Categoria: Fatti

  • Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    Calabria abbandonata: è davvero il turismo mordi e fuggi la salvezza?

    In un articolo comparso qualche tempo fa su Repubblica a firma di Fiammetta Cupellaro
    si tornava a parlare dei gradi temi che riguardano le politiche di coesione e sviluppo dell’Italia. Tra questi, le aree interne di cui ormai tutti conosciamo i dati horror: dal numero di Comuni coinvolti, 4mila (il 48,5% del totale di quelli italiani), al tasso di invecchiamento della popolazione e del loro abbandono, in un Paese che già soffre di un livello di emigrazione giovanile preoccupante.

    Riguardo i giovani, il Meridione registra un -6,3% contro il -4,3% del Centro e il -2,7% del Nord. Al Sud i Comuni in declino sono per oltre i due terzi nelle aree interne. Ed è dalle stesse aree meridionali che proviene la metà dei flussi migratori nazionali (46,2%), confermando il triste primato che tutti conosciamo da almeno settanta anni a questa parte. Tra 20 anni l’80% dei Comuni delle Aree interne sarà in declino e la Calabria entro il 2050 scenderà sotto 1,5 milioni di abitanti, con una perdita di circa 368.000 persone rispetto al 2023.

     

    La Calabria che si svuota

    L’ultimo rapporto Demografia e Forza Lavoro del Cnel sottolinea poi come la Calabria sia quella che soffre di più con una continua erosione del suo capitale umano e con un ritardo feroce nel recupero dell’occupazione rispetto ad altre aree, interne e non, del Sud.
    Bassa natalità, alto tasso di emigrazione giovanile, poca offerta di lavoro. Elementi che cozzano con la nuova narrazione di una Calabria proiettata nel futuro che cerca di vendersi a tutte le fiere internazionali come nuova mecca di un turismo ancorato al rafforzamento del sistema aeroportuale regionale in atto.

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    Un aereo sulla pista dell’aeroporto di Lamezia

    Ci si chiede allora: su quale modello di sviluppo sta puntando la Calabria? Può il turismo Ryanair rappresentare il motore della produttività regionale? Qual è il ruolo di piccoli comuni e aree interne in questo processo? E, più in generale, come il governo intende rimettere al centro la metà delle aree del Paese in via di desertificazione demografica, sociale ed economica?

     

    È chiaro a tutti che la questione meridionale, spesso derubricata a retaggio del passato, sia più contemporanea che mai e rappresenti una delle principali zavorre per la competitività di un Paese che ha lasciato le politiche di sviluppo e coesione territoriale a bagnomaria

    Le aree interne e la risposta della bomboniera

    Le prime a cadere sono state le aree interne, abbandonate a loro stesse, e in costante emorragia di risorse pubbliche, private e capitale umano. Da qualche anno a questa parte, a queste aree interne è stata data la risposta della cosiddetta “bomboniera”: trasformare lande abbandonate e cosiddetti “borghi” in paeselli vetrina ad uso e consumo dei turisti della domenica. Un giro in moto, una camminata, una mangiata, una dormitina in un b&b del luogo, qualche foto da condividere sui social con relativo hashtag. Poi tutti a casa. Una strategia del mordi e fuggi non sorretta da flussi turistici in grado di creare un’economia stabile e attrattività strutturale per aree che restano con pochi servizi, e deficit logistici enormi.

    L’Europa e lo Stato

    Lo dicono chiaro anche le scelte politiche effettuate: l’inutile legge salva-borghi, lo squilibrio dei finanziamenti PNRR tra territori di serie A – “borghi pilota” a rischio abbandono finanziati con decine di milioni di euro e un fondo complessivo nazionale di 420 milioni con Gerace che è assegnatario di 20 milioni -, e territori di serie B – 229 borghi ”qualunque” con un fondo di 580 milioni su base nazionale cui la Calabria partecipa con 133 progetti.

