascere ogni tentativo di reazione. Ma nei primi anni ’90 le comunicazioni possono essere un problema serio anche per gente organizzata e disposta a tutto, e la seconda parte del piano salta, favorendo l’immediata reazione delle famiglie dei Pelle – Vottari.

    È una fonte confidenziale raccolta dai carabinieri di San Luca a indicare proprio l’allora giovanissimo Ciccio Pakistan come uno degli autori del commando che al doppio omicidio della mattina risponderà, nel primo pomeriggio, con gli omicidi di Giuseppe Pilia e Antonio Strangio, ammazzato nella propria auto il primo, freddato davanti alla sua macelleria in paese il secondo.

    Secondo quell’anonimo informatore, Ciccio Pakistan avrebbe guidato l’assalto guidando una Vespa truccata. Mai formalmente accusato di quel doppio omicidio, Ciccio Pakistan, che a quei tempi è ancora un pesce piccolo ma dalle parentele (i Gambazza e i Vanchelli) pesantissime, sparisce dai radar, rifugiandosi in Germania. Un esilio volontario, alla maniera dei boss, che gli servirà per acquisire nuovi contatti.

    Ammazzateli tutti

    Le faide di ‘ndrangheta non sono guerre “normali”, a volte vanno in sonno, per poi riesplodere violentissime alla prima occasione. Nel caso della faida di San Luca l’elemento che riapre le ostilità è segnato dalla cattura di uno degli storici boss del crimine organizzato calabrese, Giuseppe Morabito “il tiradritto”, scovato dalle forze dell’ordine dopo una latitanza da guinness dei primati.
    In seguito alla cattura del mammasantissima africoto, restano sul terreno Antonio Giorgi e Salvatore Favasulli. I due pezzi grossi delle ‘ndrine della montagna vengono uccisi a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro e segnano il passo per l’agguato che lascerà per tutta la vita su una carrozzina il nuovo boss dei Pelle.

    In questo vortice impazzito di violenza folle, dove al sangue si risponde solo col sangue, Ciccio Pakistan viene colpito alla schiena da un commando di fuoco che ha sparato da lontano: «Mi hanno voluto fare il regalo per il bambino» dirà Pelle intercettato dai carabinieri nella sua stanza d’ospedale durante la degenza per i colpi subiti.
    Proprio quel giorno, il 31 luglio del 2006, il figlio neonato di Pelle era stato portato a casa, ad Africo, per la prima volta.

    La strage di Natale e quella in Germania

    Il clima a San Luca è pesante come non mai in quei giorni, persino il ramo dei Pelle “Gambazza” tenta di mediare con il boss ferito per evitare nuovo sangue, ma senza risultato. Nel pomeriggio del giorno di Natale del 2006 infatti, un gruppo armato fino ai denti si presenta davanti al n. 150 di via Corrado Alvaro, a San Luca, la casa del boss Giuseppe Nirta, capocosca dei “Versu”. Sono decine i colpi esplosi che uccidono Maria Strangio, moglie di Giovanni Luca Nirta, vero obiettivo del commando di fuoco che intendeva vendicare il ferimento di Pakistan, e feriscono in modo grave altre tre persone, tra un cui un bambino di 4 anni.

    Sarà proprio la strage di Natale a costare la condanna a fine pena mai per il boss di San Luca, che di quell’azione è stato considerato il mandante. Passano pochi mesi, a San Luca si continua a morire (ma in quel periodo erano attive anche le faide tra i Cataldo e i Cordì a Locri e quella tra i Commisso e i Costa a Siderno) ma è in Germania che la vendetta assumerà i termini più tremendi. A Duisburg, duemila e passa chilometri dal paesino arroccato in Aspromonte, vengono trucidati in sei. A guidare il commando, Giovanni Strangio, giovane fratello della donna morta ammazzata pochi mesi prima. Sarà l’atto finale della faida della Montagna, una follia di violenza senza senso che oggi, con l’arrivo in manette a Ciampino di Ciccio Pakistan, può, forse, ritenersi definitivamente chiusa.

  • «Deve sembrare una disgrazia»: così volevano uccidere il figlio di Gratteri

    «Deve sembrare una disgrazia»: così volevano uccidere il figlio di Gratteri

    «Quello della pace è un discorso soggettivo, personale e sindacabile. E io, nonostante la pace, continuavo a covare rancore. Brusaferri aveva tentato di ammazzare mio zio Domenico, sono cose che non si dimenticano. Ma la guerra aveva portato tanti omicidi, tanti carcerati e nessun risultato, per questo mio zio Giuseppe Cataldo e il cognato dei Cordì, Vincenzo Cavaleri, siglarono la pace».

    Camicia a righe, spalle alla telecamera e toni bassi, nelle prime dichiarazioni di Antonio Cataldo (il primo a portare quel nome così pesante a collaborare con la giustizia) emergono, tra montagne di omissis, spiragli di quella che fu una delle guerre di mafia più lunghe e feroci del crimine organizzato sul mandamento jonico.

