Categoria: Fatti

  • Palazzo di giustizia, la figuraccia dello Stato a Reggio

    Palazzo di giustizia, la figuraccia dello Stato a Reggio

    11 marzo 2011. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale da poco più di un anno. E dichiara: «Confermo anche l’impegno assunto durante la mia sindacatura. Il nuovo Palazzo di Giustizia di Reggio Calabria porterà il nome di Antonino Scopelliti». Sono passati oltre dieci anni da quell’annuncio. E l’inaugurazione del palazzo di giustizia di Reggio Calabria resta una chimera.

    L’appalto e l’incompiuta

    Il palazzo di giustizia è l’incompiuta per eccellenza a Reggio Calabria. L’opera più importante, per mole, per investimenti, ferma da anni. A circa il 75% dello stato di avanzamento. E che rischia di essere inaugurato (quando accadrà) già vecchio.
    Il progetto del nuovo Tribunale era stato approvato nel maggio 2004 per un importo di quasi 88 milioni di euro. Lavori affidati alla Bentini Spa di Faenza, che aveva vinto l’appalto del Comune fissando l’offerta a un ribasso di quasi il 20% rispetto ai concorrenti.
    Un appalto da poco più di 50 milioni di euro che, in oltre 17 anni di lavori, ha già visto quasi raddoppiare i costi, a causa di varianti e ritardi.

    La denuncia del presidente del Tribunale

    Reggio si è ormai abituata a convivere con quella struttura mastodontica mai inaugurata. Dà il benvenuto a chi arriva dallo svincolo autostradale principale: quello che porta al centro cittadino. Negli ultimi giorni è stata la presidente del Tribunale, Mariagrazia Arena, a fare una grave denuncia pubblica sullo stato di abbandono della struttura: «L’incuria del nuovo palazzo di Giustizia di Reggio Calabria è causata o dall’incapacità di risolvere i problemi o, cosa più grave, dalla mancanza di vero interesse a risolvere i problemi».

    Mariagrazia Arena, presidente del Tribunale di Reggio Calabria
    Mariagrazia Arena, presidente del Tribunale di Reggio Calabria

    I lavori, infatti, sono fermi da tempo. Si è lavorato fino all’inizio del 2013. Quelli sono gli anni del commissariamento del Comune per contiguità con la ‘ndrangheta, avvenuto nell’ottobre 2012. I commissari chiamati a riportare decoro e legalità nell’amministrazione reggina restano inermi. Lavori bloccati a causa di un contenzioso da 38 milioni di euro tra il Comune e la Bentini. Con gli operai in cassa integrazione. E poi, inevitabilmente e inesorabilmente, licenziati. Ci pensa la prima Amministrazione di Giuseppe Falcomatà ad avviare il concordato fallimentare. Ma lo stato dei lavori non cambia.

    L’ombra della ‘ndrangheta

    In mezzo, come spesso accade, le infiltrazioni della ‘ndrangheta. Anzi, le presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta. Perché l’inchiesta “Cosmos”, curata dalla Dda di Reggio Calabria sosteneva di aver scoperto l’opera di vessazione del potente clan Libri sulla ditta Bentini. Secondo le indagini, la cosca si era accaparrata il servizio mensa e tavola calda per i dipendenti del Cedir e gli operai della Bentini. Ma già in primo grado il boss Pasquale Libri sarà assolto dall’accusa.

    Dovrà invece aspettare l’Appello, Edoardo Mangiola considerato il collettore di una raffinata forma di estorsione perpetrata in danno della “Bentini Spa”. Piuttosto che ricorrere al classico metodo della “mazzetta”, i Libri avrebbero realizzato l’attività di infiltrazione attraverso la stipula di contratti di fornitura di servizi. Con cui avrebbero imposto le proprie prestazioni in regime di assoluto monopolio. Nonché attraverso la somministrazione controllata di forza lavoro con l’imposizione di operai.

    La carenza di aule

    E così gli uffici giudiziari di Reggio Calabria si trovano nel paradosso di essere dislocati in almeno tre sedi. C’è il Centro Direzionale, dove si trova la sede della Procura della Repubblica e dei tribunali, penali e civili. Poi le strutture di Piazza Castello, con la Procura Generale e il vecchio palazzo dove si trovano le aule d’udienza. Infine l’aula bunker.

    Il Tribunale, che tratta tutti i processi di criminalità organizzata del Distretto, è ospite in un immobile comunale dove quotidianamente si devono fare i salti mortali per celebrare le udienze perché le aule sono insufficienti. E in condizioni spesso non decorose: troppo fredde d’inverno, veri e propri forni da maggio in avanti.

    Gli uffici della Procura della Repubblica non fanno eccezione. Chiunque li abbia visitati, non può non aver notato la caratteristica, più unica che rara, di dover attraversare i bagni per potersi spostare tra i vari corridoi. Con le stanze dei magistrati chiuse da porte leggerissime, attraverso le quali un orecchio attento può anche carpire alcuni dei delicati e riservati discorsi fatti all’interno.

    Il fallimento dello Stato

    La gravità della situazione, quindi, torna alla ribalta con la denuncia del presidente Mariagrazia Arena. Le parole del magistrato vanno oltre l’aspetto logistico della situazione: «A Reggio Calabria, dove è presente una criminalità organizzata che manifesta plasticamente il proprio potere economico e il controllo del territorio, – ha sottolineato Arena – il cittadino che vede questo palazzo perché dovrebbe riporre fiducia e affidamento nella giustizia? E se non ripone fiducia nella giustizia, perché mai dovrebbe rispettare le leggi dello Stato?».

    Anche e soprattutto perché quella struttura dovrebbe essere il simbolo della giustizia, della lotta alla criminalità organizzata, in un territorio vessato dalla ‘ndrangheta. Ma anche perché, quell’immobile dev’essere intitolato e dedicato al giudice Antonino Scopelliti, magistrato sulla cui uccisione non è mai stata fatta piena luce.

    scopelliti-antonino
    Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991

    Secondo Arena, quello del nuovo palazzo di Giustizia «è un problema intanto di immagine, di quello che lo Stato vuole davvero a Reggio Calabria, in un posto di frontiera». Se non si trova una soluzione, secondo la presidente Arena, il palazzo di Giustizia diventerà «il simbolo del fallimento dello Stato. Il Palazzo di Giustizia di Reggio è la scommessa che lo Stato deve giocarsi su Reggio Calabria. Se è capace di giocarsi questa scommessa, bene, sennò vorrà dire che lo Stato si è arreso».

    La toppa del Comune

    Dopo la denuncia della presidente Arena, l’amministrazione comunale di Reggio Calabria, che continua a patire le grane politiche dopo la condanna e la sospensione di Falcomatà, ha tentato di correre ai ripari. A intervenire, il consigliere comunale Carmelo Romeo, delegato municipale che in questi mesi si è occupato della vicenda del Palazzo di Giustizia dopo l’ennesimo stop dovuto alla rescissione forzata con l’impresa aggiudicataria dell’appalto.

    «Nella mattinata di oggi abbiamo ricevuto comunicazione dalla direzione generale del Ministero della Giustizia. Finalmente siamo pronti ad attivare il protocollo d’intesa con il Ministero per il completamento del Palazzo di Giustizia. Da lunedì saremo concretamente al lavoro per individuare la soluzione più adeguata a riattivare l’iter per l’ultimazione definitiva di un’opera che attende da lungo tempo di entrare in funzione», ha detto poche ore dopo il grido della presidente Arena.
    Che tempismo.

  • Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Parco delle Serre: 30 anni di fallimenti, tagli selvaggi e scaricabarile

    Chissà se l’ostentato approccio “rock” di Roberto Occhiuto sarà applicato anche a un lentissimo ente subregionale: il Parco delle Serre. Istituito nel 1990, c’è voluto un decennio prima che qualcuno stendesse la cartografia su un tavolo e ne tracciasse almeno i confini. Poi, pur esistendo poco più che sulla carta, è finito al centro di una girandola di conflitti politici e contenziosi giudiziari. Ne è scaturito un commissariamento che dura ancora oggi. Commissariamento non per infiltrazioni mafiose, ma per manifesta incapacità della politica.

    La neve ricopre la riserva naturale regionale
    Tante parole, nessun fatto

    Il Parco delle Serre è l’unica riserva naturale a carattere regionale che sorge in continuità geografica, ma non amministrativa, con i Parchi nazionali di Pollino, Sila e Aspromonte.Toccando tre province (Catanzaro, Vibo, Reggio) e 26 Comuni, estende la sua superficie di competenza su un territorio di 17.687 ettari, con al centro una montagna che sale fino a 1500 metri e dista poche decine di km dai due mari. Un paradiso di biodiversità diventato però un simbolo di immobilismo istituzionale, tanto vorticoso negli avvicendamenti e nelle grane giudiziarie quanto improduttivo. Le aspirazioni di salvaguardia del territorio e di sviluppo “sostenibile”, alla fine, si sono concretizzate solo nella retorica delle brochure convegnistiche ed elettorali.

