Categoria: Fatti

  • Rende, la poltrona “maledetta” che affossa i sindaci

    Rende, la poltrona “maledetta” che affossa i sindaci

    Non volano elicotteri né abbondano i posti di blocco, che funzionano soprattutto per le normali esigenze di controllo del traffico e della sua sicurezza.
    L’ultima volta che si è registrata un’abbondante presenza delle forze dell’ordine è stata a novembre 2012, nei giorni e nelle ore immediatamente precedenti l’arresto di Ettore Lanzino, primula per eccellenza della ’ndrangheta cosentina. A parte questo, Rende sembra la classica città tranquilla.
    Già: Rende non è Saigon né Chicago. Tuttavia, ciò non toglie che la città modello, raro esempio di sviluppo urbano in cui estetica ed efficienza, ordine e crescita sono state a lungo in equilibrio quasi perfetto, ha tanti problemi e ne genera altrettanti.

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    Ettore Lanzino, uno dei boss storici della ‘ndrangheta cosentina

    Il caso Manna

    Tengono banco nelle cronache le notizie sul recente provvedimento cautelare con cui il Tribunale del riesame di Salerno ha sospeso Marcello Manna, il sindaco di Rende, dall’esercizio dell’avvocatura per un anno.
    Ma questo provvedimento, per ora, è “platonico”: contro questa decisione del Riesame hanno fatto appello sia la Procura di Salerno, che per Manna aveva chiesto la detenzione cautelare in carcere, sia la difesa del sindaco, che ovviamente mira ad azzerare tutto.
    Non è il caso di entrare nel merito, perché su vicende delicate come questa non si ragiona come in curva sud. Anzi, è doveroso il massimo del garantismo.

    Il quinto amministratore sotto le lenti dei magistrati

    A livello giudiziario, la decisione del Riesame risulta molto “salomonica”: il gip ha rigettato la richiesta dei domiciliari perché, a suo giudizio, non sussistono esigenze cautelari. Detto altrimenti, perché Manna non scappa e perché non può più inquinare le prove, a favore e contro, che evidentemente sono già in saldo possesso degli inquirenti.
    Il merito, ovvero l’eventuale pronuncia sull’innocenza o meno del sindaco, non è assolutamente in discussione.
    Detto questo, Marcello Manna è il quinto amministratore di Rende finito sotto le lenti della magistratura. Si badi bene: nell’inchiesta della Procura di Salerno non c’è nulla che riguardi l’operato di Manna come sindaco. Però c’è un dato storico che proprio non si può tacere.

    Il boss e i due politici

    Quando fu arrestato Ettore Lanzino, Marcello Manna – che comunque faceva manifestazioni pubbliche coi Radicali ed era vicino a quell’area socialista a cavallo tra centrodestra e centrosinistra – non pensava alla carriera politica e, forse, non immaginava che sarebbe diventato sindaco di Rende.
    Ma si limitava a fare, con la provata bravura, il difensore di indagati e imputati eccellenti. Anche di Lanzino, che ha continuato a difendere quasi fino al 2018, quando fu rinviato a giudizio Sandro Principe.
    Con questo riferimento storico, non si vuol alludere a nulla. Al più, si coglie una coincidenza “suggestiva” troppo forte per passare in secondo piano.

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    Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

    Il gotha nei guai

    L’inchiesta “Sistema Rende”, iniziata all’indomani dell’arresto di Lanzino, è esplosa nel 2016, con l’arresto di Sandro Principe, che fino a quel momento era comunque considerato un papà di Rende.
    Le accuse, che si focalizzavano sulle Provinciali del 2009, erano di corruzione elettorale, corruzione in atti amministrativi e concorso esterno in associazione mafiosa.
    Discorso simile per Umberto Bernaudo, sindaco di Rende dal 2006 al 2011 e Pietro Ruffolo, ex assessore della Giunta Bernaudo.
    Principe, è doveroso ricordarlo, è stato prosciolto dall’accusa di corruzione elettorale, Bernaudo e Ruffolo, invece, sono stati prosciolti da quella di corruzione in atti amministrativi.

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    Umberto Bernaudo, ex sindaco di Rende

    C’è un altro big di Rende coinvolto nella vicenda, sebbene non per fatti di mafia: è l’ex assessore comunale e consigliere provinciale Giuseppe Gagliardi, rinviato a giudizio “solo” per corruzione elettorale.
    In questa vicenda, c’è un’altra vittima, per fortuna solo dal punto di vista politico: Vittorio Cavalcanti, altro brillante avvocato e sindaco di Rende dal 2011 al 2013. La sua amministrazione, l’ultima di centrosinistra e l’ultima legata al carisma di Sandro Principe, naufragò mentre la Commissione d’accesso antimafia spulciava le carte del municipio.

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    Vittorio Cavalcanti è stato sindaco di Rende

    Chi tocca quella poltrona…

    Ricapitoliamo: Manna è sotto inchiesta per la vicenda del giudice Petrini, con l’accusa di corruzione in atti giudiziari, che non c’entra un bel niente con la sua attività amministrativa.
    Questo dato lo hanno colto benissimo anche i magistrati salernitani, che hanno applicato la misura cautelare solo alla professione e non al ruolo di sindaco, creando un paradosso apparente: gli impediscono di lavorare ma non di amministrare.
    Tutti gli altri, sono stati finora travolti dal ciclone giudiziario, sul quale è doveroso il garantismo perché finora non c’è alcuna sentenza che autorizzi a pensare altro.
    Fatto sta che, dal 2011 in avanti, la poltrona di primo cittadino di Rende è diventata “pericolosa”, non foss’altro perché porta un po’ sfortuna, e la città modello si è incamminata sulla via del declino.

    Peyton Place

    Più che Saigon, Rende sembra la Peyton Place del celebre romanzo scandalo di Grace Metallous: una cittadina in apparenza tranquilla, ma piena di scandali e contraddizioni.
    Secondo i bene informati, proprio a Rende hanno trovato rifugio varie “vedove bianche” (mogli di picciotti finiti sotto lupara bianca o al 41bis).
    I più maligni sussurrano altro, per fortuna al momento senza riscontri di rilievo: dietro tante fortune edilizie e aziendali vi sarebbero capitali non chiarissimi. Ma finora l’unico sospetto confermato riguarda i call center Blue Call, con sedi in Lombardia e a Rende, “scalati” dai clan reggini. Insomma, molte cose ardono sotto le ceneri ed è difficile dire in quante di esse la classe politica abbia responsabilità reali.

    Rende ha perso colpi

    Intanto, Rende, vive una situazione politica dura: non è in dissesto come la vicina Cosenza, ma ha comunque i conti a rischio. E soprattutto, corre pericoli forti, con una buona fetta di ex amministratori sotto torchio e col sindaco attuale finito comunque in un ciclone mediatico.
    Una situazione ben diversa rispetto al decennio scorso, quando Rende ancora dava le carte e sembrava essere diventata il perno dell’area urbana di Cosenza.
    Dopo di noi il diluvio? Ancora no, per fortuna. Ma stiamo ben attenti: dalle attività giudiziarie ancora in corso potrebbe scatenarsi la classica tempesta perfetta.

  • Un arcivescovo senza cattedrale lo trovi a Catanzaro

    Un arcivescovo senza cattedrale lo trovi a Catanzaro

    «Oggi mi costa non poter fare il mio ingresso sedendomi sulla sedia episcopale in Cattedrale, è un piccolo dispiacere. Vengo da una diocesi in Puglia in cui avevo la Cattedrale chiusa per restauri, ma con la differenza che erano restauri di qualche mese, mentre qui ho capito che servirà diverso tempo. Mi sono già affacciato dall’Episcopio: è una brutta visione, chiusa e abbandonata. La voglio prendere come una sfida. Non so per quali problemi sia chiusa, li posso immaginare, ma farò di tutto perché torni a splendere».

    Cinque anni dopo

    Domenica 9 gennaio era il giorno di insediamento di monsignor Claudio Maniago nella Diocesi di Catanzaro-Squillace. Il nuovo arcivescovo metropolita non si era nemmeno presentato alle autorità cittadine e già commentava con amarezza lo stato dell’arte sulla riapertura del Duomo, attesa ormai da un quinquennio. A seguito del crollo di parte del soffitto, infatti, l’edificio è chiuso da gennaio del 2017. Cinque lunghissimi anni che, dopo una serie di indagini tecniche sulla struttura e il suo interno, non sono bastati per veder partire i lavori di messa in sicurezza e di restauro. In compenso la piazza antistante e l’entrata del Duomo stesso, recintate da pannelli, sono diventate un parcheggio di auto affastellate l’una sull’altra.

    Auto in sosta nell'area recintata
    Auto in sosta nell’area recintata

    L’anniversario saltato

    Negli ultimi giorni del 2021 ricorrevano i 900 anni dalla costruzione della Cattedrale di Catanzaro, nessuno però ha potuto festeggiare. Era il 1121 quando Papa Callisto II la consacrò dedicandola a Santa Maria Assunta ed agli apostoli Pietro e Paolo. Numerose le stratificazioni di stili che, di restauro in restauro, nel corso dei secoli ne hanno modificato l’aspetto originario. La Cattedrale di Catanzaro subì poi una ulteriore trasformazione per i pesanti danni causati dai bombardamenti degli Alleati nel 1943. A inizio 2017 il crollo e la chiusura, con i lavori di somma urgenza per rimuovere l’impianto del campanile e l’area recintata e interdetta al pubblico.