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    La sede del Parlamento europeo

    Un piano di attrazione degli investimenti non esiste. Men che meno la capacità amministrativa per lasciare l’attuazione degli interventi finanziati in mano a piccoli comuni, sempre a corto di personale: ingegneri e architetti lavorano a scavalco e gestiscono uffici tecnici di diversi comuni. E i finanziamenti europei programmati nel settennato 2021-2027 per lo sviluppo e il potenziamento di tale capacità amministrativa non sono strutturali. Ci investe l’Europa, ma lo Stato no. E, come è noto, per gli organismi di attuazione dei fondi comunitari conta più dimostrare di saper raggiungere i target di spesa, la quantità, piuttosto che la qualità di quella spesa.

    Si investe male, poco e in modo sperequato rispetto ad un fabbisogno che solo in minima parte riguarda la rigenerazione urbana, la creazione di parchi di varia natura, di percorsi tematici, di azioni di valorizzazione un tanto al chilo che si rivelano progettualità alimentate col respiratore artificiale. Incapaci di stimolare una crescita strutturale basata su politiche di sviluppo di lungo periodo.
    Il modello “bomboniera” non serve a nulla.

    Strategie per le aree interne

    Oltre un anno fa Poste Italiane inaugurava il progetto Polis – Case dei servizi di cittadinanza digitale: 1,24 miliardi di euro per il potenziamento dei servizi digitali alla cittadinanza tramite i 6.933 uffici postali coinvolti nei Piccoli Comuni con meno di 15 mila abitanti. Un progetto di cui non si conosce il livello di attuazione e che comunque non prende di petto il problema dell’occupazione, della logistica e dell’accessibilità che, ad esempio, nella nuova programmazione 2021- 2027, Regione Sicilia ha caratterizzato come Obiettivo di Importanza Strategica.poste-uffici-calabria-riaprono-e-dai-paesini-non-si-fugge-piu

    Bisognerebbe in ordine sparso:

    1. aggregare i servizi tra comuni contigui delle aree interne con l’obiettivo di realizzare un’unione tra enti;
    2. riprogrammare politiche e interventi di sviluppo per il miglioramento delle condizioni di vita e di mobilità nei territori. L’anticamera per attrarre capitali umani e finanziari;
    3. diversificare gli investimenti pubblici, sganciandosi dall’assunto che il turismo (quale turismo?!?) sia panacea di tutti i mali;
    4. Puntare sulla creazione di filiere del lavoro guardando alle caratteristiche e alla vocazioni dei territori;
    5. Stimolare l’attrazione di investimenti privati per la creazione di imprese e posti di lavoro, unico argine allo spopolamento.

    Due “sorprese”

    I dati ISTAT esposti all’inizio danno un elemento curioso quanto ovvio: la speranza di vita nei Comuni Ultraperiferici del Mezzogiorno è più alta di quella riscontrata nei Poli di attrazione dell’emigrazione. In certe aree del Sud, come la Calabria, c’è l’aspettativa di vivere di più.
    C’è poi un altro date interessante sul patrimonio culturale: su 4.416 tra musei, gallerie, aree archeologiche e monumenti e complessi monumentali pubblici e privati italiani, quasi quattro su 10 (39,4%) si trovano nei piccoli Comuni delle Aree Interne, gestiti più o meno alla buona, stagionalmente, spesso ad accesso gratuito, con una striminzita offerta di attività ad essi collegate, poco digitalizzati e senza poter contare su grandi risorse. Un capitale immobilizzato a metà che deve essere sbloccato.

    Collegando questi elementi con investimenti in infrastrutture digitali, in un’agricoltura e allevamento moderni, in servizi avanzati, in produzione di energia pulita, in forme di turismo residenziale e non stagionale, qualcosa potrebbe muoversi.

  • A due anni dalla strage di  Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    A due anni dalla strage di Cutro il popolo migrante continua a morire in mare

    Due anni sono trascorsi dalla tragica notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, quando un caicco carico di speranze e sogni naufragò nelle acque di Steccato di Cutro, portando con sé la vita di 94 migranti, tra cui 35 minori. Oggi, quella spiaggia calabrese è stata teatro di commemorazioni e riflessioni profonde, mentre il Mediterraneo continua a essere scenario di tragedie umane. Secondo i dati congiunti di OIM, UNICEF e UNHCR, negli ultimi due anni oltre 5.400 migranti hanno perso la vita nel Mediterraneo, un numero che sottolinea l’urgenza di interventi concreti per prevenire ulteriori perdite.

