Categoria: Fatti

  • San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    San Ferdinando, la dignità in vendita a 50 centesimi

    Alla “nuova” tendopoli di San Ferdinando ci si arriva attraversando il deserto della seconda zona industriale, alle spalle del porto di Gioia. La presenza sempre più ingombrante di immondizia stanziale indica la vicinanza al nuovo ghetto. È sorto in risposta allo sgombro della vecchia baraccopoli.

    La “nuova” tendopoli di San Ferdinando

    Sul piazzale di quello che una volta era l’ingresso ufficiale del campo (e che ora è solo uno dei tanti varchi d’accesso all’area) i medici dell’Asp e i mediatori culturali sono in campo. Si occupano della somministrazione delle seconde dosi di vaccino per i “residenti”. Chi deve completare il percorso vaccinale, chi ha già contratto il covid durante la “zona rossa” e deve fare la prima dose, chi è in attesa del green pass che ancora non è arrivato. Tutti, più o meno, sono ordinatamente in fila davanti al campo che c’è ma che allo stesso tempo non esiste.

    L’approccio emergenziale ha fallito

    Una sorta di paradosso quantico-burocratico di stampo calabrese per cui – dopo l’inevitabile resa del sindaco di San Ferdinando e l’infinito rimpallarsi di responsabilità di Regione, Città metropolitana e ministero dell’Interno, che continuano ad approcciarsi al fenomeno solo sotto l’aspetto emergenziale – la tendopoli è, da mesi, in fase di smantellamento e quindi non riceve più servizi ufficiali (mensa, raccolta della spazzatura, controllo degli accessi e dei residenti, manutenzione) ma continua paradossalmente a essere accettata, anche se i problemi sono aumentati negli ultimi mesi, come residenza per gli stranieri “regolari” che la utilizzano per i loro documenti e che lì, in condizioni subumane, ci vivono.

    Una bomba sociale pronta ad esplodere

    Una sorta di non luogo che, come gli esempi che lo hanno preceduto, si sta trasformando nell’ennesima bomba sociale pronta ad esplodere. E come nella storiella del calabrone che vola pur non essendo adatto a farlo, la tendopoli che non esiste, continua ad attirare lavoratori migranti, con nuove tende che vengono allestite ai margini del campo e baracche di legno e cartone costruite dove capita.

    Storie di ordinario degrado nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Il ghetto

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione e telecamere è andato distrutto durante la sommossa scoppiata durante la prima fase della pandemia, in seguito all’istituzione della zona rossa che blindava all’interno tutti i migranti. Da quando le istituzioni hanno alzato bandiera bianca nessuno si occupa più di censire i residenti. Anche il presidio fisso di polizia è stato smantellato, con le volanti che nei giorni “normali” si limitano ad una ronda discreta. Con lo stop ai progetti (e quindi ai fondi ad essi legati) il campo vive in una sorta di autogestione traballante.

    Il vecchio ingresso con badge di identificazione
    Restano i volontari di Emergency

    Sono rimasti solo sindacato e associazioni di volontariato. Danno una mano e garantiscono una serie di servizi essenziali, dall’assistenza legale a quella sanitaria fino alle consulenze di carattere amministrativo. I medici del presidio di Emergency vengono sul posto due volte al giorno. Curano l’aspetto sanitario quotidiano. Ma i malati cronici vanno incontro a mille difficoltà.

    «Amed ha un grosso problema cardiaco, finalmente dopo mille telefonate siamo riusciti ad ottenere una visita specialistica a Polistena. Lo portiamo noi, a spese nostre». Ferdinando e Fabio sono due volontari della Caritas, in passato inseriti in uno dei progetti di gestione del campo.

    Quando i soldi sono finiti, non hanno smesso di occuparsi della tendopoli e nel nuovo ghetto alle porte di San Ferdinando, continuano a venirci almeno tre volte la settimana: «Ci occupiamo di aiutarli con i documenti, distribuiamo cibo e vestiti, ma è sempre più difficile, sono spariti quasi tutti».

    Botte e morti non sono mancati

    Attualmente nel campo ci sono circa 250 residenti, di una quindicina di nazionalità diverse. Le tensioni sono all’ordine del giorno e in passato numerosi sono stati gli episodi di violenza esplosi tra residenti, e i morti non sono mancati. Tutti uomini con età media attorno ai 30 anni, vivono in quello che resta delle tende piazzate dal Ministero. Ma i numeri sono destinati a crescere.

    Tra un paio di settimane si aspetta la prima ondata dei raccoglitori di kiwi e quando anche la stagione delle clementine entrerà nel vivo, in quella sorta di universo parallelo che cresce alle spalle del porto, la popolazione potrebbe sfiorare le mille unità. E infatti, in ogni pezzettino di terra disponibile, spuntano nuove capanne improvvisate mentre in quelle vecchie si stendono i tappeti con funzione isolante. Ma escamotage e piccoli interventi non cambiano la sostanza delle cose e le condizioni di vita restano agghiaccianti.

    Capanne costruite con materiali improvvisati
    La bottega dell’acqua calda

    Inizialmente erano state predisposte delle centraline elettriche, ognuna in grado di garantire luce e riscaldamento per sei tende. Ma quando le cose hanno iniziato a precipitare nessuno ha più curato la manutenzione, cosa che ha favorito il moltiplicarsi degli allacci abusivi alle centraline superstiti che, a cascata, provoca continui blackout mandando a farsi strabenedire ogni proposito di sicurezza.

    Stesso discorso per l’acqua. Quella calda ormai è un miraggio, tanto che tra le baracche di nuova costruzione ne è spuntata una in cui “lavora” Keità, un gigante del Senegal di poco meno di 30 anni. Ogni giorno si occupa di tenere acceso il fuoco sotto i bidoni colmi d’acqua messa a scaldarsi: la vende a secchi, 50 centesimi ciascuno. I migranti la usano per lavarsi dopo una giornata di lavoro.

    Keità, il gigante del Senegal nella bottega dell’acqua calda

     

    Issa viene dal Gambia e ripara bici

    La bottega dell’acqua calda non è però l’unica operativa all’interno della tendopoli. Issa viene dal Gambia e nella tendopoli ci vive da anni. In quella sgombrata prima e in questa che non esiste adesso. Ripara biciclette (la quasi totalità dei migranti africani si muove sulle bici, e in passato non sono mancati gli incidenti mortali lungo le strade che collegano le città del porto) «ma solo quando non mi faccio la giornata di raccolta delle arance, qui non si guadagna molto. In questo momento non siamo tanti e il lavoro di meccanico è ridotto, ma quando comincia la stagione della raccolta arrivo a riparare anche 15 bici al giorno».

    La bottega dell’acqua calda nella nuova tendopoli di San Ferdinando
    Cronaca di un fallimento
    Dai capannoni fatiscenti della Rognetta in cui covò la rivolta del 2010, alla baraccopoli dell’orrore costruita dietro il capannone sequestrato ai Pesce e sgombrata a favore di telecamera dall’allora ministro Salvini, fino alla nuova tendopoli, allestita 500 metri più in là della vecchia che, se ufficialmente risulta in via di smantellamento da mesi, brulica invece di umanità e si prepara ad accogliere la nuova ondata di stagionali: la storia dei ghetti per neri della piana di Rosarno racconta di un fallimento lungo più di 10 anni, con favelas più o meno autorizzate spuntate un po’ ovunque tra i casolari diroccati delle campagne e gli spiazzi abbandonati della semi deserta zona industriale alle spalle del porto.

     

    È un problema politico, non burocratico
    Un fallimento costruito sulle spalle dei lavoratori migranti, quasi tutti regolari, e su quelle degli abitanti dei paesi della zona che quei ghetti li hanno subiti a loro volta. Un fallimento da cui le istituzioni hanno pensato di uscire con la stipula di un documento (storia di una manciata di settimane fa) tra Regione, città metropolitana, Prefettura e comuni interessati «per il superamento della situazione emergenziale – recitava la nota ufficiale – che caratterizza le condizioni dei lavoratori stranieri presenti della piana di Gioia Tauro».
    Le difficili condizioni in cui vivono i lavoratori stagionali a San Ferdinando
    Un documento che lascia molte questioni in sospeso e che lo stesso sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, guarda con disincanto. «Fino a quando continueranno ad affrontare un evento epocale come quello migratorio con un approccio unicamente di tipo emergenziale e caritativo non andiamo da nessuna parte. Questo tipo di interventi finisce sempre col determinare tensioni che finiscono per scaricarsi sulla società che, a sua volta, reagisce con la pancia. Qui bisogna affrontare l’intera vicenda dal punto di vista politico e smetterla di riversare tutte le responsabilità sulle amministrazioni comunali che non sono neanche preparate ad affrontare questo tipo di situazioni».
    La dignità a 50 centesimi
    E mentre a Riace, sul versante jonico della provincia, l’accoglienza dal basso immaginata da Lucano nelle case abbandonate dagli emigrati locali è costata 13 anni e rotti di carcere, nello slum della piana di Rosarno, la dignità umana si vende a secchi. Cinquanta centesimi ciascuno.
  • Cosenza, una poltrona per due: eletti, bocciati e strategie verso il ballottaggio

    Cosenza, una poltrona per due: eletti, bocciati e strategie verso il ballottaggio

    I dati grossolani si sapevano già, perché la sciatteria amministrativa di Cosenza non poteva arrivare al punto di “imboscare” i risultati dei candidati a sindaco.
    Il capoluogo bruzio, grazie a questo risultato, farà notizia: due candidati quasi omonimi (ma non parenti e, addirittura, diversissimi) che si contendono la poltrona di primo cittadino.

