Categoria: Fatti

  • 2020 fuga dalla scuola, in Calabria il 16,6 % abbandona i banchi

    2020 fuga dalla scuola, in Calabria il 16,6 % abbandona i banchi

    Gli effetti del coronavirus sulla scuola sono devastanti, soprattutto in regioni come la Calabria. Docenti, studenti e famiglie negli ultimi mesi hanno perso, infatti, ogni certezza tra chiusure, sospensioni, casi sospetti e contact tracing. Il mondo della didattica si è adeguato con tante difficoltà e l’art. 34 della Costituzione ha vissuto un autentico stravolgimento.

    Dad, mezza Calabria tagliata fuori

    In questo senso l’ultimo rapporto sul Bes (Benessere equo e solidale), pubblicato annualmente dall’Istat, fotografa da vicino la fase molto particolare della didattica a distanza, esplosa durante il lockdown anti-Covid, per cui è necessario avere a disposizione una buona connessione e un dispositivo elettronico per interagire con la scuola e gli insegnanti, ormai dunque un requisito indispensabile per l’accesso all’istruzione. In Calabria un laptop o un tablet e Internet, nel 2020, lo possedevano circa metà delle famiglie.

    Il rapporto Istat illustra un quadro dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali che caratterizzano il nostro Paese e la Calabria, attraverso l’analisi di un ampio set di indicatori suddivisi in 12 domini. Dalla sicurezza all’ambiente fino alla fruizione di attività culturali e la qualità dei servizi essenziali. Un’analisi scientifica di enorme valore che aiuta a conoscere le disuguaglianze e i bisogni dei territori.
    Il periodo storico ha reso infatti evidente, a 2 anni dall’inizio della pandemia, l’inadeguatezza del Pil come unica misura del benessere di una popolazione e principale parametro da prendere in considerazione per le scelte politiche ed economiche da assumere.

    Scuola e futuro… in salita 

    Andiamo più specificatamente sulla Calabria: i dati sui bambini iscritti al nido in Calabria evidenziano forti disparità con le altre regioni italiane in rapporto anche alla disponibilità di strutture, su 100 bambini (0-2 anni) solo 17 sono iscritti ad un nido in regione a differenza, ad esempio, della Lombardia dove su 100 ben 26 partecipano alle prime attività didattiche. Anche la spesa (pro capite) nei grandi Comuni del Sud per i servizi di prima infanzia risulta bassa, come segnalato recentemente da un’indagine della fondazione Openpolis.

    Per la serie “chi ben comincia è a metà dell’opera” l’inserimento dei bambini da 0 a 2 anni nei servizi dedicati alla prima infanzia è la base di ogni apprendimento successivo, con effetti positivi sulle abilità comportamentali e sull’alleggerimento del carico di lavoro familiare, gestito soprattutto dalle donne. Sulla partecipazione al sistema scolastico dei bambini più grandi, 4-5 anni, invece va meglio dalle nostre parti: il 97,1% dei calabresi di questa età frequenta una scuola d’infanzia o primaria. La media nazionale si attesta al 94,8%.

    Mens sana in corpore sano

    La didattica e l’apprendimento sono insomma un fattore chiave per il benessere? E le aree più povere come partecipano? Il tasso di occupazione dei laureati è più alto rispetto a quello di coloro che hanno un titolo di studio più basso, l’istruzione è anche associata a longevità e migliore stato di salute. In Italia, come in tutti i paesi europei, chi è più povero di competenze e di risorse si ammala più spesso e ha una speranza di vita più bassa, anche grazie a una maggiore attenzione tra i più istruiti a comportamenti salutari.

    Sul tema della istruzione l’Unione europea fissa per l’anno 2020 degli obiettivi specifici e ha inteso garantire, attraverso vari strumenti multilivello, il 95% di partecipazione dei bambini alle scuole materne, meno del 15% dei quindicenni con risultati insufficienti in lettura, matematica e scienze, meno del 10% dei giovani dai 18 ai 24 anni ad abbandonare gli studi o la formazione.

    Internet e diseguaglianze

    «L’impatto della didattica a distanza e della chiusura delle scuole ha inciso su una popolazione di studenti percorsa già da profonde disuguaglianze», denuncia Istat nel suo rapporto. La Dad si è inoltre scontrata con le difficoltà nelle competenze digitali della popolazione regionale: nel 2019, tra gli individui di 16-74 anni, soltanto il 16,7% dei calabresi ha dichiarato di avere competenze digitali elevate (contro il 22% in Italia e il 31% nella Ue27), cioè di essere in grado di svolgere diverse attività nei 4 domini dell’informazione, della comunicazione, nel problem solving e nella creazione di contenuti.

    La maggioranza degli individui a livello nazionale è in possesso di competenze basse (32%) o di base (19%) e l’età rimane un fattore importante: i giovani di 20-24 anni hanno livelli avanzati di competenze nel 41,5% e i ragazzi di 16-19 anni nel 36,2% mentre la quota diminuisce all’aumentare dell’età e arriva al 20,3% tra le persone di 45-54 anni e al 4,4% tra le più anziane di 65-74 anni.

    La regione che legge meno

    Fari puntati in Calabria anche sulla quota di studenti della scuola secondaria di secondo grado che non raggiungono un livello sufficiente di linguaggio e competenze numeriche. L’Istat nel 2018/2019 ha riscontrato 47 studenti calabresi delle superiori su 100 che hanno una competenza alfabetica non adeguata e 58 su 100 non hanno una predisposizione adeguata a pensare in numeri. In Piemonte gli alunni carenti sarebbero, rispettivamente, 24 e 28 su 100. A ciò si affianca la quota sul totale di persone di 6 anni e più che hanno letto almeno quattro libri l’anno per motivi non strettamente scolastici e professionali o hanno letto quotidiani (cartacei e web) almeno tre volte a settimana: in Calabria sono 21 su 100, il dato più basso a livello nazionale.

    Giovani a spasso

    Un fattore di notevole criticità emerge poi dai dati sull’abbandono scolastico che colpisce in maniera più accentuata i figli dei cittadini stranieri e che appare il tema più preoccupante. La Calabria, stando ai dati raccolti da Openpolis e aggiornati all’1 settembre di quest’anno, con il suo tasso d’abbandono al 16,6% è la terza regione messa peggio del Paese, superata solo da Sicilia (19,4%) e Campania (17,3%).

    Il tema, peraltro, si collega anche ai numeri sui Neet, le persone di 15-29 anni né occupate né inserite in un percorso di istruzione o formazione: in Calabria sono 39 su 100. Nel secondo trimestre 2020, il 13,5% (16,9% nel mezzogiorno) dei giovani tra i 18 e i 24 anni in Italia risulta, in media, con un titolo conseguito fermo alla licenza media: un dato importante che dipende dal background familiare e, dunque, dalle condizioni socioeconomiche di partenza.

  • Natale senza lavoro, il pacco dei Greco pronto per 51 dipendenti

    Natale senza lavoro, il pacco dei Greco pronto per 51 dipendenti

    Cinquantuno famiglie cosentine perdono la principale fonte di reddito. Operatori sociosanitari, centralinisti, amministrativi e ausiliari della RSA San Bartolo e della clinica Misasi stanno per essere licenziati. Garbati ma freddi e risoluti, appena subentrati alla vecchia proprietà, nelle strutture che hanno rilevato dai Morrone, i Greco hanno fatto subito sapere che l’aria sarebbe cambiata. Com’è noto, nel tempo hanno sviluppato una singolare competenza nel correre non solo al capezzale dei pazienti, ma anche delle aziende in coma.

    Così i nuovi amministratori si sono affrettati a chiarire al personale sanitario che non avrebbero guardato in faccia nessuno e non si sarebbero lasciati condizionare da eventuali protezioni parentali. Soprattutto, i Greco avrebbero preteso l’allineamento della qualità delle prestazioni agli standard, secondo loro elevati, delle altre cliniche di cui sono proprietari. Prodigi della “società liquida”: una potente famiglia contro il familismo.

    La clinica Misasi a Cosenza, ceduta di recente dalla famiglia Morrone al gruppo iGreco
    Cinquantuno esuberi su 129 dipendenti

    Pochi giorni fa questo potente gruppo, da tanti anni ai vertici di settori differenti dell’imprenditoria locale, ha annunciato 51 esuberi su 129 unità lavorative. Il personale superstite dovrà dunque gestire 45 posti di riabilitazione intensiva, 10 letti di lungodegenza medica, 60 di RSA non medicalizzata e prestazioni ambulatoriali fisioterapiche.
    Le formule adottate per motivare i licenziamenti sono quelle che da sempre accompagnano i tagli dei posti di lavoro nelle aziende: “situazione di crisi”, “piano di risanamento economico”, “indispensabile riequilibrio finanziario”, “riduzione dei costi aziendali”.