    Le meraviglie del Parco delle Serre

    La legge che disciplina le aree protette in Calabria risale al 2003 e si pone l’obiettivo di «promuovere nel territorio in esse ricompreso l’applicazione di metodi di gestione e valorizzazione naturalistico-ambientali tesi a realizzare l’integrazione tra uomo e ambiente naturale». Nelle Serre ci sono distese di abete bianco e pino laricio, faggete, castagneti, pioppeti e querceti. C’è l’oasi del lago Angitola, una zona umida di valore internazionale. E c’è il bosco Archiforo, un Sito di interesse comunitario che rientra nella cosiddetta zona di riserva integrale. Proprio in questo bosco nei mesi scorsi il Wwf di Vibo ha denunciato, con tanto di documentazione fotografica, uno «scempio» di alberi tagliati in un luogo in cui «non si potrebbe toccare neppure un filo d’erba».

    lago angitola-i calabresi
    Il lago Angitola
    Secoli di rispetto cancellati dalla mafia dei boschi

    Non è certo la prima volta che accade. Pare che ora se ne stia interessando anche la Procura vibonese. Negli anni scorsi altri tagli di imponenti abeti bianchi sono stati talvolta bloccati dalle proteste degli ambientalisti. Va detto che da queste parti i boschi hanno rappresentato per secoli una fonte di sostentamento economico e sono stati gestiti con sapienza. La gente delle Serre ci viveva, nel bosco, tanto da muovercisi dentro attraverso una particolarissima toponomastica che ancora sopravvive nella memoria di boscaioli, bovari, mannesi e carbonai e di cui c’è ancora qualche traccia nell’archivio comunale di Serra San Bruno.

    la certosa-serra san bruno-i calabresi
    La certosa di Serra San Bruno (foto Raffaele Timpano)

    Ma di questa cultura del bosco l’ente Parco non si è mai fatto carico. E , oggi, anche chi non è un “estremista” verde e non è pregiudizialmente contrario a ogni tipo di taglio può accorgersi, andando in quei boschi, della differenza tra un intervento ragionato, una previdente selvicoltura, e quello che si pratica in certi casi nelle foreste comunali che rientrano nel Parco, dove da decenni imperversa la mafia dei boschi.

    Gli interessi dei clan

    Dalla recente inchiesta “Imponimento”, ma anche da altre del passato, sono emersi gli interessi dei clan sulle Serre vibonesi e catanzaresi con la complicità di tecnici e amministratori comunali. Per la Dda di Catanzaro ci sarebbe un collaudato meccanismo di rotazione nell’aggiudicazione degli appalti boschivi «attraverso turbative d’asta e illecita concorrenza sleale». Per i boschi, per esempio, litigarono due mammasantissima che un tempo erano stati fratelli come il boss di Filadelfia Rocco Anello e quello di Serra San Bruno Damiano Vallelunga, che prima di essere ucciso in un agguato a Riace aveva guadagnato potere e carisma tali da tenere testa ai Mancuso.

    E nei boschi – emerge sempre da “Imponimento” – nell’estate del 2017 un paio di imprenditori ritenuti sodali dei clan avrebbero sversato un bel po’ di rifiuti, anche pericolosi, persino eternit, eseguendo senza tanti scrupoli un ordine arrivato proprio dallo stesso Anello. Che, intercettato, parlava di «quaranta camionate di calcinacci, più due con eternit» provenienti dal cantiere di un resort a Pizzo e finiti in alcuni terreni in parte rientranti nel Parco delle Serre.

    Da Murmura al controllato controllore

    L’ente è ancora retto da un commissario: dall’estate del 2020 (epoca Santelli) è Giovanni Aramini, dirigente del Settore Aree protette del dipartimento regionale Ambiente. In teoria, quale vertice del Parco sarebbe il controllato e quale dirigente di quel Settore sarebbe anche il controllore. Ma probabilmente questo è il male minore, perché Aramini è comunque un tecnico competente e sensibile alle tematiche ambientali. Il problema è che ha in mano poco o niente di concreto da programmare come tutti quelli che lo hanno preceduto.

    la sede del consiglio regionale della Calabria
    La sede del Consiglio regionale

    In tanti, tra commissari e presidenti, si sono avvicendati negli anni. Il primo fu il senatore Antonino Murmura e con lui sono partite anche le contese di fronte alla giustizia amministrativa che hanno coinvolto i suoi successori in una serie di ordinanze, sospensive e sentenze che hanno aggiunto solo confusione a confusione. Dal 2010 chi ha governato la Regione ha preferito optare per i commissari perché questi vengono nominati dal presidente della Giunta mentre, per legge, i presidenti sono indicati dal presidente del consiglio regionale. L’ultimo bando di Palazzo Campanella per individuare un presidente è stato chiuso a ottobre del 2020 ma non è stato ancora nominato nessuno. Meglio non assumersi la responsabilità politica di un fallimento annunciato.

    Il concorso e i favoritismi

    Oltre ai contenziosi amministrativi non è mancata qualche digressione nel penale. Nel 2015 era scattata un’inchiesta su alcuni concorsi del Parco che secondo l’accusa erano stati pilotati. Ma il reato di abuso d’ufficio contestato a 6 imputati è stato dichiarato prescritto a settembre dal Tribunale di Vibo. Già in precedenza era scattata la prescrizione per alcune contestazioni di falso ideologico, mentre gli imputati sono stati assolti da altre per falso anche se nelle motivazioni della sentenza si parla comunque di procedura «viziata da evidenti favoritismi».

    La pianta organica approvata nel 2005 prevede 57 unità di personale, 41 tecnici e 16 amministrativi, di cui 6 dirigenti. Oggi quelli che ci lavorano si contano sulle dita di una mano. C’è un solo dirigente e qualche funzionario, più un centinaio di tirocinanti scelti tra disoccupati/inoccupati inseriti in un percorso di riqualificazione professionale di politiche attive. Al Parco sono state assegnate negli anni scorsi anche alcune decine di operai ex Afor che lavorano sul territorio. In generale, qualche iniziativa per cercare di rendere fruibili i percorsi naturalistici si intraprende. I risultati, però, sono inevitabilmente proporzionati ai finanziamenti che l’ente ha a disposizione.

    indicazioni-sentieri-parco serre-i calabresi

    Il consuntivo 2020 individua «trasferimenti correnti», ovvero le somme assicurate dalla Regione, per circa 1 milione di euro, circa mezzo milione in meno rispetto all’anno prima. Le spese per il personale ammontano a 937mila euro. È chiaro che resta ben poco. Tutto ciò però non è abbastanza per svegliare i sindaci del territorio e far loro rivendicare il ruolo assegnatogli dal popolo. Si vedrà ora se il presidente del consiglio regionale Filippo Mancuso e l’Occhiuto del «cambio di passo» vogliano mettere «cuore e coraggio» anche per riempire questa scatola vuota. Che, ormai da 30 anni, incarna il fallimento della politica su un territorio in cui bellezza e marginalità si vanno sempre più impastando. In un amalgama che restituisce nient’altro che decadenza.

     

  • Il Pnrr troverà il deserto delle infrastrutture a Sud

    Il Pnrr troverà il deserto delle infrastrutture a Sud

    Come calibrare al meglio gli interventi necessari per colmare – almeno in parte – il ritardo che caratterizza le regioni meridionali nel nostro Paese?
    L’attenta lettura ed interpretazione delle misurazioni dei divari infrastrutturali potrebbe consentire di intervenire con celerità, cogliendo l’occasione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza per azioni mirate, al di là delle vuote teorizzazioni.

    L’analisi della Banca d’Italia 

    La Banca d’Italia ha recentemente pubblicato tra gli Occasional Papers della serie Questioni di Economia e Finanza il lavoro “I divari infrastrutturali in Italia: una misurazione caso per caso” a cura di Mauro Bucci, Elena Gennari, Giorgio Ivaldi, Giovanna Messina e Luca Moller.
    Si tratta di uno studio che, per misurare l’adeguatezza delle infrastrutture in un determinato territorio, sia economiche (reti di trasporto su strada e su ferro; porti e aeroporti; reti elettriche, idriche e di telecomunicazioni) sia sociali (ospedali e impianti di smaltimento dei rifiuti), propone un nuovo approccio.
    I risultati non fanno altro che attestare un quadro desolato di accentuate differenze nella dotazione delle diverse aree del Paese, evidenziando il più delle volte una situazione di svantaggio del Sud e delle Isole.

    Occorre precisare che vi sono notevoli difficoltà di ordine metodologico nel misurare il capitale infrastrutturale di un territorio. La letteratura, infatti, ha elaborato una pluralità di indicatori – monetari, fisici e, più recentemente, di accessibilità. Tuttavia, essi colgono aspetti parziali (l’entità delle risorse spese, l’estensione fisica delle reti, la marginalità geografica di un’area) senza consentire di valutare come effettivamente le infrastrutture incidano sulla vita economica e sociale dei territori. In tal senso, l’analisi promossa da Banca d’Italia differisce da altre basate su indicatori fisici o di spesa pubblica, che offrono una visione unidimensionale che il più delle volte si rivela fuorviante.

    Meno investimenti? Colpe da dividere

    In Italia le risorse destinate sia all’ampliamento sia alla manutenzione delle infrastrutture sono diminuite nell’ultimo decennio. La riduzione della spesa per investimenti pubblici è stata particolarmente intensa fra il 2009 e il 2019 (dal 4,6% al 2,9% del PIL). Ne è conseguito un allargamento del divario quantitativo e qualitativo rispetto agli altri paesi d’Europa. La dotazione di capitale pubblico delle aree del Paese che già segnavano un ritardo ne ha risentito notevolmente.

    L’indebolimento infrastrutturale delle regioni meridionali non è da attribuirsi soltanto, come retorica vuole, alle scelte sbagliate dello Stato centrale. Il contesto italiano, infatti, si caratterizza per il sovrapporsi delle responsabilità fra più livelli di governo in materia di infrastrutture (sanità, istruzione, trasporto pubblico locale, smaltimento dei rifiuti urbani). Pertanto la responsabilità ricade per una parte significativa nella sfera decisionale delle amministrazioni locali, che erogano oltre la metà della spesa pubblica per investimenti.