    Le indagini sulla Cattedrale

    La Cattedrale di Catanzaro
    La Cattedrale di Catanzaro

    Il segretariato regionale del Ministero della Cultura, diretto da Salvatore Patamia, ha commissionato una serie di indagini conoscitive. Prima di avviare il restauro, ditte specializzate, dipartimenti universitari, tecnici e professionisti hanno dato il loro parere tecnico e scientifico sulle condizioni della chiesa, predisponendo la documentazione ed effettuando i rilievi necessari a far sì che l’edificio riapra. Nel frattempo si è arrivati all’estate scorsa, quando Invitalia ha finalmente pubblicato un bando per i lavori di restauro. Solo che riguarda solo la loro progettazione per il momento.

    L’attesa si allunga

    A settembre sono scaduti i termini per presentare le offerte. Dall’ufficio stampa di Invitalia sostengono che «nelle prossime settimane» dovrebbe arrivare anche l’aggiudicazione definitiva, salvo ricorsi, con la scelta dei progettisti. Il soggetto vincitore avrà 135 giorni per consegnare gli elaborati finali, poi toccherà rimettersi in attesa. A quel punto, infatti, bisognerà aspettare un nuovo bando, quello per affidare i lavori di restauro veri e propri. In sostanza, sembra che nella migliore delle ipotesi i cantieri apriranno a fine anno, quindi per riaprire il Duomo al pubblico servirà altro tempo. A pagare gli interventi di restauro saranno la Regione e il Ministero della Cultura, che hanno stanziato oltre 6 milioni di euro. Il Vaticano, invece, non pare nutrire grande interesse per la questione, al punto che il nuovo arcivescovo si è sentito in dovere di alzare la voce. Chi vincerà la gara, insomma, avrà gli occhi di Maniago puntati addosso.

    Niente adeguamento antisismico

    «Perché ancora non abbiamo la progettazione finale? Stiamo terminando – dice Patamia – le offerte tecniche della gara. La Cattedrale di Catanzaro – continua – sta crollando e bisogna partire dalle fondazioni, è stato fatto perciò un grande lavoro di diagnostica. Per tre mesi è stato tutto bloccato perché sono state trovate delle ossa umane all’interno della chiesa. È intervenuta la Procura: si trattava di alcuni preti sepolti lì nell’800. Non sarà possibile l’adeguamento antisismico, la struttura presentava ricostruzioni abusive e non conformi. Ma ci sarà un importante miglioramento in questo senso: la reputo una grande soddisfazione perché questo sarà un caso scuola». E le macchine parcheggiate nel piazzale antistante il Duomo di chi sono? «Per motivi di sicurezza abbiamo fatto un accordo con la Guardia di Finanza e ci mettono le loro auto».

    Quando riaprirà la Cattedrale?

    La piazza sarà probabilmente più sicura così, ma lo stesso non si può dire del destino dei fedeli che vorrebbero riavere la loro Cattedrale. La Catanzaro cattolica era già scossa dalle dimissioni, improvvise e senza alcuna spiegazione, dell’ex vescovo Vincenzo Bertolone nei mesi scorsi. I 5 anni – per ora – con il Duomo a porte chiuse non contribuiscono ad aumentare il buon umore nella comunità. Il crollo della struttura, dichiarata di interesse culturale e sotto vincolo, era solo un piccolo campanello d’allarme dei problemi attuali. Quanto tempo dovrà passare ancora prima di poter vedere riaperta al culto la Cattedrale?

  • Il regalo dello Stato alla ‘ndrangheta

    Il regalo dello Stato alla ‘ndrangheta

    Invaso, colonizzato, depredato: sono solo alcuni degli aggettivi che vengono utilizzati per definire il Nord in relazione alla presenza della ‘ndrangheta e delle mafie in generale. Da Roma in su, la criminalità organizzata fa i soldi veri. Un po’ perché l’economia che conta, nel nostro Paese, si svolge nelle grandi città e non nel depresso Meridione. Un po’ perché, per anni, su quei territori, le organizzazioni malavitose hanno potuto agire quasi indisturbate. Ricreando le stesse dinamiche della casa madre.

    L’ultima inchiesta

    Appena qualche giorno fa, 13 ordinanze di custodia cautelare emesse dal G.I.P. del Tribunale di Milano nei confronti di altrettanti soggetti. Alcuni di loro sarebbero contigui a storiche famiglie ‘ndranghetiste originarie di Platì radicatesi tra le province di Pavia, Milano e Monza Brianza nonché nel Torinese.

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    Il comune aspromontano di Platì

    Le cosche della Locride, soprattutto (ma non solo), in quei territori hanno riproposto il modus operandi dell’entroterra calabrese. Dalle estorsioni all’infiltrazione nei lavori pubblici, passando per gli investimenti tipici – grande distribuzione, edilizia, slot machine – e persino la guardiania.

    «Ti ammazzo come i cani»

    Fa specie, con riferimento all’ultima inchiesta sulla famiglia Barbaro, leggere le intercettazioni: «L’ho presa e l’ho messa sul tavolo (l’arma, ndr) … gli ho detto … vedi che ti ammazzo … come ai cani ti ammazzo … e me ne sono andato». Così si esprimeva, intercettato, Rocco Barbaro, 30 anni, arrestato assieme al padre Antonio, 53 anni, nell’inchiesta della Guardia di finanza di Pavia e del pm della Dda milanese Gianluca Prisco. Non ci troviamo nei “classici” luoghi di ‘ndrangheta. Ma al Nord.

    Incensurato ma pericoloso

    Nonostante la sua «formale incensuratezza», scrive il gip sulla posizione di Rocco Barbaro, «la pericolosità dell’indagato è emersa chiaramente nell’analisi della presente indagine» come «costante coadiutore del padre Antonio nella gestione del narcotraffico e nelle attività criminali ad esso strumentali (armi ed estorsioni)».

    Terra di conquista

    Il Nord, quindi, da decenni, è la zona prediletta dalle cosche per fare investimenti, ma anche per condizionare la vita economica e sociale. La borghesia lombarda, quella piemontese o ligure, si sono “vendute” con una facilità forse maggiore rispetto a quanto accaduto in Calabria. Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, appalti truccati, sanità condizionata attraverso gli uomini giusti nelle Asl. Ma anche sangue e omicidi.

    Fin dagli anni ’70, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investivano ingenti capitali nel Nord Italia. In particolare nella zona di Milano, dove spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa sei mesi una sanguinaria faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi.

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    Il Palazzo di Giustizia di Milano

    E parte dall’omicidio del boss scissionista Nunzio Novella, avvenuto nel Milanese, la maxi-inchiesta “Crimine-Infinito” che, circa 15 anni fa, svelò a tutta Italia come la ricca Brianza, ma non solo, fosse un’importante e potente succursale. Della Locride quanto della Piana di Gioia Tauro o di centri chiave nella storia delle ‘ndrine, come Guardavalle.

    Personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ’ndrangheta al Nord gliela fornisce.

    Il Nord come la Calabria

    Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da tradizione della ’ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi” piegati alle esigenze dei clan. Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto.

    Le attività criminali dei clan spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni) a quelli relativi a traffici di stupefacenti e armi. Una lista a cui aggiungere anche gli omicidi di appartenenti a organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e/o il controllo di attività economiche. In particolare di ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina e autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, di demolizione auto e commercio rottami, di trasporto).

    Un mucchio di soldi per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore. E per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari. Il passo precedente è stato però quello di occupare l’Italia: nel senso letterale del termine. E questo avviene grazie a una delle (tante) scelte sbagliate mosse contro le cosche. Pensando di poterle affrontare solo sotto il profilo repressivo.

    La colonizzazione

    Tra i primi a occuparsene, lo storico Enzo Ciconte, che, da decenni, tenta di studiare il fenomeno sotto il profilo storico, ma anche sociale. Ebbene, la ‘ndrangheta non ha “scelto” il Nord. Almeno non all’inizio. Col tempo ha capito che fare affari lì era più conveniente, forse anche più “facile”. Ma l’arrivo (e quindi la colonizzazione) di quelle ricche aree del Paese avviene grazie a un “favore” fatto dallo Stato alle cosche: «Tale scelta è relativamente recente perché matura a partire dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Inizialmente gli ‘ndranghetisti arrivarono al Nord non per scelta, ma perché inviati al confino da una legge dello Stato» scrive Ciconte nel suo libro Ndrangheta.

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    Lo storico Enzo Ciconte

    Insomma, con il crescente aumento dei crimini della ‘ndrangheta (e delle mafie in generale) nei territori meridionali, la strategia dello Stato è quella di eradicare le organizzazioni criminali. Ancora dallo studio di Ciconte: «In quegli anni si fece avanti l’idea che, per recidere i legami del mafioso con il suo ambiente d’origine, fosse necessario adottare la misura del soggiorno obbligato che imponeva al sospetto mafioso di risiedere per un determinato numero di anni – dai 3 ai 5 – fuori dal suo comune di origine». Una scelta clamorosamente sbagliata.