    Le colpe addebitate alla Regione

    Secondo la nuova proprietà, le responsabilità principali, tanto per non cambiare, sono imputabili alla Regione Calabria che avrebbe effettuato «il tardivo rimborso delle prestazioni erogate negli anni che vanno dal 2002 al 2014, nonché la insufficiente remunerazione delle prestazioni relative all’anno 1995, e la continua contrazione dei budgets che non hanno consentito la copertura dei costi fissi». Nel documento inviato alle organizzazioni sindacali si ribadisce che determinanti sarebbero state «le politiche sempre più stringenti poste a base del patto di stabilità regionale».

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    La sede della Regione Calabria a Germaneto
    E quelle dei Morrone

    Secondo i Greco, i fondi pubblici sono stati ridotti, i posti letto pure, ma il personale è rimasto ai livelli di prima. Quindi, bisogna tagliuzzarlo. Ci sarebbero poi gli errori commessi dai Morrone: «Le altre cause che hanno concorso a determinare il dissesto finanziario – si legge nel documento – sono addebitabili alla errata previsione di un investimento immobiliare, ovvero all’acquisizione di un terreno in permuta nel comune di Cosenza su cui realizzare la struttura immobiliare da adibire a Casa di cura».

    L’operazione doveva essere effettuata in virtù di un cospicuo credito d’imposta, ma in seguito un provvedimento normativo ne avrebbe limitato la fruizione, «sicché non era più possibile, considerate le restrizioni temporali, completare l’opera progettata. A tal punto, per non disperdere le opere murarie realizzate, si decise di convertire il progetto originario in un intervento di edilizia residenziale da destinare al mercato immobiliare. Tutto ciò generava dei forti ritardi nella realizzazione dell’opera (…), causando inadempienze contrattuali nell’assegnazione degli immobili da attribuire ai venditori del terreno concesso in permuta e determinando delle forti penali da corrispondere ai cedenti il terreno. Il suddetto processo fu l’inizio di un sistemico ed inarrestabile ciclo d’indebitamento che ha innestato, a sua volta, una incontrollabile crisi finanziaria».

    Il ritorno degli ospedali riuniti?

    Insomma, secondo i Greco, galeotte furono l’ennesima avventura edilizia e un’altra disastrosa operazione immobiliare che i Morrone realizzarono acquistando un edificio a Diamante. Di fronte a dati così oggettivi, ci sarebbe ben poco da ribattere. Eppure, in una lettera aperta, un gruppo di lavoratrici e lavoratori fa notare che «il nuovo colosso iGreco si espande ed è pronto ad acquisire l’ex palazzo della Banca Carime a Vaglio Lise, proprio lì dove sorgerà il nuovo ospedale», caldeggiando così le ipotesi degli analisti di politica cittadina, che vedono una convergenza di interessi tra il blocco di potere politico che sostiene la nuova amministrazione comunale e gli imprenditori della sanità privata.

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    La leghista Simona Loizzo

    Riprenderebbe fiato il programma di centralizzazione delle strutture al momento gestite da iGreco. Cioè il vecchio progetto di ospedali riuniti che avrebbe dovuto trovare una location nella zona nord dell’area urbana. Stavolta troverebbe pure la benedizione di nuove figure del quadro politico regionale, come la leghista Simona Loizzo, da sempre estimatrice del marchio iGreco.

    I sindacati non si fidano

    Critici e guardinghi i sindacati. «Come mai – si chiede Ferdinando Gentile, dell’USB – di questa situazione si sono accorti solo adesso? La procedura di concordato preventivo, avviata dalla precedente proprietà, forniva un quadro realistico. Prima di subentrare alla vecchia proprietà, una visura camerale i Greco l’avranno fatta. È chiaro che l’annuncio dei licenziamenti pone due condizioni: o la Regione destina più fondi o i lavoratori e le lavoratrici accettano contratti mortificanti per loro e meno onerosi per l’azienda. Il piano prevede anche un taglio secco di portinai e centralinisti, come se in strutture delicate come queste non ce ne fosse bisogno».

    Licenziamenti entro Natale

    Serratissimi i tempi per le procedure di licenziamento, che si chiuderanno entro 45 giorni. Entro una settimana, l’esame congiunto al quale parteciperanno i sindacati, poi le carte passano all’ispettorato. «Già per il prossimo 15 novembre i Greco hanno convocato i dipendenti – prosegue Gentile -. Li metteranno di fronte a scelte già fatte. Così pagano i lavoratori per gli interessi di due famiglie. Non dimentichiamo che i soldi che permettono alle cliniche private di funzionare sono privati solo sul piano nominale. In realtà, provengono da casse pubbliche. Non ci possiamo permettere licenziamenti in questa drammatica fase storica. Chiediamo che la Regione e il Comune intervengano. Se questi licenziamenti avverranno, potrebbe essere l’inizio della macelleria sociale in Calabria».

    L’intreccio perverso

    Emerge dunque quanto perverso sia l’intreccio tra sanità pubblica e privata. La seconda si è nutrita delle risorse disponibili per la prima, fino a quando la pubblica non è andata in crisi totale. Come accade in ogni sistema costruito su rapporti patologici, anche il parassita, alla fine, soccombe insieme al corpo che lo ha ospitato. È molto improbabile che il nuovo commissario alla Sanità, il presidente della Regione Roberto Occhiuto, in considerazione dei suoi trascorsi e soprattutto delle sue ferme convinzioni neoliberiste, possa restituire risorse alla sanità pubblica calabrese.

    Luciano Moggi

    Luciano Moggi è stato evocato da iGreco nelle trattative della scorsa estate per l’acquisizione, poi sfumata, del Cosenza Calcio. C’è chi con malizia fa notare che il presunto sistema Moggiopoli, nonché il suo abbraccio mortale che fece franare gran parte dei vertici del calcio italiano del secolo scorso, rischia di riproporsi nell’organizzazione dei servizi alla salute dei calabresi. Come prendere la sanità, già agonizzante, a pallonate.

  • Pedofilia, gli orchi di Calabria nel dossier di Telefono Azzurro

    Pedofilia, gli orchi di Calabria nel dossier di Telefono Azzurro

    Abusi sessuali su minori e pedofilia, in aumento i dati relativi allo scorso anno per effetto dei vari lockdown dovuti alla pandemia, ma la Calabria risulta tra le regioni più virtuose da questo punto di vista. L’abuso sessuale è un fenomeno complesso e costantemente in evoluzione, il cui monitoraggio, spesso frammentario, non restituisce un quadro chiaro della situazione. Questo si deve soprattutto a due fattori: il web e la difficoltà di denuncia.

    Il dossier di Telefono Azzurro e Palazzo Chigi

    Il dossier di Telefono Azzurro, in collaborazione con il Dipartimento per le Politiche per la famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri, fotografa la situazione basandosi sui dati delle denunce e dei diversi monitoraggi effettuati lo scorso anno. Non tutte le segnalazioni e denunce passano attraverso Telefono Azzurro, che poi a sua volta segnala il caso alle autorità giudiziarie, ma anche direttamente da altri canali e forze dell’ordine. In ogni caso la differenziazione tra il web (online) e la vita reale (offline) è ormai parte integrante di qualunque dossier sul tema degli abusi sessuali sui minori, a testimonianza – l’ennesima – che i cambiamenti della tecnologia hanno modificato inesorabilmente anche i dati giudiziari e le analisi su certi fenomeni, oltre che la vita in generale.

    Palazzo-Chigi-abusi
    Palazzo Chigi

    Non a caso la polizia postale da alcuni anni ha creato una sezione nazionale ad hoc, il Centro nazionale contrasto pedopornografia online, che grazie a un monitoraggio continuo focalizza l’attenzione sulla scoperta di siti e dinamiche che possano rappresentare fonte di pericolo nella navigazione dei più giovani. Una battaglia per cercare di prevenire, oltre che di contrastare, abusi sessuali sul web nei confronti dei minori, che si combatte a 360 gradi e su più fronti. Per quanto concerne i presunti responsabili dei casi di abuso sessuale online gestiti nel 2020, i dati mostrano come nel 58% dei casi ci sia di mezzo un estraneo mentre nel caso di abusi offline i responsabili sono nel 52,9% genitori o parenti.