    Una poltrona per due

    Sulla carta resta confermata la previsione più facile, in base alla quale Francesco Caruso, il vicesindaco uscente, sarebbe arrivato al ballottaggio senza alcun problema: d’altronde la compilazione delle liste, effettuata col solo scopo di far incetta di voti e senza andar troppo per il sottile, non lasciava spazio al minimo dubbio.
    Veniamo alla previsione un po’ meno facile: l’arrivo al ballottaggio di Franz Caruso, principe del foro dalla smodata passione socialista, sopravvissuto alla divisione del centrosinistra.
    Il primo ha preso il 37,4% dei voti, il secondo si è attestato sul 23,8%.

    Votati, ma non abbastanza

    Non parliamo, va da sé, di una metropoli, ma di una cittadina in collasso demografico che ha un elettorato di circa 41mila abitanti su 67mila circa residenti. Cioè briciole. Che si rimpiccioliscono ancora, se si considera che ha votato il 68% virgola qualcosa degli aventi diritto.
    In mezzo a loro, si agitano, in ordine di preferenze, l’ultrapopulista e iperpopolare Francesco De Cicco, assessore uscente dell’amministrazione Occhiuto, che col suo 13,9% ha superato Bianca Rende, dissidente altoborghese del centrosinistra cittadino che si è fermata al 12,8%.

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    Bianca Rende
    Gli outsider

    Seguono l’outsider di sinistra-sinistra Valerio Formisani (4,8%) e l’evergreen Dc Franco Pichierri (3,5%).
    Questi ultimi quattro sono gli unici che possono vendere cara la pelle nel ballottaggio in corso (anche Pichierri a cui, tuttavia, non scatterebbe comunque il consigliere).
    Dopo di loro, l’altro populista biturbo Francesco Civitelli, praticamente ex aequo con il catto-civico Fabio Gallo: 2%.
    Fin qui, nessuna notizia degna di nota.

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    Fabio Gallo
    La grande mattanza

    Ciò che non ha fatto notizia a dovere è l’esagerato numero di candidati, quasi 900. Il che fa capire che alleanze e apparentamenti non sarebbero indolori comunque.
    Prendiamo l’esempio di Annalisa Apicella, consigliera uscente di Fratelli d’Italia che ha preso, nella medesima lista, 483 voti. In caso di sconfitta di Francesco Caruso, la Apicella resterebbe fuori.

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    Annalisa Apicella (FdI)

    Ma non è detto che sarebbe favorita da alleanze e apparentamenti: troppo forte la lista, in cui l’avvocata cosentina è schiacciata dai big delle preferenze e rischia di diventare “sacrificabile”.
    Lo stesso discorso per Franz Caruso, che è costretto ad apparentarsi e allearsi più del suo avversario. Comunque vada, sarà un massacro di consiglieri.

    I record

    Con 1.172 voti, Francesco Spadafora, poliziotto di lungo corso e donnicese doc candidato in Fratelli d’Italia, è il consigliere comunale più votato. In assoluto: stavolta ha aumentato il record del 2016 (902 preferenze) e ha superato la ex vicesindaca Katya Gentile, risultata la consigliera più votata nel 2011(911 preferenze).
    Spadafora ha fatto di più: ha trascinato in consiglio la esordiente Ivana Lucanto, che ha guadagnato, anche grazie a questo ticket, 845 voti.
    Certi risultati non si improvvisano, ma sono il frutto di un impegno sul territorio di lunghissimo corso.

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    Francesco Spadafora si conferma per la seconda volta consecutivo il consigliere comunale più votato in città

    Un discorso simile vale per Michelangelo Spataro, che coi suoi 527 voti è il secondo più votato di Forza Cosenza, e per Damiano Covelli, altro evergreen della politica cittadina che ha “salvato” il Pd con 532 voti, tallonato a breve distanza, nella stessa lista, da Maria Pia Funaro, che ne ha presi 498.

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    Maria Pia Funaro
    Menzione d’onore

    Ma il vero miracolo politico, per giunta di lungo corso, è Antonio Ruffolo, alias ’a Mmasciata, ’u Scienziatu e Lampadina.

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    Antonio Ruffolo

    Ruffolo, che si è segnalato per il suo silenzio continuo in circa vent’anni di consiliatura (le sue dichiarazioni di voto sono sempre consistite in fonemi e alzate di braccio), è stato il più eletto in Forza Cosenza con 732 voti, ottenuti tra l’altro senza ticket.

    E ci mancherebbe: questi consensi sono il frutto di pluriennali clientelismi di quartiere, tutti low cost, ma che richiedono un impegno 24h. Cioè, sostituire lampadine nei condomini, aiutare anziani a fare la spesa ecc. Se le cose stanno così, Ruffolo più che di una quota rosa, ha bisogno di un’assistente: certi voti si “lavorano”, eccome.

    I trombati

    La lista potrebbe essere lunga. Ma, in tanto casino, il primato spetta senz’altro a Carlo Tansi, che batte due record, anzi tre: è il neofita della politica più sconfitto in assoluto.
    Primo record: la sua Tesoro Calabria, in coalizione con Bianca Rende, ha preso “solo” l’1,8% dei consensi.
    Secondo record: nonostante la candidatura da capolista (imposta dal ruolo da leader e dall’ego) Tansi ha ottenuto 128 voti ed è stato superato dall’architetto urbanista Maurizio Lupinacci, che ne ha presi 190.

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    Terzo record: nonostante tre candidature in Consiglio regionale da capolista, il geologo-ricercatore del Cnr non è riuscito a prendere consensi neppure a Cosenza, dove pure aveva sfondato alle Regionali solo un anno e mezzo fa. Segno che il “suo” messaggio “rivoluzionario” non ha funzionato. D’altronde è poco credibile infilarsi due volte nel centrosinistra, sostenendovi due leadership d’élite (oltre alla Rende, quella di Amalia Bruni) e pretendere di “cambiare le cose dal basso”.

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    Franco Pichierri, storico esponente democristiano

    Più sfumato il discorso per Franco Pichierri, la cui esclusione (salvi apparentamenti) sa di beffa, perché la sua mini-coalizione è riuscita a prendere il quorum senza ottenere un solo consigliere. Nessuno nega la sua bravura politica, maturata in una militanza quasi cinquantennale iniziata nella Dc (quella vera). Però è evidente che Pichierri è rimasto fregato dalla sua stessa abilità.

    L’ago della bilancia

    Per le sei liste dell’assessore uscente Francesco De Cicco vale il principio della mattanza: tantissimi candidati “immolati” alla elezione di un solo consigliere.
    Eppure i mille e rotti voti di De Cicco, ottenuti nei quartieri popolari – in particolare via Popilia – hanno il sapore di una rivoluzione: per la prima volta, i voti di determinate zone hanno un valore autonomo, capace di influenzare o, peggio, di determinare scelte politiche.

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    Francesco De Cicco

    L’ex assessore è diventato l’ago della bilancia a dispetto della sua inesistente cultura politica. E di sicuro in tanti “bussano” alla sua porta badando bene a non farsi scoprire o a non farsi scoprire troppo.

    Il quadro complessivo

    Difficile ipotizzare che Bianca Rende decida di appoggiare Francesco Caruso, perché in questo caso significherebbe andare con la Lega e Fdi. Un po’ troppo anche per il neocentrismo renziano a cui la Nostra sembra ispirarsi. Stesso discorso per Formisani e, in parte, Gallo.

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    Valerio Formisani

    Viceversa, con altrettanta difficoltà Pichierri potrebbe schierarsi con Franz Caruso, dato che Noi con l’Italia (la sua lista “principale”) si è schierata con Roberto Occhiuto alla Regione.
    Quindi, se non ci fosse De Cicco, i due schieramenti si equivarrebbero. Lui farà davvero la differenza e potrebbe trascinare con sé Civitelli che, da solo, è quasi ininfluente.

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    Francesco Civitelli
    Un’altra voglia di civismo

    Con troppa frettolosità si è detto che Fdi è il partito più votato, mentre “Franz Caruso sindaco” è la lista più votata.
    In realtà, Fdi è “solo” una lista, piena di candidati che in realtà hanno poco a che spartire con la storia politica di Giorgia Meloni e di Fausto Orsomarso. Ed è lista come quella di Franz Caruso, che mescola volti noti (Mimmo Frammartino, che ha ottenuto 200 preferenze) e volti nuovi (la criminologa Chiara Penna, che ha ottenuto 165 voti).

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    Domenico Frammartino, presenza fissa in Consiglio – tranne nell’ultimo quinquennio – dagli anni ’80 ad oggi

    Se l’avvocato Caruso la spuntasse, si ritroverebbe un seguito più personale che di partito, segno che a Cosenza i cittadini, specie a sinistra, hanno preferito l’impegno di persone senza tessera.
    Diverso il discorso per i meloniani: dopo i tentativi di condizionamento di agosto, Orsomarso & co. hanno tentato il tutto per tutto, cioè una lista civica con uno stemma di partito.

