Categoria: Fatti

  • «La Questura faccia un passo indietro», Cosenza pronta a mobilitarsi

    «La Questura faccia un passo indietro», Cosenza pronta a mobilitarsi

    Cosenza sarà più sicura se due ragazzi non violenti e impegnati per la tutela di diritti costituzionali saranno costretti a rientrare a casa prima delle 21? A firmare ogni giorno in questura o chiedere – come criminali matricolati ma senza un reato preciso contestato a loro carico, solo un carattere «ribelle» – il permesso a un magistrato per spostarsi? Il fatiscente centro storico della città uscirà dal suo stato di abbandono se chi prova a riportare attenzione sul degrado si vede infliggere multe salate per una passeggiata? In fondo sta tutto in queste tre domande il senso dell’assemblea pubblica che ha animato il Palazzo della Provincia. Anche perché di senso, altrimenti, in quello che sta accadendo sembra essercene veramente poco.

    Un passo indietro

    Tanta gente nel Salone degli Specchi, altrettanta all’esterno dell’edificio, collegata via radio o sui social per esprimere solidarietà agli attivisti locali che nei giorni scorsi sono finiti nel mirino della Questura cittadina. Un inno al libero pensiero e al dissenso, contrapposto a una repressione apparsa eccessiva ai più e che ha suscitato non poco scalpore. Altrettanto abbondanti sono state le parole spese durante l’incontro di ieri sera, un fiume di interventi e messaggi di solidarietà. Ma, soprattutto, di inviti alla Questura a fare un passo indietro.

    Quello che sta accadendo d’altra parte, come ricordato da Vittoria Morrone di Fem.in in apertura, «non è normale». Sembra piuttosto «un attacco politico» a chiunque abbia o voglia avere «una coscienza critica». Gli attivisti per cui è stata richiesta la sorveglianza speciale o quelli multati per la passeggiata – parola del docente Andrea Bevacqua – sono invece persone che lottano per concetti come «partecipazione, democrazia, comunità».

    La meglio gioventù

    Ragazzi che, come hanno ricordato la docente Unical Maria Francesca D’Agostino e il ricercatore Giancarlo Costabile, hanno pronunciato «parole in cui tutti ci siamo riconosciuti» denunciando lo stato della sanità calabrese. E che hanno fatto «con la schiena dritta in una terra di disgraziati e di complici, proteste in maniera pacifica e democratica ridestando coscienze sopite e battendosi per diritti costituzionali come lavoro, sanità, abitazione».

    Quello che è successo «è molto grave», ha sottolineato Antonella Veltri, del Centro anti violenza Roberta Lanzino. Anche perché riguarda «giovani che debbono rappresentare il presente, non il futuro», ha sostenuto il segretario provinciale della Cgil, Pino Assalone. La Questura farà il fatidico passo indietro? Difficile prevederlo.

    Una mobilitazione a gennaio

    Lo hanno comunque chiesto a gran voce l’assessore rendese Elisa Sorrentinodi Palazzo dei Bruzi invece non si è visto nessuno nonostante la solidarietà espressa da Franz Caruso nei giorni scorsi, ai “passeggiatori” quantomeno – e la parlamentare pentastellata Anna Laura Orrico. La prima ha parlato di un «errore marchiano» delle forze di polizia invitandole a tornare sui propri passi. La seconda ha definito «la meglio gioventù, una boccata d’ossigeno per la nostra città e la Calabria» i destinatari dei provvedimenti repressivi auspicando un lieto fine.

    Vittoria Morrone (a sinistra), insieme a Simone Guglielmelli e Jessica Cosenza, i due giovani per cui la Questura ha chiesto misure di sorveglianza speciale
    Vittoria Morrone (a sinistra), insieme a Simone Guglielmelli e Jessica Cosenza, i due giovani per cui la Questura ha chiesto misure di sorveglianza speciale

    Fatto sta che ai cosentini – e non solo, durante l’assemblea è arrivato un messaggio anche da Medici senza Frontiere Italia – quanto accaduto non va proprio giù. E presto potrebbe arrivare il bis della più celebre manifestazione in favore di chi dissente che Cosenza abbia mai ospitato, quella post G8 del 2001. A preannunciarla, in chiusura, proprio uno degli attivisti nel mirino della Questura: «Siamo in una terra che non garantisce  alcun diritto se non sotto ricatto e la Questura decide di perseguire chi prova a far politica dal basso. Va difesa l’agibilità democratica di questa città, crediamo serva una grande mobilitazione a gennaio».

     

  • Quei magistrati calabresi trasferiti, sospesi e arrestati

    Quei magistrati calabresi trasferiti, sospesi e arrestati

    Trasferiti, sospesi, ridimensionati, in qualche caso finiti addirittura in manette. Non ci sono solo i magistrati protagonisti dell’indagine interna del Csm per l’affaire Palamara nella storia recente dei togati dei distretti giudiziari calabresi inciampati in problemi con la giustizia. In alcuni casi, trasferimenti e punizioni derivano da “incompatibilità ambientali” sorte tra magistrati. In altri le indagini alla base dei provvedimenti disciplinari sono naufragate in richieste di archiviazione presentate dalla stessa accusa. E in diverse circostanze gli approfondimenti degli investigatori hanno smascherato un vero e proprio sistema di corruzione giudiziaria.

    Il mercato delle sentenze

    Come nel caso di Marco Petrini, il giudice della Corte d’Appello di Catanzaro arrestato dai magistrati di Salerno (competenti per territorio) nel gennaio del 2020, sospeso dalle funzioni dal Csm e condannato in primo grado a 4 anni e 4 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari. Una classica storia di malaffare quella scovata dai finanzieri di Crotone che individuarono una serie di personaggi – tra cui Mario Santoro, un medico in pensione ex dipendente dell’Asp di Cosenza – che avrebbero stipendiato il giudice per aggiustare, in secondo grado, una serie di processi penali finiti, in prima battuta, con condanne pesanti. Un sistema che tornava buono anche per ritoccare le misure di prevenzione reale come sequestri e confische di beni.

    Il filone che coinvolge anche il sindaco di Rende

    Un vero e proprio suq di sentenze di cui si è tornato a discutere, stavolta davanti ai giudici d’Appello salernitani, lo scorso venerdì con l’inizio del processo in secondo grado. In attesa di definizione poi – i pm di Salerno hanno chiuso le indagini nell’ottobre scorso – il secondo filone dell’inchiesta. Coinvolge, oltre all’ex giudice Petrini, anche il sindaco di Rende Marcello Manna, che secondo l’ipotesi dell’accusa avrebbe corrotto Petrini per ottenere in appello l’assoluzione del boss Francesco Patitucci (di cui Manna era legale) che era invece stato condannato in primo grado a 30 anni per l’omicidio di Luca Bruni.

    L’ex procuratore aggiunto Vincenzo Luberto
    L’ex sostituto procuratore aggiunto della Dda, Vincenzo Luberto

    Sullo stesso piano anche la posizione dell’ex procuratore aggiunto nella distrettuale antimafia di Catanzaro, Vincenzo Luberto, sotto processo a Salerno con l’ipotesi di corruzione, falso, omissione e rivelazione di segreto d’ufficio assieme all’ex parlamentare Ferdinando Aiello. Trasferito dalla commissione disciplinare del Csm alle mansioni di giudice civile al tribunale di Potenza, Luberto, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto dall’ex parlamentare una serie di pagamenti per viaggi di lusso tra il 2018 e il 2019, in cambio di un suo sostanziale asservimento alle richieste avanzate dall’ex deputato.

    Secondo quanto ricostruito dai magistrati campani (competenti territorialmente sui colleghi del distretto della Corte d’Appello di Catanzaro), Luberto avrebbe informato l’ex parlamentare rispetto alle indagini ai suoi danni, omettendo poi di iscriverlo al registro degli indagati quando le notizie via via raccolte dagli investigatori lo avrebbero richiesto. Accuse sempre rispedite al mittente dall’ex aggiunto catanzarese il cui processo è attualmente in corso.