    I dati sugli abusi, regione per regione

    Lo studio di Telefono Azzurro cataloga per regione di provenienza i casi di abuso sessuale offline gestiti sul territorio nazionale. Utilizzando questo criterio (l’informazione è disponibile per l’87,7% dei casi totali) emerge come nel 2020 le richieste d’aiuto arrivino in primo luogo dalla Lombardia (20%), dal Lazio (16%), dal Piemonte (10%), dall’Emilia Romagna (9%), dalla Campania (8%), dalla Liguria (8%) e dalla Sicilia (8%). Seguono il Veneto (5%) e la Toscana (3%). Le aree geografiche rimanenti, si legge nel documento, costituiscono una minoranza che va dal 2% (Abruzzo, Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e Trentino-Alto Adige) all’1% (Puglia e Umbria) del totale.

    La Lombardia è in testa anche all’elenco delle regioni con più richieste d’aiuto per abusi sessuali subiti via internet. È da lì che proviene poco più di un caso su quattro: il 26% di quelli totali. Seguono l’Emilia Romagna (15,1%), la Campania (13,7%), il Veneto (11%) e il Lazio (8,2%). E poi, ancora, il Piemonte (5,5%), la Toscana (5,5%) e la Puglia (4,1%). Nel resto delle regioni si va dal 2,7% (Friuli-Venezia Giulia, Marche e Sicilia) all’1,4% (Calabria) delle richieste d’aiuto totali. Inoltre, l’1,4% delle richieste proviene dall’estero.

    Caccia agli orchi

    I dati apparentemente confortanti del report non fanno abbassare la guardia però a magistrati e forze dell’ordine calabresi. Tant’è che negli ultimi mesi non sono mancate le operazioni riguardanti la pedofilia e gli abusi sessuali, sia offline che online.

    Lo scorso 4 novembre i carabinieri di Rende hanno arrestato il nonno 62enne di due bimbe che sarebbero state abusate dal 2015. L’uomo è stato poi posto ai domiciliari dall’autorità giudiziaria.
    A Siderno nei mesi scorsi un 46enne è stato arrestato perché trovato in possesso di un migliaio di video di minorenni abusati sul suo computer dalla polizia postale, che lo stava seguendo già da alcune settimane.

    A maggio scorso la polizia ha arrestato un 73enne di Paola per abusi sessuali ai danni di due sorelle minorenni. In manette anche una coetanea dell’uomo: la nonna delle vittime, che pare fosse al corrente degli abusi. Gli anziani sono finiti ai domiciliari con l’accusa di prostituzione minorile e detenzione di materiale pedopornografico. L’indagine è scattata in seguito al tentato suicidio di una delle minori.

    A Catanzaro un’indagine della polizia postale della scorsa primavera ha portato all’arresto di tre individui (uno a Reggio Calabria) e all’iscrizione sul registro degli indagati di 119 persone e di un altro centinaio residenti in tutta Italia. In totale le forze dell’ordine hanno sequestrato 230 dispositivi informatici e hanno individuato circa 28mila immagini e 8mila video dai contenuti pedopornografici.

    Cosa fare in caso di abuso in Calabria

    Oltre alla prevenzione e alla repressione della pedofilia e degli abusi sui minori, che presuppongono la massima attenzione da parte di tutti per far emergere i singoli casi da denunciare poi alle autorità, il fronte relativo alla cura successiva dei traumi subiti dai minori anche in Calabria ha un grande peso. Segnaliamo solo due associazioni fra le tante presenti sul territorio per fornire una direzione sul da farsi, una laica e una cattolica: la Casa di Nilla a Catanzaro e l’associazione Meter a Lamezia.

    Don Fortunato Di Noto

    La prima è il centro specialistico della Regione per la cura e la tutela di bambini e adolescenti in situazioni di abuso sessuale e maltrattamento. Grazie al suo approccio multidisciplinare, si legge sul sito, è l’unico centro nel suo genere nell’Italia meridionale. La seconda, opera del siciliano don Fortunato Di Noto e con sedi anche altrove, è un punto di riferimento nella difesa dell’infanzia per tutta la Calabria.

  • Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Terme Luigiane, il Tar boccia i due Comuni: atti illegittimi

    Il Tar Calabria mette il primo punto fermo su quel gran pasticcio delle Terme Luigiane accogliendo il ricorso presentato dalla società Sateca contro le Amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e Acquappesa.
    Dunque secondo il Tribunale amministrativo i Comuni «hanno impedito a Sateca l’esercizio del diritto previsto dalla clausola dell’accordo del 2019 e la prosecuzione dell’attività fino al subentro del nuovo sub-concessionario». Pertanto, «sono senz’altro illegittimi gli atti di esercizio del potere di autotutela pubblicistica posti in essere dai Comuni».

    Fin qui l’avvocatesca interpretazione dell’arcinota vicenda che ha visto contrapposte la società Sateca e i Comuni di Guardia e Acquappesa. L’ennesimo scandalo calabrese su cui si è giocata la solita partita a perdere tra personaggi politici schierati su fronti opposti ma accomunati tutti dalla fallimentare gestione del dossier “Terme Luigiane”.

    La stagione saltata

    Ma mettiamo sul piatto qualche cifra, dal momento che questa vicenda ha avuto conseguenze ben più sostanziose di un chiacchiericcio politico. L’impasse generata dal mancato accordo ha fatto saltare la stagione termale ed ha lasciato sul lastrico i 250 lavoratori dello stabilimento termale. E non è possibile quantificare con precisione quante prestazioni socio-sanitarie e servizi termali sono stati cancellati, quanti turisti sono stati indotti a cambiare destinazione e a quanto ammonta il danno prodotto agli oltre mille lavoratori dell’indotto che ruota attorno alle Terme Luigiane. Altrimenti, dati alla mano, avremmo la fotografia di un collasso socio-economico di proporzioni gigantesche.

    Le responsabilità di sindaci e Regione

    Un dato certo è che, di questo pasticciaccio, la politica porta un pezzo importante di responsabilità. I sindaci dei comuni di Guardia Piemontese ed Acquappesa, anzitutto, per avere pervicacemente, di fatto, provocato uno stallo nella vertenza certificato dalla fallimentare gestione della gara indetta per individuare il nuovo gestore dello stabilimento che non a caso è andata deserta. Un fallimento politico-amministrativo certificato adesso dalla pronuncia del Tar.

    Non meno grave è la responsabilità della Regione, proprietaria del solo sfruttamento delle acque termali (legge 40/2009) che non ha voluto – o non ha saputo – creare le condizioni affinché dal 2016, anno di scadenza della subconcessione, potesse essere messo a bando lo sfruttamento delle acque termali, eventualmente anche revocando la concessione ai Comuni alla luce delle continue inadempienze rispetto a scadenze e cronoprogrammi.

    Un voto in controtendenza

    Una disfatta su tutta la linea: le Terme Luigiane sono diventate l’emblema di una politica compiacente, inadeguata e irresponsabile che provoca danni, cancella posti di lavoro e non si preoccupa di rispondere del proprio operato.
    Per una degna conclusione di questa brutta storia, torniamo alle ultime Amministrative di ottobre. Perché nonostante tutto quello che è accaduto e il ruolo svolto nell’affaire delle Terme, il sindaco uscente di Guardia Piemontese, Vincenzo Rocchetti, si ricandida e viene rieletto a pieni voti.

  • Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Riace, la brigata Bella Ciao di Lerner e padre Zanotelli abbraccia Lucano

    Le prime auto sono arrivate già dalla mattina. Da Napoli, da Cosenza, da Parma, da Messina: alla fine saranno un migliaio i sostenitori dell’ex sindaco Mimmo Lucano. Tutti approdati a Riace per rispondere alla “Chiamata delle arti”, la manifestazione a sostegno del “curdo” organizzata a poco più di un mese dalla sentenza del Tribunale di Locri. Lucano ha subito una condanna a 13 anni e due mesi di reclusione.

    Mimmo Lucano in piazza a Riace con Gad Lerner e padre Alex Zanotelli

    Presenti militanti, attivisti, i partigiani dell’Anpi e i giovani dei centri sociali. Non mancavano due ex candidati alla presidenza della Regione, Mario Oliverio e Luigi De Magistris. Tra i manifestanti anche l’ex sindaco movimentista di Messina, Renato Accorinti.

    Padre Alex Zanotelli e il sindaco con la falce e martello

    Spunta qualche amministratore locale della provincia – il neo rieletto sindaco di Polistena, Tripodi, munito di bandiera con falce e martello – e l’immancabile padre Alex Zanotelli che con Riace e il suo progetto di accoglienza dal basso ha un rapporto antico. Ma sono i giovani i veri protagonisti di questa giornata di festa salutata dallo scirocco. Ci sono i bambini arrivati in questo pezzetto di Calabria con le loro famiglie negli anni passati e quelli che a Riace sono nati, e ci sono i ragazzi delle scuole (una classe di un liceo di Messina ha continuato a girare lungo tutto il corteo per vendere una fanzine del loro «gruppo rivoluzionario che intende distruggere il capitalismo»).