    Tra i litiganti Colla gode

    La lista Coraggio Cosenza, com’è noto, è nata da una crisi della Lega, “mollata” da Vincenzo Granata alla vigilia delle elezioni. È altrettanto noto che, per tamponare il vuoto, lo stato maggiore del Carroccio ha chiesto aiuto a Simona Loizzo, la quale ha investito su un altro evergreen: Roberto Bartolomeo, arrivato primo coi suoi 219 voti.

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    Vincenzo Granata, passato dalla Lega al movimento di Toti e Brugnaro (foto Alfonso Bombini)

    In Coraggio Cosenza, il record è toccato a Massimo Colla, che con 253 voti ha doppiato Granata. Secondo i maligni (e forse bene informati) Colla sarebbe stato aiutato a ottenere questo risultato anche dalla Loizzo, che gli avrebbe “spalmato” qualche consenso proprio per impedire che Granata esplodesse.

    Per finire

    Chi temeva di annoiarsi, può stare tranquillo: chiunque vinca, a Cosenza avremo un Consiglio comunale rissoso, chiacchierone (tranne Ruffolo) e a volte inconcludente.
    Proprio come in passato, sebbene sia difficile battere i primati dell’era Perugini.
    Comunque vada, sarà un casino.

  • Regionali Calabria: Gallo superstar, volti nuovi e trombati

    Regionali Calabria: Gallo superstar, volti nuovi e trombati

    Un cambiamento cruento in queste elezioni regionali in Calabria, con i vecchi big superstiti che si mescolano, anche per interposta persona, ai volti nuovi, alcuni dei quali tali solo per modo di dire.
    Giusto a voler anticipare qualcosa, non è un volto nuovo Franco Iacucci, che ha iniziato la sua carriera nel vecchio Pci (quello vero…), è sindaco uscente di Aiello Calabro, che ha amministrato praticamente a vita e presidente della Provincia di Cosenza.

    Nuovismo in salsa PCI

    Eppure Iacucci è uno dei “nuovi” consiglieri regionali più votati: coi suoi 6.705 voti ha stracciato, nella lista cosentina del Pd, il decano Mimmo Bevacqua, fermo sui 6.300, ed è entrato a Palazzo Campanella con la tutta la freschezza di un veterano, che ha speso la sua vita in politica e, in fin dei conti ha una sola novità: essersi smarcato in tempo utile dall’ex governatore Mario Oliverio.

    Chi non ha fatto altrettanto, cioè Giuseppe Aieta, ha pagato dazio. L’ex sindaco di Cetraro, candidatosi coi dem all’ultimo minuto utile, è rimasto fuori, nonostante una campagna elettorale dura e impegnativa. Così va la vita. Soprattutto in Calabria.

    Le conferme dirette

    In certi casi i numeri parlano da soli. È così per l’azzurro Gianluca Gallo, l’assessore uscente all’Agricoltura.
    Coi suoi 21.631 voti, Gallo è, probabilmente, il consigliere regionale calabrese di tutti i tempi. Per capirci, ha preso di più di Pino Gentile quando era all’apice nella Forza Italia e nel Pdl degli anni d’oro, e di Carlo Guccione, che fece urlare al miracolo nel 2014 per aver preso di più di Pino Gentile (che era già in fase calante…).

    Comunicazione e stile morbidi, come si conviene a un ex Dc, Gallo è riuscito in un altro miracolo politico: aver fatto a lungo il sindaco di Cassano Jonio, una delle realtà regionali più flagellate dalla mafia, senza essersi attirato neppure l’ombra di un sospetto.
    Anche il fatto che abbia gestito l’Agricoltura, una delle poche gettoniere efficienti della Regione, potrebbe voler dire poco: Giovanni Dima, per fare un esempio, fece il diavolo a quattro durante l’amministrazione Chiaravalloti, spese fondi alla grande e trasformò il suo assessorato in una fabbrica di dop. Tuttavia, riuscì a farsi rieleggere e basta.
    Solo la storia futura ci dirà se questa di Gallo sia “vera gloria”. Di sicuro il successo è indiscutibile.

    Le riconferme del collegio Sud

    Un altro confermato, nel collegio Sud, è Giuseppe Neri di Fratelli d’Italia. La sua performance, stavolta, è stata un po’ più bassa rispetto al 2020: poco più di 5mila voti rispetto ai precedenti 7mila e rotti. Ma l’importante è esserci. O no?
    Una superconferma arriva sempre da Reggio: è data dagli oltre 10mila voti di Nicola Irto, che prende un po’ meno rispetto al 2020 ma resta il consigliere più votato del Pd.
    I bene informati intravedono dietro questo successone una strategia politica ben precisa, che potrebbe prendere due direzioni: un ruolo nella dirigenza romana, quindi in Parlamento, o la segreteria regionale.

    Orsomarso ha giocato bene le sue carte

    A rigore non sarebbe un confermato Fausto Orsomarso, che nella precedente legislatura non era stato eletto. Tuttavia, l’assessore uscente al Turismo ha saputo giocare bene le carte offertegli dal suo dicastero e la fiducia di Giorgia Meloni, al punto di diventare, con 9.020 voti, il più votato in Fdi, anche a dispetto di qualche figuraccia rimediata nel corso dell’estate.
    Un’altra confermona è quella di Giuseppe Graziano, che inaugura la sua terza legislatura regionale con oltre 7mila voti, che ne fanno l’unico eletto nell’Udc. Segno che mollare Forza Italia, di cui era stato dirigente su indicazione della scomparsa Jole Santelli, a volte porta bene.
    A volte fa benissimo addirittura cambiare schieramento. Come per Francesco De Nisi, entrato a Palazzo Campanella grazie a Coraggio Italia, dopo vari, inutili tentativi col Pd.

    Conferme indirette

    Quando si stravince, come ha fatto Roberto Occhiuto, c’è chi vince per interposta persona.
    È il caso della famiglia Gentile, che ricorda un po’ il mito dell’Idra: se ne fai fuori uno, ne spuntano due. Infatti, lo spauracchio del giudizio preventivo della Commissione antimafia ha indotto Pino Gentile a miti consigli, quindi a non candidarsi. Al suo posto, si è candidata la figlia Katya, ex vicesindaca di Cosenza, che ha preso 8.077 voti in Forza Italia ed è la consigliera più votata della prossima legislatura regionale.

    Simona Loizzo, politicamente vicina a Tonino Gentile, fratello minore di Pino ed ex senatore azzurro, è riuscita ad affermarsi invece nella Lega, con 5.360 voti.
    Ma la vittoria che sa più di “vendetta” è quella di Luciana De Francesco, la moglie di Luca Morrone, altro grande escluso dalla competizione per via delle fregole legalitarie di Roberto Occhiuto. Con le sue 4.654 preferenze la De Francesco si è presa la rivincita di suo marito.

    Nuovissimi e nuovi ma non troppo

    La vera novità di queste elezioni è il paradosso del Movimento 5 Stelle, che prendono per la prima volta consiglieri regionali in Calabria mentre perdono pezzi in tutto il resto d’Italia.
    Uno dei due volti nuovi dei grillini appartiene al cariatese Davide Tavernise, che è riuscito a capitalizzare bene le alchimie politiche grazie alle quali M5s ha preso il quorum, anche a danno del suo compagno di lista Domenico Miceli, grillino della prima ora ed ex capogruppo al Consiglio comunale di Rende.

    Un altro volto nuovo è quello del notaio Antonio Lo Schiavo, uno dei due sopravvissuti alla sconfitta della coalizione di Luigi de Magistris. Lo Schiavo, tuttavia, è nuovo solo in Consiglio, perché ha all’attivo una candidatura a sindaco nella sua Tropea col centrosinistra.
    Stesso discorso per il medico castrovillarese Ferdinando Laghi, conosciuto ai più per le sue battaglie ambientaliste molto accese.

    Gli esclusi

    Tra i perdenti “eccellenti” figurano la reggina Tilde Minasi, salviniana di ferro esclusa dal consiglio perché i suoi non pochi voti sono risultati insufficienti nella stravittoria del centrodestra.
    Discorso diverso per il consigliere uscente Pietro Molinari, che invece ha perso voti, a dispetto della presidenza di una Commissione consiliare che secondo i maligni gli sarebbe stata cucita “su misura” per compensarlo della mancata attribuzione dell’assessorato, andato a Gallo Superstar.
    Flora Sculco, invece, ha scontato sulla sua pelle la batosta elettorale del centosinistra e il fatto di non essere riuscita a salire per tempo sul carro del probabile vincitore.

    Un evergreen

    Non è nuovo, tuttavia è come se fosse un consigliere regionale “onorario”: ci si riferisce all’eccentrico ed esplosivo Leo Battaglia, titolare dei manifesti elettorali più kitsch (in cui sembra una specie di Zio Sam in camicia nera…) e autore della bravata ferragostana che lo ha reso celebre in tutt’Italia: il lancio delle mascherine chirurgiche con spot elettorale.
    I suoi 1.500 voti sono un premio simpatia, che dovrebbe incoraggiarlo a insistere. In fondo, molte pareti pubbliche del collegio nord sono piene di sue scritte elettorali: gli torneranno utili, in maniera totalmente gratuita, per le prossime volte…

    Per concludere

    Con venti eletti su trenta, Roberto Occhiuto è anche il dominus indiscusso della consiliatura che sta per iniziare. E forse questo potrebbe essere un bene per la Calabria, visto che i dieci esponenti di minoranza saranno comunque costretti a fare opposizione: dati i numeri, non ci sarebbe troppo spazio per trasversalismi.
    La vittoria del leader azzurro non è bulgara, ma polacca. Cioè ricorda un po’ l’unico sistema dell’ex impero sovietico dove era tollerata una specie di minoranza politica.
    L’augurio è che la minoranza attuale sia rumorosa e faccia sul serio.
    Già: è facile, specie per i supertrombati come Carlo Tansi, dire che con la vittoria di Occhiuto ha perso la Calabria. Ma diventerebbe vero se il nuovo presidente fosse lasciato libero di fare e disfare senza polemiche e contrasti.