    Cutro: la tragedia che poteva essere evitata

    In occasione di questo secondo anniversario, dieci organizzazioni non governative, tra cui Emergency, Medici Senza Frontiere e Open Arms, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta. Esse sottolineano come la tragedia di Cutro avrebbe potuto essere evitata e chiedono l’istituzione di un sistema europeo di salvataggio in mare, evidenziando la necessità di un approccio coordinato e umano alla crisi migratoria. Alle prime luci dell’alba, una veglia si è tenuta sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Candele accese e una corona deposta in mare hanno onorato la memoria delle vittime. Presenti familiari, superstiti e membri della comunità locale, uniti nel dolore e nella speranza di un futuro migliore.

     

    Tenere viva l’attenzione e impedire altre stragi

    La Rete 26 febbraio, l’associazione No profit che è sorta all’indomani della strage e che ha come scopo quello di sensibilizzare l’opzione pubblica verso le politiche migratorie,  ha organizzato una serie di eventi tra Cutro, Crotone, Cosenza e Botricello, con l’obiettivo di mantenere viva la memoria e promuovere un dialogo costruttivo sulle politiche migratorie. Queste iniziative mirano a trasformare il dolore in azione, affinché tragedie simili non si ripetano.
    La segretaria Dem Elly Schlein, ha espresso preoccupazione per le domande ancora senza risposta riguardo alla gestione dei soccorsi durante il naufragio di Cutro. La sua dichiarazione richiama l’attenzione sulla necessità di chiarezza e responsabilità da parte delle istituzioni.

    L’anniversario di Cutro non deve essere solo ricordo

    Questo anniversario non è solo un momento di ricordo, ma un appello urgente all’azione. Le vite perse a Cutro e nel Mediterraneo esigono un impegno collettivo per garantire rotte sicure e legali per chi cerca una vita migliore, affinché il mare smetta di essere un cimitero e torni a essere un ponte tra i popoli.

  • Ricerche svelate, una web serie tra i cubi dell’Unical

    Ricerche svelate, una web serie tra i cubi dell’Unical

    La web serie “Le ricerche svelate” è un progetto innovativo avviato dal Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali (Dispes) e dall’Area Comunicazione dell’Università della Calabria, con l’obiettivo di rendere accessibili al pubblico le ricerche scientifiche condotte all’interno dell’ateneo. Ideata da Daniele Dottorini, docente di cinema, da Antonio Martino e dal sottoscritto, che da anni si occupano di cinema documentario antropologico e di osservazione, la serie rappresenta una collaborazione tra i Laboratori di ricerca del Dispes e l’Area Comunicazione dell’Unical, con il contributo di Laura De Leo, Fabio Grandinetti, Francesco Montemurro, Aldo Presta e Vittorio Scerbo.

    OBIETTIVI E METODOLOGIA

    Il progetto si basa sulla convinzione che il linguaggio audiovisivo possa superare le barriere linguistiche e concettuali che spesso rendono le ricerche accademiche inaccessibili ai non addetti ai lavori. Attraverso immagini, suoni e narrazioni, molti concetti complessi possono essere presentati in modo più intuitivo e immediato, facilitando la comprensione e stimolando l’interesse del pubblico. L’audiovisivo, infatti, ha la capacità di coinvolgere emotivamente gli spettatori, creando un legame più profondo con il contenuto presentato e incentivando ulteriori approfondimenti.

    WEB SERIE UNICAL: UMANIZZARE LE RICERCHE

    La nostra visione è quella di “umanizzare la scienza”, ossia di presentare le ricerche scientifiche attraverso il racconto delle storie personali dei ricercatori, le loro motivazioni e il loro impegno quotidiano. Questo approccio antropologico permette di avvicinare la scienza alla società, rendendola più comprensibile e rilevante per la vita quotidiana delle persone. Ad esempio, quando un ricercatore di biochimica racconta la sua lotta personale contro il cancro e l’impatto delle sue scoperte sulla cura della malattia, il pubblico può comprendere meglio l’importanza del lavoro scientifico e sentirsi maggiormente coinvolto.