    Il federalismo fiscale e la ricognizione mai effettuata

    Le capacità tecniche delle amministrazioni locali di selezionare i progetti e di portare a termine i lavori nei tempi programmati si sono rivelate troppo spesso inadeguate.
    In termini pro capite, nella media dell’ultimo decennio, l’entità delle risorse per investimenti infrastrutturali è stata all’incirca pari a 780 euro per le regioni meridionali e insulari, contro gli oltre 940 delle regioni centrosettentrionali. È evidente che questa non sia la premessa migliore per affrontare l’ormai prossimo avvio del PNRR.

    Nel 2009 la legge di attuazione del federalismo fiscale aveva previsto l’individuazione dei divari territoriali circa «le strutture sanitarie, quelle assistenziali e scolastiche, la rete stradale, autostradale e ferroviaria, quella fognaria, idrica, elettrica, di trasporto e distribuzione del gas, nonché le strutture portuali e aeroportuali». Ad oggi, tale ricognizione non è stata ancora realizzata.

    Sud e isole fuori dai mercati

    I dati disponibili, tuttavia, sono eloquenti. Dal momento che la competitività delle imprese è strettamente legata alla disponibilità di una rete adeguata di trasporti e di telecomunicazioni, nonché alla qualità del servizio energetico e idrico, che rappresentano input essenziali dei processi di produzione, è evidente che le opportunità di accesso ai mercati sono molto ridotte per la maggior parte delle aree localizzate nel Meridione e nelle Isole, come nelle zone appenniniche interne. Infatti, i territori con i collegamenti più veloci sono collocati nelle regioni settentrionali, soprattutto nella parte orientale.

    In merito alle telecomunicazioni, un forte ritardo caratterizza il Paese nel suo complesso circa la disponibilità della tecnologia più innovativa: la connessione di rete fissa a banda larga ultraveloce. La Calabria, fatta pari a 100 la media italiana, raggiunge un indice di appena 15,9, nettamente inferiore anche a quello del Mezzogiorno (37,6).

    I problemi con acqua e luce

    Per quanto concerne il servizio elettrico, nelle regioni meridionali e insulari i buchi di tensione si verificano con una frequenza significativamente maggiore rispetto al resto del Paese. Per non parlare del servizio idrico: in molte provincie del Sud si registrano perdite di entità rilevante tali per cui alcune realtà sono soggette a fenomeni di razionamento dell’acqua per uso domestico. Addirittura, in capoluoghi quali Catanzaro, Palermo, Enna e Sassari, il razionamento idrico non è limitato ai periodi estivi ma interessa, per alcune ore al giorno, l’intero arco dell’anno.

    A fronte di questo impietoso scenario, come agire per colmare o almeno ridurre, i divari?
    Tenendo conto sia della componente ordinaria che di quella aggiuntiva dell’attività di investimento dell’operatore pubblico alle regioni meridionali e insulari dovrebbe essere destinata una quota di spesa almeno pari al 45%, in ogni caso sensibilmente più elevata rispetto alla quota della popolazione residente.

  • Usura, a Vibo tassi di interesse al 257%

    Usura, a Vibo tassi di interesse al 257%

    L’usura ha raggiunto tassi di interesse al 257% nel Vibonese secondo il report di Caritas. Sono dati presenti nell’ultimo dossier su povertà ed esclusione sociale. E la percentuale di persone in condizioni economiche difficili che si rivolgono a parrocchie e diocesi registra un 49,6 % in più nel 2020.

    A Cosenza e nella Locride tassi al 200%

    Nella morsa degli strozzini non finiscono solo imprenditori che rischiano di chiudere bottega. «Lo spaccato offerto dalle inchieste giudiziarie almeno degli ultimi quindici anni è incredibile» – si legge nel report della Caritas. In provincia di Cosenza e nella Locride i tassi di usura hanno toccato il 200%.
    Numeri che fanno paura ma sono, paradossalmente, piccoli rispetto ad altri dati: 1500% annui raggiunto a Roma in alcune specifiche occasioni, i 400% a Firenze, i 150% a Milano, i 180% annui nel nord est padovano e fra il 120% ed il 150% nel Modenese. Negozianti, artigiani, piccoli imprenditori, divenuti improvvisamente incapaci di onorare i debiti che avevano contratto in tempi migliori, sarebbero sempre più tentati di cercare una illusoria e rapida via di fuga, cedendo alla proposta di chi è pronto a offrire soldi facili senza chiedere troppe garanzie in cambio, salvo poi far pagare a caro prezzo il denaro prestato o a impossessarsi dell’attività di chi non può pagare.

    La povertà nel rapporto Caritas

    L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno (salita al 9,4%, dall’8,6% del 2019). Anche se la crescita più ampia si colloca nelle regioni del Nord, dove la povertà familiare cresce dal 5,8% al 7,6%. Tale dinamica fa sì che se nel 2019 le famiglie povere del nostro Paese fossero distribuite quasi in egual misura al Nord (43,4%) e nel Mezzogiorno (42,2%). Nel 2020 si giunge rispettivamente al 47% e al 38,6%, con una differenza in valore assoluto di 167mila nuclei.

    Il Nord si conferma come la macro-area con il peggioramento più marcato, con un’incidenza di povertà assoluta che passa dal 6,8% al 9,3% (è il Nord-Ovest l’area maggiormente penalizzata, cosa che in qualche modo non stupisce). Sono così oltre 2 milioni 554mila i poveri assoluti residenti nelle regioni del Nord e 2 milioni 259 mila quelli del Mezzogiorno.

    usura-caritas-icalabresi.it

    Usura, l’odissea di Mario

     A 40 anni, sposato e con due figlie piccole, Mario (ma non è il suo vero nome) ha lavorato come magazziniere in provincia di Cosenza.
    Uno stipendio per mantenere la famiglia in modo dignitoso. Poi la crisi, la pandemia, le prime difficoltà anche del datore di lavoro che poi però alla fine si dimostrerà fondamentale per la sua rinascita insieme ai suoi parenti e soprattutto a Caritas e la Fondazione Don Carlo de Cardona.

    Licenziato, cerca la fortuna con il gioco

    Tutto inizia quando il suo contratto passa da full time a part time poco prima dell’insorgere dell’emergenza Covid 19. Non racconta niente alla moglie. Le cose precipitano rapidamente. Licenziato ma con la promessa che sarà riassunto appena possibile. E così sarà poi alla fine, ma passerà un anno. Dodici mesi in cui piano piano sprofonda nel suo incubo personale. All’inizio chiede piccoli prestiti alla banca e ad amici e parenti. Ma i soldi non bastano. Cerca di tirare su qualcosa con il gioco on line, ma ovviamente perde. Debiti su debiti.

    C’è sempre qualcuno che ti porta da loro

    Come succede spesso in queste storie, c’è sempre qualcuno che può metterti in contatto con chi può farti un prestito. Senza nessuna garanzia, se non quella di restituire i soldi mensilmente poco per volta. L’uomo cede e ottiene circa 10mila euro. Dopo pochi mesi si ritrova senza soldi e senza la possibilità di pagare le rate agli usurai. E “i cravattari” iniziano a perseguitarlo prima con telefonate, poi con appostamenti, sia sotto casa che sotto scuola dei figli. Le minacce si fanno sempre più pressanti.

    Riassunto dal datore di lavoro

    A quel punto la famiglia si accorge che c’è qualcosa che non va e lui, per fortuna, crolla e racconta tutto. Tramite l’intervento familiare ottiene dei soldi in maniere legale. Con i quali estingue i suoi debiti con “gli strozzini”. Non se la sente di sporgere denuncia, (motivo per il quale i dati ufficiali sull’usura reale sono sempre al ribasso). Successivamente, grazie a Caritas e alla Fondazione della Diocesi cosentina, riesce a risolvere anche la questione del debito con l’istituto di credito. Una storia che finisce con la sua riassunzione. Ma è solo un’eccezione fra i più che non si risollevano dal baratro.

  • Qui il denaro costa il doppio, la Calabria strozzata dalle banche

    Qui il denaro costa il doppio, la Calabria strozzata dalle banche

    Una impresa calabrese paga mediamente, secondo dati della Banca d’Italia, un tasso di interesse pari al doppio del livello nazionale e superiore di due terzi rispetto alle regioni settentrionali. L’accesso al credito in condizioni così onerose è un’autostrada per consegnare interi settori di attività economica alle tentazioni della criminalità organizzata.
    Il sistema creditizio della ‘Ndrangheta conduce istruttorie rapide, la burocrazia è ridotta al minimo, all’inizio non vengono richieste nemmeno garanzie reali. Poi, entrate dalla finestra del credito, le organizzazioni criminali si impadroniscono delle aziende passando per la porta principale, per gestire business, riciclare denaro e rafforzare il controllo sul territorio.

    Fare azienda in queste condizioni diventa davvero arduo. Pagare alle banche il denaro in modo così più elevato rispetto al resto del Paese rende le imprese calabresi molto più vulnerabili. E soprattutto molto più esposte alle sirene del denaro offerto in prestito dalla criminalità organizzata. Spezzare questa trappola costituisce una delle sfide che non si sono nemmeno cominciate.

    Tassi d’interesse per le imprese raddoppiati

    Dunque, la Calabria fa registrare un tasso di interesse per le imprese poco più che doppio rispetto alla media nazionale: 6,76% rispetto a 3,36%. È il valore più alto di tutto il Paese, ed anche nettamente. Solo il Molise e la Sardegna, registrano valori superiori al 5%, rispettivamente il 5.38% ed il 5,07%.
    La media dei tassi di interesse per le attività economiche nel Mezzogiorno è pari al 4,67%, comunque due punti sotto rispetto alla Calabria. Per non parlare di quello che accade nel resto delle regioni del Nord.