    L’indifferenza dei ragazzi del posto

    Quelli che mancano sono i ragazzi del posto che non hanno risposto all’appello. Così come tiepida è stata la risposta dei cittadini del paesino jonico. Un gruppo di anziani gioca a carte nel bar appena fuori il “Villagio Globale”. Guardano a quella massa rumorosa di estranei con l’indolenza tipica di queste parti e non si fanno vedere nella piazza principale. Gli altri sono tutti in fila ordinata lungo la strada che dal Santuario di Cosma e Damiano conduce fino al paese. Un Santuario dove, grazie all’interessamento dell’allora vescovo Bregantini, furono ospitati i curdi del primo sbarco a Riace. Era il 1998.

    Bella Ciao con Gad Lerner e Ascanio Celestini

    Un corteo lungo e colorato di rosso che Lucano, mano nella mano con due dei bambini migranti che a Riace sono rimasti nonostante la tagliola disposta dall’allora ministro Salvini, guida tra le manifestazioni di affetto e vicinanza dei manifestanti. E ancora Gad Lerner e Ascanio Celestini per un serpentone rumoroso che avanza al ritmo di Bella Ciao fino all’anfiteatro con i colori della pace. E qui che, rispondendo alle domande dello stesso Lerner, Mimmo Lucano ha ripercorso le ultime tappe della sua vicenda. Una vicenda legata a doppio filo con la “rotta turca” che da più di venti anni continua a riversare disperati sulle spiagge della Locride.

    Il corteo per Mimmo Lucano sta per raggiungere il centro storico di Riace
    Le parole di Mimmo Lucano

    «Quello che proprio non riesco a sopportare di questa vicenda – ha detto l’ex sindaco – è la delegittimazione morale di quanto abbiamo fatto in tutto questo tempo. Questo non posso davvero sopportarlo. In una terra come la Locride, umiliata dal crimine organizzato e con un sistema sociale ed economico fragilissimo, noi abbiamo proposto un riscatto per il nostro territorio, occupandoci di un fenomeno epocale come quello migratorio». Il racconto del “curdo” ripercorre tutte le tappe di un “anomalia” capace di sorgere in contrapposizione agli slum spuntati, negli stessi anni, nelle campagne della piana di Gioia Tauro e il pensiero non può che andare a Beky Moses. «Una ragazza – ha ricordato ancora Lucano – a cui era stata rifiutata l’accoglienza e che era stata obbligata a lasciare Riace».  Che disse a Lucano: «Tu sei l’ultimo che può darmi una mano».

    Il giornalista Gad Lerner con Mimmo Lucano a Riace
    «La Prefettura di Reggio mi chiedeva di accogliere»

    Lucano continua: «Come potevo rifiutare? Non mi sono mai pentito di avere firmato quella carta d’identità anche se non è servito a niente visto che quello stesso documento è stato ritrovato qualche giorno dopo tra i resti del rogo che la uccise, nell’inferno di San Ferdinando». E poi la cooperativa che si occupava dei rifiuti a dorso di mulo «e che aveva rotto il monopolio dei soliti noti ma per cui sono stato comunque condannato» e le continue chiamate dalla Prefettura reggina che «mi chiamava San Lucano e mi chiedeva continuamente di accogliere altra gente perché non sapevano dove sistemarla». Quello di Mimmo è un racconto serrato e interrotto più volte dagli applausi del pubblico.

    Le parole del corteo di oggi a Riace
    Zanotelli: indagano Lucano invece di occuparsi di ‘ndrine 

    E se per Lerner la pesantissima sentenza di condanna che, in primo grado, è costata un totale di 87 anni di carcere per 15 dei 27 imputati rappresenta «un vero e proprio stupro nei confronti di Mimmo Lucano e del suo progetto di accoglienza», per il missionario comboniano Zanotelli, il vero rebus resta l’impegno della Procura di Locri «che al posto di occuparsi dei mille problemi causati dalla ‘ndrangheta in questo territorio, ha speso due anni per imbastire questa indagine contro una brava persona come Mimmo Lucano».

  • Cocaina e ‘ndrangheta: nuove rotte, vecchio business

    Cocaina e ‘ndrangheta: nuove rotte, vecchio business

    La ‘ndrangheta malgrado le tante operazioni di polizia e le numerose condanne nei diversi procedimenti giudiziari degli ultimi anni, resta il principale referente dei narcos sudamericani per l’importo e il traffico di cocaina sia in Italia sia in Europa. Anche altre organizzazioni italiane e straniere, ovviamente, si dedicano a questo business miliardario. Ma nessuno come i boss calabresi è riuscito a entrare nelle grazie dei narcotrafficanti colombiani e messicani in termini di fiducia e affidabilità. Basta incrociare un po’ di dati e ci si rende conto agevolmente di questo primato criminale. I numeri della recente relazione della Dia, del dipartimento antidroga del Viminale e delle tante inchieste giudiziarie sul traffico di cocaina, però, stanno descrivendo anche un comportamento delle cosche calabresi che fa riflettere inquirenti e investigatori.

    Il luogo ideale

    Per decenni la cocaina destinata alle ‘ndrine è arrivata soprattutto via mare nei container di trasporto merci di uno dei porti di riferimento, quello di Gioia Tauro. Più cocaina finiva sotto sequestro, più sembrava arrivarne in Calabria, per essere poi smistata nel resto d’Italia e non solo. E bisogna pensare che ovviamente la maggior parte della “neve” non viene intercettata dalle forze dell’ordine. Gioia Tauro per l’enorme mole di traffico di merci, oltre al fatto che si trova in Calabria, ha rappresentato per anni il luogo ideale per il narcotraffico targato ‘ndrangheta.

    Emilia e Lombardia

    Ma i boss calabresi sono “gente pratica” a cui piace più dei “colleghi” siciliani e campani l’invisibilità. E sono maestri nell’adattarsi al nuovo che avanza come pochi altri al mondo. Troppi occhi puntati su Gioia Tauro da parte dello Stato hanno quindi indotto i mammasantissima calabresi a spostare altrove gli arrivi della preziosa merce. Con strategie degne di una multinazionale i boss hanno iniziato a spostare uomini e mezzi in altre regioni italiane anche per il traffico di droga. Già la Lombardia e l’Emilia erano state per prime conquistate dalla ‘ndrangheta, che aveva bisogno di sviluppare affari e investire i propri guadagni.

    I maxi sequestri in Toscana e Liguria

    Ma da tempo ormai la Liguria e la Toscana rappresentano le due regioni dove veicolare parte del traffico di coca che prima era destinato quasi esclusivamente verso Gioia Tauro. Addirittura alcuni nipoti di noti boss calabresi sono nati e cresciuti in Toscana e Liguria, come testimoniano i vari dossier e molti atti processuali. Livorno e Genova diventano quindi i due porti dove far arrivare i container pieni di cocaina. Ecco perché i maggiori sequestri degli ultimi anni sono stati registrati proprio in questi luoghi.

    Meno rischi di sequestro

    Spiega bene infatti l’ultima relazione della Dia: «I maggiori sequestri di cocaina registrati nei porti di Genova e di Livorno indicano che le organizzazioni criminali calabresi, dopo aver utilizzato per anni il porto di Gioia Tauro quale varco privilegiato, di recente hanno posto l’attenzione anche ad altri scali del Mediterraneo al fine di diminuire i rischi di sequestro. Nel gennaio del 2019 l’operazione “Neve genovese”, svolta con la cooperazione di Spagna, Colombia e Regno Unito, ha consentito di eseguire a Genova il più ingente sequestro registrato in Italia negli ultimi 25 anni, oltre tre tonnellate».

    Gioia Tauro superata da Genova e Livorno

    Tra gli arrestati figura anche un pregiudicato sanremese ritenuto membro alla ‘ndrangheta di Ventimiglia, legata ai clan di Sinopoli e Siderno. Nel 2020 un altro carico da 3 tonnellate di cocaina, stavolta a Livorno, era riconducibile alle cosche calabresi del vibonese. E pochi mesi fa a Goia Tauro le Fiamme gialle hanno sequestrato una “sola” tonnellata di cocaina proveniente dal Sudamerica, nascosta tra un carico di banane.

    Questo significa che i boss calabresi hanno ormai diversificato i luoghi dove far arrivare o partire la droga. E che in Liguria e Toscana “si sentono abbastanza forti” e radicati per gestire questo tipo di business anche da un punto di vista economico.
    Questa montagna di denaro contante va poi riciclata, investita, fatta fruttare. Se ne occupano attraverso diverse operazioni finanziarie i colletti bianchi che fiancheggiano da sempre i potenti boss calabresi.