    Gli abbagli dello Stato

    Del resto, che la strategia dello Stato contro le mafie, oggi come ieri, sia stata spesso fallimentare è ormai nei fatti. Basti pensare che, all’articolo 416 bis del Codice Penale, quello che punisce le associazioni mafiose, la parola ‘ndrangheta entra solo pochi anni fa, nel 2010. Per anni la criminalità organizzata calabrese viene e verrà sottovalutata. Considerata una mafia stracciona, di serie B.

    Ancora dal libro di Ciconte: «Ci furono abbagli nei confronti della ‘ndrangheta molto clamorosi. È stata considerata come una società di mutuo soccorso o espressione diretta e filiazione del brigantaggio. La ‘ndrangheta si presentò come una variante del ribellismo meridionale, come una delle espressioni del riscatto calabrese e come una necessità dettata dal bisogno di sostituire uno Stato lontano, inesistente e disattento».

    Nessuno, tranne i sindaci dei comuni dove arrivarono i soggiornanti, si accorse della pericolosità di quelle presenze o previde gli effetti che avrebbero potuto determinare. Scrive ancora Ciconte: «I sindaci si opposero, ma le loro proteste non furono ascoltate dai governi dell’epoca. E così, nella sottovalutazione più generale, la ‘ndrangheta mise piede in quei territori».

    Nel libro-conversazione con Antonio Nicaso, La malapianta, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, afferma: «Per molti anni la ‘ndrangheta, ma anche le altre organizzazioni criminali infiltrate in Lombardia sono state sottovalutate. Nel 1989 l’allora sindaco di Milano Paolo Pillitteri ne negò l’esistenza e due anni dopo il procuratore generale Giulio Catellani fece la stessa cosa, sostenendo che nel distretto di Milano non c’erano sentenze passate in giudicato per il reato di associazione mafiosa».

    La ‘ndrangheta sottovalutata

    Solo negli ultimi anni, dopo la strage di Duisburg in particolare, si è iniziato a parlare in maniera più strutturata della ‘ndrangheta. Anche maxiprocessi come l’attuale “Rinascita-Scott” continuano ad avere poco appeal per i media nazionali. A fronte di quanto ancora tirino i “brand” di Cosa nostra e camorra. Nonostante la criminalità organizzata calabrese abbia, probabilmente, indirizzato alcuni snodi cruciali della storia d’Italia, la prima relazione organica della Commissione Parlamentare Antimafia sulla ‘ndrangheta arriva solo nel 2008 con la presidenza di Francesco Forgione.

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    L’esterno del locale dove si è consumata la Strage di Duisburg

    In quel testo, Forgione parla di “mafia liquida”, mutuando il concetto di “società liquida” di Zigmunt Bauman. E sottolinea come una grossa mano alla ‘ndrangheta, paradossalmente ed inconsapevolmente, ma di certo con poca lungimiranza, è stata data proprio dallo Stato italiano, negli anni ’50. In quegli anni i mafiosi, dapprima siciliani e poi via via campani e calabresi, vengono inviati nelle regioni del Centro e del Nord, in comuni possibilmente piccoli e comunque lontani da centri che avessero stazioni ferroviarie e o strade di grande comunicazione.

    «Fu in tale contesto che si fece strada nelle ‘ndrine l’idea di seguire l’ondata migratoria (più o meno forzosa) e di trapiantare pezzi delle famiglie mafiose al centro-nord. Dapprima fu una necessità, poi diventò una scelta strategica che coinvolse alcune fra le famiglie più prestigiose della ‘ndrangheta, le quali intuirono le enormi possibilità operative di una simile proiezione (che divenne vera e propria occupazione, in alcuni casi) verso le ricche e sicure terre del centro e del nord Italia» –  scrive Forgione nella relazione del 2008.

    Il paradosso

    Se il soggiornante non poteva spostarsi dalla sua sede, non c’era nulla che vietasse o impedisse che altri lo raggiungessero nelle sedi del soggiorno. E così le riunioni di ‘ndrangheta iniziano a tenersi nei luoghi del soggiorno obbligato. Sono questi i primi passi per ricreare al Nord le medesime dinamiche della casa madre.

    Buccinasco, ma anche Bardonecchia, oppure Volpiano e Leinì, diventano luoghi simbolo dell’infiltrazione ‘ndranghetista al Nord. E, oggi, comandano quelli di sempre: dai Saffioti ai Marando, passando per i D’Agostino, i Crea, gli Alvaro, i Mancuso, i Bonavota, i Barbaro, i Morabito-Bruzzaniti-Palamara, i Vrenna, gli Ursino-Macrì. E, ovviamente, soprattutto a Milano città, casati storici come i De Stefano o i Piromalli. Ma tutto nasce in quegli anni.

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    Cartello stradale all’ingresso del comune di Buccinasco

    Ancora dalla relazione della Commissione Parlamentare Antimafia: «Il piano di colonizzazione della ‘ndrangheta fu inconsapevolmente favorito dalle scelte di politica sociale ed urbanistica degli amministratori settentrionali che concentrarono i lavoratori meridionali nelle periferie delle grandi città, in veri e propri ghetti, dove fu facile per gli esponenti delle ‘ndrine ricreare il clima, i rituali e le gerarchie esistenti nei paesi d’origine. In alcune realtà il controllo della ‘ndrangheta divenne asfissiante».

    Dapprima fu una necessità, poi una scelta. Che ci porta all’attualità: la ‘ndrangheta è l’unica organizzazione mafiosa ad avere più sedi. Quella principale, in Calabria, le altre nei comuni del Centro-Nord dell’Italia oppure nei principali Paesi stranieri, snodi fondamentali per i traffici di droga. E in queste sedi si riprodurrà la stessa struttura organizzativa presente in Calabria.

  • Tutti con Irto ma solo per finta: la grande farsa del Pd

    Tutti con Irto ma solo per finta: la grande farsa del Pd

    Il Pd calabrese dà due certezze: la vocazione masochista e il nuovo segretario regionale, che come sanno persino i muri, sarà Nicola Irto. Con un po’ di retorica, si potrebbe definire “bulgaro” l’imminente congresso che consacrerà il mattatore reggino.
    Ma sarebbe riduttivo. In Calabria, anche nell’autoritarismo, riusciamo ad essere più estremi: il paragone più azzeccato, in questo caso, è l’Albania di Enver Hoxa.

    Mario Franchino
    Mario Franchino ha provato a sparigliare le carte in vista del congresso

    L’unico tentativo di contrastare Nicola superstar è provenuto da Mario Franchino, che ha tentato di dar voce a un gruppo di ex big, ai quali solo l’età (in media over 65) impedisce pose e atteggiamenti rivoluzionari e ha suggerito un nome stereotipato: Ricostituenti, perché anche dirsi “riformisti” sarebbe troppo.
    Parliamo, tra gli altri, di Cesare Marini e Agazio Loiero, che riescono a far sembrare credibile persino Piero Pelù quando si ostina a cantare rock e a portare i capelli lunghi sebbene l’anagrafe gli consigli altro.
    Ovviamente, si parla di niente: l’“incidente” Franchino è rientrato per incapacità di portare cinque liste con centosessanta candidati, perché il potere di una volta è un ricordo.

    Un Pd col cuore sullo Stretto

    L’unica vera notizia, in questo casino, è il definitivo cambio di polarità geografica del Pd, che si focalizza a Reggio. E poco importano le recenti traversie giudiziarie di Giuseppe Falcomatà, che anzi agevolano Irto, che in riva allo Stretto non ha più rivali e, forte del notevole consenso alle Regionali di ottobre, si è imposto su tutto il resto della Calabria.
    Ed è riuscito, grazie anche a un lavorio diplomatico non indifferente, a creare l’impressione di un unanimismo che nei dem calabresi non è solo innaturale ma, addirittura, contronatura.

    Contrordine compagni

    Ma per fortuna c’è Cosenza, che riesce a rasserenare i cronisti più maligni e conferma che, nonostante tutto, il Pd è un partito divertente. Lo è stato a fine novembre, quando la rissa dell’assemblea di Cosenza ha fatto il giro del web. E lo è anche ora che i congressi provinciali sono saltati.
    Con una circolare stringata, il commissario regionale Stefano Graziano ha rinviato i congressi provinciali, previsti anch’essi a brevissimo, all’ultima decade di febbraio. Un tempismo significativo, il suo, che coincide in maniera un po’ troppo curiosa con alcune fughe di notizie che riguardano Cosenza.

    La circolare inviata da Stefano Graziano
    La circolare inviata da Stefano Graziano

    Non serve essere dietrologi a oltranza, perché quando si pensa male del Pd ci si azzecca sempre senza far peccato. È sufficiente, invece, mettere in ordine i fatti: la scadenza per la presentazione delle liste era prevista alle 20 del 13 gennaio, ma nelle prime ore del pomeriggio sono uscite alcune indiscrezioni giornalistiche sulla candidatura di Vittorio Pecoraro a segretario provinciale di Cosenza. A stretto giro di mail e di What’s App i militanti del Pd hanno ricevuto il “contrordine compagni” di Graziano. E forse con un po’ di sollievo si sono adeguati.

    Una poltrona per quattro

    C’è una sostanziale differenza tra Stefano Graziano e Francesco Boccia. Il primo è un po’ disperato, perché gestire il Pd calabrese è cosa che si augura a un nemico. Il secondo è anche sfigato, perché non gli va bene una manovra che sia una.
    I bene informati riferiscono del tentativo del commissario cosentino di cucire un congresso unitario su Maria Locanto. Nulla da ridire sulle qualità della prescelta, tranne che forse non l’hanno mandata giù i cosentini per primi.