    MONNA LISA SMILE

    Il sorriso enigmatico di Monna Lisa è la prima puntata della serie, dedicata allo studio di Alessandro Soranzo, ricercatore del Dipartimento di Fisica, che ha analizzato l’enigmatico sorriso della Monna Lisa. Utilizzando la teoria psicologica dell’organizzazione percettiva, Soranzo ha svelato come la percezione dell’espressione della Gioconda sia influenzata dalla visibilità dei dettagli nell’area attorno alla bocca, introducendo il concetto di “tocco artistico di ambiguità”. Lotta al cancro, la promessa di Marco è la seconda puntata che si concentra sulla storia del dottor Marco Fiorillo, giovane ricercatore calabrese di biochimica, rientrato all’Unical dopo un decennio di esperienze all’estero. Il suo lavoro ha contribuito alla scoperta di nuovi potenziali farmaci per il trattamento dell’adenocarcinoma polmonare, la forma più letale di cancro ai polmoni. Altre puntate sono in fase di realizzazione.

    WEB SERIE UNICAL: IMPATTO E PROSPETTIVE FUTURE DELLE RICERCHE

    La divulgazione scientifica attraverso l’audiovisivo rafforza il ruolo dell’università nella cosiddetta “terza missione”, ossia l’interazione con la società e la condivisione della conoscenza al di fuori dell’ambito accademico. La web serie “Le ricerche svelate” rappresenta un esempio significativo di come l’audiovisivo possa essere utilizzato efficacemente per la divulgazione delle ricerche universitarie e dei centri di ricerca del nostro paese. Attraverso questo format, l’Università della Calabria riesce a portare le proprie scoperte al di fuori dei confini accademici, rendendole accessibili e interessanti per un pubblico più ampio, e contribuendo così alla diffusione della conoscenza e al progresso culturale della società.

    Gianfranco Donadio
    documentarista

  • Parco Aspromonte: il Tar da torto ad Autelitano

    Parco Aspromonte: il Tar da torto ad Autelitano

    Si chiude la controversia legata alla gestione dell’Ente Parco Aspromonte, con una sconfitta per l’ex Presidente Autelitano. Lo scorso 10 febbraio, infatti, è uscita la sentenza del TAR Calabria sul ricorso effettuato dallo stesso Autelitano e da Carmelo Nucera, membro dell’ex Consiglio Direttivo del medesimo Ente, contro il provvedimento di commissariamento emanato dal Ministero dell’Agricoltura e della Sicurezza Energetica (Decreto del Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica n. 0000046 del 06.02.2024).

    Il commissariamento dell’Ente

    Il Ministero, appurata l’allegra gestione delle risorse umane dell’Ente (https://icalabresi.it/fatti/lsu-lpu-aspromonte-illegittime-assunzioni-parco/) emersa da un parere dell’Avvocatura dello Stato cui si era rivolto lo stesso ex Direttore Pino Putortì, oggi in pensione, in una guerra senza esclusione di colpi tra la dirigenza politica e quella amministrativa del Parco (https://icalabresi.it/fatti/parco-aspromonte-autelitano-e-putorti-e-guerra-assunzioni/),  lo scorso febbraio era intervenuto commissariando l’organismo.

    La difesa di Autelitano e gli attacchi alla stampa

    Le truppe di Autelitano avevano iniziato a muoversi ben prima: già a novembre Patrizia Foti, Segretaria Generale Territoriale della UILPA aveva indetto una conferenza stampa in cui, accusando una certa stampa cialtrona di diffondere notizie false e tendenziose, aveva minacciato di scrivere alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per denunciare il “disastro” che – a suo dire – il Direttore avrebbe prodotto annullando le illegittime assunzioni volute dall’ex Presidente. Dopo il commissariamento, a metà maggio dello scorso anno, si era mosso Autelitano in persona, convocando una seconda conferenza stampa per strillare la sua vera verità, annunciando il ricorso al TAR oggi bocciato e parlando di un decreto punitivo (https://www.ilreggino.it/politica/2025/02/15/metrocity-lappello-della-fondazione-mediterranea-non-lasciare-falcomata-solo-in-questa-battaglia/). Era presente anche il senatore Auddino del M5S.