    Il trasferimento di Lupacchini

    Fece molto rumore anche un altro intervento del Consiglio superiore della Magistratura sui togati del distretto catanzarese: il trasferimento dell’ex procuratore generale Otello Lupacchini, spedito a Torino senza compiti direttivi e con perdita di tre mesi d’anzianità per avere criticato, durante un’intervista televisiva, il procuratore capo Nicola Gratteri all’indomani della maxi retata di Rinascita Scott. Apice di un rapporto fortemente conflittuale tra i due magistrati, l’intervento del Csm arrivò, su sollecitazione dei consiglieri in quota Magistratura Indipendente e Area, per verificare se esistessero i presupposti per un trasferimento per incompatibilità ambientale.

    L’ex procuratore generale di Catanzaro, Otello Lupacchini
    Quel post su Facciolla

    Magistrato di lungo corso – fu protagonista delle indagini sulla banda della Magliana e sul fronte del contrasto alla lotta armata nera e rossa – Lupacchini è finito davanti alla disciplinare del Csm per un’intervista video in cui lamentava il mancato coordinamento dell’ufficio retto da Gratteri con il suo, e definendo le indagini dell’antimafia catanzarese come «evanescenti». Tra i capi di “incolpazione” all’ex Pg del capoluogo, anche un post Facebook con cui Lupacchini sosteneva una campagna on line in favore di Eugenio Facciolla, ex Procuratore capo a Castrovillari, trasferito dal Csm in seguito ad un’indagine aperta nei suoi confronti dalla Procura di Salerno. Incolpazione poi caduta davanti al Plenum del Csm che nelle settimane scorse, ha reso definitivo il trasferimento di Lupacchini a Torino.

    L’arresto del Gip di Palmi

    E se nel distretto giudiziario centrosettentrionale le acque restano ancora agitate per gli inevitabili strascichi delle vicende penali che hanno coinvolto magistrati importanti, nel reggino bisogna tornare un po’ indietro nel tempo per trovare precedenti così pesanti. Nel 2011 furono i magistrati della distrettuale antimafia di Milano ad arrestare Giancarlo Giusti – all’epoca Gip a Palmi e con alle spalle un procedimento della disciplinare del Csm (da cui uscì assolto) per alcuni incarichi commissionati sempre agli stessi professionisti – nell’ambito di una maxi inchiesta sugli interessi del clan Valle – Lampada in Lombardia.

    Sui giornali finirono i soggiorni milanesi pagati dal boss al magistrato di origine catanzarese (con corredo di tutto il campionario voyeuristico su gusti sessuali e goderecci) e Giusti, condannato in via definitiva a 3 anni e 10 mesi di reclusione, non resse il colpo, togliendosi la vita pochi giorni dopo la lettura della sentenza.

    Intercettato mentre passava notizie al boss

    E fu sempre l’antimafia milanese, con l’inchiesta Infinito, a stringere le manette ai polsi di Vincenzo Giglio, all’epoca presidente della Sezione misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria. Un arresto clamoroso per un magistrato considerato, all’epoca, tra i più intraprendenti del distretto reggino: protagonista di innumerevoli manifestazioni antimafia ed esponente di rilievo di Magistratura Democratica, l’ormai ex magistrato fu intercettato dagli investigatori mentre sul divano della sua casa reggina, passava notizie riservate al boss Giulio Lampada, che di quel salotto era un frequentatore abituale.

    Una storiaccia che coinvolse anche l’ex consigliere regionale Francesco Morelli e che costò all’ex giudice una condanna a quattro anni e 5 mesi di reclusione ed a un risarcimento, stabilito dalla Corte dei conti pochi mesi fa, di oltre 50 mila euro nei confronti del ministero della Giustizia per il terrificante danno d’immagine provocato.

  • Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Lucano visto dai giudici: l’accoglienza? «Solo per trarre profitto»

    Il frantoio e le carte d’identità, le case dell’albergo diffuso e quelle dei migranti, gli ammanchi di denaro e le gare di solidarietà: ci sono tre anni di “progetto Riace” dentro il monumentale faldone della sentenza Xenia. Migliaia di intercettazioni, decine di controlli, cinque diverse relazioni prefettizie e due anni di dibattimento serrato con (più) di un occhio alla forte pressione mediatica che l’indagine ha sollevato sin dalle prime battute. Una mole di materiale imponente che i giudici del Tribunale di Locri sgranano con puntigliosità per costruire le basi di una sentenza pesantissima su un sistema d’accoglienza che si sarebbe trasformato in un mezzo «solo per trarre profitto» e senza «nessuna connotazione altruistica, né alcunché di edificante».

    Un sistema collaudato

    Una ricostruzione durissima che, basandosi sulla gestione economica dei vari progetti (Sprar, Cas e Msna), demolisce l’idea stessa dell’intero “sistema Riace”, o almeno di quello degli ultimi tre anni. Altro non sarebbe stato che «un sistema che si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile che si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che Lucano possedeva». Ed è proprio sulla figura dell’ex sindaco, e sui suoi comportamenti anche durante il dibattimento, che il presidente Fulvio Accursio punta l’indice. Secondo il giudizio di primo grado infatti, Mimmo Lucano sarebbe a capo di «un’organizzazione tutt’altro che rudimentale che rispettava regole ben precise a cui tutti puntualmente si assoggettavano».

    Modello o illusione?

    Secondo la ricostruzione dei giudici, il gruppo avrebbe attirato verso Riace buona parte dei disperati che arrivavano in Italia, solo per tornaconto personale. Da una parte lo stesso Lucano, che avrebbe agito oltre che per interesse, anche «a beneficio della sua immagine pubblica». Dall’altra i suoi sodali che lo avrebbero aiutato a mettere in piedi “l’illusione Riace”, per poter saccheggiare i fondi dei progetti d’accoglienza. L’equazione tracciata dal tribunale di Locri è semplice: più migranti ci sono in paese, più soldi arrivano. E più i numeri possono confondersi, più il gruppo ne può approfittare.

    Il contesto ignorato

    Un’equazione da cui però manca la variabile umana, il contesto dentro cui si è sviluppata l’intera vicenda: nessun accenno all’emergenza che inondava di richiedenti asilo e varia umanità disgraziata, il piccolo centro jonico; nessun riferimento alle decine di persone ospitate oltre i numeri consentiti, in abitazioni vere, proprio per soddisfare le richieste di Prefettura e ministero dell’Interno né ai tanti risultati raggiunti nel rilancio del paesino abbandonato dai suoi stessi abitanti.

    Condanna raddoppiata

    Associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati contenuti in 10 capi d’accusa (sui 16 totali in cui era stato coinvolto) alla base della condanna dell’ex primo cittadino che è invece stato assolto dalle ipotesi di concussione e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Dieci capi d’accusa divisi in due, differenti, ordini di reati che sono alla base della condanna per Lucano. Due ordini di reati la cui «sommatoria dei segmenti di pena comporta la condanna alla pena complessiva di anni 13 e mesi 2».

    sentenza_lucano
    I giudici del Tribunale di Locri pronunciano la sentenza di condanna nei confronti di Mimmo Lucano

    Secondo i calcoli del collegio locrese quindi, da una parte si deve considerare l’associazione a delinquere con tutti i delitti individuati durante il processo e che sono da considerarsi in continuità, dall’altra gli altri reati legati agli abusi d’ufficio e alla falsità ideologica, anche questi da considerarsi in continuità. Ed è sommando questi due distinti «disegni criminosi» che il presidente Fulvio Accursio dispone la condanna a 13 anni e due mesi, praticamente il doppio di quanto richiesto dall’accusa che quelle stesse ipotesi di reato, le aveva invece considerate come un unico insieme.