    Infatti, Boccia aveva avuto ampie rassicurazioni dai consiglieri regionali bruzi sopravvissuti all’ecatombe di ottobre che ci sarebbero state le trecento firme per la sua attuale sub commissaria. Peccato solo che qualcun altro queste firme le aveva già raccolte. Si parla di Nicola Adamo, che avrebbe sponsorizzato la candidatura del giovane Vittorio Pecoraro (noto non solo per la militanza socialista ma anche per la genealogia: è figlio di Carlo, ex dirigente del Comune di Cosenza). Invece, alla Locanto non sarebbero arrivati i sostegni sperati. Di sicuro non quelli di Mimmo Bevacqua, che starebbe sponsorizzando un’altra candidatura femminile, di cui non è ancora emerso il nome.

    Il democrat Nicola Adamo
    Il democrat Nicola Adamo

    Peggio che andar di notte coi Ricostituenti, i quali si sono impegnati per spingere il nome di Antonio Tursi, presidente dell’associazione Controcorrente.
    E non si è sottratto alla tentazione neppure Graziano Di Natale, che ha provato a mettere sul tavolo la candidatura del suo uomo.
    In questo caso, non si capisce bene se per rompere del tutto o per ricucire alla meno peggio, dopo una campagna elettorale per le Regionali giocata più contro i compagni di partito che contro gli avversari di centrodestra.

    Pd e democrazia

    Lo slittamento delle provinciali sembra un favore a Boccia, che ha tempo fino al quattro febbraio per recuperare le firme pro Locanto (o chi per lei). Ma questi giochi riguardano solo il Pd e non hanno nulla a che fare con la democrazia.
    Anzi, fanno rimpiangere le vecchie primarie, che pure in Calabria ci si sforzava di celebrare. E non diamo la colpa al Covid, che impedirebbe l’organizzazione di seggi aperti al pubblico: il Pd, quando si impegna, riesce ad essere più virulento della pandemia.

  • Oltre al licenziamento anche le parole di sfida ai lavoratori (VIDEO)

    Oltre al licenziamento anche le parole di sfida ai lavoratori (VIDEO)

    Oltre alle lettere di licenziamento anche le parole di sfida contro gli operai saliti sul tetto della Casa di cura Misasi-San Bartolo di Cosenza. A pronunciare frasi dai toni accesi è stato Saverio Greco, uno dei fratelli che detengono la proprietà anche della struttura sanitaria in questione.

    https://www.facebook.com/100008592524753/videos/679273893233539

    il video è stato girato e poi pubblicato su Facebook da Ferdinando Gentile, sindacalista Usb della confederazione di Cosenza che sta seguendo la vicenda dei 51 lavoratori.

    Il gruppo imprenditoriale da poco ha rilevato le case di cura che erano in mano alla famiglia dell’ex consigliere regionale, Ennio Morrone. I Greco hanno da subito fatto capire che avrebbero mandato a casa 51 dipendenti sui 129 totali in forza alla struttura. Il giornale I Calabresi ha sollevato la vicenda già il 9 novembre scorso.

    «Questa realtà imprenditoriale decide di lasciare a casa decine di lavoratori e lavoratrici così da poter ulteriormente aumentare i propri profitti». È quanto si legge nel comunicato stampa del sindacato Usb Confederazione di Cosenza. Che continua: «La città di Cosenza non può permettersi che decine di famiglie rimangano senza risorse per poter vivere dignitosamente. Questa ennesima crisi sociale va evitata in ogni modo».

    I sindacalisti «chiedono poi un intervento immediato del presidente Roberto Occhiuto affinché convochi al più presto un tavolo di confronto vero, alla presenza delle sigle sindacali, dell’ASP di Cosenza e della San Bartolo srl».

    I Greco scaricano sulla Regione

    Gli imprenditori di Cariati hanno sin da subito scaricato sulla Regione Calabria la responsabilità di quanto avrebbero poi messo in atto. In una nota stampa hanno sottolineato «il tardivo rimborso delle prestazioni erogate negli anni che vanno dal 2002 al 2014, nonché la insufficiente remunerazione delle prestazioni relative all’anno 1995, e la continua contrazione dei budget che non hanno consentito la copertura dei costi fissi».

     

     

     

  • Vibo a secco: tutti contro tutti nella guerra dell’acqua

    Vibo a secco: tutti contro tutti nella guerra dell’acqua

    Chissà quanti tra qualche anno si ricorderanno della crisi idrica dell’Epifania. Sicuramente rimarrà in mente agli operai di Sorical che lavorano da ormai 7 giorni per ridare l’acqua a migliaia di persone. Però non la dimenticheranno neanche quelle persone che si sono ritrovate in pieno inverno coi rubinetti a secco. Specie chi è in difficoltà, non è autosufficiente o è in quarantena, che a Vibo città e nei paesi dell’entroterra è costretto a chiedere aiuto per lavarsi o cucinare.

    Lavori all'Alaco per riportare l'acqua nelle case
    Lavori all’Alaco

    Il 5 gennaio

    Per bere no, perché quell’acqua non la beve nessuno neanche in tempi normali. Dieci anni fa l’invaso da cui arriva, l’Alaco, è stato sequestrato dalla Procura e non si ha notizia che sia mai stato dissequestrato. Ma nonostante le inquietanti accuse di avvelenamento colposo di acque il processo è finito in prescrizione e l’acqua di questo lago artificiale non ha mai smesso di immettersi nelle case dei vibonesi. Almeno così è stato fino al 5 gennaio scorso, quando il terreno della montagna di Brognaturo, a mille metri sulle Serre, è franato rompendo due condotte. È ancora da capire se una perdita abbia causato la frana o viceversa, perché in quel momento non pioveva. Comunque il risultato è un blackout idrico sulla linea che serve Vibo e su quella che rifornisce sia i paesi dell’entroterra che alcuni Comuni della Piana di Gioia Tauro.

    Il bacino dell'Alaco che rifornisce di acqua il Vibonese
    Il bacino dell’Alaco che rifornisce di acqua il Vibonese

    Nessun piano B

    Così un evento imprevedibile ha fatto scoprire a molti che non esiste un piano B. Il territorio non ha alternative di approvvigionamento e, negli anni, è diventato quasi totalmente dipendente da un invaso controverso. Ancora, per esempio, nessuno ha spiegato cosa sia successo tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, quando nell’acqua proveniente da quel lago di montagna l’Arpacal – che come Sorical fa capo alla Regione – trovò composti «derivati dal benzene» e, soprattutto, un valore fuorilegge di triclorometano, cioè cloroformio. Acqua passata: la maggior parte dei vibonesi non sembra esserselo più chiesto.

    Niente acqua ai forestieri

    Questi giorni li ricorderà senz’altro anche il sindaco di Brognaturo, Rossana Tassone, che all’assalto alle fontanelle pubbliche del suo paese ha reagito emanando un’ordinanza, di dubbia legittimità, per vietare ai non residenti di riempire bottiglie e bidoni. Sommersa da critiche anche feroci, ha spiegato che si erano verificati pericolosi assembramenti. In realtà era stata anche insultata per aver provato a far rispettare le regole e le è scappata la frizione istituzionale. Il giorno dopo ha revocato l’atto disponendo il «prelievo massimo, per ogni utente, di 50 litri». Alcuni ragazzi della vicina Serra San Bruno hanno riscosso sui social un certo successo con un video satirico che riporta la vicenda ai tempi del proibizionismo.

    «Un fatto veramente curioso»

    A Soriano invece, qualche giorno dopo l’amministrazione comunale ha avvisato i cittadini che la mancanza d’acqua non era dovuta al guasto ma «ad un fatto veramente curioso». La Protezione civile aveva «ritenuto opportuno riempire delle cisterne di acqua per portarla ai cittadini di Gerocarne che stanno subendo in questi ultimi giorni una grave carenza idrica» e il soccorso ai vicini ha causato lo svuotamento dell’acquedotto di Soriano. Il sindaco, Vincenzo Bartone, ha fatto sapere di essersi rivolto ai carabinieri.

    In un altro paese della provincia, Arena, si è cercato di alleviare il disagio allacciando al serbatoio comunale la rete di una contrada servita da Sorical. Il sindaco Antonino Schinella dice di voler arrivare, nel giro di qualche mese, «finalmente, dopo decenni e una lunga attesa», ad affrancarsi «definitivamente da Sorical».

    A Serra, centro più popoloso della zona, l’Alaco è da anni un tema caldo non disdegnato dai politici locali. Puntualmente, in campagna elettorale garantiscono ai cittadini indignati di adoperarsi per un’autonomia che nessuno, benché i boschi attorno al paese fossero pieni di sorgenti oggi in gran parte non più fruibili, finora ha dimostrato di poter raggiungere. Compreso l’attuale sindaco, Alfredo Barillari, che ora prova a incalzare Sorical affinché «dia tempi certi sul ritorno alla normalità di decine di comunità che vivono da giorni in condizioni, ormai, divenute insopportabili».

    Acqua in bottiglia

    Il commissario leghista di Sorical, Cataldo Calabretta, con l’esplodere della crisi ha «dato disposizione di attivare una prima fornitura di oltre 2.500 casse di acqua minerale in bottiglie da 2 litri alla Protezione Civile del Comune di Vibo». Nel frattempo sia nel capoluogo che nei paesi le autobotti della Prociv e tanti volontari hanno fornito altre migliaia di litri di acqua ai cittadini che ne avevano bisogno.