    Il costo del denaro per le aziende in Lombardia è pari sostanzialmente ad un terzo rispetto alla Calabria: 2,93%, con qualche altra regione settentrionale che si situa sotto la soglia del 3%, come accade anche all’intero Nord Est.
    Per le piccole imprese calabresi il tasso di interesse arriva addirittura al 9,55%; solo la Sardegna registra nell’intero Paese un valore leggermente più alto (9,57%), mentre per le piccole imprese del Mezzogiorno la media è pari all’8,39% ed al 6,48% per la media nazionale.

    Va meglio alle famiglie

    Per le famiglie consumatrici i tassi di interesse non registrano invece una significativa varianza tra le diverse regioni dell’Italia, e si collocano su livelli comunque molto bassi, molti più bassi rispetto al costo del denaro per le attività economiche. In Calabria le famiglie pagano alle banche un interesse dell’1,65%, più basso della media del Paese (1,69%) e del Mezzogiorno (1,73%). La situazione è in qualche modo simmetricamente opposta rispetto a quella che abbiamo analizzato per le attività economiche.

    Fare impresa in Calabria è molto più difficile. Pagare per l’approvvigionamento del denaro il doppio della media nazionale e due terzi in più del Nord alza la soglia delle convenienze. E spiazza soprattutto la nascita di aziende, che devono ricorrere maggiormente al capitale di debito per finanziare gli investimenti iniziali e l’avviamento.
    Per le attività economiche che sono già presenti sul mercato, tassi di interesse così elevati possono indurre a tentazioni di ricorso ad altre fonti di approvvigionamento, certamente meno burocratiche delle banche ma molto più pericolose.

    Le organizzazioni criminali, ed ovviamente la ‘Ndrangheta in Calabria, sono il vero rivale di un sistema bancario che gioca sulla difensiva e non si schiera a sostegno delle forze economiche e sociali che tentano una strada di riscatto basata sullo sviluppo. Nei passaggi cruciali per la vita di una impresa, poter contare sull’accesso al credito costituisce uno degli elementi vitali per affrontare un passaggio difficile di crisi, oppure per crescere realizzando investimenti.

    I rischi per le banche

    Ovviamente, non mancano le ragioni economiche per questo drammatico divario nel costo del denaro per le imprese della Calabria. Non conta il destino cinico e baro o la cattiveria delle banche. Il deterioramento del credito per le imprese calabresi è il più alto del Paese (2,6%), rispetto all’1,4% dell’Italia ed all’1,8% del Mezzogiorno.

    Le regioni italiane con il minore rischio di credito bancario sono la Valle d’Aosta (0,6%) ed il Friuli Venezia Giulia (0,7%). Va comunque notato che non si giustifica tutto il divario che abbiamo visto in termini di differenziale dei tassi di interesse per le imprese calabresi, ma non vi è dubbio che il rischio di svalutazione dei crediti per le banche è più elevato rispetto al resto del Paese.

    Il rischio di credito per le famiglie consumatrici calabresi è pari all’1,4%, leggermente migliore rispetto alla media del Mezzogiorno (1,5%), ma inferiore rispetto alla media nazionale (1,1%). Tra le regioni italiane il valore più alto di rischio creditizio per le famiglie si registra in Sicilia (1,9%). Sono due, invece, le regioni che si collocano al valore più basso dello 0,6%: Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia.

    Non si può non considerare questa del credito una delle maggiori emergenze che vanno affrontate per il futuro economico della Calabria. Non solo perché tassi di interesse così divergenti per le imprese del territorio limitano le prospettive di sviluppo. Ma anche perché questo assetto lascia spazio alle forze criminali per giocare un ruolo di condizionamento nei destini delle imprese.

  • Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    Vibo, dove cultura e poteri dialogano un po’ troppo

    La reale consistenza dell’élite culturale e politica di Vibo è nitidamente rappresentata da una recentissima polemica, ma anche da due distinti episodi del passato. La vicenda non riguarda una delle solite storie di sciatteria istituzionale a cui è abituato chi vive nella provincia più marginale della periferia d’Italia. Di mezzo c’è, invece, una realtà che è considerata un’eccellenza: il Sistema bibliotecario vibonese. Un’istituzione che rende un servizio essenziale ed è protagonista, tra le altre cose, dell’organizzazione del Festival Leggere&Scrivere, rassegna che ogni anno attira quaggiù i nomi più importanti del panorama culturale italiano.

    Di padre in figlio

    La polemica l’ha sollevata il Pd locale, che al Comune è all’opposizione e ha chiesto pubblicamente chiarezza sulla nomina a direttore del Sistema bibliotecario di Emilio Floriani, figlio del direttore storico, Gilberto. Il capogruppo del Pd, Stefano Luciano, ha sostanzialmente domandato delucidazioni sul passaggio del timone da padre in figlio, sull’eventuale pagamento del canone per i locali comunali occupati dal Sistema (un palazzo monumentale nel centro storico) e su quale tipo di rapporti ci siano con il Comune, anche in relazione alle iniziative di Vibo Capitale italiana del libro 2021.

    gilberto-floriani-vibo
    Gilberto Floriani, direttore del Sistema bibliotecario vibonese, ha nominato come suo successore il figlio Emilio – I Calabresi

    All’interrogazione, presentata due mesi e mezzo fa, non ha ancora risposto né il sindaco né l’assessore competente. Lo ha fatto invece Floriani (padre) su Facebook lanciando un «appello in favore del Sistema bibliotecario vibonese». Floriani senior ha parlato del «tentativo» di «danneggiare una grande realtà culturale che solo bene ha portato alla città nel corso degli anni». E annunciato che per «reagire democraticamente a queste strumentalizzazioni gli operatori e i volontari del Sistema intendono essere presenti ai lavori del Consiglio comunale».

    Oggi gli attacchi, domani gli accordi

    Per approfondire la controversia basta consultare pagine e profili social dei protagonisti e chi abbia torto o ragione, forse, non è poi così interessante. È significativa invece la dinamica e l’atteggiamento di chi l’ha innescata. Luciano, oltre che un affermato avvocato, è un giovane ma esperto politico che studia da sindaco da un pezzo. Ed è già passato da una parte all’altra dell’arco costituzionale con la stessa destrezza con cui Floriani da anni domina la scena culturale locale, dimostrandosi abile a coltivare rapporti con le amministrazioni pubbliche che spesso ne sovvenzionano, legittimamente, le attività.

    La polemica non è direttamente collegata con i due episodi del passato – uno sull’élite politica e l’altro su quella culturale – che riportiamo di seguito. I protagonisti sono però in qualche modo il sottoprodotto di due mondi, o forse di un’unica aristocrazia, che da anni fa il bello e il cattivo tempo a Vibo. E tutto, la diatriba recente come le ombre del passato, c’entra molto con l’assuefazione alle pratiche del familismo, del consociativismo e con la consuetudine per cui tutto, a queste latitudini, debba muoversi attraverso guerre per bande e oscure alleanze. Oggi magari ci si attacca, ma domani probabilmente ci si accorderà. Il risultato è sempre lo stesso, fermentato in un unico brodo di coltura in cui germogliano solo corrispondenze inconfessabili mirate alla conservazione del potere.

    «L’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia»

    Il primo episodio riguarda un articolo, seguito da un processo per diffamazione a mezzo stampa. Uscì a dicembre del 1966 sui Quaderni calabresi, mensile politico-culturale del circolo Salvemini. Il pezzo denunciava ciò che gli autori definirono «l’atto ufficiale di nascita della mafia a Vibo Valentia».

    Il fatto era questo: un uomo aveva avuto la concessione per installare un distributore di benzina in un luogo in cui il Piano regolatore prevedeva altro, cioè una strada pubblica. Il sindaco, solitamente rigido sulle concessioni, in quel caso non si era dimostrato tale. La maggioranza dei consiglieri comunali aveva poi ratificato la concessione. E quell’uomo aveva impiantato le sue colonnine «dove nessuno avrebbe osato neppure immaginare».

    La decisione aveva destato scalpore. Il beneficiario aveva diverse grane giudiziarie e c’entrava con «una lunga e cruenta guerra mafiosa ingaggiata attorno ad alcune società petrolifere in Calabria e nel Lazio». Vibo era l’«epicentro» di quegli affari. E nelle paventate collusioni con l’alta borghesia politica della città gli autori dell’articolo individuavano il debutto palese del vero potere mafioso, il prodotto della presunta intesa segreta tra il crimine e l’élite.

    Il sindaco e lo ‘ndranghetista

    Il sindaco dell’epoca era Antonino Murmura, divenuto poi senatore Dc e rimasto per decenni assessore ai Lavori pubblici o all’Urbanistica. Artefice istituzionale della Provincia e politico vibonese più influente dai tempi del ministro fascista Luigi Razza, aveva portato in Tribunale i redattori della rivista. Che furono assolti 4 anni dopo con sentenza poi confermata in Appello.

    murmura_vibo
    L’ex sindaco e senatore Antonino Murmura – I Calabresi

    L’uomo che, 60 anni prima dell’inchiesta “Petrolmafie”, aveva piazzato quelle colonnine era un Pardea. Detti “Ranisi”, fin dal Dopoguerra sono stati i custodi della tradizione ‘ndranghetista a Vibo. Poi altre famiglie si sono affacciate sul panorama criminale e ad avere il sopravvento sono stati i Lo Bianco-Barba, federati ai Mancuso. Dal gruppo Lo Bianco a un certo punto si è distaccato Andrea Mantella, killer ragazzino divenuto boss emergente che non sottostava allo strapotere dei Mancuso. Oggi è uno dei principali pentiti del maxiprocesso “Rinascita-Scott”. E in uno dei suoi verbali ha raccontato una vicenda vissuta al fianco di Franco Barba, un imprenditore edile che «ha costruito mezza Vibo».