    Nessuna attenuante

    Una condanna a cui, scrive ancora il tribunale nelle motivazioni della sentenza, per due ordini di motivi, non vanno conteggiate neanche le attenuanti generiche. Da una parte il fatto che Lucano si è sottratto ad interrogatorio durante il dibattimento limitandosi a due dichiarazioni spontanee, e dall’altra, nonostante si parli di un imputato incensurato, non «vi è alcuna traccia dei motivi di particolare valore morale o sociale per i quali egli avrebbe agito, essendo invece emerso… che le finalità per cui egli operò per oltre un triennio non ebbe nulla a che vedere con la salvaguardia degli interessi dei migranti».

    Lucano: «Rifarei tutto»

    Un giudizio impietoso che ha provocato l’immediata reazione dello stesso Lucano che, in trasferta in Emilia Romagna, ha rilanciato la sua battaglia. «Rifarei tutto, anche più forte di prima – ha dichiarato Lucano a margine di una manifestazione organizzata in suo sostegno – ci sono tante contraddizioni e il giudice mi ha condannato dicendo che pensavo al futuro, ma sono cose non vere. Il modello Riace è stato un modello di libertà e di rispetto dei diritti umani».

    La battaglia continua

    Dello stesso tenore anche le dichiarazioni dei difensori dell’ex sindaco, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua: «Dopo la lettura approfondita delle motivazioni, siamo ancora più convinti dell’innocenza di Mimmo Lucano. Queste infatti contrastano con le evidenze processuali emerse in un dibattimento durato oltre due anni. I giudici poi – dicono ancora gli avvocati – in contrasto anche con una sentenza delle sezioni unite di Cassazione sull’uso delle intercettazioni telefoniche, negano la verità sullo stato di povertà dell’ex sindaco, confermata invece da tutti i testimoni e le acquisizioni documentali. Contrasteremo nel merito i singoli capi d’imputazione e le argomentazioni dell’accusa e del Tribunale, a partire da quelle sui reati più gravi: associazione a delinquere e peculato».

  • Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    Mimmo Lucano, il modello Riace? Per i giudici era «arrembaggio»

    «Lenti deformanti», «visioni» del processo «da lontano», «fughe in avanti»: sono numerose le pagine che i giudici del Tribunale di Locri dedicano alle tesi difensive che gli avvocati di Mimmo Lucano (e le migliaia di persone che hanno manifestato in tutta Italia all’indomani della condanna) hanno sostenuto durante il processo che ha visto l’ex sindaco di Riace condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione e ad una serie di risarcimenti record nell’ambito del processo Xenia.

    Persecuzione politica? No, «arrembaggio»

    Tesi che sostenevano «una presunta persecuzione di natura politica» che di fatto, scrivono i giudici nelle 904 pagine di motivazioni della sentenza di primo grado, «si dimostrerà essere del tutto inesistente». Nella sostanza, il modello Riace sarebbe stato solo fumo negli occhi per nascondere «un arrembaggio» fatto di «meccanismi illeciti e perversi, fondati sulla cupidigia e sull’avidità».

    Virtù e vizi

    Usano parole pesantissime i togati locresi che, pur ammettendo «l’integrazione virtuosa e solidale che nei primi anni veniva senz’altro praticata su quel territorio, ove si era riusciti mirabilmente a dare dignità e calore a uomini e donne venuti da terre remote» puntano l’indice «sulla sottrazione sistematica di risorse statuali e della Ue» che avrebbe messo in secondo piano l’accoglienza stessa, rimasta «in forma residuale e strumentale… così alimentando gli appetiti di chi poteva fare incetta di quelle somme senza alcun a forma di pudore».

    E alla guida di questo gruppo – sono 27 in tutto gli imputati – ci sarebbe Mimmo Lucano che avrebbe costruito «un sistema clientelare che gli ruotava attorno» e che «lo sosteneva politicamente, con fedeltà assoluta, ben sapendo che quell’appoggio che essi gli fornivano – di cui egli aveva spasmodica necessità e che, peraltro, costituiva l’unico criterio tramite il quale essi erano stati prescelti – era ampiamente ricambiato da forti ritorni di natura economica».

    Senza un soldo

    Parole durissime che rappresentano una pietra tombale su un progetto durato più di venti anni e che aveva portato Riace fuori dall’immobilismo in cui versava, impoverita e abbandonata dai suoi stessi abitanti. E poco importa, se di soldi a Lucano non ne sono stati trovati in tre anni di indagini. Per i giudici di Locri si tratta di «un falso mito».

    L’ex sindaco, scrivono, «è stato molto accorto nell’allontanare da sé i sospetti dell’essere stato autore del sistematico accaparramento di risorse pubbliche» e quindi «nulla importa che l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca – come orgogliosamente egli stesso si è vantato di sostenere a più riprese – perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza».

    Modello o menzogna?

    In sostanza, mette nero su bianco il presidente Fulvio Accurso, l’intero modello Riace si sarebbe trasformato in una grossa menzogna: menzogna era l’integrazione, menzogne erano i bimbi nella scuola riaperta e le case abbandonate nuovamente vissute. Menzogne create da Lucano «per alimentare l’immagine di politico illuminato che egli ha cercato di dare di sé ad ogni costo». Menzogne, annota il giudice sgambettando l’onda popolare da mesi schierata in sostegno dell’imputato Lucano, condivise «da tanta gente che non ha voluto vedere quanto sussisteva a suo carico nel processo»

  • Concessioni e partecipate, la regione a perdere si chiama Calabria

    Concessioni e partecipate, la regione a perdere si chiama Calabria

    La Giunta regionale ha approvato, con delibera 480, il Documento di Economia e Finanza per il triennio 2022-2024. Emerge un quadro preoccupante sullo stato della Calabria: robusta evasione tributaria sulle tasse automobilistiche, gestione del patrimonio regionale senza adeguato controllo, mancata riscossione delle entrate in conto capitale, perché non si riesce a governare la rendicontazione, a fronte di spese in conto capitale che continuano a crescere.

    La voragine sanitaria ed il Pnrr costituiscono le sponde opposte della complessa matassa che va dipanata per dare una prospettiva diversa alla regione. Da un lato c’è una decennale situazione di sbandamento nell’amministrazione finanziaria e nella gestione dei servizi sanitari per i cittadini. Dall’altro si prospetta l’opportunità delle risorse del Pnrr, che costituiscono l’ultima vera occasione per imprimere una svolta verso lo sviluppo.
    Il nostro viaggio dentro il Def non può che partire dai numeri, quelli delle entrate e delle uscite. Emergono indicazioni che spiegano meglio di tante altre considerazioni astratte le ragioni della crisi regionale.

    concessioni-partecipate-roberto-occhiuto-i-calabresi
    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto
    La difficoltà di rendicontare le entrate

    Nel 2020 il volume delle entrate totali accertate a consuntivo nel bilancio regionale è pari a 5,74 miliardi di euro, in leggera diminuzione rispetto all’anno precedente (-0,29%). Quanto alle previsioni per gli anni successivi, il valore nettamente più alto registrato nel 2021 per le entrate in conto capitale non è attribuibile a più elevate assegnazioni statali o comunitarie. Riguarda, invece, risorse per contributi a rendicontazione non utilizzate nel corso del 2020, riprogrammate in attesa di definirne l’utilizzo o differite negli anni successivi.

    Il valore percentuale del 2021 delle entrate in conto capitale rispetto al volume totale delle entrate (31,9%) rispecchia una difficoltà strutturale nell’utilizzo delle risorse destinate agli investimenti ed allo sviluppo. Eppure, nonostante questa sia la fotografia di un drammatico punto di debolezza, si stima di passare in un anno da un valore rendicontato di poco più di mezzo miliardo di euro del 2020 a 2,7 miliardi nel 2021.