    Controllo del territorio

    Ma senza un controllo anche del territorio, in presenza diremmo di questi tempi, almeno per il traffico di droga, sarebbe impossibile gestire tutti gli aspetti organizzativi e pratici. Ecco spiegato il perché in Liguria, a La Spezia, Genova, Ventimiglia, così come in Toscana, a Firenze, Livorno e Prato, “spuntano” inchieste. Processi giudiziari che sembrano avviati dalla Dda di Reggio Calabria, per i nomi degli indagati. E che invece sono a cura della Dda di Genova e Firenze, come l’inchiesta “Halcon” del 2020 in Liguria, o dell’operazione “White iron” in Toscana, e della recente operazione congiunta tra la Dda fiorentina e quella catanzarese, della primavera scorsa, che ha visto coinvolti boss e picciotti delle cosche calabresi dello Jonio catanzarese, in azione a Livorno. Il traffico di cocaina era destinato alla Capitale e al litorale laziale. Rotte nuove, vecchio business.

  • Catanzaro: cosche, affaristi e istituzioni, gli intrecci dietro il sequestro del ponte

    Catanzaro: cosche, affaristi e istituzioni, gli intrecci dietro il sequestro del ponte

    «Spiccona un po’ di più, spiccona un po’ di più che diventa ruvido». Hanno tratti surreali alcune delle intercettazioni captate dagli investigatori durante le indagini che hanno portato al sequestro, con facoltà d’uso, del ponte Morandi di Catanzaro. E surreali sono i comportamenti di alcuni dei protagonisti dell’ennesimo scandalo legato agli appalti pubblici finiti nelle mani di imprenditori legati al crimine organizzato: manager che discutono della inadeguatezza dei materiali da usare sui cantieri e la cui unica preoccupazione «è che facciamo brutta figura», controllori che si accordano con i controllati per riscrivere informative di pg mentre puntano il trasferimento al Ministero, segretarie che diventano manager e che «magari ci facciamo assumere» dalla società che sulla carta dirigono.

    Tutti ingranaggi, sostengono i magistrati della Distrettuale antimafia di Catanzaro, agli ordini dei fratelli Sgromo, gli imprenditori catanzaresi da anni comodamente seduti alla tavola degli appalti che contano e che, grazie ad un complicato giro di società fantasma e compiacenti teste di legno a cui le stesse venivano di volta in volta assegnate, sarebbero riusciti a nascondere allo Stato, un gigante economico da 50 milioni di euro di fatturato annuo. E poi i Giampà e il senatore Ferdinando Aiello, e ancora il compianto Paolo Pollichieni e il maresciallo gdf infedele, in un baratro di affarismo famelico che si ripropone ogni volta uguale a se stesso.

    Sei le ordinanze di arresto disposte dal tribunale di Catanzaro. Le manette sono scattate per i due imprenditori e per una serie di loro collaboratori oltre che per un maresciallo della guardia di finanza attualmente in forza a Reggio. Gli indagati rispondono, a vario titolo, di intestazione fittizia di beni e associazione per delinquere aggravate dalle finalità mafiose, corruzione, autoriciclaggio, frode in pubbliche forniture e truffa.

    I lavori al Morandi

    Quella malta non piaceva proprio a nessuno. Non piaceva al rifornitore abituale dei materiali che aveva messo in guardia il cliente: «Fai una figura di merda, quel prodotto non funziona». Non piaceva a Gaetano Curcio, direttore tecnico della Tank (la società gestita dagli Sgromo che si occupa dei lavori di ristrutturazione al viadotto Bisantis e lungo la statale tra Lamezia e Catanzaro) che temeva quel prodotto «perché se non bagni bene il supporto si fessura».

    Non andava giù nemmeno al direttore dei lavori dell’Anas, Silvio Baudi, che dei lavori necessari per rendere migliore la resa del prodotto più scadente aveva paura: «non è che mi piaccia molto, meno di un centimetro non mi piace». E ovviamente, la malta Repar Tix – che la Tank aveva appena comprato in sostituzione del prodotto usato abitualmente ma molto più costoso – non piaceva agli operai che quel prodotto poi avrebbero dovuto usarlo sui cantieri: «L’abbiamo usato al Morandi, con questo materiale l’abbiamo fatto e casca tutto. Posso spicconare nu poco di più ma non va bene se mettete un altro tipo di materiale».

    A nessuno piaceva quella malta da utilizzare sui cantieri, raccontano le intercettazioni raccolte dagli investigatori, e tutti erano perfettamente consapevoli che non avrebbe reso come da progetto. Ma i soldi in azienda in quel periodo scarseggiano e la liquidità necessaria per rifornirsi della malta tradizionalmente utilizzata non c’è: inevitabile svoltare su un prodotto scadente ma decisamente più economico. D’altronde era stato lo stesso Sgromo a dare il via libera all’intera operazione «pur a conoscenza – scrive il Gip – della scarsa qualità del prodotto e dell’inopportunità di mischiare i prodotti».

    Un via libera che aveva cancellato tutti i dubbi. Sia nel direttore tecnico della Tank, che si affretta a presentare l’ordine di acquisto per il nuovo prodotto perché anche se «è una porcheria… è una questione finanziaria e il cantiere non si può fermare» e sia nell’ingegnere dell’Anas che, espresse le proprie perplessità, non fa una piega e firma l’ordine per 30 mila chili della malta che «aggrippa» premurandosi di promuoverne la consegna urgente.

    E così, nonostante la omogenea presa di coscienza della totale inutilità del prodotto, come da perfetto copione calabrese, nei lavori Anas per il risanamento strutturale di opere del lotto 5 Calabria (che comprendono anche il ponte simbolo del capoluogo e la bretella che collega Catanzaro con l’autostrada e l’aeroporto) ci finisce proprio la malta che non fa presa sulle superfici lisce. Tanto basta «spicconare un po’ di più. Tu spiccona un po’ di più che poi diventa ruvido».

    Il maresciallo e il senatore

    I fratelli Sgromo sono sotto la lente della Dda dal 2016. A febbraio, un’informativa della Guardia di Finanza, anche a seguito delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, li bolla come imprenditori di riferimento della cosca Giampà: per gli investigatori delle Fiamme gialle, gli Sgromo sono agli ordini de “u professora”.
    Consapevoli dell’interessamento dell’antimafia, i due fratelli cercano qualcuno tra le forze dell’ordine che lavorano al caso che li tenga informati e che, magari, riesca a intervenire in loro aiuto. L’uomo giusto, sostengono gli inquirenti, è il maresciallo Michele Marinaro, in forza alla Dia di Catanzaro ma smanioso di un trasferimento alla Presidenza del Consiglio dei ministri.

    È Paolo Pollichieni (il direttore del Corriere della Calabria deceduto due anni fa), raccontano gli screenshot finiti nell’indagine, che nel 2017 fornisce il nome di un investigatore «del posto» che lavora a quella indagine. Sgromo e Marinaro cominciano così a frequentarsi: sul piatto l’intervento direttamente sulle indagini che vale il tanto agognato trasferimento. E così mentre i fratelli Sgromo, nelle informative della Pg redatte da Marinaro si trasformano progressivamente da imprenditori legati al clan e accusati di associazione mafiosa, in imprenditori vessati dalla mafia e quindi imputabili del solo favoreggiamento per non avere denunciato, la carriera di Marinaro segue la rotta che ormai era stata tracciata.

    Ad occuparsene è Eugenio Sgromo in prima persona che da quel momento intensifica i propri rapporti con “Ferd”, inteso l’ex senatore Ferdinando Aiello che, annota il Gip «si è interessato per risolvere la questione che interessa il Marinaro, e cioè il suo trasferimento alla Presidenza del Consiglio». Un intervento che, ipotizzano gli investigatori, sblocca la situazione in pochi mesi. «Ho visto Ferdinando – scrive Sgromo al maresciallo – mi ha detto che ti hanno chiamato, ah che bella notizia, sono contento».

  • Giovanissimi alla sbarra, la Calabria ai vertici nazionali

    Giovanissimi alla sbarra, la Calabria ai vertici nazionali

    L’ultimo episodio arriva da Catanzaro, con la maxi operazione antidroga di pochi giorni fa nel quartiere Aranceto che ha visto coinvolto anche un minore. E va ad aggiungersi a un lungo elenco che fa della Calabria uno dei territori italiani a dare maggior lavoro ai servizi della giustizia minorile. Ad oggi, in base ai dati diffusi nei giorni scorsi dal Ministero della Giustizia, in tutta Italia hanno in carico circa 13mila tra minorenni e giovani adulti (da 18 a 25 anni). E di questi solo una piccola parte si trova in stato di detenzione. Della maggior parte di loro si occupano gli uffici di servizio sociale per i minorenni (Ussm), una modalità che consente, con provvedimenti disposti dal giudice, l’adozione di un progetto educativo costruito ad hoc sulle necessità e la personalità del minore.