    Arriva la sentenza

    In effetti la sentenza acclara che il provvedimento di commissariamento è sanzionatorio, non punitivo «in quanto costituisce espressione dell’esercizio di un potere di vigilanza sull’operato dell’Ente di cui (…) è esclusivo titolare il Ministero dell’Ambiente» sulla scorta di un’evidente mala gestione del Parco. E questo perché è riscontrabile «una stretta interconnessione» alla base dell’illegittima programmazione adottata dalla Presidenza durante il suo mandato.

    Le assunzioni illegittime

    Tale gestione, solo in ultima istanza sarebbe sfociata negli «improvvidi», seppur legittimi, nulla osta al personale di stanza al Parco verso la Città Metropolitana (deliberazione n. 8 del 27 ottobre 2020, “Programmazione triennale del fabbisogno di personale. Aggiornamento triennio 2020-2022”),   effettuati per fare spazio all’assunzione e all’immissione in ruolo illegittime di 5 ex LSU/LPU.

    Morale della favola: non solo il Presidente e il Consiglio Direttivo non potevano agire come hanno fatto, ma hanno esposto l’Ente ad eventuali future azioni risarcitorie «con conseguente successiva

    eventuale responsabilità erariale a carico dell’Ente medesimo».

    Questo significa che gli effetti dell’azione di Autelitano hanno compromesso per il prossimo futuro la buona amministrazione dell’Ente Parco, minando il buon governo del territorio. Con buona pace di chi si è sgolato ad affermare il contrario.

     

  • Unical e I Calabresi: quando giornalismo e università lavorano insieme

    Unical e I Calabresi: quando giornalismo e università lavorano insieme

    «Tutto quel che è solido si dissolve nell’aria», avvisano Berman e, ben prima di lui, Marx. Non è una bella cosa che quelle quattro certezze cui proviamo da attaccarci siano anche esse destinate a svanire, ma questo è quanto succede. E dentro questi accadimenti, spesso tumultuosi, vogliamo stare per comprenderli e interpretare la complessità dei fatti.
    Per riuscirci ci siano attrezzati al meglio: il nostro giornale, I Calabresi, ha avviato una collaborazione con il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Unical. Una idea lungamente coltivata, poi diventata progetto e finalmente giunta a compimento grazie alla sensibilità del direttore del Dipartimento, Ercole Giap Parini e alla disponibilità dei docenti dei vari corsi di laurea.

    L’Unical e il nuovo percorso per I Calabresi

    Per I Calabresi è l’occasione per esplorare un nuovo sentiero, stavolta da percorrere insieme all’Unical, e nel corso di questo cammino comune vogliamo caratterizzarci come un giornale attento alle dinamiche sociali, all’osservazione dei fenomeni economici e politici, ai mutamenti dell’agire collettivo, seguendo la bussola della interdisciplinarità, che oggi appare il solo strumento in grado di offrire l’opportunità di cogliere le molte sfumature della realtà e la complessità dentro cui ci muoviamo.
    Di qui l’ambizione di avviare un dialogo con tutti gli ambiti di ricerca, sempre più necessari a fornire uno sguardo differente, eppure ineludibile al fine di governare gli eventi cogliendone il senso e la radice. Un impegno di ricerca che parte dai cubi del Dispes, ma vuole correre lungo tutto il Ponte Bucci, cercando di coniugare le Scienze sociali e politiche con le Stem, la sensibilità sociologica con la scommessa dell’IA, l’economia con i territori.