    Acqua, Vertice sulla crisi idrica nella Prefettura di Vibo
    Vertice sulla crisi idrica nella Prefettura di Vibo

    Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente) dice che «il tempo massimo per l’attivazione del servizio sostitutivo in caso di sospensione del servizio idropotabile è di 48 ore» e prevede degli standard specifici di continuità del servizio. In caso di mancato rispetto degli standard «l’utente finale ha diritto ad un indennizzo automatico (base) pari a 30 euro – incrementabile del doppio o del triplo in proporzione al ritardo dallo standard».

    Candidature

    Comunque: a dispetto di qualche annuncio troppo precipitoso, gli acquedotti nel capoluogo di provincia hanno ricominciato a riempirsi nel pomeriggio del 10 gennaio, ma in alcuni punti della città l’acqua arriva a singhiozzo e in altri per nulla. Nell’entroterra montano tutti a secco: ancora si stanno effettuando dei lavori delicati – resi nei giorni scorsi difficilissimi dalle condizioni climatiche e dai luoghi impervi – e la gente è all’esasperazione.

    Calabretta sul cantiere di Brognaturo
    Calabretta sul cantiere di Brognaturo

    Lo stesso Calabretta è salito al cantiere al sesto giorno di emergenza e si è «intrattenuto con gli operai», che ha giustamente ringraziato perché hanno profuso sforzi enormi. Nello stesso comunicato, mentre quelli continuavano a lavorare nel fango e gli utenti riversavano rabbia sui social, si è però preoccupato di sottolineare che «Sorical sta ancora una volta dimostrando di poter gestire non solo gli investimenti per gli acquedotti, ma anche affrontare e risolvere gravi emergenze». Aggiungendo che la società da lui guidata «è il candidato naturale per la gestione del servizio idrico integrato della Calabria».

    Milioni e multiutility

    Lo sguardo del commissario Sorical è rivolto ai progetti di ammodernamento delle reti che ha già presentato e per i quali sollecita la Regione. Ma è chiaro che l’obiettivo sono i milioni di euro in arrivo con il Pnrr. In questi mesi si sta giocando una partita che ha portato, sulle ceneri della “Cosenza Acque”, alla costituzione di un’Azienda speciale consortile di cui dovranno far parte tutti gli oltre 400 Comuni calabresi. Questa società, costituita in fretta per non perdere dei fondi destinati alle reti, si occuperà della fornitura al dettaglio, mentre a Sorical per ora resterà l’ingrosso.

    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto ha chiarito che si tratta di una soluzione provvisoria perché vuole arrivare a un’unica «multiutility» che gestisca tutto: fornitura idropotabile, depurazione e riscossione delle bollette. Il governatore sostiene che «il fallimento del sistema idrico integrato» sia dovuto «oltre che alla inadeguata gestione della Sorical, al mancato avvio di un processo di riorganizzazione e di integrazione tra la gestione della grande adduzione e le gestioni delle reti comunali».

    L’enorme percentuale della dispersione (45%) è ricondotta all’«impossibilità da parte dei Comuni di far fronte al costo insostenibile nei confronti della stessa Sorical e di provvedere alla manutenzione straordinaria della rete». E c’è sempre il problema dei cittadini (tanti) che non pagano l’acqua e dei debiti – a volte scanditi da contenziosi – che i Comuni hanno con Sorical.

    Sovranisti dell’acqua

    Quanto avvenuto nel Vibonese dovrebbe però aprire una riflessione ampia, certo non ideologica ma anche sganciata da interessi privati o profitti politici, sulla gestione di un bene (in teoria) collettivo e sempre più prezioso. Su cui – piaccia o no a chi decanta le meraviglie delle gestioni private ma non disdegna i soldi pubblici – i calabresi nel 2011 si sono espressi in massa: in 780mila hanno votato Sì al referendum per escludere i profitti dall’acqua, più o meno quanto l’intero corpo elettorale che si è recato alle urne alle Regionali di tre mesi fa.

    acqua pubblica

    C’è ora da chiedersi se il “sovranismo” idrico di alcuni sindaci e le sempre più frequenti guerre di campanile per l’acqua, tra cui si annovera anche quella estiva tra Cotronei e San Giovanni in Fiore, siano il prologo di un futuro non troppo lontano in cui la mancanza d’acqua genererà conflitti tra poveri. E c’è da domandarsi se davvero la soluzione possa essere l’autonomia attraverso fonti locali e piccoli acquedotti o la dipendenza dai grandi schemi idrici.

    Pioggia di fondi

    È evidente che da tempo, e lo si ribadisce anche nel Pnrr, le classi dirigenti individuano nella «gestione industriale» la soluzione a tutti i mali. Certamente ne sono convinti gli attuali protagonisti della governance dell’acqua calabrese, ovvero Occhiuto, Calabretta e Marcello Manna (sindaco di Rende, presidente di Anci Calabria e dell’Aic, l’Autorità idrica calabrese che è l’ente di governo d’ambito in cui sono rappresentati i Comuni).

    Tutti e tre sono senza dubbio interessati alla gestione della pioggia di fondi europei destinati al settore e non è difficile intuire chi farà la parte del leone. Fa però rumore, in proposito, il silenzio di Occhiuto: pur intervenendo ogni giorno su questioni anche nazionali, il presidente non ha detto una parola sulla crisi che ha messo in ginocchio buona parte della sua regione.

    Ma prima o poi, oltre a cercare di trarre profitto dalle emergenze e pretesti per mettere le mani sui soldi del Recovery, qualcuno dovrà spiegare perché chi ha gestito Sorical in questi anni – senza escludere alcuna parte politica che ha governato la Regione – non abbia fatto gli investimenti che servivano per evitare, o quantomeno alleviare, una crisi di tale portata.

  • La tarantella triste dei posti letto destinati al Covid

    La tarantella triste dei posti letto destinati al Covid

    Mentre la quarta ondata galoppa, e si intravede la zona arancione, i calabresi hanno la sensazione di essere ancora, dopo due anni, «in braccio a Maria». Lo stesso governatore Roberto Occhiuto nelle scorse ore si è detto «preoccupato per la pressione sulla rete ospedaliera». Si può dunque immaginare quanto lo siano i cittadini da lui amministrati che assistono inermi a quella che, in un futuro non troppo lontano, potrebbe essere raccontata come la tarantella dei posti letto.

    È forse allora il caso di mettere insieme un po’ di numeri e di nomi, partendo però dagli ultimi dati. L’incidenza dei nuovi contagi tra il 3 e il 6 gennaio è stata abbondantemente sopra i 400 casi per 100mila abitanti. Molto alta. Come il tasso di occupazione dei reparti di area medica, che è al 34%. Con oltre 370 ricoverati in area medica su 1.055 posti letto attivati. Di questi, circa 200 sono stati creati negli ultimi 4 mesi.

    Le Terapie intensive

    Più complessa è la situazione delle Terapie intensive. I dati Agenas dicono che il tasso di occupazione è al 16%. E oltre 30 persone sono ricoverate in terapia intensiva su 189 posti letto esistenti. In proporzione, abbiamo a disposizione 10 posti letto ogni 100mila abitanti. È il dato più basso in Italia assieme a quello dell’Umbria. Secondo Agenas sono al momento attivabili altri 9 posti in Rianimazione.

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    I dati Agenas sui posti letto in terapia intensiva

    Occhiuto, dopo l’ultima riunione dell’Unità di crisi, ha annunciato che i posti letto in area medica dedicati al Covid verranno incrementati nei prossimi giorni perché è evidente che le ospedalizzazioni aumenteranno. Si sta pensando anche di utilizzare come Covid hospital i presidi sanitari di Rogliano, Cariati e Tropea. E di attivare in «tempi strettissimi» Villa Bianca a Catanzaro.

    Il piano per 400 posti letto Covid mai attivati

    Ora, per capire cosa sia stato fatto in due anni e per riscontrare gli annunci con la realtà, occorre fare un salto a inizio pandemia. Marzo 2020. La compianta Jole Santelli è stata eletta da poco alla presidenza della Regione. E la sanità calabrese è saldamente – si fa per dire – in mano al generale Saverio Cotticelli.

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    Le grafiche social della Regione Calabria guidata dalla Santelli per comunicare l’attivazione (mai arrivata) di 400 posti letto in terapia intensiva

    La pandemia si sta rivelando nella sua gravità e un annuncio viene veicolato con un post su Facebook. La presidente della Regione, in accordo con Cotticelli e con il supporto del Dipartimento Salute, ha «approvato il piano che prevede l’attivazione di 400 posti letto di terapia intensiva e subintensiva per le aree nord, centro e sud della regione».

    Inutile ricordare anche la ripartizione di quei posti letto, perché in realtà non sono mai stati attivati. Giugno 2020. Il documento di riordino della rete ospedaliera certifica l’amara verità. Ma non tralascia l’ottimismo: dopo la prima ondata la Calabria si ritrova ancora con 146 posti letto di Terapia intensiva. Però sono «incrementabili con ulteriori 134». Anche in questo caso segue uno schema con la ripartizione che (non) verrà.