    Gli imputati minorenni sono per il 70% italiani e per il 30% stranieri. Sia fra gli italiani che fra gli stranieri le percentuali di genere sono molto simili: oltre l’84% sono maschi e meno del 16% sono femmine. Nel caso dei maschi il 30,5% degli imputati ha fra i 14 e i 15 anni mentre il 69% ne ha 16 o 17. Fra le femmine le percentuali variano considerevolmente e osserviamo che le ragazze imputate con un’età fra i 14 e i 15 anni (40%) sono percentualmente più dei ragazzi e quelle imputate con un’età fra i 16 e i 17 anni (60%) sono percentualmente meno dei ragazzi.

    Esiti e tipologie di reati commessi

    I numeri più elevati riguardano i reati legati al mondo della droga in primis, seguiti da furti, rapine e lesioni personali. Ma sono in aumento anche i reati a sfondo sessuale e quelli legati alla pornografia minorile. In molti casi (22,14%) il pm ha esercitato anticipatamente l’azione penale, chiedendo al giudice, nel corso delle indagini preliminari, di pronunciarsi con una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Ha invece richiesto il rinvio a giudizio nel 37% dei casi, e nel 6% dei casi è stato chiesto di procedere con un rito alternativo.

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    I dati calabresi

    In Calabria, tra cittadini italiani e stranieri, i minorenni e i giovani adulti presi di cui si occupa l’Ussm al 15 ottobre scorso sono circa mille, 962 per la precisione. A Catanzaro 220 presi in carico per la prima volta nel 2021 e 403 già in precedenza, per un totale di 623. A Reggio Calabria 134 presi in carico per la prima volta nel 2021 e 205 prima di quella data, per un totale di 339. Non ci sono presenze al momento nei centri di prima accoglienza. Se ne registrano, invece, 3 nelle comunità ministeriali, 16 nelle comunità private, 12 nell’Ipm di Catanzaro. Tutti gli altri (la maggior parte) sono seguiti o in strutture di altre regioni o presso le loro abitazioni.

    Catanzaro e Reggio ai piedi del podio

    I minori segnalati con un’età inferiore ai 14 anni sono il 6,23% sul totale dei minori nel 2017. Percentuale in diminuzione dal 2015, quando invece i minori di 14 anni segnalati erano l’8,33%. I numeri più alti si registrano a Roma, Bologna e Palermo e subito dopo questi grandi centri urbani viene la Calabria con le due città di Catanzaro e Reggio Calabria, che hanno tribunali per i minori e quindi monitorano i dati. Nei casi di reati commessi da minori e giovani adulti la prevenzione ovviamente è molto più importante di tutti gli altri interventi. Anche perché non si deve mai dimenticare che quando si parla di criminalità in Calabria si finisce prima o poi di parlare di ‘ndrangheta.

    Recidiva alta

    L’esame delle statistiche ufficiali rileva che i reati più diffusi sono quelli contro il patrimonio, quale il furto di autovetture o il furto in casa. Negli ultimi tempi si registra, comunque, un’evoluzione della tipologia di reato: diversi casi di spaccio di sostanze stupefacenti che confermano l’intreccio dei rom e della criminalità organizzata nella gestione del traffico di sostanze stupefacenti sul territorio. La tendenza alla recidiva di questi minori, è molto alta. Elevata è l’imputazione di concorso e la correità tra minori rom e a volte con rom giovani adulti. I casi in cui i minori stranieri sono per lo più soli sono infine quelli in cui risultano più esposti al rischio di coinvolgimento nelle attività criminali gestite dai gruppi delinquenziali locali.

    Quartieri a rischio

    I territori più interessati dal fenomeno della delinquenza minorile regionale sono vari ed alcuni lo sono più di altri. Una fetta grossa di utenza proviene dalla città di Cosenza e dalle zone vicine, in particolare dall’alto Jonio Cosentino (città di Corigliano Rossano e Cassano Jonio). È importante sottolineare che molti minori entrati nel circuito penale vivono nell’area dei quartieri a rischio, con situazioni di marginalità e scarsa presenza di servizi.

    Intrecci mafiosi

    L’attenzione maggiore richiesta all’Ussm di Catanzaro proviene dai territori di Lamezia Terme, Crotone e Vibo Valentia e in generale, inquadrando la delinquenza minorile in una visione a largo raggio, dove il fenomeno dell’estorsione legato all’opera della mafia è in considerevole aumento: diversi gli ingressi nei servizi di minori per estorsione, rapina e uso illegale di armi. Sono da segnalare anche vari casi di 416 bis provenienti dalla provincia di Reggio Calabria. Il territorio reggino è quello più segnato dalla presenza di minori appartenenti a contesti di criminalità organizzata di stampo mafioso, che si intrecciano con storie di marginalità e devianza.

  • Troppe inchieste su di loro, i sindaci non ci stanno più

    Troppe inchieste su di loro, i sindaci non ci stanno più

    I principali reati contestati ai sindaci sono abuso d’ufficio, peculato, voto di scambio, corruzione, falso in atto pubblico. Finire un mandato senza un processo a proprio carico sembra ormai un caso più unico che raro: a ritrovarsi indagati per l’allagamento di un sottopasso, una mancata manutenzione stradale o per un bimbo che si fa male a scuola è un attimo.

    L’Anci ha lanciato una petizione a tutela dei primi cittadini che chiede al Parlamento di rivedere il Testo unico degli enti locali.
    Più della metà dei sindaci calabresi ha aderito all’iniziativa nazionale (212 su 404).

    CLICCA QUI PER L’ELENCO DEI SINDACI CALABRESI CHE HANNO FIRMATO LA PETIZIONE

    «Non chiediamo immunità o impunità – è scritto nell’appello – ma domandiamo: possono i sindaci rispondere personalmente e penalmente di valutazioni non ascrivibili alle loro competenze? Possono essere condannati per aver fatto il loro lavoro?».
    Alla petizione Anci hanno aderito tutti i sindaci dei capoluoghi di provincia. E ad eccezione di Maria Limardo (Vibo Valentia) e Francesco Voce (Crotone), eletti di recente, tutti gli altri portano sulle spalle procedimenti giudiziari importanti.

    Reggio Calabria: Falcomatà

    Un anno e dieci mesi di reclusione: è la condanna chiesta dai pm della Procura di Reggio Calabria nei confronti del sindaco Giuseppe Falcomatà. Il reggino è imputato per abuso d’ufficio e falso nel processo su presunte irregolarità nelle procedure di affidamento del Grand Hotel Miramare. Al centro del processo, l’affidamento di uno dei palazzi storici della città all’imprenditore Paolo Zagarella. Il Comune aveva assegnato la gestione a Zagarella dopo che quest’ultimo, durante la campagna elettorale del 2014, aveva concesso i suoi locali per la segreteria di Falcomatà. Secondo l’accusa, sindaco e assessori avrebbero violato «i doveri di imparzialità, trasparenza e buona amministrazione».

    Falcomatà
    Il sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà

    Per i pm, i membri della Giunta hanno adottato una delibera con la quale «statuivano l’ammissibilità della proposta proveniente dall’associazione Il Sottoscala» mentre avrebbero dovuto predisporre un bando pubblico. Gli imputati hanno spiegato che la delibera era un atto di indirizzo. Ma per la Procura «non c’era nessun atto di indirizzo, ma un atto di immediata concessione: il gioiello di famiglia si era trasformato in un affare di famiglia. Non è stata mala-gestio, ma una gestio finalizzata a raggiungere un determinato obiettivo e il sindaco è stato il regista». La sentenza è prevista per il 19 novembre.

    Catanzaro: Abramo

    Doppia inchiesta per il sindaco di Catanzaro. Sergio Abramo è imputato per abuso d’ufficio nel processo Multopoli relativo ai presunti illeciti legati all’annullamento di contravvenzioni per le violazioni del Codice della strada che coinvolge anche Mimmo Tallini. Per il primo cittadino nei giorni scorsi è arrivata la richiesta di assoluzione. Per l’ex presidente del Consiglio Regionale, invece, la richiesta di condanna è di un anno e sei mesi. La sentenza è prevista il 12 novembre.