  • La FI di Occhiuto umilia tutti, il Pd riesce a salvarsi

    La FI di Occhiuto umilia tutti, il Pd riesce a salvarsi

    Diciamola tutta, amministrare la Calabria è un’ambizione che Roberto Occhiuto coltivava da sempre. Alla fine, c’è arrivato con un percorso piuttosto lineare, iniziato dieci anni fa con la vittoria di suo fratello Mario a Cosenza. Nulla di trascendentale: Occhiuto ha applicato alla lettera una regola non scritta ma ineludibile della politica calabrese, secondo cui si vince e si perde a Cosenza. Eroso il fortino “rosso”, per decenni appannaggio dei reduci della sinistra, il resto è stato una passeggiata.

    Roberto Occhiuto è il terzo presidente di regione consecutivo espresso da Cosenza. Ha preso di meno rispetto a Mario Oliverio (che nel 2014 conquistò la Regione col 61% calcolato su un’affluenza al voto prossima al 45%) e ha fatto quasi pari e patta con Jole Santelli, che ha preso nel 2020 il 55% dei consensi su una base elettorale del 45% circa.

    Su tutto dominano due dati. Il primo: Occhiuto ha fatto cappotto con una campagna elettorale piuttosto semplice e dai toni composti. Il secondo: mentre il centrodestra arranca in tutti gli altri contesti elettorali, in Calabria stravince. Scendiamo un po’ più nel dettaglio.

    Moderazione e furbizia

    Toni morbidi e rassicuranti. Soprattutto uno slogan banale e piacione: “La Calabria che l’Italia non si aspetta”. E poi un profluvio di foto e video, con cui il candidato azzurro ha invaso ogni spazio pubblico, a partire dai social.
    Niente urla né pose da giustiziere, ma solo una grossa furbata: la modifica al regolamento della Commissione antimafia, con cui l’allora aspirante governatore è riuscito a sterilizzare l’ombra ostile dell’ex grillino Nicola Morra e a togliersi di torno alcune candidature ingombranti.

    E poi una campagna elettorale tutta in discesa, in cui il deputato forzista ha avuto una sola difficoltà, tra l’altro interna: gestire i mal di pancia di Fratelli d’Italia, che minacciava fuoco e fiamme ma è stato smentito dai numeri. Col suo 17,3% Forza Italia stacca di nove punti il partito della sora Giorgia, inchiodato all’8,7%. Una cifra sulla base della quale è praticamente impossibile alzare la voce.
    Tantopiù che Fdi è tallonato a vista dalla Lega, che tiene la barra sul 8,34%, e da Forza Azzurri, di fatto la lista del presidente, che si attesta all’8,1%. Ma il cappotto riguarda tutte le liste occhiutiane, che, tranne Noi con l’Italia, hanno superato il quorum.

    Fin qui i dati grezzi, gli unici su cui è possibile ragionare, restituiscono una leadership forte, che probabilmente è l’esito di una gestione autoritaria della fase più delicata di ogni campagna elettorale: la compilazione delle liste.
    Tutto il resto è retorica della vittoria: l’accenno forte sul “fare”, il ripudio rituale della ’ndrangheta e dell’illegalità, la promessa di impegno per risollevare le sorti della Calabria, ecc.
    Ma i numeri azzurri non possono essere fraintesi né interpretati: dato per spacciato nel resto d’Italia, il movimento di Berlusconi tiene alla grande in Calabria e umilia gli alleati recalcitranti.

    Perde la Bruni, salvo il Pd

    I risultati complessivi ribadiscono l’inconsistenza degli avversari, tutti vittime del collasso del centrosinistra. È senz’altro vittima Amalia Bruni, col suo poco più del 27,6%.
    Questo dato conferma come la candidatura della scienziata lametina sia stata più il frutto di un’improvvisazione disperata che di una scelta. E fa capire come, dietro tutto, potrebbe esserci stato un ragionamento piuttosto cinico di alcuni vertici romani: suicidare il centrosinistra per “salvare” il Pd.

    Il segretario del Pd, Enrico Letta, a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Infatti, il partito di Letta, col suo 13,1%, conferma, seppure in parte, anche in Calabria l’attuale trend nazionale. E pazienza se questo risultato è stato ottenuto grazie al bagno di sangue più classico e truce, cioè costringendo tutti i big a candidarsi sotto il simbolo di partito, con la consapevolezza che solo uno per collegio ce l’avrebbe fatta.

    Uno zoom sul collegio cosentino può aiutare a chiarire: nella lista dem hanno gareggiato Mimmo Bevacqua, Giuseppe Aieta, Graziano Di Natale e Franco Iacucci.
    I primi tre hanno ottenuto risultati lusinghieri alle scorse Regionali, Iacucci, attuale presidente della Provincia di Cosenza, potrebbe contare su un buon risultato.
    Ma, data la performance della coalizione, solo uno entrerà in Consiglio. In pratica, si sono sacrificati per mantenere il partito sopra la linea di galleggiamento.

    Non finisce qui: l’asse del Pd potrebbe spostarsi verso lo Stretto se Nicola Irto confermasse i circa 12mila voti del 2020. In questo contesto fanno notizia due fatti: il raggiungimento del quorum dei Cinquestelle, che in Calabria prenderanno un consigliere (il mite Domenico Miceli?) e l’evaporazione di Carlo Tansi, la cui Tesoro Calabria è al 2,2%, a dispetto dei toni barricaderi del leader.

     

    Un flop per de Magistris?

    A Luigi de Magistris spetta la gloria degli sconfitti: è riuscito a staccare le sue liste, una sola delle quali de Magistris presidente (5,5%), ha superato il fatidico 4%. Tutto il resto, a partire da Dema (che sulla carta sembrava la lista più forte) è stato deludente.

    Luigi de Magistris (foto Alfonso Bombini)

    Il quasi ex sindaco di Napoli, in realtà, ha poco da rimproverarsi: si è mosso tanto e con molta abilità, è riuscito a smarcarsi bene da alcuni compagni di strada non proprio affidabili (Tansi, per capirci) ed è, infine, riuscito comunque a inserirsi in un territorio non proprio facilissimo, come quello calabrese.

    Tuttavia, il 16,15% non è un risultato lusinghiero per un candidato che prometteva rivoluzioni. Al contrario, significa che de Magistris non è riuscito a portare alle urne gli astensionisti e i delusi, gli unici che per lui avrebbero potuto fare la differenza.
    E non occorre essere politologi scafati per capire che in questo risultato hanno pesato non poco alcuni errori nella compilazione delle liste, in cui si sono schierati alcuni evergreen della sinistra, radicale e non (ad esempio, il cosentino Mimmo Talarico, già consigliere regionale in Idv con un passato turbolento in Sd e nella Sinistra arcobaleno).

    La fine di Oliverio

    L’ultima raffica per l’ex governatore. Mario Oliverio è stato letteralmente azzerato. Col suo 1,7% non è riuscito neppure a scalfire il Pd, che intendeva demolire per riprenderselo, né a fare una battaglia di testimonianza.
    Lui e i suoi fedelissimi hanno cercato la “bella morte”, come i repubblichini a Salò. Ma sono morti e basta, per loro fortuna solo a livello politico.

    Solo la Calabria è di destra

    Per capirci di più, occorre aspettare i risultati delle amministrative, in particolare quelli di Cosenza.
    Tuttavia, se si proietta il dato calabrese sullo scenario nazionale, emerge con prepotenza un altro dato: il centrodestra non ha bucato dove aveva i numeri per farlo (Roma) e ha subito degli stop un po’ ovunque, a volte non lusinghieri (è il caso di Milano e Napoli). E un po’ ovunque va al ballottaggio col rischio di essere stritolato dalla somma dei propri avversari.

    Il 15% circa ottenuto da Fratelli d’Italia a livello nazionale è una crescita inutile, che rischia di collassare tra gli scandali e, probabilmente, tra le inchieste giudiziarie che ne seguiranno o sono già in corso. Solo la Calabria, a dispetto dell’astensionismo, segna una controtendenza rispetto a un contesto generale in cui il centrosinistra ha ripreso a fiatare.
    Occhiuto ha stravinto senza alzare la voce e senza sbagliare una mossa. Tant’è che potrà gestire gli equilibri della sua coalizione col classico manuale Cencelli: dando a ognuno sulla base del suo peso.

    Ma i problemi per lui iniziano ora: la “Calabria che l’Italia non si aspetta” è ridotta al lumicino per responsabilità pesanti anche del centrodestra, che ha rivinto con pochi cambiamenti. Riuscirà a fare la rivoluzione assieme alla coalizione meno attrezzata per realizzarne una?