    Le previsioni

    Considerato che siamo ormai avviati verso la conclusione dell’anno, varrebbe davvero la pena di augurarci che sia così quando dovrà essere redatto il bilancio consuntivo del 2021. I valori molto bassi delle entrate in conto capitale previsti nel biennio 2022 e 2023 scontano, invece, nella scelta di pianificazione condotta dalla Regione, la mancata previsione delle risorse destinate all’attuazione della programmazione comunitaria e nazionale 2021-2027 ancora tutta da definire.
    Eppure, forse, qualche stima poteva essere messa in conto, considerando che le risorse di investimenti per il PNRR dovranno tutte essere utilizzate entro il 2026. Non c’è mica molto tempo per spendere e rendicontare questi ingenti finanziamenti disponibili.

    Virtuosi all’improvviso? È il contrario

    Nel 2020 il volume complessivo degli impegni risulta pari a 5,6 miliardi di euro circa, in aumento rispetto al 2019 (+1,2%). Dall’analisi della composizione della spesa distinta per tipologia si delinea un andamento divergente: aumentano le spese correnti (+0.9%) e soprattutto quelle in conto capitale (+8.8%), diminuiscono le spese per rimborso mutui (-57,3%). In apparenza, siamo entrati improvvisamente nel pianeta dei virtuosi: le spese in conto capitale aumentano molto più rapidamente delle spese di parte corrente, mentre gli oneri finanziari si riducono.

    La realtà sta al polo opposto. Mentre corrono le spese in conto capitale, crollano in modo simmetricamente opposto le riscossioni delle entrate in conto capitale, per la incapacità di rispettare i meccanismi della rendicontazione. Si rischia di aprire in questo modo una voragine nei conti regionali, tale da dare il colpo di grazia alla finanza locale. Soprattutto se teniamo in conto il volano di risorse molto ingente che attiveranno contestualmente il PNRR e la prossima tornata di fondi comunitari 2021-2027.

    La diminuzione delle spese per il rimborso dei mutui si deve alla sospensione delle rate di ammortamento a carico del bilancio statale in scadenza non pagate nel 2020 per effetto della legge n. 27 del 24 aprile 2020, ma che devono essere coperte nell’annualità 2021 con oneri a carico del bilancio regionale (oltre 3 miliardi di euro), e alla rinegoziazione con Cassa Depositi e Prestiti dei mutui in ammortamento con oneri di rimborso a carico del bilancio regionale per far fronte alle esigenze di liquidità determinate dal Covid 19.

    Le riscossioni crollano

    Le riscossioni delle entrate in conto capitale sono pari, sul totale delle entrate del 2021, solo all’1,5% rispetto all’11,1% del 2016. Il dato dell’anno in corso di conclusione, anche se parziale, rende in ogni caso ancora più evidente la difficoltà di riscossione dei contributi a rendicontazione. Il suo ammontare desta al momento forti preoccupazioni, soprattutto se rapportato al livello dei pagamenti. La riscossione delle entrate in conto capitale è passata da 579,5 milioni di euro nel 2016 a 58,1 milioni nel 2021.

    Evasione fuori controllo

    L’altro fenomeno da ricondurre ancora sotto controllo è l’elevato livello di evasione fiscale, che riguarda innanzitutto le tasse automobilistiche. Ogni anno vengono inviati in Calabria oltre 250.000 accertamenti, per un valore approssimato pari circa al 33% del tributo dovuto (180 milioni di euro).


    Nonostante le azioni attivate per il recupero, resta circa un 20% di introiti fiscali che non vengono incassati dalla Regione Calabria per le tasse automobilistiche. La situazione sta andando a peggiorare: nel 2021 le riscossioni spontanee ammontano a 91 milioni di euro, rispetto ai 123,3 milioni di euro del 2018. Per gli altri tributi regionali la situazione è meno preoccupante, ma non certo tranquillizzante perché i soggetti passivi sono inferiori di numero e si tratta prevalentemente di persone giuridiche.

    Gestione patrimoniale: una catastrofe

    Il patrimonio regionale costituisce un altro fronte aperto di dimensioni significative. A fronte di 37 atti di concessione, di cui 10 a titolo gratuito e 27 a titolo oneroso, si registra un introito annuo per la Regione di 31.661 euro. Non è un errore di battitura: trentunomilaseicentosessantuno euro. Sembra una barzelletta, ma le cose stanno proprio così.

    Per sole otto concessioni sono stati versati i canoni dovuti, per 6 è stato emesso un decreto di risoluzione con contestuale pagamento degli arretrati, per altre 6 è stato avviato lo stesso procedimento, mentre per altre 7 sono in corso gli accertamenti sui pagamenti effettuati.

    Il settore demaniale idrico incassa 2 milioni di euro per 22 concessioni di sorgenti, 373 concessioni di pozzi, 101 concessioni per derivazioni di acque superficiali, 65 concessioni di acque demaniali. A fronte dei beni assegnati in gestione a privati, non pare proprio di poter dire che i concessionari siano stati posti sul lastrico dall’esoso esattore regionale calabro.

    Contenzioso e pignoramenti peggiorano il quadro

    Poi c’è il capitolo dolente del contenzioso. Al 31.12.2020 la Regione ha accantonato un fondo rischi per potenziali soccombenze pari a 136,6 milioni di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente del 51%. Nel bilancio 2021 ne sono stati accantonati altri 23,1 milioni, con una previsione di ulteriori 11,2 milioni per ciascuna successiva annualità del 2022 e del 2023.
    Altri 3 milioni di euro se ne vanno ogni anno per debiti fuori bilancio e per esecuzione di pignoramenti da parte di terzi. L’importo dei pignoramenti viaggia attorno ai 30 milioni di euro all’anno. Deriva in parte rilevante dalla esecutività di sentenze originate da situazioni debitorie di soggetti terzi a loro volta debitori verso la Regione Calabria.

    Le società partecipate tra liquidazioni e fallimenti

    Sono quindici le società partecipate dalla Regione Calabria: tre sono pienamente controllate con il 100% delle azioni (Ferrovie della Calabria, Terme Sibarite e Fincalabra), cinque sono in fallimento, quattro in liquidazione: sembra più un ospedale che una sistema di organizzazione economica.
    L’indirizzo della Regione consiste nel mantenere l’assetto azionario in sei casi, alienare sotto forma di cessione a titolo oneroso in un caso (Comalca scrl), seguire le procedura di liquidazione per le restanti tre ed attendere l’esito delle altre 4 procedure fallimentari.

    Concessioni-partecipate-sorical-i-calabresi
    La diga del Menta, gestita dalla Sorical, società partecipata della Regione Calabria
    Crescono le addizionali

    A distanza di circa undici anni dall’avvio del commissariamento, la gestione sanitaria costituisce la più grave problematica della regione, per via di un persistente debito che si mantiene ancora molto elevato, oltre che per una qualità dei servizi molto modesta.
    Per ridurre quell’enorme disavanzo è stato approvato un piano di rientro. In nome del risparmio, oltre a ricalcare i tagli già previsti a livello nazionale, ha smantellato diversi ospedali, comportando disagi alla popolazione. Ha previsto inoltre riduzioni di spese, producendo una carenza di servizi, che non garantiscono, ancora dopo undici anni, la risposta alle esigenze di salute per troppo tempo compromesse nella regione.

    Non si è nemmeno riusciti a ricostruire il quadro del contenzioso che grava come ulteriore spada di Damocle sulla già pesante situazione debitoria. Nel 2020 il 67,4% del bilancio regionale è destinato al funzionamento del Servizio sanitario, comprese le risorse derivanti dalla fiscalità regionale finalizzata alla copertura dei disavanzi.
    In considerazione del disavanzo non coperto per gli anni 2018 e 2019, portato a nuovo, si sono realizzate nel 2020 le condizioni per l’applicazione degli automatismi fiscali previsti dalla legislazione vigente. Ciò comporta l’ulteriore incremento delle aliquote fiscali di IRAP e addizionale regionale IRPEF per l’anno d’imposta in corso, rispettivamente nelle misure di 0,15 e 0,30 punti.