    Il killer e l’intellettuale

    È il secondo episodio, quello sull’élite culturale. Nei primi anni 2000 Barba e Mantella sarebbero andati da «una persona importantissima» (non indagata in Rinascita-Scott, ndr), in una «grandissima casa antica, vecchio stile tipo castello, con mobili antichissimi e piena di libri», per parlare della compravendita di un terreno da un milione di euro. La persona che li aveva ricevuti subito, pur senza preavviso, secondo Mantella «sapeva benissimo che aveva a che fare con mafiosi e che i soldi venivano dai Mancuso».

    mantella_vibo
    Il pentito Andrea Mantella – I Calabresi

    Lo stesso costruttore avrebbe raccontato di avergli portato uno «zainetto pieno di soldi con il quale lo ha “stordito” per cui l’affare è stato concluso». Mantella lo identifica in Luigi Lombardi Satriani, antropologo entrato a buon diritto nel gotha della cultura calabrese, eletto al Senato alla fine degli anni ’90 con il centrosinistra e all’epoca componente della Commissione Antimafia. Negli anni non ha fatto mancare il suo autorevole contributo di studioso ai Quaderni calabresi.

    Epilogo. Il 28 ottobre 2021 il procuratore di Vibo Camillo Falvo, già pm nel pool antimafia dell’agguerrito Nicola Gratteri, è stato premiato, nel corso della seconda giornata del Festival Leggere&Scrivere, dall’associazione “Antonino Murmura”. Le motivazioni enunciate alla consegna della targa fanno riferimento al «suo fondamentale contributo alla giustizia», al «corretto e puntuale esercizio dell’azione penale», alla capacità di dimostrare che «non può essere veramente onesto ciò che non è anche giusto».

     

  • Reggio Calabria, lo psicodramma di Falcomatà e del Pd. E l’inesistenza del centrodestra

    Reggio Calabria, lo psicodramma di Falcomatà e del Pd. E l’inesistenza del centrodestra

    In politica non esistono spazi vuoti. È una regola conosciuta da tutti. E così, da scelte poco coraggiose, da comportamenti ondivaghi, non può che nascere il caos. Con il ritorno in auge anche di chi sembrava ormai finito nell’oblio definitivo sotto il profilo istituzionale. È quanto sta accadendo a Reggio Calabria. La città è nel bel mezzo di una crisi politico-amministrativa, dopo la condanna del sindaco Giuseppe Falcomatà nell’ambito del processo sul cosiddetto “Caso Miramare”. Un anno e quattro mesi per aver di fatto “regalato” a un imprenditore amico una parte di uno dei “gioielli di famiglia” della città. Una sentenza che ha portato all’automatica sospensione del primo cittadino in base alla Legge Severino.

    Una settimana fa

    A distanza di una settimana, la città naviga a vista. Falcomatà si è affrettato a spargere nomine qua e là, tagliando fuori, di fatto, il Partito Democratico. Il Comune di Reggio Calabria e la Città Metropolitana sono oggi retti da un nuovo vicesindaco, Paolo Brunetti. Esponente di Italia Viva, nominato in fretta e furia prima che la condanna cadesse sulla testa del giovane sindaco. Inoltre, per la nomina di vicesindaco della Città Metropolitana, Falcomatà ha dato un ulteriore schiaffo al Pd: con la nomina di Carmelo Versace, esponente di Azione, il movimento di Carlo Calenda.

    Ma non finisce qui. Con una mossa che per molti è sembrata incredibile, Falcomatà ha rimosso dal ruolo di vicesindaco il professor Tonino Perna. Intellettuale molto conosciuto e stimato in città, era stato chiamato per rianimare l’Amministrazione dopo i primi cinque anni oggettivamente deludenti. Senza nemmeno una telefonata, Falcomatà lo ha degradato ad assessore.

    tonino perna
    L’ormai ex vice sindaco Tonino Perna – I Calabresi

    Una scelta che Perna non ha accettato. Non poteva accettarla. E così, ha rassegnato le dimissioni. Non prima, però di aver demolito la figura personale e politica di Falcomatà nel corso di una conferenza stampa. Perna ha parlato di «città allo sbando». Ha ammonito sul concreto rischio, per Reggio Calabria, di perdere cospicui fondi per l’occupazione giovanile, se non si interverrà entro dicembre. «Sarebbe un atto criminale» ha detto. Ha definito Falcomatà «una personalità complessa, da studiare». Dove per molti il «da studiare» significa “da curare”.

    Comportamenti schizofrenici

    La chiarezza non è di casa. Per nessuno dei protagonisti. Falcomatà, infatti, ha preannunciato ricorso contro la sospensione. Di fatto, continua a fare il sindaco, almeno stando a quanto emerge dai social, dove commenta interventi di manutenzione e supervisiona i cantieri. Eppure è ormai acclarata quella che sembra essere una exit strategy per il primo cittadino: la vittoria di un concorso come dipendente amministrativo presso il Comune di Milano. Qualcosa che parrebbe presagire un piano B per il giovane esponente del Pd, ormai ai ferri corti con il suo partito.

    Già, il Pd. I retroscena raccontano della furia del responsabile Enti locali dei Democratici, Francesco Boccia, in alcune riunioni dopo la sospensione di Falcomatà. Al Pd, le scelte del sindaco sospeso sono sembrate un appiattimento sulla posizione di Matteo Renzi. Cui Falcomatà, un tempo, era molto legato. In tanti ricordano endorsement e selfie tra i due. Maestri della (eccessiva) comunicazione tramite social. Ma, come spesso accade quando di mezzo c’è il Partito Democratico, la montagna ha partorito un topolino. Perché dalle lunghe riunioni interne, l’ira funesta del Pd si è trasformata in una posizione a dir poco ibrida. I Democratici si limitano a chiedere nuovo slancio all’Amministrazione Falcomatà/Brunetti. Con un rimpasto o, al massimo un azzeramento della Giunta.

    Parola d’ordine: conservazione

    Posizione ben diversa rispetto a quanto sostenuto, in passato, tanto dal Pd, quanto da Italia Viva, sostanzialmente. «Ora bisogna andare subito al voto anticipato: lo dobbiamo ai calabresi». Così si esprimeva l’allora segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno. Fine marzo 2014. Giuseppe Scopelliti è presidente della Giunta Regionale della Calabria e poche ore prima è stato condannato in primo grado a sei anni nell’ambito del “Caso Fallara”. Sentenza, negli anni, divenuta definitiva e irrevocabile, portando l’ex sindaco del “Modello Reggio” dietro le sbarre.

    Ernesto Magorno e Matteo Renzi
    Ernesto Magorno e Matteo Renzi – I Calabresi

    Magorno chiedeva le dimissioni di Scopelliti: «La notizia di questa sera conferma, anche dal punto di visto etico, la necessità di ridare la parola ai calabresi. La Calabria deve voltare pagina, ritrovare fiducia nella politica e affidarsi ad un’esperienza di rinnovamento e buon governo, che ponga come priorità la questione morale e della lotta alla criminalità». Oggi il Pd tace sulla cosiddetta “questione morale”. È infatti palese che condurre il Comune verso il commissariamento significherebbe correre verso una sonora sconfitta elettorale alla prima occasione utile. Il consenso di Falcomatà e del centrosinistra, infatti, è ai minimi termini. Gode invece Italia Viva. Irrilevante nei numeri, ma ad amministrare il comune di una città metropolitana. E lo stesso Magorno, renziano della prima ora e quindi passato a Italia Viva, è, ovviamente, tra i principali sostenitori dell’Amministrazione Comunale di Reggio Calabria, decapitata.

    A volte ritornano

    Un simile scenario non può non aver fatto ringalluzzire chi sembrava (giustamente) destinato all’oblio. Nelle riunioni partitiche e interpartitiche, infatti, è tornato a fare la voce grossa persino l’ex assessore regionale al Lavoro, Nino De Gaetano. Scomparso dai radar dopo essere finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Erga omnes”, sullo scandalo dei rimborsi elettorali del Consiglio Regionale. Soggetto che il Pd aveva, per un periodo, tenuto ai margini, anche per via di alcune pesanti risultanze investigative della Dda di Reggio Calabria. Nel covo dove verrà catturato il superboss Giovanni Tegano, infatti, saranno ritrovati “santini” di Nino De Gaetano. Indicato come candidato gradito alla potente famiglia di Archi, per il tramite del suocero, oggi defunto.

    Ma già nel corso delle ultime consultazioni regionali, De Gaetano era riuscito a infiltrare nuovamente il Partito Democratico piazzando lì il suo fidato Antonio Billari. Consigliere regionale uscente, perché ripescato dopo le dimissioni di Pippo Callipo nel corso della precedente consiliatura. Oggi sogna un nuovo ingresso, qualora Nicola Irto dovesse optare per una candidatura alla Camera dei Deputati, appena possibile.

    Cosa accadrà?

    De Gaetano, quindi, è riaffiorato dalla penombra in cui era sprofondato. E adesso detta la linea. È stato lui stesso a parlare per primo di azzeramento della Giunta comunale. Un messaggio alla città che doveva arrivare dal sindaco sospeso Falcomatà. O dal suo facente funzioni, Brunetti. O, magari, dal Pd, che è il principale partito rappresentato in consiglio comunale.

    Nino De Gaetano
    L’ex consigliere regionale Nino De Gaetano – I Calabresi

    Non di certo da De Gaetano, che non avrebbe titolo per parlare. Ma la sua compagine politica è determinante nei numeri. E, quindi, passano appena poche ore e il facente funzioni Brunetti, con una nota ufficiale, cede ai desiderata. Annunciando un azzeramento delle deleghe nel giro di pochi giorni.