  • Bazooka e AK47 dai Balcani: così il clan voleva uccidere un altro testimone

    Bazooka e AK47 dai Balcani: così il clan voleva uccidere un altro testimone

    Pronti a colpire ancora. Con armi da guerra. La cosca Crea di Rizziconi è una delle consorterie più feroci della ‘ndrangheta.  Il lavoro congiunto di tre Direzioni Distrettuali Antimafia lo dimostra ulteriormente. Dal profondo Sud, con il lavoro dei pm di Reggio Calabria. Al Nord, con le attività della Dda di Brescia. Fino al Centro, con la Dda di Ancona, competente territorialmente per il delitto.

    Tre Procure al lavoro

    Con le indagini congiunte, infatti, gli inquirenti sono convinti di aver fatto luce sul delitto di Marcello Bruzzese, consumato nel giorno di Natale del 2018 a Pesaro, nelle Marche. Un delitto gravissimo, realizzato in un giorno simbolo, il 25 dicembre. Come nelle migliori tradizioni di ‘ndrangheta. Reso ancor più inquietante dal fatto che Bruzzese risiedeva nella tranquilla Pesaro, indicata come “località protetta”. Era il fratello del collaboratore di giustizia Girolamo Biagio Bruzzese, già organico alla cosca Crea di Rizziconi (RC) e dalla quale si era dissociato nel 2003 dopo aver attentato alla vita di Teodoro Crea, capo della cosca, detto il “Toro”.

    Associazione di tipo mafioso, omicidio, porto e detenzione illegale di armi, reati questi ultimi aggravati dall’aver commesso i fatti al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta. Queste le contestazioni che gli inquirenti muovono agli indagati. I pm hanno spiccato un provvedimento d’urgente di fermo a carico di quattro persone: Vincenzo Larosa, Michelangelo Tripodi, Rocco Versace e Francesco Candiloro. Tutti, ad eccezione del primo, sono ritenuti organizzatori ed esecutori materiali del delitto.

    Il delitto Bruzzese

    Una falla pazzesca nel sistema di protezione. Le complesse verifiche condotte hanno consentito di accertare come nei periodi immediatamente precedenti all’omicidio gli indiziati avevano condotto minuziosi e ripetuti sopralluoghi per studiare le abitudini della vittima. Servendosi, in queste circostanze, di documenti falsi e di una serie di accorgimenti utili a impedire la propria identificazione.

    Il vasto compendio probatorio raccolto dalle attività condotte dal ROS, ha permesso di circoscrivere il movente dell’azione omicidiaria nella “vendetta trasversale”, nell’interesse della cosca Crea. Per la decisione collaborativa assunta da Girolamo Biagio Bruzzese nel 2003.

    All’omicidio del Natale 2018 va quindi attribuita una valenza strategica, in quanto necessario a rimarcare la perpetuazione dell’operatività della cosca Crea e della sua capacità di intimidazione. Nonché a scoraggiare, nell’ambito della consorteria, ulteriori defezioni collaborative.

    Pronti a colpire ancora

    Ma, paradossalmente, non è questo l’elemento più inquietante dell’inchiesta. Le indagini dei Carabinieri del Ros, infatti, avrebbero dimostrato come Vincenzo Larosa e Michelangelo Tripodi fossero soggetti a disposizione degli interessi del sodalizio. Larosa affiliato di vecchia data ai Crea. Il padre Carmelo avrebbe anche fornito un bunker per la latitanza di alcuni soggetti apicali del clan della Piana di Gioia Tauro. Sul conto di Tripodi, soggetto del Vibonese, pesano invece le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena, recentemente escusso anche nel maxiprocesso “Rinascita – Scott”, condotto dalla Dda di Catanzaro.

    L’ex sindaco di Rizziconi, Antonino Bartuccio, vive sotto scorta dopo le sue denunce contro la cosca Crea

    Ebbene, secondo l’inchiesta, Larosa e Tripodi stavano pianificando più attentati omicidiari nell’interesse di Domenico Crea. Anche come ritorsione per l’emissione della sentenza di condanna emessa il 12.12.2020 dalla Corte di appello di Reggio Calabria a carico di Teodoro Crea, Giuseppe Crea (cl.78) e Antonio Crea (cl. 63). Si tratta del procedimento “Deus”, con cui la Dda di Reggio Calabria ha dimostrato l’ingerenza del potente casato di ‘ndrangheta nell’amministrazione comunale di Rizziconi. In quell’occasione, si registrò la coraggiosa denuncia dell’allora sindaco Antonino Bartuccio, soggetto sgradito ai Crea. Da quel momento, Bartuccio vive sotto scorta insieme ai propri familiari. E potrebbe essere proprio lui uno dei soggetti nel mirino dei Crea.

    Le armi da guerra

    Alla conclusione, gli inquirenti arrivano valorizzando delle captazioni di tipo tecnologico che non si era potuto acquisire “in diretta”. Le conversazioni testimonierebbero l’astio degli affiliati dopo la sentenza d’Appello del processo “Deus”. Da quel momento, sarebbe scattata una corsa agli armamenti di tipo pesante. Un gruppo di fuoco agguerrito, nonostante i vertici della cosca siano da tempo detenuti in regime di 41 bis. Come ha spiegato il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri: «Sempre pronti “a dare soddisfazione” ai loro capi in carcere».

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    Il procuratore Bombardieri durante la conferenza stampa di oggi

    Un canale individuato per ottenere l’approvvigionamento di armi sarebbe stato il territorio dei Balcani. Sebbene non ritrovato in sede di perquisizione dai Carabinieri, gli affiliati fanno chiaro riferimento a un bazooka. Evidentemente in grado di poter colpire con successo anche un’auto blindata. Proprio come quella su cui viaggia Bartuccio insieme alla famiglia. Agli atti dell’inchiesta una conversazione in cui uno dei fermati, facendo riferimento a una sentenza della Corte d’Appello, diceva che ci voleva un AK47, un kalashnikov. E sparare à gogo.

    Insomma, sebbene il procuratore di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto Gaetano Paci, mantengano ufficialmente il riserbo, appare pressoché scontato che uno degli obiettivi fosse proprio Bartuccio. Protagonista di una coraggiosa (e rara) denuncia e quindi da punire. Soprattutto dopo la dura sentenza d’Appello.

    «Due dei fermati erano pronti a commettere altri episodi delittuosi con la disponibilità di armi da guerra inquietanti. Stavano pianificando un altro delitto di un altro testimone di giustizia che aveva reso testimonianze» ha rivelato, la procuratrice distrettuale antimafia delle Marche, Monica Garulli.

  • SPORTELLATE | Modesto, Millico e un coraggio da Leone

    SPORTELLATE | Modesto, Millico e un coraggio da Leone

    Oggi e domani in Calabria voteremo tutti o chi ci crede ancora. Negli articoli sportivi come questo, nei seggi elettorali, nelle chiese sperando in una grazia.
    Io, visto che ho sempre considerato il pallone una sorta di specchio della politica e viceversa, darò i voti qui dentro con le stesse incertezze di fondo con cui li darò fuori da qui.
    Osvaldo Soriano, grande narratore argentino di fútbol e rifugiato politico durante la dittatura di Jeorge Videla, sosteneva che il calcio è dubbio costante e decisione rapida. Un po’ come una x da mettere su una scheda piena di simboli, mi verrebbe da dire. Ognuna, però, con la sua anima a cui dare ascolto.

    Il Modesto triste

    La conferenza stampa post Crotone-Ascoli (2 a 2) di Francesco Modesto è stata cupa ma leggera, a tratti persino soporifera. Nessuna domanda scomoda e tantissimi complimenti (giusti, per carità) da parte dei giornalisti per la prestazione convincente e sfortunata della sua squadra. L’allenatore ha utilizzato, senza alcun risparmio, tutte le frasi standard del caso: «Prendere il gol del pareggio a cinque secondi dalla fine sa di beffa»; «entrare nello spogliatoio a fine partita non è stato facile»; «i ragazzi hanno messo in campo tutto quello che avevano»; «siamo stati puniti da un episodio» e così via.

    L’allenatore del Crotone, Francesco Modesto
    Gli Squali barcollano dopo 7 giornate

    Effettivamente stavolta agli Squali non si può contestare granché. La gara l’hanno fatta loro e – qui la frase standard ce la metto io – meritavano molto di più. Ma al di là delle gentili parole di circostanza, resta un problema che neanche gli eterni ottimisti possono nascondere sotto il tappeto: dopo sette giornate di campionato quella che, a detta di esperti e non, doveva essere una candidata alla promozione in serie A, barcolla nelle posizioni di bassa classifica con quattro punti, neanche una vittoria all’attivo e lo sguardo del suo condottiero che sembra volerti dire: io più di così non so che fare. Sia chiaro, le altre big del torneo o presunte tali, non è che stiano facendo sfracelli, vedi soprattutto il Parma e il Monza dei veterani Buffon e Berlusconi.