    È di corruzione, invece, l’ipotesi di reato contestata al sindaco sulla gestione dei pontili mobili nel porto di Catanzaro Lido. Abramo, giunto al suo quarto mandato, è accusato di aver intascato un’indebita somma di denaro tramite il nipote allo scopo di favorire nella realizzazione delle opere l’imprenditore Raoul Mellea, titolare della Navylos.

    Cosenza: Occhiuto

    Un processo dietro l’altro per l’ormai ex primo cittadino di Cosenza, Mario Occhiuto. È stato rinviato a giudizio per l’inchiesta “Piazza sicura” che nell’aprile del 2020 portò al provvedimento di sequestro preventivo di Piazza Bilotti per gli atti che riguardavano la procedura di collaudo dei lavori di riqualificazione e rifunzionalizzazione ricreativo- culturale dell’opera, compresa la realizzazione del parcheggio interrato. Lavori per un investimento di oltre 15,7 milioni di euro, di cui quasi 12 di finanziamento pubblico e 3,7 a carico di privati. Le accuse agli imputati vanno dal falso ideologico alla turbata libertà della scelta del contraente e rivelazione del segreto di ufficio fino al falso materiale commesso dal pubblico ufficiale in atti pubblici e mancanza del certificato di collaudo.

    Occhiuto è stato prosciolto invece da ogni accusa nell’ambito dell’inchiesta “Passepartout” condotta dalla Procura di Catanzaro su presunte irregolarità in alcuni appalti nel territorio di Cosenza, tra cui quelli relativi alla realizzazione della metropolitana leggera e del nuovo ospedale.
    Risulta iscritto nel registro degli indagati e dovrà rispondere di truffa ai danni del Comune, falso e peculato per la vicenda legata ai rimborsi per missioni mai effettuate. Al centro, le spese sostenute tra il 2013 e il 2016 per una serie di missioni istituzionali (biglietti aerei, ristoranti…) rimborsate da Palazzo dei Bruzi che però non si sarebbero mai svolte. La Corte dei Conti, inoltre, lo ha condannato in primo grado ritenendolo colpevole di un danno erariale da circa 260mila euro relativo agli emolumenti del suo staff.

    Occhiuto
    Mario Occhiuto
    L’assessorato sospetto

    Sul capo di Mario Occhiuto infine pende un procedimento per associazione a delinquere transnazionale. L’ex primo inquilino di Palazzo dei Bruzi, è stato rinviato a giudizio dal Gup del Tribunale di Roma, nell’ambito dell’inchiesta condotta dal pm Alberto Galanti, sui rapporti tra il sindaco, l’ex ministro per l’ambiente Corrado Clini e la sua compagna Martina Hauser, componente della giunta di Palazzo dei Bruzi nella prima parte della consiliatura del 2011.
    Secondo l’accusa, Mario Occhiuto avrebbe ricevuto ingenti finanziamenti per realizzare progetti esteri cofinanziati dal ministero dell’Ambiente, in qualità di architetto e in cambio Occhiuto avrebbe nominato assessore della sua prima giunta proprio la compagna di Clini, Martina Hauser.

    L’altra sponda del Campagnano: Manna

    Non è riconducibile alla sua attività di amministratore locale il procedimento a carico di Marcello Manna, sindaco di Rende. L’accusa contestata dal pm all’avvocato Manna, già presidente della Camera penale di Cosenza, è corruzione in atti giudiziari. Il magistrato inquirente ha firmato e fatto notificare l’avviso di conclusione delle indagini preliminari contestando al giudice Petrini di aver ricevuto da Manna 5000 euro al fine di decretare l’assoluzione, in secondo grado di giudizio, del boss di Rende, Francesco Patitucci, dalla imputazione di concorso nell’omicidio di Luca Bruni, reggente dell’omonimo clan di Cosenza, assassinato nel gennaio del 2012 alla periferia di Rende.

    Manna ha sempre respinto ogni accusa. Agli atti d’inchiesta è allegato un filmato girato dalla Guardia di finanza nel quale si vede il penalista cosentino dare una cartella al giudice. Sul contenuto della cartella le dichiarazioni rese dagli indagati sono discordi e inconciliabili.

    I piccoli comuni

    Non importa se l’ente amministrato è grande o piccolo, i reati non fanno distinzione. Peculato, falso ideologico e abuso d’ufficio sono i reati contestati a Vincenzo Rocchetti, primo cittadino di Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza. Rocchetti è coinvolto in un’inchiesta sulla gestione delle procedure di assegnazione di un’abitazione di edilizia popolare.
    Il tribunale del Riesame di Catanzaro ha confermato invece l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria nei confronti del sindaco di San Nicola Arcella, Barbara Mele, facendo decadere le accuse di collusione e turbativa d’asta.

    Lieto fine

    Il mostro in prima pagina sempre e chissenefrega se poi non lo era. Capita infatti che dopo decenni i sindaci vengano assolti e con fatica tentano di ripulire la loro immagine. Assolta dall’accusa di concorso in associazione mafiosa l’ex sindaco di Corigliano, Pasqualina Straface, nell’ambito dell’inchiesta Santa Tecla che aveva portato allo scioglimento del consiglio comunale. Per Straface da poco si sono aperte le porte del Consiglio regionale.

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    Pasqualina Straface

    La Cassazione ha riabilitato anche il sindaco di Cassano, Gianni Papasso. La suprema Corte ha chiarito che non è stato lui il responsabile dello scioglimento del precedente consiglio comunale. Decisione che gli ha permesso di candidarsi alla guida della città – con successo – per la terza volta.

    Dopo sette anni è finito anche il calvario di Carolina Girasole. L’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto è stata assolta dalla Corte di Cassazione, che ha confermato le sentenze del Tribunale di Crotone e della Corte d’Appello di Catanzaro. Si è conclusa così una vicenda giudiziaria scaturita dall’operazione Insula, coordinata della Direzione Distrettuale Antimafia del capoluogo calabrese.

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    Carolina Girasole

    Eletta nel 2008 a capo di una coalizione di centrosinistra, Girasole era stata arrestata e posta ai domiciliari nel dicembre del 2013, insieme al marito, Franco Pugliese, e ad altre 11 persone. L’accusa era: voto di scambio politico-mafioso, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Sulla donna, l’ombra dei legami con la cosca Arena, che – secondo i magistrati della Dda di Catanzaro – l’avrebbe aiutata a diventare sindaca per ottenere favori nella gestione dei beni confiscati, con l’intento di restarne in possesso.

    Fuori dal carcere

    Dopo sette mesi esatti dall’arresto del 19 dicembre 2019 nell’ambito dell’operazione Rinascita-Scott, Gianluca Callipo, ex sindaco di Pizzo è tornato in libertà. La sesta sezione della Corte di Cassazione ha infatti annullato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere accogliendo il ricorso presentato dai suoi avvocati. ll primo cittadino, secondo l’accusa, avrebbe tenuto «condotte amministrative illecite».

    Così facendo avrebbe favorito la ‘ndrangheta garantendo benefici ad alcuni indagati nella gestione di attività imprenditoriali. Amaro lo sfogo di Callipo, ex presidente Anci Calabria: «Ho imparato che non basta essere onesti e rispettosi della legge per essere sempre considerati tali. Ho imparato che ogni azione, anche la più rigorosa e ligia al dovere, può essere travisata e diventare una “colpa” da dover spiegare».

    Chi spera ancora: Lucano

    Un nuvola nera sul modello Riace. Condannato in primo grado a 13 anni e due mesi di reclusione nel processo “Xenia” sui presunti illeciti nella gestione dei migranti, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano che dovrà anche restituire 500mila euro di finanziamenti ricevuti dall’Unione europea e dal Governo. La pena inflitta a Lucano è quasi il doppio di quella chiesta dalla pubblica accusa (7 anni e 11 mesi).

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    Mimmo Lucano

    Lucano era imputato di associazione per delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Questa è una vicenda inaudita. Sarò macchiato per sempre per colpe che non ho commesso. Mi aspettavo un’assoluzione», ha detto Lucano a commento della sentenza. «Grazie, comunque, lo stesso – ha aggiunto – ai miei avvocati per il lavoro che hanno svolto. Io, tra l’altro, non avrei avuto modo di pagare altri legali, non avendo disponibilità economica». Tra i legali di Lucano, Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano.

    L’eterno dilemma

    «Ogni volta che un sindaco firma un atto rischia di commettere abuso d’ufficio. Se non firma, rischia l’omissione di atti d’ufficio», ha commentato di recente il presidente nazionale Anci, Antonio De Caro. Fare o non fare, questo è il problema per l’amministratore pubblico. Una riforma del ruolo dei sindaci che chiarisca definitivamente le responsabilità personali, professionali, giuridiche e anche economiche probabilmente è necessaria.