    La Calabria storicamente mostra uno scarsissimo indice di attrattività sanitaria, a fronte di una elevatissima mobilità passiva, determinata, principalmente, dalla carenza di servizi sanitari. Nel 2020 il saldo di mobilità sanitaria extraregionale è pari a -287,3 mln di euro, mentre quello di mobilità sanitaria internazionale è pari a -1,5 mln di euro.

    pnrr_presentazione
    La presentazione del Pnrr con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio, Mario Draghi
    Verso il Pnrr

    Questo è lo stato di forma con la quale l’istituzione territoriale si presenta all’appuntamento del PNRR. La forbice tra rendicontazione delle entrate in conto capitale e aumento delle stesse spese in conto capitale è una questione che rischia di essere deflagrante per i prossimi anni.
    La Calabria viene specificamente citata nel PNRR per diversi cantieri di attività:

    • la conversione verso l’idrogeno delle linee ferroviarie non elettrificate e caratterizzate da elevato traffico in termini di passeggeri con un forte utilizzo di treni a diesel;
    • le misure per garantire la piena capacità gestionale nei servizi idrici integrati;
    • gli interventi infrastrutturali e tecnologici nel settore ferroviario con particolare riferimento alla realizzazione dei primi lotti funzionali delle direttrici Salerno-Reggio;
    • i collegamenti ferroviari ad Alta Velocità verso il Sud per passeggeri e merci permettendo di ridurre i tempi di percorrenza e di aumentare la capacità;
    • il miglioramento delle stazioni ferroviarie nel Sud;
    • il rafforzamento delle Zone Economiche Speciali (ZES) mediante una riforma che punti a semplificare il sistema di governance delle ZES e a favorire meccanismi in grado di garantire la cantierabilità degli interventi in tempi rapidi.

    Trecento milioni di euro dovrebbero inoltre essere assegnati alla Calabria per interventi destinati a migliorare le infrastrutture sanitarie. Una cifra sostanzialmente identica spetta alla Calabria per interventi per la mobilità sostenibile e per il miglioramento della qualità nelle ferrovie regionali. Si tratta di un volume di investimenti di estremo rilievo in settori dove la debolezza competitiva della Calabria oggi genera scenari che non consentono di liberare adeguate energie per lo sviluppo del territorio.

  • Sistema Palamara, il ruolo dei Pm di Castrovillari e Paola

    Sistema Palamara, il ruolo dei Pm di Castrovillari e Paola

    Hanno «trasgredito le regole» e «prodotto una grave lesione dell’affidamento che l’ordinamento e la collettività necessariamente devono riporre in coloro che sono chiamati a svolgere quella funzione costituzionalmente prevista». Le motivazioni della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con cui vengono sospesi 5 ex membri togati dello stesso Csm – due dei quali in forza a tribunali calabresi – ripercorrono il filo della cena del maggio 2019 all’hotel Champagne di Roma, quando si decisero le sorti del successore di Giuseppe Pignatone alla Procura di Roma.

    In lizza per quella nomina, ballavano, tra gli altri, i nomi di Francesco Lo Voi, a capo della procura di Palermo, Giuseppe Creazzo, Procuratore capo a Firenze con un passato importante nella trincea di Palmi e Marcello Viola, procuratore generale nel capoluogo Toscano, che fu indicato come favorito.

    Due magistrati in forza ai tribunali calabresi

    I cinque togati finiti davanti alla disciplinare – Corrado Cartoni, Paolo Criscuoli, Gianuigi Morlini e i “calabresi” Luigi Spina ex Pm a Castrovillari e Antonio Lepre ai tempi sostituto procuratore a Paola – assieme all’ex presidente dell’Associazione nazionale Magistrati, Luca Palamara, all’ex ministro Lotti e al parlamentare dem Cosimo Ferri, furono intercettati dal trojan installato dagli investigatori che indagavano sul cosiddetto “sistema Palamara”, mentre in una saletta appartata di un albergo romano, decidevano di una delle nomine più pesanti in seno a tutta la Magistratura italiana.

    Le motivazioni della sezione disciplinare del Csm

    Decisioni che sarebbero state prese su input dell’ex presidente dell’Anm che avrebbe agito per motivi di vendetta e interesse personale. Il capo del presunto gruppo di potere in grado di movimentare le nomine dei magistrati come fossero pedine su una scacchiera è stato riconosciuto in Palamara. Che è stato già radiato dalla magistratura e sotto processo a Perugia con l’ipotesi di corruzione. La commissione disciplinare del Csm ha certificato nelle oltre 100 pagine di motivazioni di come i cinque togati sospesi dalla funzione agissero «per interferire in segreto sulla libera formazione del convincimento dei componenti del Csm rimasti estranei alla discussione, come pure dei candidati al posto di Procuratore della Repubblica di Roma, in riferimento a loro eventuali revoche delle domande presentate».

    Il pm considerato «longa manus» di Palamara

    Ritenuto «pienamente responsabile» di quanto gli viene imputato, l’ex pm di Castrovillari Luigi Spina in quota Unicost, è stato sospeso per 18 mesi dalle funzioni di magistrato. È considerato dal tribunale disciplinare come «longa manus» di Luca Palamara. Sarebbe lui, sottolineano i magistrati «ad avere maggiore intensità di rapporti con il dottor Palamara, con il quale manifesta una piena e consapevole comunione di intenti».

    E sarebbe sempre Spina che – aveva detto in sede requisitoria il procuratore generale Gaeta – si può individuare come «l’uomo di fiducia in grado di veicolare all’interno del Consiglio i suoi desiderata». Tutte mosse, in questo quadro desolante passato alla storia come “mercato delle nomine”, che sarebbero state messe in opera asservendosi «alle intenzioni di chi aveva un concreto interesse nella scelta dell’organo requirente presso il quale era stato indagato e imputato».

    «Adesione agli illeciti propositi» 

    «Piena partecipazione e effettiva e consapevole adesione agli illeciti propositi» ci sarebbe stata anche da parte di Antonio Lepre, pm in forza al tribunale di Paola ed ex consigliere Csm in quota Magistratura Indipendente, sospeso per 18 mesi dalla funzione. Secondo i giudici della disciplinare, nel comportamento di Lepre, che era relatore per la nomina del nuovo procuratore capo di piazzale Clodio, «era evidente non solo la consapevolezza e volontà di adottare un comportamento connotato da un notevole grado di scorrettezza, ma anche di agire, peraltro in violazione dell’obbligo di segreto e del dovere di riserbo, turbando deliberatamente la trasparente e libera formazione della volontà dell’organo al quale apparteneva».

  • La Calabria che a Pil supera solo la Basilicata

    La Calabria che a Pil supera solo la Basilicata

    La giunta regionale ha licenziato il Documento di Economia e Finanza, che costituisce la base di riferimento per delineare le politiche economiche e finanziarie che il nuovo Governo regionale intende realizzare nel triennio 2022-2024. Per garantire alla Calabria adeguate linee di sviluppo e di crescita economica. Dalla Sanità, il cui governo dopo tanti anni è stato restituito ai calabresi con l’assegnazione da parte del governo del ruolo di commissario al presidente della Regione, al Turismo e alla tutela dell’Ambiente, dall’emergenza idrica allo sviluppo delle imprese, dalle politiche attive per il lavoro alle emergenze della mobilità e delle infrastrutture.

    La sfida più importante che va affrontata, e che costituisce la leva decisiva di politica economica regionale, è rappresentata dalla nuova programmazione dei Fondi Comunitari 2021-2027, e soprattutto dall’attuazione del Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza.

    Il Pil della Calabria perde il 9,6 % nel 2020

    La pandemia lascia in eredità alla regione la peggiore recessione mai sperimentata in tempo di pace, con una caduta del PIL nel 2020 di 9,6 punti percentuali, il valore più elevato tra le regioni meridionali. Ma non è solo questo crollo imputabile alla crisi pandemica che ha segnato le vicende economiche della Calabria nel corso dei primi due decenni del ventunesimo secolo.

    pil-calabria-calabria-i calabresi
    Il porto di Gioia Tauro

    Già negli anni precedenti la crescita era molto più rallentata rispetto alle altre regioni meridionali. Nel periodo 2001-2007 il tasso di crescita annuale cumulato del PIL è stato del 3,1%, inferiore a quello del Mezzogiorno (+4,0%) e delle altre ripartizioni territoriali e della media nazionale che ha registrato un incremento del 8,1%.