    Peccati di gioventù

    Il Crotone, però, bisogna ammetterlo, sembra avere qualche lacuna che richiede maggiore attenzione. Più che altro per l’inesperienza della sua rosa, la più giovane del campionato. Vrenna e Ursino sono stati bravi come al solito a portare nella città di Pitagora alcuni tra i migliori talenti in circolazione come i nazionali Under 21 Mulattieri (5 gol) e Canestrelli (sue le due reti di ieri a cui è seguita un’espulsione sciocca), ma c’è il sospetto che tutto ciò non basti a reggere il peso di un progetto ambizioso. Intorno a ragazzini dal futuro assicurato, al momento i vari Estévez (6.5), Molina (6) e gli alti e bassi cronici di Benali (ieri da 5 in pagella) non tengono botta. D’altronde, lo stesso Modesto ha ammesso che manca sempre quel pizzico di furbizia che potrebbe permettere a suoi ragazzi di dare un senso alle buone prestazioni che finora non sono mancate quasi mai. E allora che fare? Niente di particolare, a parte, naturalmente, lavorare e attendere umori, risultati e parole migliori.

    Voto 4 alle intramontabili beffe a tempo scaduto, 5.5 alle frasi standard.

     

    L’incubo di Vincenzo Millico

    Sette mesi fa, con un post di Instagram, si era sentito in dovere di chiedere scusa a tutti. A chi lo aveva sempre incoraggiato e a chi gli era stato vicino, « soprattutto in questa stagione così terribile che sembra un incubo ». Dal ritiro estivo fino a quel 4 marzo, era stato costretto ad alzare bandiera bianca per ben sei volte: tre con il suo Torino (affaticamento muscolare, positività al Covid e distrazione alla coscia destra) e tre con il Frosinone (sempre a causa dei suoi muscoli di cristallo). Una sorta di Giuseppe “Pepito” Rossi, oppure, per non andare troppo indietro con la memoria, un piccolo Stefano Sensi. Aveva chiesto scusa Vincenzo, come se farsi male giocando a pallone fosse una colpa. Ieri, ad Alessandria, con addosso la maglia da titolare del Cosenza, è arrivata l’ennesima batosta dopo uno scatto apparentemente innocuo: dolore al flessore e giù le lacrime. Mentre scrivo, non si conosce ancora l’entità del suo guaio, c’è chi lo sottovaluta e chi no. Si può comprendere, invece, il suo dolore.

    Le lacrime di Vincenzo Millico ad Alessandria dopo l’infortunio
    Senza guai fisici avrebbe giocato il Derby della Mole

    Ad appena 21 anni Millico ne ha già passate non poche. Senza guai fisici, uno come lui non giocherebbe a Cosenza e neanche in serie B. Senza malasorte, ieri pomeriggio, anziché quella dei Lupi, avrebbe indossato la maglia granata nel derby con la Juventus. E, magari, grazie al suo talento, quella partita sarebbe finita in un altro modo. Invece, anche per il suo infortunio, a cui si aggiungono il portiere Vigorito e il difensore Väisänen, la squadra di Zaffaroni con i Grigi (vittoriosi 1 a 0) ha dato spazio a una performance dimenticabile. Magari utile per il futuro ma, nel presente, abbastanza antipatica, in special modo nell’atteggiamento, molto simile a quello messo in mostra dal presuntuoso Crotone al “San Vito-Marulla” una settimana fa. Come se le tre vittorie consecutive su quattro avessero fatto scordare da dove si viene e dove si spera di andare.

    Frenato l’entusiasmo dei Lupi

    Insomma, è bastato un avversario con una mentalità battagliera da Lega Pro (alla sua prima vittoria in B dopo 46 anni) per riportare l’entusiasmo sulla terra ferma. Al “Moccagatta” è andato tutto storto: dagli infortuni alla superiorità tecnica sfruttata male, dalle sostituzioni ai virtuosismi inutili dei fortissimi Eyango (5) e Caso (4.5). Soprattutto quest’ultimo ha dimostrato di avere qualche difettuccio di generosità verso il prossimo: non passa la palla neanche quando a chiederglielo, in ginocchio, è la sua coscienza. Insomma, durante la pausa, Zaffaroni avrà molto da (ri)lavorare sulla testa e, qualunque sia la sua fede, da pregare affinché i “feriti” possano rimettersi in piedi al più presto.

    Lo striscione per Mimmo Lucano

    Finale con una nota di cronaca sociale, che a sinistra avrà fatto piacere, a destra molto meno, nel PD chi lo sa veramente? Ieri, dal settore ospiti occupato dai tifosi cosentini, sono spuntati fuori due striscioni, uno per ricordare Enzo Spinello, un tifoso dell’Alessandria scomparso di recente, l’altro con su scritto “L’umanità non si processa. Mimmo Lucano innocente”. In entrambi i casi, standing ovation dell’intero stadio.

    Voto 9 a Millico per tutte le volte che saprà rialzarsi, 10 all’umanità.

     

    Reggina senza punti e punte

    A differenza di Nino Spirlì (uno dei tifosi reggini più famosi del momento) che si è sempre detto sicuro del primo posto della sua squadra alle elezioni regionali, Massimo Taibi, serio e affidabile direttore sportivo amaranto, non ha mai parlato di vittoria del campionato. E lo ha precisato a chiare lettere nella settimana appena conclusa. Un voler mettere le mani avanti per evitare facili entusiasmi e cadute rovinose? Forse. Ma, in fondo, si sapeva già.
    Giusto per rimanere ingiustificatamente nel campo politico-calcistico, la Reggina, pur essendo una squadra solida, ad oggi non ha la forza e gli avversari strampalati del centrodestra calabrese. Lo ha dimostrato la sconfitta evitabilissima di ieri contro un’altra entità indefinita (più o meno come Spirlì) del momento: il Pisa (2 a 0).

     

    Fortuna toscana

    È vero, il team toscano ultimamente sembra essere unto dal Signore: gol stratosferici, regali degli avversari in abbondanza e fortuna sfacciata. Addirittura il suo attaccante principe, tale Lucca da Moncalieri (che già Taibi aveva adocchiato tempo fa senza riuscire a portarlo in Calabria), potrebbe finire presto nella nazionale campione d’Europa di Roberto Mancini. Ma nonostante tanta grazia, almeno un punto si poteva portare a casa lo stesso. Lo ammetto, guardando la partita ho pensato anch’io, come tanti, a quanto la formazione di Aglietti fosse stata scalognata negli episodi chiave della gara; autogol di Cionek (5), errori sotto porta di Galabinov (5), Rivas (6) e Cortinovis (6), rigore ed espulsione ingenua di Micai (4.5). Poi, però, mi sono detto che il calcio è questo. Lo so, non una riflessione tra le più ingegnose del secolo, ma comunque onesta. La Reggina ha perso per la prima volta quest’anno anche perché ha fallito delle occasioni da rete che, per professionisti della materia come quelli citati poco sopra, dovrebbero essere un gioco da ragazzi. Sette gol realizzati in sette partite sono poca roba. Basterà il prossimo ritorno di Menez ad invertire la rotta?

    Voto 3 alla mia domanda.

     

    I se del Catanzaro

    Fra le tante frasi pronunciate negli ultimi tempi dal tecnico giallorosso Antonio Calabro per giustificare l’andamento lento della sua corazzata (giovedì ad Avellino è arrivato il quinto pareggio di fila), ce n’è soprattutto una che ha attirato la mia attenzione. Niente di particolare, sia chiaro, ma se ne parlo è perché subito dopo averla ascoltata, ho pensato (devo ancora capire se con nostalgia o meno) a Vujadin Boškov, l’allenatore serbo dalle battute fulminanti.
    Erano le fasi successive della gara pareggiata al “Ceravolo” 1 a 1 con il Catania e, incalzato dalle domande dei giornalisti che chiedevano spiegazioni sulla scarsa brillantezza della sua squadra, il mister pugliese aveva replicato in questo modo: «Se oggi avessimo fatto un gol in più degli avversari, il vostro giudizio sulla prestazione sarebbe stato diverso. Io lo so che è così».

    Ammetto di aver riflettuto a lungo su questa cosa e, obiettivamente, a quasi una settimana di distanza dall’accaduto, non me la sento proprio di contraddire Calabro. In sintesi – e spero di non sbagliarmi – ha dichiarato che se il Catanzaro avesse vinto, tutti gli avrebbero fatto i complimenti. Che dire se non chapeau.

    Voto 8.5 alle verità lapalissiane, s.v. alla nostalgia.

     

    Delusione Vibonese

    Niente da fare. C’è poco da aggiungere su quanto già scritto nelle ultime settimane. Oggi per il team rossoblù era attesa l’ennesima svolta del campionato. Dopo la sconfitta infrasettimanale con la Paganese, si affrontava il Potenza, penultimo in classifica, in poche parole non una macchina da guerra. L’occasione per smentire le critiche e i malumori era lì, a portata di mano. Ma, come detto, non c’è stato niente da fare. Nel finale di partita, al vantaggio ipponico realizzato da Vergara, ha replicato Zampa per i lucani. Morale della storia, se ne resta una: se non si vincono neanche queste sfide, il destino della squadra di D’Agostino (che a questo punto rischia grosso) sembra segnato.

    Voto 3 come i punti in classifica.