  • Catanzaro, le mille ombre e la “profezia” di Ilda la rossa

    Catanzaro, le mille ombre e la “profezia” di Ilda la rossa

    Catanzaro, la città del vento, è difficile da descrivere con la retorica del mondo di mezzo. Di sicuro a quello di sotto non si dedicano mai grossi sforzi interpretativi: l’area Sud, i ghetti di viale Isonzo e dell’Aranceto, i “fortini” rom tutti droga e cavalli di ritorno. In mezzo, al massimo, ci si potrebbe collocare l’oceano umano che ogni giorno entra ed esce dai palazzi della burocrazia, dagli ospedali, dalla Prefettura, dalla Provincia e ovviamente dalla Cittadella della Regione.

    È l’esercito degli uffici e del disbrigo pratiche, il terreno su cui prospera la coltivazione intensiva di amicizie e clientele. Ciò che sta sopra, invece, sfugge alle definizioni. L’area grigia, il sistema, i salotti. Tutto già detto, tutto poco efficace per chi conosce quella parte di città che un tempo esprimeva un’oligarchia di cui, oggi, è rimasto ben poco, se non il blasone di certi licei come il “Galluppi” e il “Siciliani”.

    La lettera profetica

    La città del velluto la racconta in poche righe una lettera che oggi suona come una profezia. L’ha ricevuta, da qualcuno che ha preferito non firmarsi, la magistrata più famosa d’Italia. Di Ilda Boccassini oggi fanno discutere i giudizi più o meno edificanti sugli ex colleghi e le rivelazioni più o meno opportune sul suo passato. Ma tra le pagine della sua biografia c’è pure un capitolo dedicato alla Calabria che si intreccia con i tormenti che hanno attraversato e attraversano la giustizia italiana.

    È verso la fine del libro La stanza numero 30 – Cronache di una vita che la Rossa parla di ‘ndrangheta e di borghesia mafiosa. Ricorda la telecamera nascosta che per prima ha rivelato i riti di iniziazione in Lombardia e definisce la “zona grigia” non come entità unitaria ma realtà complessa. È il mafioso a cambiare volto e parole a seconda che abbia davanti il politico, l’imprenditore, il commercialista, l’avvocato, il medico, il poliziotto. E infiltrazione è un termine «fuorviante», spesso è il borghese a cercare il mafioso, al Nord più che in Calabria.

    Nessuno spiraglio di legalità

    Poi c’è la giustizia, con la g minuscola, e i casi finiti male di magistrati come Vincenzo Giglio e Giancarlo Giusti. Il primo fu coinvolto e condannato in una sua inchiesta milanese sul clan Lampada, il secondo si è suicidato nel marzo del 2015 mentre scontava ai domiciliari la condanna per concorso esterno divenuta da poco definitiva. Boccassini si chiede che aria si respiri oggi in Calabria e ammette quanto la risposta sia «difficile», specie provando a darla «a mille chilometri di distanza». È a questo punto che pubblica la lettera anonima ricevuta a gennaio del 2012. Un catanzarese la ringrazia per lo squarcio aperto dalla sua inchiesta – all’epoca ne fu coinvolto un consigliere regionale, Franco Morelli – ma pensa che lei «non può fare tutto». Che nella sua città «i bagliori di luce non arrivano» perché è «priva di spiragli di legalità».

    I salotti

    Si tratta di poche righe che restituiscono in maniera disarmante l’amarezza e il senso di impotenza di un cittadino non certo sprovveduto. Uno che non abita il mondo di sotto, ma anzi mostra di avere dimestichezza con l’alta borghesia. «Questa è la storia di una città che rappresenta uno spazio vuoto», scrive. Una città in cui «l’illegalità è un’istituzione», in cui «non si capisce cosa sia la mafia, semplicemente perché la mafia è tutto». Parla, l’anonimo catanzarese, di intercettazioni che un colonnello dei carabinieri rivelerebbe a un noto avvocato e che vengono usate «per ricatti o per affari».

    Catanzaro
    Il viadotto Bisantis illuminato nell’oscurità a Catanzaro

    Non solo: menziona anche un notaio che «traffica opere d’arte false e poi a lui stesso viene chiesto di autenticarle», nel cui studio «gravitano i “cutresi”». Immancabile anche il politico che «si accompagna con galeotti» che «fanno la campagna elettorale», anzi «la impongono». I salotti di questi personaggi sono «riempiti dalla città “bene”, imprenditori e giudici compresi». E quanti non sono invitati, osserva, «aspirerebbero a esserlo».

    Ombre a tutti i livelli

    Da questo j’accuse premonitore sono trascorsi dieci anni e nel frattempo qualcosa è cambiato. Diverse cose si sono rivelate per come venivano descritte e qualche spiraglio si è aperto anche in santuari degli affari prima ritenuti impenetrabili. Nicola Gratteri può piacere o meno – Boccassini cita anche il caso di Vincenzo Luberto, suo ex procuratore aggiunto accusato di aver asservito la propria funzione a un ex parlamentare – ma dalle inchieste della sua Procura, al di là dei risvolti che ne determinano la solidità nelle aule giudiziarie, emerge uno spaccato inquietante di entrambi i mondi. In qualche modo, insomma, si sono accesi i riflettori anche sulle fenditure più ombrose degli ambienti altolocati e delle periferie degradate.

    Ghetti, Chiesa e cultura

    Una donna ha raccontato, dal di dentro, che all’Aranceto lo spaccio è h24, che si fanno anche i turni di notte e che i clienti sanno che al terzo piano si vende la cocaina mentre per il kobret bisogna citofonare al quarto. Ecco: questa è la stessa città di chi i ghetti li ha creati con una mano mentre con l’altra curava gli interessi di certe dinastie imprenditoriali.

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    Un’immagine dell’operazione Drug Family che ha condotto a 31 arresti nel quartiere Aranceto di Catanzaro

    È la stessa città in cui l’Arcidiocesi è finita al centro di un caso senza precedenti e la Chiesa non si mostra certo lontana da tentazioni e proiezioni affaristiche. Ed è la stessa città del teatro Politeama e del Comunale, delle mille rassegne culturali e del policlinico universitario. La città da cui tanti giovani e brillanti “cervelli” sono quasi costretti a scappare e in cui, però, ci sono eccezioni come la carriera lampo di Fulvio Gigliotti, lo «sconosciuto professore – il copyright è di Luca Palamara – uscito per magia» dal voto online del M5S grazie al quale è arrivato a sedere nel Csm.

    Giudici e clan

    È la città dei Gaglianesi e degli zingari, clan considerati minori, se non vere e proprie propaggini delle ‘ndrine di Cutro e Isola Capo Rizzuto, ma che votano e fanno votare. È la città in cui sono esplosi i casi dei giudici Marco Petrini e Giuseppe Valea, ben visti e stimati prima che uno fosse condannato in primo grado per il giro di «soldi, vino, champagne, prestiti, favori e corruzione, regali, gamberoni, casse di vino, assegni in bianco e ancora denaro» negli uffici della Corte d’Appello in cui era presidente di sezione.

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    Il giudice Marco Petrini

    O che l’altro subisse l’interdizione per un anno perché accusato di aver avuto «un approccio infedele alla funzione pubblica esercitata» tanto da autoassegnarsi alcuni fascicoli, da presidente del Tribunale del Riesame, e decretare l’esito di ricorsi e scarcerazioni senza neanche consultare – ha segnalato la Procura guidata da Gratteri e hanno confermato alcuni suoi stessi colleghi – gli altri membri del collegio.

    La città che cambia

    È la città dei tre colli e delle tre V (la terza, dopo vento e velluto, è appannaggio di San Vitaliano), la cui ormai mitologica funicolare veniva percorsa a piedi nel 1913 da Filippo Tommaso Marinetti. Cento anni dopo Catanzaro non sembra più tanto futurista. E non è più nemmeno quella mirabilmente raccontata nel 1967 da Gianni Amelio nel corto tv “Undici immigrati”, non a caso criticatissimo dall’élite che fu, ma ritrova oggi rari momenti comunitari forse solo nell’ironia di spettacoli come quelli di Ivan ed Enzo Colacino.

    È la città in cui il mondo di sopra è ormai riempito, più che dalle massosuggestioni di «nobili istituzioni» e «architettonici lavori», dall’ossessione dei soldi. Ed è il luogo in cui sorge la Cittadella, che potrebbe rappresentare il simbolo della Regione del futuro oppure diventare l’ennesima cattedrale del (e nel) nulla, un enorme non-luogo che assurge a simbolo di quello «spazio vuoto» e grigio che è il cuore stesso della Calabria.