    Una guerra iniziata nel 1967 con la strage di piazza Mercato e poi congelata fino al 1993, quando una bomba a mano lanciata sull’auto in corsa di Giuseppe Cataldo – uscito praticamente incolume assieme alla moglie dalla carcasse fumante dell’utilitaria Fiat ormai distrutta – riaccese gli animi, in una Babele di violenza che insanguinerà le strade di Locri per quasi un ventennio.

    Il fuoco sotto la cenere

    Nel racconto di Cataldo, poco più di un underdog del narcotraffico ma dal nome pesantissimo, una vita passata tra il carcere e la latitanza e un presente da “appestato” rincorso «dagli amici e dai nemici», viene fuori uno spaccato inedito sulla pace tra i due clan santificata sull’altare degli affari: una pace che frena la violenza ma conserva il rancore. «Seppi della pace da mia zia Teresa che mi portava in carcere una ambasciata di mio zio. Quel giorno mi disse: da ora, saluta tutti». Forma e sostanza, come da tradizione ‘ndranghetistica, si fondono assieme e quel saluto, prima negato, agli esponenti della cosca rivale dei Cordì rinchiusi nello stesso carcere, sugella l’accordo che pone fine alla mattanza.

    «Da quel giorno ho iniziato a salutare i Cordì e a parlare con loro. Ho parlato anche con Guido Brusaferri – nipote dei mammasantissima Cosimo e Antonio Cordì – eravamo in carcere a Reggio Calabria ma gli ho parlato un paio di volte, nonostante la pace ed i buoni rapporti, io li consideravo comunque nemici: sono loro che hanno fatto uccidere mio fratello e mio zio. Brusaferri mi aveva invitato al pranzo di Natale in cui c’erano i locresi e io non sono andato. Dopo l’attentato a mio zio, mio fratello era uscito di casa con la pistola per vendicarsi proprio su Guido Brusaferri che nell’agguato aveva avuto sicuramente un ruolo, ma poi non fece niente perché qualcuno lo avvisò e non riuscì a trovarlo».

    L’attentato

    Ma se sotto la cenere il fuoco continua a bruciare, la pace ritrovata consente lo scambio di informazioni. Ed è durante una passeggiata «all’aria» nel carcere di Reggio che Cataldo raccoglie dall’antico nemico Brusaferri, la confidenza sull’idea maturata nella locale locrese, di un attentato al figlio del Procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri.

    «Eravamo all’aria con Brusaferri che mi disse che tutta quella storia della guerra era stata uno sbaglio e poi mi ha raccontato il fatto di Gratteri. Era il periodo che si diceva che Gratteri sarebbe potuto diventare ministro della Giustizia e tutti ne parlavano in carcere. I detenuti erano terrorizzati dall’idea che Gratteri diventasse ministro della giustizia. Lui è uno che la ‘ndrangheta la conosce ed è un uomo severo: tutti temevano leggi ancora più severe. Brusaferri mi disse: “deve sembrare una disgrazia, se lo fanno ministro simuleremo un incidente con il motorino”». Vittima designata, il figlio del magistrato di Gerace, da 30 anni ormai sotto scorta. Una circostanza che Cataldo aveva già raccontato agli investigatori e che poi aveva ritrattato ma che per fortuna di Gratteri e suo figlio non è mai stata portata a compimento.

    Mi cercano tutti

    La nuova collaborazione di Cataldo – che con i magistrati aveva iniziato a parlare già nel 2013, ritrattando poi in aula le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti durante gli interrogatori «perché avevo deciso di farmi i fatti miei» – riprende solo all’inizio di questa estate. Abbandonato dalla moglie e dalla famiglia «quando sono uscito dal carcere sono andato a casa di mia madre ma la mia famiglia non mi voleva e le mie sorelle chiamarono i carabinieri per farmi andare via», rimasto senza un soldo e guardato come un paria dai vecchi compari, è lo stesso Cataldo a raccontare i motivi della sua decisione di collaborare con la giustizia.

    «Nelle carte di un’operazione erano uscite delle intercettazioni in cui io facevo commenti su mio cugino e su Vincenzo Cordì. Temevo per la mia vita, in quei giorni mi cercavano con insistenza in tanti sia tra i miei parenti Cataldo sia tra gli uomini delle cosche avverse dei Cordì e dei Floccari». Ed è la paura per quello che potrebbe succedergli che spinge Cataldo a precipitarsi dai carabinieri della compagnia di Locri nella notte del sette giugno e a vuotare il sacco. Con gli investigatori dell’Arma, Cataldo parla per ore e ore, per poi ripetersi, nel pomeriggio, anche con i magistrati dell’Antimafia. Un racconto per ora coperto da numerosi omissis, ma che potrebbe fare luce su una delle pagine più oscure della storia criminale di Locri.