    I fondi Covid non utilizzati

    Ritorniamo all’oggi. Prima di Natale la Regione ha da approvare il Bilancio e per farlo deve passare dal Giudizio di parifica della Corte dei conti. I magistrati contabili di Catanzaro però non si limitano a usare il pallottoliere. Ma indugiano, impietosamente, sulla situazione della sanità. Che con i conti ha in realtà molto a che fare visto che assorbe circa 3,9 miliardi di euro all’anno (il 62,4% del bilancio regionale).

    La presidente della Sezione di controllo della Corte, Rossella Scerbo, concludendo la sua relazione apre un «doveroso» squarcio sulla gestione del Covid in Calabria. Viene fuori che nel 2020 sono stati trasferiti alle Aziende sanitarie calabresi circa 115 milioni di euro di fondi Covid. E che «la gran parte di queste somme, ossia circa 77 milioni di euro, giace accantonata nei bilanci delle Aziende al 31 dicembre 2020 senza che sia stata riorganizzata la rete ospedaliera».

    Non prima del 2022 inoltrato

    Spiega, la relazione, che era stato il ministero della Salute – con circolare del 29 maggio 2020 – a prevedere che ai 146 posti letto di terapia intensiva «già attivi prima dell’emergenza» se ne aggiungessero altri 134, oltre alla riconversione di ulteriori 136 in semi-intensiva. Numeri lontanissimi da quel che poi è stato effettivamente fatto. Pochi nuovi posti letto – pochissimi secondo la Corte dei conti, 43 in due anni secondo Agenas – e interventi tutti ancora da avviare, il cui completamento è previsto «non prima del 2022 inoltrato (in alcuni casi del 2023)».

    Nessun rinforzo per i pronto soccorso, mentre tutte le altre prestazioni sanitarie hanno accumulato ritardi «più significativi rispetto alla media nazionale». Le azioni indicate dal commissario ad acta per recuperare questo gap sono state «pianificate in modo generico». E, di nuovo, i fondi messi a disposizione dallo Stato (circa 15 milioni di euro) «non sono stati spesi dalle Aziende sanitarie, che li hanno ancora una volta accantonati in bilancio».

    La Corte dei conti boccia la Regione

    Le conclusioni della Corte non hanno bisogno di appendici retoriche. «Nel complesso, risulta di tutta evidenza che la Regione Calabria – si legge nel documento – è ben di là da rafforzare effettivamente la propria rete territoriale». Ancora: «Le risorse distribuite dallo Stato non sono state impegnate in modo efficace». E inoltre: «Deve evidenziarsi che il contributo dei privati alla gestione dell’emergenza sanitaria pare essere stato minimo». E la Regione «non ha ancora contezza della rendicontazione delle prestazioni rese».

    Assunzioni? Troppo poche o non pervenute

    In questo lasso di tempo, struttura commissariale e dipartimento regionale hanno garantito al Tavolo interministeriale di verifica del Piano di rientro che nel Programma operativo (che ancora non c’è) sarebbero state inserite le nuove assunzioni di personale. Il commissario ha detto al Tavolo che nell’emergenza sono state assunte 1.080 unità di personale a tempo determinato. Si tratta di 139 dirigenti medici, 30 dirigenti non medici, 771 non dirigenti-comparto sanità, 140 altro personale. Circa la metà (563 unità) è stata impiegata nei 5 Hub regionali.

    Nel 2020, secondo la struttura commissariale, risulterebbero assunte 830 unità e altre 250 circa nel 2021. Roma ha chiesto conferma di questi dati sollecitando ulteriori aggiornamenti e il commissario che ha preceduto Occhiuto si è riservato di trasmettere una relazione. Il Tavolo ha comunque ricordato le autorizzazioni concesse «da anni» per le assunzioni. Quelle che ancora oggi «non risulterebbero effettuate o risulterebbero in grande ritardo attuativo».

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Si tratta di valutazioni che emergono dalla versione integrale, depositata agli atti, della requisitoria del Procuratore regionale della Corte dei conti. Che ha anche raccolto ulteriori dati, concludendo che l’impatto delle spese complessive legate al Covid nelle Asp e nelle Ao calabresi, almeno stando a quanto comunicato alla magistratura contabile a metà del 2021, è stato di circa 14 milioni di euro.

    Il caso Belcastro

    In questo periodo alla guida del dipartimento Salute della Regione si sono avvicendati diversi manager. C’è stato prima Antonio Balcastro, nominato da Mario Oliverio a dicembre del 2018 e rimasto in carica fino ai primi mesi dell’era Santelli. La presidente poi prematuramente scomparsa lo scaricò ai microfoni di Report, dopo il caso dei tamponi preferenziali a Villa Torano, dichiarando: «Se Belcastro ha fatto degli abusi, va verificato. Non l’ho nominato io». Poi però lo ha comunque mantenuto come «soggetto attuatore dell’emergenza Covid».

    Da Bevere alla Fantozzi

    Gli è succeduto Francesco Bevere, oggi di stanza ai piani alti della Regione Sicilia, da settembre consigliere in materia di sanità del Ministro per gli Affari regionali e le autonomie. In carica alla Cittadella dal 29 giugno 2020 al 31 marzo 2021, Bevere era stato dg di Agenas (Agenzia nazionale dei servizi sanitari regionali) e, prima ancora, del Ministero Salute. Oggi Occhiuto – dopo una reggenza di Giacomino Brancati – ha messo al suo posto Iole Fantozzi da Cosenza, che dal 2019 era commissario del Grande ospedale metropolitano di Reggio.

    Longo sostituisce il tragicomico Cotticelli 

    Fantozzi è l’unica manager rimasta in carica nonostante la girandola dei commissari innescata dal decreto Calabria che, con il primo governo Conte, ha dato il via a un supercommissariamento certamente non risolutivo come l’alleanza M5S-Lega dell’epoca preventivava. Basterà, allo scopo, solo accennare alle tragicomiche vicende di Cotticelli, che fu poi affiancato dalla mitologica Maria Crocco – forse proprio la stessa Maria che ci ha tenuti «in braccio» – e a cui, dopo un balletto poco edificante di nomi e rinunce, succedette a novembre 2020 il non indimenticabile Guido Longo.

    Le nomine 

    Era stato proprio quest’ultimo, d’intesa con l’allora facente funzioni Nino Spirlì, a nominare i commissari che attualmente guidano le Aziende calabresi: Vincenzo La Regina (Asp Cosenza), Maria Bernardi (Asp Vibo), Domenico Sperlì (Asp Crotone); Jole Fantozzi (sostituita a marzo da Gianluigi Scaffidi all’Asp di Reggio), Isabella Mastrobuono (Ao Cosenza), Giuseppe Giuliano (passato dall’Asp vibonese al “Mater Domini”), Francesco Procopio (Ao “Pugliese Ciaccio” Catanzaro). Mentre dopo la scadenza del mandato di una terna prefettizia (Luisa Latella, Franca Tancredi e Salvatore Gullì) l’Asp di Catanzaro – che come quella di Reggio era stata commissariata per infiltrazioni mafiose – è retta dal dg facente funzioni Ilario Lazzaro.

  • Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Delitto Vinci, non c’è pace tra gli ulivi

    Il paradiso e l’inferno, la giustizia e l’ingiustizia. Figure retoriche e categorie abusate nel linguaggio comune si incrociano in maniera tremendamente concreta nell’omicidio di Matteo Vinci. Il suo paradiso, racconta la madre Sara, erano gli ulivi che lui stesso aveva piantato in un terreno a Limbadi, paese del Vibonese tristemente noto come feudo del clan Mancuso. Ed è proprio lì che ha trovato l’inferno quando, il 9 aprile del 2018, la Fiesta su cui era a bordo assieme al padre Francesco è saltata in aria dilaniandolo ad appena 42 anni.

    Il pestaggio di Francesco Vinci

    La giustizia, Sara Scarpulla e Francesco Vinci, la cercano nei Tribunali e continuano a invocarla dopo che la Corte d’Assise di Catanzaro, poco prima di Natale, ha condannato all’ergastolo coloro che sono ritenuti i mandanti dell’omicidio: Rosaria Mancuso, sorella di alcuni boss della cosca egemone, e il genero Vito Barbara. Per i presunti esecutori materiali è in corso il rito abbreviato mentre, sempre nell’ordinario, sono stati comminati 10 anni (a fronte dei 20 chiesti dall’accusa) a Domenico Di Grillo, 75enne marito di Rosaria Mancuso, accusato di un brutale pestaggio avvenuto nel 2017 contro il papà di Matteo, lasciato quasi esanime e con la mandibola fracassata davanti a quella campagna che i Mancuso/Di Grillo, secondo l’accusa, volevano prendersi a ogni costo.

    Tre ergastoli

    Gli ergastoli, ha commentato la mamma di Matteo affiancata dall’avvocato Giuseppe De Pace, «in realtà non sono due ma tre», perché va considerata anche la condanna inappellabile subita da suo figlio. Le motivazioni della sentenza sono molto attese: dovranno spiegare come sia possibile che un omicidio così efferato, commesso con un’autobomba e seguito a un pestaggio per la volontà ancestrale di dominio su un pezzo di terra, per di più nella roccaforte dei Mancuso e su ordine – stando alla sentenza di primo grado – di qualcuno che porta quel cognome, non sia ascrivibile a motivazioni, atteggiamenti, mentalità mafiose. L’aggravante è infatti caduta, ma ancora più sconcerto desta nei genitori di Matteo il fatto che da qualche giorno Di Grillo sia a casa sua.