    Il toto-nomi

    E, ovviamente, si scatena il toto-nomi. Il Pd, principale azionista dell’amministrazione comunale reggina, si ritrova attualmente con un solo assessore, l’anziano Rocco Albanese, in consiglio comunale da una vita. Ma De Gaetano & co. chiedono spazio. E sono almeno quattro i consiglieri comunali che fanno riferimento all’ex assessore regionale. Uno o forse due, tra questi, potrebbero entrare in Giunta. Mentre il Pd, che vanta il maggior numero di donne, potrebbe puntare ad alcuni ingressi in nome delle “quote rosa”.

    A fare spazio potrebbe essere qualche esterno, quindi. Vacilla, allora, la posizione di Rosanna Scopelliti, figlia del giudice Antonino Scopelliti. Anche lei, come Perna, era entrata nel “secondo tempo” dell’Amministrazione Falcomatà per ridare slancio. Ma adesso potrebbe ricevere un “arrivederci e grazie”.

    L’impalpabile centrodestra

    In tutto ciò, sul podio delle posizioni imbarazzanti, non può che salire anche la (non) posizione del centrodestra. Che, almeno sulla carta, dovrebbe effettuare una serrata opposizione alla maggioranza di centrosinistra. E, invece, nell’arco di una settimana, non è riuscito a mettere in piedi una posizione pubblica che fosse una. Solo nelle ultime ore, una nota firmata, tra gli altri, dal deputato di Forza Italia, Francesco Cannizzaro e dalla sua omologa di Fratelli d’Italia, Wanda Ferro. I due hanno chiesto una posizione netta al Governo sul caso Reggio Calabria. Attribuendo anche al sottosegretario Nicola Molteni frasi che lascerebbero presagire la possibilità di decisioni gravi sul Comune di Reggio Calabria. Ma, al momento, tutto sembra un bluff. Anche per celare l’imbarazzante comportamento dell’opposizione nella lunga settimana post sentenza sul “Caso Miramare”.

    Incollati alla poltrona
    Antonino Minicuci
    Antonino Minicuci – I Calabresi

    Nelle ore successive alla condanna di Falcomatà trapelava l’idea di dimissioni di massa. Ma, alla conta, non più della metà dei consiglieri di minoranza avrebbe effettivamente lasciato il proprio posto.  Tra i fondoschiena maggiormente incollati alla poltrona, quello del (presunto) capo dell’opposizione. Quell’Antonino Minicuci che, per il voto del settembre 2020, era stato scelto addirittura da Matteo Salvini. Perderà nettamente contro Falcomatà, ma dopo averlo costretto al ballottaggio. A distanza di un oltre un anno, di Minicuci si ricordano solo alcune tragicomiche uscite in Consiglio Comunale. Tra frasi dialettali e parolacce.
    Ma l’impressione è che, se si tornasse al voto, persino lui potrebbe vincere contro un centrosinistra così ridotto ai minimi termini.

  • Ministri calabresi? Il buio oltre Mancini, Misasi e (forse) Minniti

    Ministri calabresi? Il buio oltre Mancini, Misasi e (forse) Minniti

    «Al Pci i cervelli, alla Dc i bidelli», recitava un adagio che spiegava in pillole l’egemonia comunista e bollava la presunta insensibilità culturale della Balena Bianca.
    Un giudizio ingeneroso, perché i vertici nazionali della Democrazia cristiana furono di altissima caratura intellettuale.
    Tuttavia, un giudizio non del tutto immotivato, anzi, aveva un bersaglio politico e un riferimento territoriale: Riccardo Misasi e la Calabria.
    Il clientelismo spinto fu l’accusa più rivolta dagli avversari, esterni e interni, all’ex big scudocrociato, che, nel suo primo mandato da ministro della Pubblica istruzione (1970-1972), riempì le scuole italiane di bidelli calabresi reclutati su chiamata diretta.

    L’ex ministro democristiano Riccardo Misasi – I Calabresi

    Altri tempi, di cui oggi, nel Sud profondo, coltivano in tanti una nostalgia morbosa. Allora sì, la Calabria “contava” grazie ai Misasi, che, recita un altro adagio, «mangiavano ma facevano mangiare». E contava anche grazie a Giacomo Mancini, che fu addirittura leader di Partito e ricoprì incarichi ministeriali importantissimi.
    I due big, scomparsi a inizio millennio, praticamente assieme al secolo su cui avevano inciso e che li aveva resi grandi, sono diventati il “mito incapacitante” della politica calabrese che, senza di loro, avrebbe senz’altro avuto un peso minore nella storia del Paese e che, dopo di loro, si è ridotta a poca cosa.

    Ministeri alla calabrese, i prototipi

    In realtà, i calabresi “di governo” esplosero un po’ prima. Per la precisione, durante la Grande Guerra e nei governi Giolitti IV, Boselli, Orlando e Giolitti V.
    In questi governi ricoprirono incarichi di assoluto prestigio il silano Gaspare Colosimo – che fu ministro delle Poste dei telegrafi, delle Colonie e dell’Interno -, il reggino Giuseppe De Nava – che occupò tutti i dicasteri economici e concluse l’età liberale da ministro del Tesoro – e il cosentino Luigi Fera, che fu ministro delle Poste e di Grazia e giustizia.
    L’ingresso dei calabresi nei ministeri proseguì col fascismo, in cui ebbe un ruolo di prima grandezza Michele Bianchi. Di più: è proprio lui il prototipo del ministro calabrese di successo e di potere, il modello che si sarebbe riprodotto nella Prima Repubblica senza colpo ferire.

    Michele Bianchi, segretario del Partito nazionale fascista e ministro – I Calabresi

    Forse quello che gli somiglia di più è Giacomo Mancini, che ebbe la stessa visione politica (l’inclusione della piccola borghesia e degli strati popolari nelle strutture pubbliche e di partito) e la stessa concezione economica (l’uso delle opere pubbliche come volano di crescita finanziaria e di sviluppo) del quadrumviro mussoliniano.
    Don Giacomo fascista? Proprio no. Al contrario, Bianchi socialista. E calabrofilo al pari del compianto “leone”.
    «Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella», scrisse Pietro Ingrao nella sua autobiografia. E Mancini, da sindaco, tentò di rifarla bella circa settant’anni dopo.

    Superterroni di governo

    I ministri calabresi nei governi repubblicani sono in tutto dodici su un totale di 591. Tolti Misasi e Mancini, nessuno di loro ha avuto un peso politico forte.
    Quello che si è avvicinato di più ai due grandi è Marco Minniti, che ha ricoperto il ministero dell’Interno nel governo Gentiloni. Tutto il resto, è roba di sottosegretariati e incarichi vari, assegnati il più delle volte per semplici questioni di equilibri territoriali e senza andare troppo per il sottile. Dodici ministri sono poca roba nella storia dell’Italia repubblicana, in cui hanno fatto la parte del leone quattro regioni: Lombardia, Sicilia, Campania e Lazio, che hanno avuto circa la metà dei ministri.

    Questo per restare ai paragoni assoluti. Ma anche all’interno del Sud la Calabria non è messa benissimo. In termini relativi, la batte anche il piccolo Molise che, coi suoi cinque ministri, ha espresso più “governabili” rispetto alla propria demografia. In pratica, un ministro ogni 60mila abitanti su una popolazione di circa 300mila.
    La Calabria, invece, ne ha ottenuto uno ogni 158mila e rotti, calcolati su una popolazione complessiva media di 1 milione e 900mila.

    Dop di Calabria

    A questa statistica, occorre aggiungere un’altra considerazione: non tutti i ministri calabresi sono o sono stati realmente tali. Certo, calabrese era Fausto Gullo che, a cavallo tra la fine del Regno d’Italia e l’inizio dell’era repubblicana, fu al governo come ministro dell’Agricoltura prima e di Grazia e giustizia dopo.

    Non può essere considerato, invece, un dop di Calabria il democristiano Nicola Signorello, che è nato nel Vibonese ma ha fatto carriera a Roma, di cui fu presidente della Provincia dal 1961 al 1965 e sindaco dal 1985 al 1988. Tutto il resto, cioè le elezioni in Parlamento e i dicasteri ministeriali, lo ha ottenuto grazie ai voti della circoscrizione laziale e alla militanza andreottiana. Nessun legame col territorio e gli elettori calabresi per lui.

    Lo stesso discorso vale per il socialista Emilio de Rose, che nacque a Marano Marchesato ma fece carriera, di medico e di politico, a Verona con voti veneti. E vale ancor più per Claudio Vitalone, che scalò i vertici della magistratura a Roma e quelli politici nella Dc grazie alla militanza andreottiana. Fu eletto senatore in Puglia e in Ciociaria e non ha mai avuto rapporti diretti con la sua Reggio Calabria e con gli elettori calabresi.

    Per quel che riguarda la Seconda repubblica, non si può dare il dop a Linda Lanzillotta, originaria di Cassano all’Ionio ma vissuta a Roma, dove ha fatto carriera nei ministeri, prima da funzionaria e poi da politica. Protagonista di un lungo viaggio dalla Margherita al Pd, intervallato dalla militanza nell’Api rutelliano e tra i montiani di Scelta Civica, Lanzillotta ha gestito gli Affari regionali e le autonomie locali nel II governo Prodi. È stata eletta in Lombardia e in Umbria. Cassano per lei è sì e no un ricordo.
    Tolti questi quattro, il ruolo della Calabria risulta ridimensionato. Per fare un ministro ci vogliono 237mila e rotti calabresi. Quattro volte che in Molise.