    In particolare, la crisi economica ha affondato l’andamento del Pil della Calabria segnando una flessione tra il 2008 ed il 2014 del 14,3% (la media nazionale è stata di -8,5%), sensibilmente superiore anche rispetto al Mezzogiorno (-12,6%). Tra il 2008 ed il 2014 la Calabria ha registrato un vero e proprio crollo degli investimenti, pari al 42,5%, in uno scenario comunque negativo per l’intero Paese (-29%).

    Pochi occupati tra i giovani laureati

    Segnali positivi erano apparentemente emersi nel periodo 2015-2018. Durante questa fase la Calabria registrava, seppur di poco, valori positivi (+0,6%). Ma si trattava di un dato non confortante se confrontato con il resto del Paese: era significativamente inferiore sia rispetto al Mezzogiorno (+2,5%) sia rispetto all’Italia (+4,8%).
    Non esiste insomma indicatore economico, nei primi due decenni del ventunesimo secolo, nel quale la Calabria non registri un andamento peggiore non solo rispetto all’andamento dell’Italia, ma anche a quello del Mezzogiorno. Questo dato strutturale significa che non si può procedere per modifiche incrementali, o per leggere correzioni di rotta.

    Secondo gli ultimi dati di Eurostat, inoltre, la Calabria si posiziona tra le peggiori per occupazione di giovani laureati tra i 20 e i 34 a tre anni dal conseguimento del titolo: risulta occupato appena il 37,2%, dato più basso dell’intero contesto regionale europeo. La media nazionale è del 59,5% a fronte dell’81,5% della media Ue a 27. La demografia segue gli stessi trend: ne abbiamo parlato recentemente in un altro articolo.

    Un export che vale solo l’1,4 % del Pil

    L’economia calabrese si presenta come un sistema chiuso, poco orientato agli scambi con l’estero. L’export calabrese, infatti, rappresenta in modo strutturale appena l’1,4% del PIL regionale, contro il 12,4% del Mezzogiorno e il 26,6% della media nazionale.
    Siamo in presenza di una economia asfittica, poco densa nella sua articolazione manifatturiera, con caratteristiche di impresa squilibrate verso la piccola e piccolissima dimensione, a scarso tasso di innovazione, con mercati prevalentemente locali o limitrofi.
    Anche nell’anno in corso, mentre il Paese fa registrare una ripresa economica più significativa rispetto alle altre nazioni dello spazi economico comunitario, la Calabria cresce meno.

    La Calabria supera solo la Basilicata

    Nel 2021 si stima che la Calabria registri un aumento del PIL del 2,1%, aumento più basso di tutta la penisola, con il Mezzogiorno che cresce del 3,3% e l’Italia del 4,7%.
    La tendenza non varia anche nel 2022, sulla base delle previsioni che vengono formulate dai modelli econometrici: la Calabria, con una crescita del 3% precede solo la regione Basilicata (mezzogiorno +3,2 e Italia +4). La ripresa calabrese avanza con un passo meno veloce rispetto alle altre regioni. Senza un colpo di reni, ed una decisa inversione di tendenza, il percorso di marginalizzazione e declino della Calabria non è destinato a modificarsi.

  • Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    Un palazzo sui resti romani? Nella Vibo dei massoni si può fare

    La grande storia calpestata, ricoperta di cemento e connivenze, passa per i contatti imbarazzanti tra un presunto faccendiere del clan Mancuso, Giovanni Giamborino, e alcuni archeologi con cui avrebbe avuto una certa confidenza e da cui avrebbe ricevuto più di un consiglio per ottenere l’ok ai lavori di un palazzo costruito ricoprendo una strada e una villa di epoca romana [LEGGI QUI LA PRIMA PARTE]. Succede – è successo – a Vibo, piccolo capoluogo calabrese considerato da molti una capitale di affari e intrecci non proprio trasparenti. Se lo siano o meno quelli al centro di questa vicenda spetta ai giudici stabilirlo, ma ciò che emerge dalle carte di “Rinascita-Scott” è quantomeno sorprendente per tanti cittadini che conoscono per esperienza diretta le lungaggini e le pastoie burocratiche cui si va incontro, magari giustamente, quando si ha a che fare con vincoli e Soprintendenze.

    La firma mancante

    Per Giamborino non era così: il finale della piccola storia di cui è protagonista è noto e non è per niente lieto. È riuscito a ottenere l’autorizzazione che cercava dopo aver messo in moto conoscenze e «amicizie» che vanno anche oltre i rapporti intrattenuti con Fabrizio Sudano, all’epoca funzionario della Soprintendenza e oggi al vertice dello stesso organismo che ha competenza su Reggino e Vibonese, e Mariangela Preta, archeologa che ha collaborato da esterna con la Soprintendenza e che oggi dirige il Polo museale di Soriano. Né Preta né Sudano sono indagati, ma gli inquirenti osservano come si dedichino all’iter che interessa a Giamborino. Che a un certo punto rischia di allungarsi perché serve una firma di Gino Famiglietti, già alto dirigente del Ministero e per un periodo anche alla guida della Soprintendenza calabrese, che però non è sempre nella regione e ha tante cose di cui occuparsi.

    Cambio della guardia, progetto sbloccato

    «Ma cerco di arrivarlo io a questo, a questo pagliaccio … perché io lo arrivo, a Roma lo arrivo non è che non lo arrivo…», dice il presunto faccendiere riferendosi proprio a Famiglietti. Che poi riesce effettivamente a incontrare proprio nel suo cantiere dopo aver contattato, in una triangolazione che ricorre spesso nelle intercettazioni, sia Preta che Sudano. L’alto burocrate non rimane però alla guida della Soprintendenza della Calabria. E dopo la sua sostituzione Giamborino riesce ad ottenere, tramite «interessi nonché interventi criminali e di soggetti appartenenti alla massoneria vibonese – scrive il Rosquanto non potrebbe legalmente avere: lo sblocco del progetto e la prosecuzione dei lavori».

    «Mi hanno detto che è un fratellino»

    Preta gli dice al telefono di essere a conoscenza di tutto: «Io so tutto e so anche una notizia più bella … che Famiglietti si è levato dalle palle …(ride) … te lo dico proprio in francese…». La guida della soprintendenza passa a Salvatore Patamia (anche lui non indagato), la cui nomina viene accolta con una certa soddisfazione. Preta rassicura Giamborino dicendo che «la firma» è questione di giorni e che non c’è più bisogno di mettere in mezzo terze persone. Ma l’impiegato pensa comunque a una sua personale corsia preferenziale: «Io ho il modo perché è intimo amico di un mio carissimo amico Patamia». E per chiarire il concetto dice: «Adesso m’hanno detto che è un fratellino, capito, quindi io già mi ero mosso e non ci sono problemi». Aggiungendo: «Se tu hai bisogno di questo qua, non ci sono problemi hai capito?». Preta risponde ridendo: «Questo è il dato in più che ci serve».

    Il compasso, uno dei più noti simboli massonici
    Il Gran Maestro

    Quando un’altra persona gli chiede chi fosse il «carissimo amico» Giamborino risponde che si tratta di «don Ugo». Secondo gli inquirenti è Ugo Bellantoni, inizialmente indagato ma poi uscito pulito dall’inchiesta con un’archiviazione, già responsabile dell’ufficio tecnico del Comune di Vibo e Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d’Italia-Palazzo Giustiniani. Secondo la Dda sarebbe lui a procuragli un appuntamento con Patamia al Parco Scolacium di Roccelletta di Borgia. Mentre ci va, Giamborino scherza con la persona che è con lui in auto: «Lo vedi quanto sono precisi la massoneria? Quanto conta… La massoneria è come la maffia … (ride) …». L’incontro viene in realtà rinviato all’indomani, ma ciò che conta è il risultato: in pochi mesi, da gennaio a maggio 2016, Giamborino risolve i suoi problemi e arriva l’agognata firma sul progetto di variante.