     

    La sua curva

    Pochi giorni fa, esattamente il primo di ottobre, è ricorso il triste anniversario della morte di Massimiliano Catena, talentuoso centrocampista del Cosenza calcio a inizio degli anni ‘90. In quel tragico giorno del 1992, dalle parti di Tarsia perse il controllo della sua automobile e la vita. A soli 23 anni. Stava tornando da Roma dove era andato a trovare suo padre Monaldo, malato gravemente. Max, così come lo chiamavano tutti, gli aveva raccontato del suo bellissimo gol alla Ternana, realizzato quattro giorni prima allo stadio “San Vito”. Una botta imparabile da venticinque metri, proprio sotto la Curva Nord ancora in costruzione e che, strana beffa del destino, avrebbe poi portato il suo nome.
    L’esordio da giovanissimo in serie A con la maglia del Torino nella sfida col Cesena, e poi tante prestazioni da applausi, su tutte quella contro il Milan del trio olandese Gullit-Van Basten-Rijkaard.

    Massimiliano Catena, talentuoso centrocampista dei Lupi prematuramente scomparso nel 1992

    Era un predestinato, dopo la gavetta di Cosenza avrebbe sicuramente spiccato il volo, lo dicevano tutti. Invece non è andata così. 29 anni fa, e non sembra neanche ieri. Nelle ultime settimane, quella curva, dopo un lungo silenzio, si è ripopolata nuovamente di cori e passione rossoblù. Da quel momento, sotto quella curva, si realizzano soltanto gol straordinari. Alla Massimiliano Catena.

    Voto 10 a quel bolide eterno da venticinque metri.

     

    Un coraggio da Leone

    Dopo Catena, chiudo con un’altra vita spezzata sul più bello. Ieri 2 ottobre, Daniel Leone, ex portiere campano di Reggina e Catanzaro, ha gettato la spugna definitivamente a causa di un cancro al cervello. Nel 2014, proprio mentre militava nella squadra amaranto, aveva scoperto il suo male. L’immediato intervento chirurgico agli Ospedali Riuniti di Reggio Calabria e una lunga fase di cure, gli avevano donato una forza incredibile e contagiosa, a tal punto da tornare in campo. Ma nel 2017 la bestia era tornata a farsi viva, chiudendo di fatto la sua carriera di calciatore. Poi una nuova operazione e tanti alti, bassi e speranze, svanite a soli 28 anni. Reggina e Catanzaro, nel loro messaggio di condoglianze, hanno ricordato l’incredibile coraggio dimostrato dal loro numero uno. Io chiudo come ho iniziato, con una frase semplice e innocente di Osvaldo Soriano: «Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni».

  • Ricerca e sviluppo: la Calabria maglia nera negli investimenti

    Ricerca e sviluppo: la Calabria maglia nera negli investimenti

    Nella classifica comunitaria sulla spesa per ricerca e sviluppo l’Italia si colloca, in base agli ultimi dati disponibili (2018), al tredicesimo posto, superata non solo dai Paesi dell’Europa Settentrionale ma anche da diversi Paesi dell’Est Europa (Slovenia, Repubblica Ceca ed Ungheria). Lo sottolinea una recente pubblicazione dell’Istat su questo tema.
    Si tratta di un dato preoccupante, considerato che siamo la seconda nazione manifatturiera dell’Unione e che dovremmo pertanto investire risorse coerenti al nostro tessuto industriale. In Italia la spesa per ricerca e sviluppo è stata pari nel 2018 complessivamente a 25,2 miliardi di euro, pari all’1,43 del prodotto interno lordo.

    La spesa delle imprese

    La spesa delle imprese costituisce la componente principale degli investimenti in ricerca e sviluppo (63,1%), in aumento rispetto al 2008 (56,6%). In termini di incidenza sul Pil, la spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è pari allo 0,9% del Pil.
    Le imprese inevitabilmente puntano in modo prevalente sulle fasi di ricerca applicata e sviluppo sperimentale, mentre una quota marginale (7,6%) investe nella ricerca di base. Le imprese italiane finanziano poco, in misura inferiore all’andamento europeo, la ricerca delle Università e del settore pubblico.

    Crescono gli investimenti delle Pmi

    Cresce la quota di investimenti da parte delle piccole e medie imprese, con meno di 50 addetti, che passano da 856 milioni di euro di investimenti nel 2008 a 2,7 miliardi nel 2018, con una incidenza sugli investimenti delle imprese che raddoppia, passando dall’8,4% al 17,3%. Al contrario, il contributo delle gradi imprese cala di quasi 20 punti percentuali.
    Ancor più rilevante è la correlazione stretta tra appartenenza a gruppi industriali ed investimenti in ricerca e sviluppo: l’87,5% della spesa è sostenuta da imprese che appartengono a gruppi, il 75,7% da multinazionali ed oltre un terzo della spesa (36,3%) da multinazionali con vertice residente all’estero.

    Ricerca di base: la prima del Sud è Isernia

    Nell’ultimo decennio si registra un deciso spostamento della spesa dal settore istituzionale pubblico verso il settore delle imprese, in netta controtendenza rispetto alle evidenze che dimostrano la rilevanza degli investimenti pubblici per favorire l’innovazione.
    Un terzo della ricerca di base si concentra nelle province di Milano e di Roma. Tra le province meridionali si segnala l’incidenza di Isernia, sesta nella graduatoria nazionale con il 2,9%, mentre Napoli si colloca al tredicesimo posto con l’1,7%. Nella ricerca applicata Milano e Roma concentrano il 27,9%; superano il valore medio nazionale solo 22 province, e di queste nessuna è meridionale. Nello sviluppo sperimentale Roma e Torino raggiungono il 47,2% del valore totale, è solo Napoli, tra le province meridionali, si colloca sopra la media nazionale, con una incidenza pari all’1,4%.

    Classifiche e record negativi

    Due terzi della spesa delle imprese per ricerca e sviluppo sono investite da aziende del settore manifatturiero. Il 75% della spesa in ricerca e sviluppo delle imprese è concentrata in sole cinque regioni: Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte, Veneto e Lazio. L’intero Mezzogiorno copre solo poco più del 10% della spesa nazionale per ricerca e sviluppo delle aziende. La Calabria è all’ultimo posto della graduatoria.

    Se si osserva l’andamento della spesa per ricerca e sviluppo a livello regionale nel quadriennio 2015-2018, la Calabria registra, assieme alla Valle D’Aosta, la più decisa regressione, con un calo nel periodo del 21,5%, dovuto in particolare alla contrazione della ricerca effettuata dall’Università (-38,7%), mentre cresce con il tasso più elevato del Paese la ricerca e sviluppo finanziata in Calabria dalle imprese (91,7%), anche se partiva da un battente iniziale molto basso. A diminuire nel Mezzogiorno sono, oltre la Calabria, la Puglia e la Sicilia.

    Un cambiamento

    L’incidenza della spesa per ricerca e sviluppo sul prodotto lordo calabrese cala nel quadriennio considerato, passando dallo 0,72% allo 0,54% del Pil, in questo accomunata al calo che fa registrare la Puglia, che però partiva da valori più elevati (dall’1,02% del 2008 allo 0,79% del Pil nel 2018).
    Se guardiamo alla dinamica degli addetti nel settore della ricerca e sviluppo, articolato per composizione percentuale tra i settori esecutori, va sottolineato un cambiamento radicale in Calabria: mentre nel 2015 l’Università pesava per il 65,6% e le imprese occupavano solo il 16,4%, nel 2018 le aziende hanno raggiunto il 46,2% degli addetti, superando l’Università, che raggiungeva il 44,1%.

    Investimenti necessari

    Costruire l’innovazione è possibile solo se si investono risorse adeguate in ricerca e sviluppo. Questo dati segnalano la criticità di un sistema nazionale poco attento agli investimenti verso nuovi prodotti e nuovi servizi. L’Italia registra una situazione critica in confronto a diversi Paesi della Unione Europea.
    Il Mezzogiorno è in una condizione maggiormente asfittica, contribuendo per solo un decimo alle attività nazionali di ricerca e sviluppo.

    Una delle azioni che dovrebbero essere messe in campo nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) consiste nella decisa ripresa della ricerca di base da parte delle istituzioni pubbliche. Serve non solo per investire nella innovazione embrionale che non può essere compito dei privati, ma serve anche a sostenere gli sforzi degli imprenditori nella sperimentazione e nella ricerca applicata. Per il Mezzogiorno, e per la Calabria, questa azione ha un carattere strategico ancor più rilevante.
    Se resteremo inchiodati a valori bassi negli investimenti in ricerca e sviluppo, non ci sarà alcuna politica industriale capace di generare una effettiva rivitalizzazione del territorio meridionale.

  • Tragedia a Paola, 4 morti per esalazioni tossiche del mosto

    Tragedia a Paola, 4 morti per esalazioni tossiche del mosto

    Quattro morti e una donna gravemente ferita a Paola, in provincia di Cosenza. Le vittime hanno respirato le esalazioni tossiche del mosto in fermentazione. La tragedia si è consumata stamane in località San Miceli.

    I nomi delle vittime

    A perdere la vita sono stati Giacomo e Valerio Scofano rispettivamente di 70 e 50 anni e Santino e Massimo Carnevale, padre e figlio di 70 e 40 anni. Pare che dopo il decesso della prima persona giunta nella vasca, gli altri tre – nel tentativo di salvarle la vita – sarebbero intervenuti. Nemmeno per loro c’è stato scampo. La donna è stata trasportata in elicottero all’ospedale di Cosenza. Tutti erano appartenenti allo stesso nucleo familiare e vivevano nel vicino centro di Fuscaldo.