    Perdita di peso

    Al contrario, c’è stato un calabrese adottivo di successo: il reatino Dario Antoniozzi, concittadino per nascita di Lucio Battisti cresciuto a Cosenza dove papà Florindo dirigeva la Cassa di risparmio di Calabria e di Lucania, una delle voci più importanti del potere calabrese. Formatosi in Calabria e cresciuto nei ranghi della Dc cosentina, Antoniozzi è arrivato prima a Montecitorio e poi a Strasburgo coi voti dei suoi corregionali “adottivi”. Grazie al peso della Dc calabrese, ha ricoperto i dicasteri del Turismo e dello spettacolo prima e quello dei Beni culturali poi (e c’è chi maligna, nei suoi riguardi, di un numero di bibliotecari uguale a quello dei bidelli di Misasi…).

    Dario Antoniozzi, ex ministro della Democrazia Cristiana – I Calabresi

    Dalla Seconda repubblica in avanti, il bottino è decisamente magro: due soli ministri (Maria Carmela Lanzetta e Marco Minniti). A cosa è dovuta questa perdita di peso? Torniamo al parametro Michele Bianchi per capire meglio. Bianchi lasciò la Calabria da ragazzo, fece carriera nel sindacato, fu tra i fondatori del Pnf, di cui divenne segretario. Infine entrò nella squadra di governo di Mussolini, prima come sottosegretario e poi come ministro dei Lavori pubblici. Tutto senza mai perdere contatto col suo territorio, il Cosentino, a cui tentò di redistribuire risorse grazie al prestigio e al potere personale accumulati.

    Marco Minniti, ex ministro dell’Interno e sottosegretario con delega ai Servizi segreti – I Calabresi

    Questo stesso meccanismo si applica, come già detto, a Giacomo Mancini e a Riccardo Misasi, che vantavano rapporti privilegiati e diretti (quello di Mancini con Nenni è tutto da approfondire ed è quasi superfluo ricordare che il nonno di Misasi fu testimone di nozze e compare d’anello del papà di Aldo Moro…).
    Ma vale anche per tutti gli altri.

    La tragedia delle autonomie

    Cos’avevano in comune l’Italia della Prima repubblica e i suoi partiti col ventennio fascista? La risposta è banale: le istituzioni pubbliche accentrate.
    Tutto, apparati dello Stato e strutture dei partiti, faceva capo a Roma, senza soluzioni di continuità.
    Citare può essere pesante, ma in questo caso è doveroso. Infatti, gli analisti più recenti della questione meridionale (il napoletano Paolo Macry, il calabrese Vittorio Daniele e l’abruzzese Emanuele Felice) concordano su un dato: la maggiore crescita del Sud, coincidente con il boom economico, avvenne tra gli anni ’60 e il decennio successivo e fu propiziata proprio dal sistema accentrato, che aveva generato un meccanismo politico semplice ma efficace.

    In pratica, i politici erano obbligati dai propri elettori a “strappare” qualcosa al centro per portarlo a casa. Ciò valeva per la Calabria come per il Friuli.
    Il declino politico del Sud, con tutta probabilità, dipende da tre fattori: la “territorializzazione” della politica, iniziata nel  ’93 con l’elezione diretta dei sindaci, il decentramento amministrativo spinto e disordinato e la fine dei vecchi partiti, che funzionavano anche come scuole e palestre politiche.
    Ed ecco che le cose all’improvviso cambiano. Il Sud, tranne Campania e Sicilia, arretra ed emergono altri territori, come l’Emilia Romagna e l’Umbria, che aumentano i propri ministri.

    Il fattore legale

    A queste trasformazioni, occorre aggiungere il fattore legalitario. Ciò che prima si tollerava, in nome dello sviluppo, oggi viene avversato in nome della legalità.
    Infatti, a partire dalle vecchie inchieste di de Magistris, la Calabria è diventata una zona minata, in cui i leader nazionali si muovono a fatica e solo se costretti. Scivolare sulla buccia di banana o “pestare la cacca” è più facile da noi che altrove. E questo spiega perché il centrodestra non ha mai creato ministri calabresi. O perché il centrosinistra ha distribuito i ruoli col contagocce. Basta il fascicolo di un pm e una buona campagna stampa per mandare all’aria mesi e anni di attività politica.

    Ed ecco che la Calabria si è ritrovata così ai margini che per avere un ministro con una delega importante si è dovuto attendere Marco Minniti. E il fatto che Minniti abbia mollato la politica istituzionale non fa ben sperare…

  • Fendi si è fermato a Calopezzati: il paradosso della ginestra

    Fendi si è fermato a Calopezzati: il paradosso della ginestra

    È tutta di ginestra: raccolta, filata, tessuta, dipinta a mano. È la hit bag prodotta in Calabria per il progetto di Silvia Venturini Fendi Hand in hand. I suoi disegni stile Longobucco, con i misteriosi codici bizantini della tradizione di quelle terre, hanno i colori del glicine, del mallo di noce, dell’edera, della liquirizia, della curcuma e finanche della cocciniglia, colorante ricavato dalla femmina dell’omonimo insetto parassita.
    È una storia di extra lusso e di paradossi. Un’avventura calabrese, di artigianato resistente e vuoto intorno. C’è tanta ginestra, ma non c’è manodopera.
    Una borsa per pochissimi (e ricchissimi).

    Filippelli e Bossio

    È la storia del maestro tessitore Pasquale Filippelli, originario di Bocchigliero, selezionato con altri diciannove artigiani italiani dalla maison romana. Anche lui, come è stato per l’orafo trapanese Platimiro Fiorenza, che ha intessuto la baguette Sicilia di coralli, dovrebbe essere nominato dall’Unesco “tesoro umano vivente”. Filippelli ha partecipato a Hand in hand con la sodale fabbrica tessile Bossio di Calopezzati. Tessere di mano in mano, entrando nei piccoli scrigni delle botteghe delle regioni italiane, dove nascono meraviglie: questa la filosofia Fendi. Oggi la baguette Calabria è un oggetto d’arte per pochi eletti. La si può trovare esposta, insieme alle altre diciannove, al Palazzo della civiltà italiana di Roma, fino al 28 novembre (la mostra può essere visitata anche in modalità virtual)
    Sono soltanto quindici i pezzi calabresi, per adesso. Raffinata e glamour, la baguette di ginestra è destinata a clienti speciali e segretissimi, perché costa diverse migliaia di euro e anche per quello che racconta il suo ciclo produttivo: realizzata senza elettricità, senza chimica.

    Il maestro Filippelli al lavoro, nella teca la baguette Fendi
    Il maestro Filippelli al lavoro; nella teca la baguette Fendi
    La Fendi per le dive green

    Finirà nel guardaroba di una diva green stile Angelina Jolie, o forse della moglie di un tycoon orientale, di una Carrie della Sex and the city newyorkese.
    Nella fabbrica tessile Bossio di Calopezzati, paese del cosentino, tra la Sila greca e il mare, poco più di 1300 abitanti, c’è tanto entusiasmo ma anche la cautela, saggia, paziente, pragmatica degli artigiani. Dalla capostipite Elisabetta alla figlia Elena, al genero Angelo, al nipote Vincenzo, in questo luogo di fili e macchinari, nato nel 1966, la vocazione è per i prodotti naturali. «Fai la qualità e stai tranquillo» è la raccomandazione tramandata da una generazione all’altra. «Fendi aveva richiesto venti baguette, ma noi siamo riusciti a realizzarne soltanto quindici, perché occorre tempo per creare i prototipi e ogni singolo pezzo e perché l’anello debole di tutto il processo – racconta Vincenzo Bossio, – è la filatura. Nella fase di produzione abbiamo anche provato a cercare sul territorio, senza successo, ginestra già filata».

    Vincenzo Bossio, uno dei proprietari della fabbrica tessile di Calopezzati
    Ma nessuno la fila

    E pensare che non bisognerebbe neanche coltivarla la ginestra, pianta ribelle che cresce dove vuole. Robusta e così audace da rinforzarsi ad ogni potatura, materia prima per realizzare filati che resistono ai secoli. «Abbiamo tessuti – racconta ancora Vincenzo – che hanno anche settanta anni e che sono sempre più belli. È una fibra capace anche di regolare l’umidità, tanto che veniva usata dai romani per le vele delle loro imbarcazioni». La ginestra è lì, infestante come la liquirizia, fiorisce rigogliosa a ogni primavera, ovunque in Calabria, dalla costa degli Dei alla Sila greca, ma non ha avuto la buona fortuna delle altre fibre liberiane, il lino e la canapa, di cui è stretta parente.
    «Ci troviamo in una situazione stimolante, ma difficile. Ci contattano molte aziende, sono incuriosite e affascinate da questo tipo di lavorazione, ma purtroppo non posso produrre il filato che mi viene richiesto».

    L’antico telaio della fabbrica Bossio di Calopezzati
    L’interesse dei giapponesi

    Vincenzo Bossio mostra il suo cellulare. Gli è appena arrivato un messaggio dal Giappone. «Ci scrivono diverse startup. Un marchio di scarpe di lusso ci ha appena proposto di realizzare le tomaie con le fibre di ginestra. Internet ci consente di stare sui mercati mondiali, i social amplificano i nostri orizzonti, ma in questo caso abbiamo bisogno di mani sapienti più che di macchine e di tecnologia».
    La ginestra, come dimostra Hand in hand, può essere un’alternativa green alle fibre sintetiche che infestano i mercati del tessile. Bassissimo costo della materia grezza (basta andare a raccoglierla, ce n’è tanta), il tessuto ottenuto non si deteriora, è resistente e versatile. Quindi? Quindi le lenzuola di ginestra continuiamo a trovarle solo nei musei etnografici, tra telai impolverati e ricostruzioni di ambienti rurali.