    A pochi metri dai Vinci

    A pochi passi, qualche decina di metri, da dove Sara e Francesco Vinci continuano a fare i conti con il loro dolore, davanti a quegli occhi che hanno visto il figlio trovare una morta atroce, Di Grillo potrà ora scontare i domiciliari. La Corte d’Assise ha infatti accolto l’istanza presentata il 17 dicembre dai suoi difensori, Gianfranco Giunta e Francesco Capria, che hanno sostanzialmente posto tre questioni a tutela del loro assistito: l’età, le patologie di cui soffre, l’assoluzione per alcuni reati. Era infatti originariamente accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso e di tentato omicidio, mentre è stato condannato “solo” per armi e lesioni gravi.

    Infermità accertate

    Dei 10 anni che gli sono stati inflitti per il delitto Vinci dalla stessa Corte che lo ha poi scarcerato ne ha trascorso in carcere già quasi 3 e mezzo, dunque un terzo della pena. Le sue «accertate infermità», secondo gli avvocati, sono una valida ragione per farlo tornare a casa, «potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria attuale anche in combinazione letale con il virus covid19 che ancora circola». Nell’istanza vengono elencate 8 patologie e viene descritta una situazione «molto severa e rischiosa anche in virtù dell’età avanzata e della pessima condizione psicofisica».

    Vittime e carnefici

    È dunque contenuta in poche righe la giustizia dei tecnicismi legali e si materializza in poche decine di metri l’ingiustizia della realtà. Ci sono i diritti costituzionalmente garantiti anche al peggiore degli assassini e c’è il dovere dello Stato di rendere almeno la verità a una madre e un padre costretti, per il resto dei loro giorni, a convivere con la condanna peggiore che possa esserci al mondo. È su questo confine labile, sottile e forse impercorribile da chi non conosce certi dolori, che si consuma il dramma di Limbadi. Dove le vittime sono condannate a stare accanto ai carnefici e tutto – la giustizia e l’ingiustizia, il paradiso e l’inferno – sembra destinato a trasformarsi nel suo contrario.

  • Dad o non Dad? Scuola in Calabria di nuovo al bivio

    Dad o non Dad? Scuola in Calabria di nuovo al bivio

    Forse è perché ci si abitua a tutto, o forse perché abbiamo poca memoria, ma i tempi che stiamo vivendo sono – per molti aspetti – non meno difficili di quelli già affrontati nei momenti di massima recrudescenza dell’epidemia. Al netto dell’acutizzazione dello scontro tra le fazioni no/pro vax, con annesse reciproche gentilezze su morti premature, gli argomenti restano gli stessi: la capacità della sanità di reggere l’impatto del Covid e che fare con la scuola.

    Su questo tema a dominare la scena è una certa demagogia, non priva di dogmatismo, mancando invece una certa dose di buon senso. Insomma si torna in aula con la scorta di una serie di norme piuttosto macchinose e fragili, ma soprattutto con un approccio: vediamo che succede. E non pare il miglior inizio possibile.

    Occhiuto delega

    In Calabria Roberto Occhiuto si accorge finalmente che abbiamo una sanità vacillante e sulla scuola, essendo più scaltro di Spirlì che chiudeva gli istituti ogni settimana per poi farseli riaprire dai tribunali che accoglievano i ricorsi delle famiglie, annuncia che pure lui vorrebbe chiudere, ma non può. E così delega, strizzando l’occhio ai sindaci nella migliore tradizione dello schivare decisioni difficili. È partita in questo modo una specie di “fai da te” localistico, con primi cittadini e dirigenti che decidono per conto loro.

    Tra Jan Palach e don Milani

    Anche a Cosenza il sindaco Caruso ha avviato una consultazione tra i presidi della città per conoscere la situazione dei contagi e valutare assieme che fare. Subito è partita la crociata, la guerra di religione tra chi considera possibile e perfino utile un breve periodo di didattica a distanza e quanti invece annunciano di essere pronti ad immolarsi come novelli Jan Palach sull’altare della cattedra per non far ripartire la Dad.

    È tutto un fiorire di frasi e concetti cui è impossibile opporsi, considerata la loro universale solidità: «La Dad interrompe il dialogo educativo, spezza il legame docente-studente»; «La Dad acutizza le differenze sociali e discrimina i più deboli»; «La Dad impoverisce la trasmissione del sapere e la formazione del pensiero critico». E se ciò non bastasse, ecco riesumate frasi di don Milani e don Sardelli, che di scuola democratica ne capivano eccome.

    Tempi moderni

    In effetti è difficile immaginare i ragazzi di Barbiana alle prese con collegamenti a Internet e l’esperienza dell’Acquedotto Felice fatta con i tablet, ma i due preti eretici combattevano contro l’ingiustizia, non anche contro il Covid. L’impressione è che quanti sparano bordate contro la Dad guardino il mondo attraverso la stretta feritoia del loro bunker ideologico. Che accarezzino una idea di scuola in gran parte sbiadita, minacciata da tempo dal mutamento complessivo delle cose.

    I luoghi dentro cui si afferma la formazione dei ragazzi, oltre alla famiglia e alla scuola, oggi sono soprattutto i new media (ma pure i vecchi). E il tempo che gli studenti trascorrono ascoltando i prof è piccola parte rispetto a quello che passano guardando programmi spazzatura. Così la capacità di seduzione educativa dei primi è rattrappita e questo senza che la causa sia la Dad.

    Lo scrittore Daniel Pennac sul palco del Teatro Rendano di Cosenza qualche anno fa
    Lo scrittore Daniel Pennac sul palco del Teatro Rendano di Cosenza qualche anno fa

    Perfino il prof raccontato da Pennac, quello che svuotava la borsa di libri e esponeva “la vita” ai suoi studenti farebbe fatica a contrastare questi mostri. C’è davvero chi pensa che l’impoverimento educativo, l’analfabetismo funzionale che assedia le nostre comunità siano causate dalle lezioni davanti ad un monitor? Una poesia di Hikmet o una pagina di Debord sono meno affascinanti se lette in remoto?

    Invalsi, prima e dopo

    La fotografia crudele della condizione della nostra scuola ci viene ancora dai criticatissimi risultati Invalsi. Negli anni 2018/19 e 20/21 (nell’anno scolastico 2019/20 i test non vennero effettuati) ci consegnano una Calabria in coda alla qualità dell’istruzione italiana. Prendendo solo in considerazione i risultati nell’uso scritto e nella comprensione dell’Italiano, la scuola calabrese dopo l’esperienza della Dad (quindi 2020/21) arretra di quattro punti sulla media nazionale (da 191 dell’anno scolastico 19/20 a 187).

    invalsi-test
    Test Invalsi

    La situazione peggiora anche in matematica, dove nei Licei ci si attesta sui 190 punti, che scendono nei professionali a 150, mentre la media punteggio nazionale è 210. Reggono le elementari, i cui risultati sono assai simili a prima dell’avvio della didattica a distanza, ma la condizione precipita marciando verso la maturità. Il dato maggiormente preoccupante è l’aumento della dispersione scolastica, che dopo la Dad riguarda circa un quinto degli studenti. Al netto di quanto siano adeguati i metodi di rilevamento Invalsi, resta l’immagine di un Paese diviso, senza che si intravedano strategie utili a rinsaldarne i destini attraverso la scuola.

    Dad, buoni propositi e ipocrisia

    La Dad dunque è il demonio? Sarebbe troppo facile liquidare una problematica così complessa cercando di banalizzarne la soluzione. La pandemia si è abbattuta come un maglio su ogni espressione della società, non risparmiando la scuola, ovviamente. Ma cosa sarebbe accaduto se una epidemia come quella che stiamo vivendo si fosse manifestata prima della diffusione capillare di dispositivi di collegamento a distanza? Semplicemente avremmo davvero chiuso le scuole, che invece con la Dad hanno tenuto vivo il senso di comunità scolastica e resistito al rischio di una vera e totale disfatta educativa. Senza la Dad, il disastro sociale sarebbe stato immane.

    Intanto nel nulla sono finiti, prevedibilmente, i buoni propositi che avevano accompagnato la chiusura del passato anno scolastico: lo smantellamento delle aule pollaio e il potenziamento delle risorse destinate all’istruzione. La scuola resta luogo di potenziale contagio con aule piccole e sovraffollate e tra chi esalta i docenti pronti a fare scuola «in qualunque condizione» come fanti sul Piave a fermare l’invasore e chi immagina tamponi a tappeto a vincere è l’ipocrisia di quanti raccontano che la scuola è una priorità nazionale. La scuola è solo un campo di battaglia.

  • Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    Licio e i suoi fratelli: grembiuli di Calabria dalla P2 alle inchieste di Cordova

    «Massone e me ne vanto!». Così, all’indomani dell’affaire P2, mentre le istituzioni erano ancora scosse dalla scoperta dell’elenco sequestrato a Licio Gelli, Costantino Belluscio, allora deputato del Psdi, gelò Montecitorio.
    Dato assai particolare, Belluscio figurava iscritto in massoneria a Roma (dove risiedeva e dove aveva fatto una carriera notevole al fianco di Giuseppe Saragat, di cui era l’uomo ombra) e non nella sua Calabria, dov’era sindaco di Altomonte.