    Cemento sui resti romani

    Se ci fossero dubbi sulle intenzioni dell’impiegato rispetto ai resti di epoca romana è lui stesso a spazzarli via: «Una volta che io vado là… Con mezzi… E sopra mezzi… Che devo vedere di nascondere già quelle muraCon quella cazzo di strada… Buttare il solaio… Per fare i lavori là…». E ancora: «La getto là sotto e apparo con la brecciadi modo che non si veda la strada che siccome deve venire la Soprintendenza… di modo non la vede per niente quella strada (…) Una volta che togliamo la strada poi dieci cm di terra dobbiamo togliere e la gettiamo là dentro stesso e le pietre le buttiamo là dentro … li mettiamo da un lato no? E dall’altro lato riempiamo di terra … poi … e poi gli gettiamo 4 5 6 carrettate di breccia per completarlauna volta che gli metto la breccia glielo copriamo là sotto e non vedono niente poi … vedono tutto paro loro … hai capito?».

    I resti di epoca romana catalogati

    «Ho paura della Sopritendenza»

    Nella stessa proprietà, conferma Giamborino, ha trovato «quella strada del 300una strada del 300… oggi ho buttato un muro… se mi beccano mi fanno rovinato… mi rompeva il cazzo quel cazzo di muro mi stavano sui coglioni… e l’ho buttato… adesso ho paura della soprintendenza». Commentando le tante tracce di storia che emergono in quella parte di Vibo l’impiegato dice che lì «c’è il tesoro più importante del mondo… è documentato e tutto… e infatti questo qua… qua dovevano fare un palazzo è stato fermo… è fermo da cinquant’anni… il mio da trenta… questo da cinquanta… io sono riuscito a svincolarlo… nessuno gl’altri sono riusciti a svincolarlo…».

    L’archeologa scomoda

    Per lui, come raccontato dal maggiore del Ros Francesco Manzone nell’aula bunker, c’era solo un unico, grande ostacolo. Una professionista, Maria Teresa Iannelli, che allora era responsabile della Sovrintendenza. «Per 25 anni non mi ha dato retta, non mi ha neanche ricevuto», dice sdegnato. E lei fino a poco prima di andare in pensione si è sempre messa di traverso, non ha mai dato autorizzazione per consentire che il cemento ricoprisse le tracce della grande storia. Ma il presunto faccendiere dei Mancuso è riuscito lo stesso ad aggirare l’ostacolo risalendo le gerarchie dei Beni culturali. «Io tramite Roma … Tramite il ministero … Tramite tutti … Sono riuscito a parlare con loro …».

    2/continua

  • La città unica del Crati per superare i campanili dell’area urbana

    La città unica del Crati per superare i campanili dell’area urbana

    «La città è il più importante monumento costruito dall’uomo», ha scritto Vittorio Gregotti, ma di città non si parla da anni nel dibattito su Cosenza-Rende, se non in forme e modi assolutamente generici.
    Per l’esteso sistema policentrico che si distende per chilometri nella Valle del Crati, si organizza come sistema lineare lungo il tracciato autostradale da Sud verso Nord e viceversa, interessa le colline, lambisce e raggiunge i centri della memoria storica, da anni si scrive, si dice, si parla di “Area urbana”. Ovvero un generico, indefinito agglomerato di centri, medi e piccoli, che possono, più o meno, essere assimilati ad una informe estensione di edifici e strade, che in questa definizione, riduttiva, è come se non avessero confini e identità.

    Unical, la terza città dell’area urbana

    Invece, ogni città nasce con un suo “genius Loci”, così che il rispetto di questa origine è dirimente nella continuità tra storia e modernità. Negarne le matrici, annullandole in geografie improbabili e irriconoscibili è negarne passato e futuro.

    città-unica-cosenza-rende-i calabresi
    L’Università della Calabria

    Nel caso di Cosenza e Rende, per citare le due città più estese dentro una quantità di altre piccole città coinvolte in questi “filamenti”, ci troviamo nel territorio provinciale più ampio della regione, oggi esito di una compulsiva attività costruttiva, con conseguente dilagante urbanizzazione il cui disordine ha disegnato insediamenti a macchia di leopardo. Con una terza città, la più importante per prestigio e credito internazionale, ma che viene anche questa spesso rimossa, e che pure esiste, con una sua identità e valore architettonico, ovvero la città della ricerca, il Campus Unical, con una frequenza giornaliera di almeno 30mila utenti e relazioni nazionali e internazionali.

    Una città-territorio-policentrica

    Per questo insieme scomposto, esploso, fatto di una abbondante quantità di edilizia anonima, strade, luoghi diversi tra loro, periferie estese, assenza di qualità diffusa, mancanza di centralità originali, parlare di città – e non di area urbana – è far emergere il tema vero su cui fondare una visione di futuro. Tra conflitti e potenzialità, come la quantità di differenti forme insediative sparse lungo un raggio di almeno trenta chilometri, che di fatto delineano un nuovo modello urbanistico, che sfugge alla tradizionale pianificazione, e che è fatto di moderne e incompiute strutture urbane. Qui non siamo davanti ad una semplice “area urbana”, ma dentro una città territorio-policentrica, articolata, complessa, ramificata, socialmente diversificata, economicamente differenziata.

    La nuova idea di città post-pandemia

    Se insisto, da tempo, su questa sottile, ma fondamentale differenza, è perché la definizione di città, più che mai oggi, necessita di un aggiornamento dopo l’insieme di fenomeni significativi, che nel corso di almeno cento anni, dall’avvento dell’urbanistica moderna, ne hanno modificato senso e funzione.
    E città oggi è l’esito dei recenti, moderni processi di crescita e formazione, non sempre pianificati, anzi spesso assenti, città che nasce e si sviluppa su polarità economiche, culturali, sociali, politiche e che dopo la pandemia, ha assunto un carattere ancora più marcato e in progressiva mutazione.
    La città post-pandemia, per esempio chiede già alcune scelte precise: meno traffico, spostamenti meno inquinamenti, meno costruito e più verde, meno chiusura sociale e più apertura relazionale, più cultura, più attenzione ai valori e ai servizi.

    Cosenza-Rende? Meglio la città del Crati

    Ed ecco, per esempio, su queste basi, su tale riconoscimento di ruoli, di pesi territoriali e di gravitazioni, di vere posizioni geopolitiche tra storia e modernità, sul senso di partecipazione dei cittadini e di tutte le forze attive, che si può aprire la discussione sulla fusione tra i diversi centri che fanno corona al capoluogo Cosenza. Perché non solo di una relazione “privilegiata” tra le due big city, Cosenza e Rende, si tratta, ma dell’articolata città-territorio, più ampia e complessa citata, che se non riconosciuta nella forma urbanistica, nelle nuove e articolate morfologie odierne, e nelle dimensioni che ha assunto in circa cinquant’anni, ovvero quello della città estesa della Valle del Crati, resterà incapace di sviluppare qualsiasi forma di collaborazione, nonché di fusione tra centri, che avverrebbe in modi del tutto semplicistici e solo amministrativi.

    E a ben guardare il Crati, “espulso” da tempo dalle vite di città e cittadini, che lambisce naturalmente da sempre tutti gli insediamenti, e che nella sua rete ecologica, tra affluenti e sistemi idrici minori, riguarda quasi tutti i centri, potrebbe essere l’elemento unificante e l’unico capace di garantire una vera transizione ecologica, costruendo sul suo antico e prestigioso ruolo di più grande fiume di Calabria, la città che sarebbe soprattutto la Comunità del Crati.