    La terza missione

    I fenomeni migratori, il mutamento della costruzione del consenso sociale, la difesa degli spazi di autodeterminazione personale e comunitaria, le forme della comunicazione nell’era digitale e della post verità, le relazioni possibili tra l’umano e il post umano, saranno alcuni degli argomenti cui ci piacerà rivolgere lo sguardo curioso e autorevole, perché basato sul lavoro di ricercatori e accademici di vaglia.
    In questo modo I Calabresi si candida a diventare spazio di confronto, luogo didattico, palestra di scrittura, estensione delle aule, strumento di divulgazione di iniziative, seminari e ricerche, provando a dare un contributo alla realizzazione della Terza missione dell’Unical.
    Perché solo il sapere condiviso è davvero potente e cambia i destini delle persone e dei luoghi.

  • Quando i fatti li costruiscono i social: un rapimento (finito bene) e il suo racconto

    Quando i fatti li costruiscono i social: un rapimento (finito bene) e il suo racconto

    «La bambina sarà restituita presto alla “braccie” (testuale, nda) dei genitori» annunciava fiero il giornalista, quando ormai era certo che la neonata fosse stata ritrovata. Quello che lui non sapeva è che intanto i social, nel corso del tempo durante il quale ancora non si conosceva l’esito del rapimento, avevano scatenato l’inferno.
    La storia della bambina rapita a Cosenza e tempestivamente ritrovata si è presentata sin da subito come un esperimento sociale che alla fine ha decretato la morte o, almeno, le gravi condizioni del giornalismo.

    La notizia viaggia su Whatsapp

    Dopo pochissimo tempo dal rapimento consumatosi in una clinica cosentina, sono stati i social e particolarmente i gruppi whatsapp a marcare la notizia, dando vita a un fenomeno non nuovo e tuttavia non di meno particolarissimo, secondo il quale chi dà la notizia è al tempo stesso destinatario della notizia stessa, una sovrapposizione tra chi informa e chi viene informato, tra chi forgia l’opinione pubblica e l’opinione pubblica stessa, in un vortice di racconti, ricchi di dettagli e però quasi sempre del tutto inaffidabili, generati e diffusi con la bramosia di conoscere la storia, ma anche di partecipare alla sua costruzione e al suo racconto. Tutti consumatori e produttori di fatti che viaggiavano sui cellulari senza alcuna possibilità di conferma.
    È accaduto così che gli eventi venissero divulgati con la inscalfibile certezza della verità, per poi trovare smentite altrettanto aleatorie e tuttavia spacciate per certe. Ma non poteva bastare.

    E infatti accanto alla divulgazione di notizie su come e su chi avesse compiuto l’esecrabile crimine, ecco comparire la vena da consumato opinionista che abita in ogni individuo. Di qui i giudizi, espressi sempre con il tono di chi ha capito ogni cosa, sulla clinica, sulla trascurabile sicurezza della struttura, sull’etnia dei rapitori. Che uno di loro fosse di un colore diverso dalla maggior parte di noi, è stato sin da subito un boccone troppo ghiotto per essere trascurato.
    «L’hanno trovata», gridava su un gruppo whatsapp qualcuno comprensibilmente entusiasta, aggiungendo che «a chiru merda du nivuru l’hanno minato», ottenendo grandissimo consenso.

    Il giornalismo dei telefonini e la bambina rapita a Cosenza

    Quello della bambina rapita a Cosenza è stato il trionfo e la sciagura del citizen journalist.
    Il trionfo perché l’attenzione della maggior parte dei cosentini era mirata sugli schermi dei telefonini, da dove si generavano e si divoravano informazioni, mentre le testate giornalistiche, salvo una maggiormente presente sul fatto, attendevano sviluppi certi per annunciarli.
    Ma pure la sciagura, perché nessuna delle notizie che circolavano senza controllo appariva sufficientemente autorevole, venendo da chi parlava per sentito dire, masticando notizie di seconda mano, aggiungendo dettagli con il solo scopo di apparire informato, amplificando giudizi che erano nella maggior parte dei casi luoghi comuni privi di sostanza, buoni sentimenti venduti a saldo, odio e aggressività a piene mani contro i criminali da sottoporre alle pene più sadiche possibili.