    Quanti erano i calabresi iscritti alla P2? Dalle liste esaminate dalla Commissione d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi, ne risultano tredici, oltre Belluscio. Sono tutti professionisti senza ruoli di primo piano: il catanzarese Carmelo Cortese, i cosentini Paolo Bruno, Antonio Cangiano, Antonio Messina, Italo Aloia, Domenico Fiamengo e i reggini Domenico De Giorgio, Franco Morelli, Carlo Satira, Giuseppe Strati, Aurelio Tripepi, Umberto Giunta, Giuseppe Arcadi.

    L’affaire Loizzo

    L’unica “vittima” calabrese dello scandalo P2 fu il cosentino Ettore Loizzo, che già all’epoca era massonissimo, ma non piduista. Loizzo, di cui era più che nota l’appartenenza alla Libera Muratoria, aveva anche un ruolo importante nel Pci, per conto del quale fu consigliere comunale a Cosenza. La sua è una vicenda nota, riemersa di recente in seguito alla riedizione di Confessioni di un gran maestro (Cosenza, Pellegrini 2021), il libro contenente l’intervista dell’ex gran maestro aggiunto del Goi al giornalista Francesco Kostner.

    Ettore Loizzo
    Ettore Loizzo

    Loizzo fu costretto ad abbandonare il Partito comunista da Fabio Mussi, che all’epoca era segretario regionale del partito di Berlinguer e subì la pressione fortissima, politica e mediatica, di Italo Garraffa, che allora guidava la sezione cosentina del Pci.
    Al riguardo, occorre ricordare che lo Statuto del Partito comunista dell’era Berlinguer non contemplava (a differenza di quelli della Dc, del Msi e del Psi) alcuna incompatibilità tra appartenenza alla massoneria e militanza comunista.
    Anche per questo motivo, il venerabile calabrese rilasciò alcune dichiarazioni pesanti, che alludevano a un soggetto ben preciso: la ’ndrangheta.

    A proposito di Paul Getty

    «Data la mia posizione massonica, in circostanze particolari, i dirigenti del mio ex partito spesso mi hanno chiesto una mano», affermò Loizzo nell’intervista-fiume. E precisò: «Fui contattato in occasione del rapimento del giovane Paul Getty. Le indagini, secondo gli investigatori, portavano in Calabria: una pista che venne seguita anche con il contributo della massoneria».

    John Paul Getty III
    John Paul Getty III

    Non è dato sapere cosa sia riuscito a fare di concreto Loizzo nell’affaire Getty. Ma una sua frase sibillina chiarisce alcuni punti: «Se si sforzasse di pensare alle ramificazioni della nostra Istituzione, in Calabria come in ogni altra parte d’Italia, e quindi alla rete di contatti sulla quale, attraverso i Fratelli, essa è in grado di contare…». Non serve aggiungere altro. Per il momento.

    Il segreto di Pulcinella

    Un dettaglio fa pensare che molte cose della P2 siano il classico segreto di Pulcinella. Infatti, a Licio Gelli si dedicò molto il giornalista dell’Espresso Roberto Fabiani, che scrisse nel ’78 I Massoni in Italia, un libro dossier pieno zeppo di informazioni e di imbeccate, ricevute da un piduista assai particolare: l’ex capo dell’Ufficio affari riservati Federico Umberto d’Amato.

    L’inchiestona di Cordova

    Torniamo alla Calabria e veniamo al presente. Pochi mesi fa il Tribunale civile di Reggio Calabria ha rigettato una richiesta di risarcimento danni avanzata dall’ex procuratore capo di Palmi Agostino Cordova nei confronti del Grande Oriente d’Italia.
    Il fatto, in sé secondario (il Tribunale si è limitato a ritenere legittime le critiche fatte dal gran maestro Stefano Bisi all’operato di Cordova), ha riaperto vecchie polemiche mai sanate sull’inchiesta che, a inizio anni ’90, scosse la Calabria e fece tremare l’Italia.
    Ciò che resta di quest’inchiesta, finita praticamente in nulla, è una mole enorme di materiali informativi. E di nomi, che tuttora girano in rete.

    Stefano Bisi
    Stefano Bisi
    La Calabria che conta(va)

    Nel 1992, quando Tangentopoli non era ancora scoppiata e mentre la mafia alzava il tiro della sua sfida allo Stato, l’indagine di Cordova finì sulla stampa d’inchiesta e di controinformazione.
    Un dossier di Franco Giustolisi, pubblicato dall’Espresso il 22 novembre di quell’anno, traboccava di nomi che contavano. Si parla dei superbig democristiani Riccardo Misasi, Bruno Napoli e Leone Manti. Ma soprattutto, si parla di socialisti, molti dei quali hanno tuttora ruoli importanti nella vita politica calabrese: Sandro Principe, Saverio Zavattieri e Leopoldo Chieffallo.

    Agostino Cordova
    Agostino Cordova

    Questi e altri nomi furono “cantati” a Cordova da Angelo Monaco, un medico socialista di San Mango d’Aquino e destarono una fortissima impressione. Soprattutto perché l’inchiesta di Palmi riprendeva il filone dei rapporti “proibiti” tra mafia e massoneria.
    Quello dell’Espresso non fu il solo dossier: anche Avvenimenti (un settimanale nato dall’esperienza dell’Ora di Palermo, di cui ereditava la redazione) aveva pubblicato, circa un mese prima, una lunga requisitoria di Laura Cortina e Michele Gambino sulle disavventure del dottor Monaco, da cui prese il via l’inchiestona.

    Il tritacarne

    In ritardo storicamente su tutto, la Calabria rischiava di anticipare Tangentopoli. L’inchiesta di Cordova, a ripercorrerla col senno del poi, sembrava guardare in due direzioni. Da un lato, con la sua affannosa ricerca dei legami tra logge e ’ndrine, il procuratore di Palmi ripercorreva itinerari fatti negli anni precedenti dai magistrati siciliani e dalla Commissione d’Inchiesta sulla P2. Dall’altro lato, tuttavia, l’inchiesta sulla presunta massomafia si proponeva come raccordo di altre operazioni giudiziarie pesantissime. Ci si riferisce all’assassinio di Ludovico Ligato, all’inchiesta sulle tangenti a Reggio, in cui fu coinvolto Manti, e ad altri affari poco chiari, che finirono in nulla.

    Sandro Principe
    Sandro Principe

    Così fu per Riccardo Misasi, nei confronti del quale la Procura di Reggio chiese l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso e corruzione. E così fu per Sandro Principe, all’epoca sottosegretario dei governi Amato e Ciampi, che venne indagato da Cordova per presunti brogli elettorali a suo favore nella Piana di Gioia Tauro. Nel caso di Principe, la vicenda assunse toni grotteschi: la Camera negò a ripetizione la richiesta di autorizzazione a procedere di Cordova e la stessa Procura di Palmi propose alla fine l’archiviazione. Anche sulla base di una considerazione: Principe aveva preso pochissimi voti nella Piana. Solo un fesso, cosa che l’ex sottosegretario non è, si sarebbe esposto per un bottino così magro. Analoghi risultati giudiziari per Misasi: rifiuto dell’autorizzazione a procedere e quindi archiviazione.

    Niente grembiuli per i big?

    E l’appartenenza dei due big alla massoneria? Non risulta dalle carte giudiziarie né dagli elenchi sequestrati al Goi, alcuni dei quali continuano a girare in rete. Stesso discorso per Saverio Zavettieri, che di massoneria non ha mai parlato. L’unico ad avere un ruolo confermato in massoneria è Chieffallo. Ma questa militanza non è collegata a nessuna ipotesi giudiziaria. Restano le dichiarazioni di Monaco, seppellite nelle macerie dell’inchiesta.

    Torniamo a Loizzo. Il venerabile cosentino, si trovò al vertice del Goi in qualità di “reggente” assieme a Eraldo Ghinoi dopo che il gran maestro Giuliano Di Bernardo, altro superconfidente di Cordova, aveva mollato il Goi per fondare la Gran Loggia Regolare d’Italia. Di Bernardo, proprio qualche anno fa, si prese una vendetta postuma nei confronti di Loizzo. L’ex gran maestro del Goi, aveva dichiarato che Loizzo gli avrebbe confidato che su 32 logge calabresi ben 28 sarebbero state infiltrate dalla ’ndrangheta. Ma un ex notabile del Goi ha smentito queste dichiarazioni: è il cosentino Franco Chiarello, che all’epoca della reggenza di Loizzo era segretario regionale del Goi e adesso è animatore della Federazione delle Logge di San Giovanni, una comunione massonica indipendente.

    Giuliano Di Bernardo
    Giuliano Di Bernardo

    «Consultai più volte gli elenchi e posso dire di non avervi mai trovato nomi sospetti». E ancora: «Come mai Di Bernardo ha parlato solo 25 anni dopo quell’inchiesta e a cinque anni di distanza dalla scomparsa di Loizzo?». Infine: «Loizzo non stimava affatto Di Bernardo, anzi: lo trovava poco affidabile e antipatico. Perché avrebbe dovuto fargli quelle confidenze?».
    Interrogativi senza risposte anche questi. Ma probabilmente il “mistero” massonico è fatto di questi e altri equivoci, che si trascinano da un decennio all’altro e da inchiesta a inchiesta.