    Nel Dna delle tessitrici

    La produzione non può prescindere dal telaio di legno, come quello su cui Elena, figlia di Elisabetta e madre di Vincenzo, fin da bambina ha imparato a tirare la tela. Un’arte tramandata attraverso un codice orale fatto di parole e numeri, un lessico familiare che si traduce nei movimenti lenti e serrati che danno vita al filato, attraverso la griglia di trame e orditi su cui s’imprime il Dna. «E non per modo di dire – spiega Elena – ma perché si trascorrono ore e ore a lavoro sul telaio, concentrate nei propri pensieri, a scaricare la tensione, vedendo crescere il filato come una creatura a cui diamo la vita».

    La ginestra crea economia

    La filatura è la tessera mancante in questa partita della ginestra che potrebbe creare un indotto virtuoso nell’economia calabrese. È per questo che adesso l’azienda Bossio ha deciso di investire nella formazione: «Il settore tessile in Calabria è una nicchia e come tale non ha peso politico» è l’amara constatazione di Bossio. Ma non è rassegnazione perché ci sono grandi progetti in vista : «Non solo vogliamo formare nuovi filatori – annuncia – ma siamo pronti ad acquistare tutto ciò che viene realizzato». È ripartita proprio ieri una giovane allieva di una scuola di tessitura parigina che, nell’azienda di Calopezzati, ha svolto uno stage di tre mesi. Ha vissuto pure lei l’adrenalina del progetto Fendi, ma ha anche ascoltato le storie dei contadini che ammorbidivano i rami di ginestra nell’acqua del fiume: passato e presente dialogano e collegano mondi lontani.

    Filo di ginestra
    Con Fendi fino al 31 dicembre

    Il contratto con la fashion house romana si concluderà il 31 dicembre. «Ancora non so se continueremo la produzione. Il primo contatto c’è stato nel gennaio 2019. Un messaggio, poi silenzio. Fino a quando insieme con Pasquale Filippelli siamo andati con le nostre opzioni di tessuti artigianali nella sede della maison. Quale hanno scelto? Tutti».
    Ogni baguette è un puzzle di stoffe naturali. «Sappiamo che un esemplare lo ha riservato per sé Silvia Venturini Fendi, un altro andrà al museo della maison, il resto sarà acquistato dai clienti lusso. La griffe invia loro un video, mostrando come e da dove nascono le baguette artigianali. Il prezzo? Variabile, 25mila euro e oltre».

    Il lusso si è affacciato in questa realtà, dove la metafora colorata dell’ordito e della trama racconta un pezzo della regione, con i campi di ginestra, i bozzoli di seta nei cesti e i gelsi nei giardini, il telaio meccanico fabbricato dalla Società Nebiolo Torino nel 1960, l’orditoio che sembra un mostro buono, enorme e variopinto con 5600 fili uno accanto all’altro.
    Si è aperta una porta. Troppo piccola per adesso.

  • Covid Calabria, quando il virus dà alla testa

    Covid Calabria, quando il virus dà alla testa

    Chi pensava che passata la sfuriata della fase acuta e archiviati i vari lockdown, tutto sarebbe presto tornato alla normalità, non aveva fatto i conti con l’onda lunga del Covid e i suoi effetti sulla salute mentale.
    La corsa del Coronavirus non si è arrestata alle soglie dei reparti di malattie infettive, nelle terapie intensive degli ospedali ingolfate di polmoniti bilaterali e insufficienze respiratorie. Il virus si è insinuato nella vita privata dei cittadini come un tarlo, ha rotto equilibri, scombinato prassi, modificato routine. E questo ha avuto conseguenze. In alcuni casi delle gravi conseguenze.

    La stabilità mentale in crisi

    Ci sono state persone che hanno lasciato il lavoro. Altre che non hanno resistito al nuovo assetto sociale post-pandemico e non sono riusciti a mantenere una relazione affettiva.
    L’elemento che più di tutti sembra aver messo in crisi la nostra stabilità mentale è lo stop, forzato, ad ogni forma di interazione sociale. Ne è convinta la psicoterapeuta di Cosenza, Maria Giovanna Napoletano: «A causa dalla difficoltà di stare insieme tra pari, molti bambini presentano ritardi nel linguaggio. Problemi nella sfera della socialità colpiscono invece i pre-adolescenti e hanno a che fare con la sensazione costante di precarietà».
    Ondate, varianti, zone rosse, lockdown, quarantena: sono tutti elementi di un nuovo linguaggio sociale che ha destrutturato la realtà che conoscevamo creandone una nuova, inedita e destabilizzante.

    Salgono le patologie psichiatriche nei bambini

    In tutta Italia nell’ultimo anno c’è stata una vera e propria esplosione di patologie psichiatriche, anche in età pediatrica. Lo ha fatto notare la dottoressa Elena Chiappini, pediatra che lavora al prestigioso ospedale Meyer di Firenze e docente universitario in Pediatria generale e specialistica dell’Università di Firenze.

    Soffre tanto chi sta già messo male

    C’è un dato, invece, su cui sembrano esserci ormai pochi dubbi, ed è la relazione causale tra la pandemia da Covid e le malattie psichiatriche. Lo conferma Immacolata d’Errico, psichiatra e psicoterapeuta: «L’analisi dei dati – spiega – dimostra non solo l’escalation di queste patologie a iniziare dai disturbi del comportamento alimentare ma anche l’evoluzione di disagio psicologico in chi non ha sviluppato quadri psichiatrici».
    Fuori da ogni tecnicismo, significa che la pandemia ha amplificato la fragilità psicologica anche di quella parte di popolazione che con panico, depressione e atti di autolesionismo, non aveva finora mai fatto i conti.

    Diversa la situazione per chi era già avvezzo al disagio mentale prima dell’avvento della pandemia. In questi casi, si è notato un aggravamento del quadro clinico. Quanto esteso possiamo desumerlo dalla statistica che ci fornisce la cosentina Maria Giovanna Napoletano: «Dalla mia esperienza ho notato una complicazione delle patologie in circa l’80% dei pazienti».

    Sterilizzare le mani in maniera compulsiva

    Secondo i professionisti della salute mentale, i disturbi d’ansia si manifestano in modo diverso in base all’età dei soggetti. I bambini fino ai 5/6 anni di età, sviluppano sintomi fisici come mal di testa, mal di pancia, paura del buio, ansia da separazione. Dai 7 anni in su possono comparire segni di stress, alterazioni del pensiero, panico, disturbi del sonno e dell’umore. Peggiorativi sono i risultati di un altro studio sul disturbo ossessivo – compulsivo che sembra avere sofferto parecchio la “perturbazione” che la paura del Covid – 19 ha provocato. Ci sono stati casi di persone talmente esasperate dalla necessità di lavarsi le mani e di igienizzarle anche decine e decine di volte al giorno, da essersi provocati ipersensibilità ai detergenti, irritazioni ed eritemi.

    Il parere della psicoterapeuta

    «Purtroppo è una situazione a cui assistiamo spesso in chi soffre di disturbo ossessivo compulsivo» spiega la dottoressa Napoletano, che di lavoro fa la psicoterapeuta. «Le norme introdotte per il contenimento del contagio hanno aggravato le compulsioni: lavarsi le mani e disinfettarsi sono gli esempi più ricorrenti ma non sono gli unici. C’è stato anche un aggravamento di tipo cognitivo: pensieri ricorrenti e intrusivi sono stati esasperati dal contesto di solitudine e dalla mancanza di relazioni sociali».

    Roberta, sola e in preda alla paranoia

    Gianmarco e Roberta possono aiutare a capire come il Covid impatta nel concreto sulla sofferenza mentale. Roberta (entrambi i nomi sono chiaramente di fantasia) è una vedova sulla sessantina. Abita sola in una villetta alla periferia del capoluogo di regione. La sua vita è stata segnata dal disagio psichico sin dalla più tenera età ma negli ultimi anni era riuscita a ritagliarsi una certa stabilità fatta di poche e abitudinarie azioni: uscire per la spesa, fare una sosta al tabacchino e rientrare a casa. Tanto le bastava.

    Con il Covid le cose sono cambiate. Le chiusure, le zone rosse, il martellamento mediatico hanno riacceso in lei la paranoia di potersi contagiare e l’hanno portata a chiudersi in casa e a rinunciare alle (poche) interazioni sociali che aveva. Dopo quasi due anni, gli effetti continuano a farsi sentire. Roberta non ha più ripreso la sua routine e le sue giornate sono condizionate dalla paura di potersi ammalare e da una sensazione di precarietà asfissiante.

    Gianmarco, fissato con l’ordine e la pulizia

    Gianmarco, anche lui calabrese, ci racconta una storia diversa. La sua diagnosi pre-Covid era disturbo ossessivo compulsivo con tratti paranoici. Ha sempre avuto la tendenza a pensare troppo, Gianmarco. E l’arrivo del Covid non lo ha aiutato. Anzi. La famiglia racconta che ha iniziato ad essere fissato con l’ordine e la pulizia. Disinfettava tutto quello che entrava in casa: dalle buste della spesa agli abiti indossati, dalle chiavi alle scarpe al portamonete. Il Covid era sempre nei suoi pensieri, le sue giornate erano scandite dal Bollettino informativo delle 18 con numero di morti e feriti. Di tornare in cura e riprendere le sedute con lo psichiatra, per lui era un assoluto tabù. Gianmarco dice di essere troppo geloso dell’autonomia che è riuscito a conquistarsi in questi anni. «Tornare in terapia – spiega – sarebbe come andare indietro di dieci anni, ammettere che sono ancora malato e che non ho speranza di guarire».