    Evitare la sommatoria Corigliano-Rossano

    Ma quale ruolo la nuova, futura Città del Crati deve avere nel contesto regionale, meridionale e nazionale, una volta messe insieme le diverse entità, ora separate amministrativamente, potrà garantirlo solo una visione unitaria, proiettata nel futuro di almeno trent’anni, capace di dare respiro, slancio e iniziative urbane per superare le questioni numeriche e puntare alla qualità.

    città-unica-corigliano-rossano-i calabresi
    La città di Corigliano-Rossano

    Anche attraverso la somma, positiva, delle diverse identità storiche che comporranno lo scenario futuro, su cui si decideranno scelte determinanti che vanno dalla mobilità, agli spazi di relazione, a quelli della società e dell’economia, della cultura.
    Insomma, ciò che è successo a Corigliano-Rossano, dove è mancata persino la creatività di trovare un nome-acronimo comune che potesse rendere identificabile la nuova città, e dove la fusione è stata fatta a freddo, per meri calcoli amministrativi e conseguenti vantaggi (forse solo “per qualche dollaro in più”!), non dovrebbe accadere a Cosenza-Rende, alla Città del Crati, pena un impoverimento e non un arricchimento.

    Una mobilità non inquinante per Cosenza-Rende

    Rifondare una nuova città in Calabria, da città esistenti, in un momento storico come questo, in piena fase di transizione ecologica, vuol dire uscire dal vecchio modello quantitativo e muoversi su quello qualitativo. Vuol dire sapere tenere insieme la complessa rete di realtà che solo un progetto di mobilità di rango metropolitano, non inquinante, può garantire, vuol dire scelte coraggiose, lungimiranti, ambiziose, ma fondate, che purtroppo non si intravedono nei programmi delle attuali classi di amministratori.

  • Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    Cemento sui resti romani, le intercettazioni che imbarazzano la Soprintendenza

    La piccola storia vibonese che passa velocemente per le cronache locali è piena di episodi su tombaroli che, nascosti di giorno nei garage o nottetempo in qualche giardino, scavano buche e cunicoli in cerca di reperti archeologici da trafugare. Stavolta i resoconti di giudiziaria restituiscono invece una vicenda all’incontrario: un presunto factotum di potenti boss che nasconde, sotto una colata di cemento e collusioni, dei resti di epoca romana di grande valore storico. Per costruire in pieno centro a Vibo, in area vincolata, un palazzone in stile moderno con appartamenti e spaziosi magazzini da piazzare sul mercato.

    cemento-sui-resti-romani-i calabresi
    Il palazzo costruito sui resti di una villa romana
    Il cemento tra le pieghe di Rinascita Scott

    L’episodio era quasi passato inosservato a dicembre del 2019 tra le pieghe dell’imponente mole di documenti dell’inchiesta “Rinascita-Scott” ma, di recente, l’ha riportato alla luce un investigatore dei carabinieri già in servizio al Ros di Catanzaro. Deponendo in aula bunker durante il maxiprocesso istruito dal pool di Nicola Gratteri, il maggiore Francesco Manzone – scrive il giornalista Pietro Comito su LaC raccontando l’udienza – dice che il suo reparto aveva allestito «un vero e proprio Grande fratello» attorno agli uomini di fiducia del superboss Luigi Mancuso. Uno di questi è il presunto faccendiere al centro della vicenda: Giovanni Giamborino, considerato uno ‘ndranghetista battezzato nella frazione Piscopio e cugino dell’ex consigliere regionale Pietro. Per la Dda è un elemento chiave dell’intera inchiesta: avrebbe un ruolo di primo piano negli affari e nelle strategie della cosca che da Limbadi domina il Vibonese e non solo.

    La storia sotto quel cemento
    cemento-sui-resti-romani-i calabresi
    Una parte dello stabile in costruzione sui resti di epoca romana

    Il palazzone moderno è suo: ne avrebbe messo insieme la proprietà unendo più particelle, fin dagli anni ‘80, grazie ai soldi di tre fratelli ai vertici della famiglia Mancuso (Antonio, il defunto Pantaleone «Vetrinetta» e, appunto, Luigi, il «supremo»). Sotto quel cemento ci sono i resti di una strada e di una villa romana che Giamborino ha ricoperto, pur essendo un luogo sottoposto a vincolo archeologico, grazie ad una successione impressionante di presunte connivenze che passa per la Soprintendenza, coinvolge massoni di alto rango e, dal Comune di Vibo, arriva fino ai palazzi ministeriali. A raccontarlo, stavolta, non sono i pentiti, ma lo stesso factotum che, pur essendo un semplice impiegato comunale, dimostra di avere conoscenze ben addentrate nel mondo dei colletti bianchi. E non sapendo di essere intercettato, ne parla moltissimo.

    L’incontro con il soprintendente

    A partire da gennaio 2016 Giamborino si muove per ottenere dalla Soprintendenza archeologica l’approvazione di una variante «necessaria» per completare i lavori e poter vendere almeno parte del fabbricato. Il Ros monitora tanti contatti tra Giamborino e Mariangela Preta, archeologa «di fiducia dell’impresa» che effettua i lavori, e con un funzionario all’epoca in servizio alla Soprintendenza di Reggio, Fabrizio Sudano. Sia Preta che Sudano non sono indagati. La prima oggi dirige il Polo museale di Soriano e spesso ha collaborato da esterna con la Soprintendenza, il secondo dal 15 novembre scorso è il nuovo soprintendente per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, mentre nei mesi precedenti era stato alla guida di quella di Cosenza e, ad interim, anche di quella di Catanzaro e Crotone.

    Il rapporto tra Giamborino e Sudano

    Dai brogliacci dell’inchiesta depositati agli atti del processo emerge quello che per gli inquirenti è un «rapporto di confidenza» tra Giamborino e Sudano, in una triangolazione di contatti che coinvolge quasi sempre anche Preta. A un certo punto serve una firma da parte di un alto burocrate del Ministero dei beni culturali che, in quel momento, ricopre anche l’incarico di soprintendente della Calabria. Si tratta di Gino Famiglietti. È Preta a spiegare a Giamborino che ruolo abbia, suggerendogli anche di chiamare Simonetta Bonomi – oggi soprintendente del Friuli Venezia Giulia – che «lo conosce».

    I resti di epoca romana catalogati
    «Vado e trovo Franceschini, il ministro proprio»

    Il passaggio che va fatto con Famiglietti rischia però di comportare un’ulteriore perdita di tempo, allora Giamborino dice alla stessa Preta che «se ci sono problemi vado e chiama a Franceschini…vado e trovo Franceschini». Il presunto fedelissimo di Luigi Mancuso, quindi, non nasconde l’intenzione di rivolgersi «ad amicizie» non meglio specificate «in modo – annotano gli inquirenti – da poter raggiungere gli uffici ministeriali». Lo ribadisce parlando con il titolare dell’impresa di costruzioni: «Io faccio salti mortali, io se questo qua non me la firma giovedì, io in settimana salgo a Roma…ah ah io vado e trovo a Franceschini, il ministro proprio…non è che mi mancano le cose, o mi mancano le amicizie».

    Serve un’autorizzazione per quel cemento

    A un certo punto nei colloqui con Sudano spunta addirittura una relazione redatta da Giamborino, o da chi per lui, che il funzionario, garantisce, avrebbe fatto propria. «Allora ti mando quella carta – dice Giamborino – finta che l’hai fatta tu la relazione». Il funzionario risponde: «Questa mandamela che mi serve…». Aggiungendo: «Quella la faccio mia, che io faccio l’istruttoria come se ho notato la differenza del progetto e le cose positive sono queste…io più di quello…». In seguito Sudano ribadisce: «La relazione che ha fatto, che hai fatto tu, che ha fatto non lo so l’ingegnere, sulle cose positive rispetto al progetto vecchio, l’ho fatta già mia, che gliela spiego io, molte cose non gliele spiegherò neanche, comunque non ti preoccupare che faccio in modo da farti avere un ok».

    1/continua