    Le probabili cause del decesso

    Tre persone sono state trovate all’interno della vasca mentre una quarta era posizionata quasi all’esterno del locale forse nel tentativo estremo di uscire.
    La morte dei quattro sarebbe sopravvenuta a causa della mancanza di ossigeno all’interno del locale.

    il procuratore Bruni: locale non arieggiato bene

    «Il locale in cui le quattro vittime stavano preparando il vino non era sufficientemente arieggiato». È quanto ha riferito all’Ansa il procuratore della Repubblica di Paola, Pierpaolo Bruni. Le vittime si trovavano in un magazzino di loro proprietà. I loro corpi sono stati trovati dai vigili del fuoco dei distaccamenti di Paola e Rende. La Procura di Paola ha avviato un’inchiesta su quanto é accaduto. Sul posto si é recato il sostituto procuratore Antonio Lepre. Le indagini sono condotte dai carabinieri della Compagnia di Paola.

  • Sila e sci: intoppi alla Regione, stagione a rischio

    Sila e sci: intoppi alla Regione, stagione a rischio

    Con l’inverno, cambiamenti climatici permettendo, arriverà nuovamente la neve sulle montagne della Sila. Ma se avete in un ripostiglio un paio di sci è possibile che anche quest’anno debbano restare lì a prendere polvere.
    Il motivo è che l’apertura degli impianti di risalita di Camigliatello e Lorica resta ancora assai incerta e ormai la stagione invernale incombe.

    Lorica e il nodo del gestore

    Come si ricorderà il destino sciistico di Lorica è stato segnato dall’incursione della Dda, che sequestrò gli impianti mandando in fumo i sogni turistici del comprensorio per i quali si prevedevano 13 milioni di euro di investimenti. Successivamente l’autorità giudiziaria autorizza la prosecuzione dei lavori, che prontamente riprendono e sono ormai prossimi alla conclusione.

    Il passaggio più importante deve però ancora essere formalizzato. È l’approvazione di un protocollo tra le parti interessate: la ditta che ha realizzato i lavori in Sila, il comune di Casali del Manco, nel cui territorio ricade l’area, e la Regione Calabria. Da questa intesa deve emergere il soggetto che gestirà gli impianti. La Regione, infatti, deve decidere se assumerne direttamente la conduzione, indire un avviso pubblico oppure procedere ad un affidamento diretto.

    Nessuna risposta

    «Stiamo inviando continuamente Pec alla Regione, sollecitando l’approvazione dell’intesa – ci racconta Roberto Esposito, coadiutore giudiziario della Lorica Ski – ma ancora non abbiamo ricevuto alcuna risposta». Al contrario, il comune di Casali del Manco ha rapidamente recepito la proposta di intesa della Lorica Ski, aderendo all’idea per sfruttare la stagione sciistica.

    Il nodo sta nel fatto che, pur finendo in tempi brevi i lavori, la ditta non saprebbe a chi consegnare “le chiavi” dell’impianto. E senza l’indicazione istituzionale di un gestore ogni sforzo verrebbe vanificato. A questo si aggiunga l’urgenza dettata dai tempi. Prima che gli impianti diventino concretamente fruibili da sciatori e turisti, è necessario provvedere ai collaudi che precedono ogni inaugurazione. E anch’essi esigono tempi ben precisi.

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    Fausto Orsomarso, assessore regionale al Turismo

    A riguardo l’assessore Orsomarso replica non senza una certa irritazione, rivendicando di essere stato lui uno dei protagonisti dell’individuazione del percorso che ha portato al dissequestro degli impianti e alla ripresa dei lavori in Sila «grazie alla proficua collaborazione di tutte le parti, gli amministratori di Casali del Manco e i vertici di Lorica Ski», affermando quindi che la Regione la sua parte l’ha fatta tutta.
    Se i protagonisti di questa vicenda non parleranno la stessa lingua, quindi, gli appassionati potranno guardare la neve cadere ma senza sciarci sopra.

    Niente soldi a Camigliatello

    Per Camigliatello la situazione è diversa, ma non meno ingarbugliata. La struttura che consente di salire in quota sulle piste deve essere sottoposta alla verifica ventennale e per farlo serve denaro. E non poco. Sempre Orsomarso nei mesi passati aveva annunciato sui social che la Regione aveva stanziato 3,8 milioni di euro «perché l’Arsac aspettava da anni finanziamenti per la manutenzione ed autorizzazioni».

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    Il problema pareva risolto, ma per nulla disposti ad indulgere all’ottimismo invece sono all’Arsac. Carlo Monaco, responsabile amministrativo degli impianti a fune di Camigliatello, dice che ad oggi di quei soldi non c’è traccia. «Al momento siamo fermi e dobbiamo realizzare il collaudo ventennale, per il quale servono risorse. La Regione le ha promesse, ma concretamente qui non è arrivato nulla», racconta con disincanto Monaco.

    Tempi lunghi e/o prestiti

    Anche su questo aspetto Orsomarso cerca di fare chiarezza, spiegando che il denaro è stato stanziato, ma essendo stato spostato da un capitolo di spesa ad un altro, è necessario rimodulare la formulazione del finanziamento presso la Corte dei conti. I tempi previsti potrebbero estendersi fino ad ottobre inoltrato. Poi ci sono quelli richiesti per i lavori di collaudo, insomma molti mesi.

    Ma Orsomarso ha una soluzione: «L’Arsac con in mano la delibera può andare presso un istituto di credito e farsi prestare i soldi, così da procedere rapidamente ai lavori necessari». Per il futuro, secondo l’attuale assessore regionale al Turismo la gestione degli impianti dovrebbe essere assegnata alle competenze dei Trasporti, salvaguardando le professionalità che intanto sono state formate.
    Tra Pec cui non c’è risposta e risorse economiche che sono solo sulla carta, anche questo inverno la neve rischia di cadere invano. Almeno per chi vorrebbe sciare in Sila.

  • Lucano torna a Riace: «Non mi pento di nulla»

    Lucano torna a Riace: «Non mi pento di nulla»

    «Non mi pento di niente di quello che ho fatto. Bisogna rimanere per continuare a sognare». Dopo lo sconforto di ieri in seguito alla pesantissima condanna rimediata nel processo Xenia, il ritorno a Riace dell’ex sindaco Mimmo Lucano si apre sotto una luce diversa. Tanta la solidarietà piovuta su Mimmo “il curdo” e sul suo progetto di accoglienza che, negli anni, aveva sottratto Riace all’azzeramento culturale ed economico a cui sembrava destinata.

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    Un esercito a Riace

    Solidarietà che si è materializzata nel paese dei Bronzi con centinaia di persone che, nel pomeriggio del day after, hanno accolto tra gli applausi l’ex sindaco. Sui gradoni dell’anfiteatro coi colori della pace, un esercito di attivisti, amministratori, candidati, rappresentanti delle Ong che pattugliano il Mediterraneo: tutti stretti all’ideatore di un modello d’accoglienza che, tra difficoltà, errori e tanto entusiasmo ha proposto un punto di vista alternativo, finendo per diventare un caso internazionale.

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    E così, tra “vecchi compagni” e giovani attivisti – e col consueto corollario di giornalisti, italiani e stranieri, che hanno assediato il piccolo centro jonico dalle prime ore del mattino – Lucano ha provato a raccontare il suo punto di vista su una vicenda processuale che, in primo grado, ha seppellito il “modello Riace” sotto 80 anni di carcere e risarcimenti milionari.

    Quando la Prefettura chiamava

    «Se hanno condannato me, allora avrebbero dovuto condannare anche la Prefettura, che mi chiamava San Lucano quando mi implorava di accettare nuovi arrivi» racconta Lucano tra gli applausi di una platea che si irrobustisce con il passare dei minuti. Arriva Peppino Lavorato, l’ex sindaco che negli anni ’90 fu splendido e coraggioso protagonista della “primavera rosarnese”, e Abaubakar Soumahoro, il sindacalista di origine ivoriana diventato icona della lotta al caporalato. Seduto nel pubblico c’è pure Sisi Napoli, l’anestesista che, schivando la baraonda mediatica, a Riace ha aperto un ambulatorio medico che si prende cura, gratis, di chiunque si presenti alla porta, immigrato o italiano che sia.

    Carte d’identità

    «Mi hanno condannato per avere rilasciato la carta d’identità ad un bambino di quattro mesi che senza quel documento non avrebbe potuto accedere alle cure del servizio sanitario nazionale – dice Lucano – Una cosa che rifarei altre mille volte e mi chiedo, allora perché non mi hanno imputato la carta d’identità che ho rilasciato a Becky Moses (la ragazza nigeriana costretta ad abbandonare Riace dalla burocrazia che le negava il permesso di soggiorno, e arsa viva, una manciata di giorni dopo avere lasciato Riace, nella vergognosa baraccopoli di Rosarno, ndr)? Forse perché responsabile di quel campo dove è morta quella ragazza era la Prefettura?».

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    Un modello polverizzato

    E poi i messaggi della mamma di Carlo Giuliani e di Roberto Saviano, oltre alle testimonianze dei rappresentanti del Baobab di Roma e della Mediterranea, la Ong che si occupa tra una montagna di polemiche di prestare soccorso alle carrette del mare alla deriva, in un abbraccio colorato e festoso che non cancella però i 13 anni e rotti di carcere con cui il Tribunale di Locri ha polverizzato l’intero modello.