    «Sono i social, bellezza, e non puoi farci niente» potremo dire parafrasando Hutcheson – Bogart, è la surmodernità della realtà manipolata, dove i fatti perdono la loro durezza per essere sconfitti dalle narrazioni narcisistiche di chi rivendica il proprio bottino di like.
    Ma dentro questa storia c’è pure la immortale potenza dell’arcaico, del mondo antico che resiste a ogni forma di declinazione della modernità e si prende il suo posto: il mito dell’uomo nero che rapisce i bambini.

    Vecchie paure e nuove tecnologie: l’Uomo nero finisce sui social

    In questa storia si sono sovrapposti metodi narrativi dei fatti capaci di coniugare tecnologie sofisticate e antiche forme di persuasione di massa, assieme a suggestioni ataviche e paure collettive capaci di scatenare rancori sociali, sempre utili a costruire un nemico comune, alimentare odio e basse emozioni. Il trionfo di tutto quanto è nella folla festante munita di telefonini che ha atteso davanti alla clinica l’arrivo delle forze dell’ordine con la bambina. I selfie obbligatori per dimostrare di esserci, i video per provare di aver fatto parte di una storia e per poter dire “io c’ero”, la conquista di un like che diventa “l’amen digitale” – come scrive Byung-chul Han –  su una vicenda finita bene e che racconta come siamo diventati.

  • Il patriarcato uccide, ma dirlo è ancora difficile

    Il patriarcato uccide, ma dirlo è ancora difficile

    L’aula è affollata, qualcuno si siede sui portaombrelli, alcuni rimangono in piedi, molti cercano di ascoltare dal corridoio. Ma il silenzio è totale. Il brusio della quotidianità ha lasciato spazio alle emozioni, difficili da esprimere, e alla voce pacata di Gino Cecchettin, il padre di Giulia, che in collegamento da Padova parla con gli studenti del Dispes in un incontro organizzato dallo stesso dipartimento. A guidare il dialogo è il docente di Relazioni internazionali Marco Clementi, che dà subito la parola al direttore del Dispes, Giap Parini e  poi alla  sociologa Giovanna Vingelli, Delegata Pari Opportunità e Diversità, ben presto subentrano i numerosi interventi, in un botta e risposta continuo fatto di riflessioni, ascolto reciproco e un forte carico emotivo.

    Un’aula piena di persone ed emozioni

    Tra gli studenti qualcuno si scusa per la voce tremante, o anche solo per aver posto una domanda. Ci si sente inopportuni, indelicati, si sente di non avere il diritto di chiedere niente a un uomo le cui sofferenze sono indescrivibili e che tuttavia offre tutta la sua disponibilità a questo dialogo intenso ed emozionante. Parlare è difficile, ma si prova a farlo lo stesso e dal confronto emergono riflessioni preziose. Tutto ha origine con Giulia, una ragazza di 22 anni la cui storia è diventata a noi tragicamente nota l’anno scorso, quando il suo ex ragazzo la uccise.

    La sua vita ci viene restituita oggi dalle parole amorevoli di suo padre, che la ricorda come una ragazza generosa, una fonte di gioia per i suoi cari. Gino racconta di aver imparato molto da lei. Forse è proprio nel ricordo della capacità di Giulia di riconoscere il lato bello delle cose, che lui trova la forza di definirsi una persona fortunata. Come può essere fortunato un uomo che ha perso sua figlia, poco dopo aver perso sua moglie? Lo spiega lui stesso. Dice: “ho vissuto 22 anni con Giulia”, un regalo che rende sopportabile vivere col dolore della sua perdita.

    Dal dolore la scelta di dare vita a una Fondazione

    Gino è un padre affranto ma anche un uomo dotato di forza e lucidità, è concreto, razionale, consapevole del problema collettivo della violenza di genere e desideroso di fare del bene. Il dolore, dice, lo accompagnerà sempre, ma rabbia e odio non vuole portarli con sé. Lo sguardo è proiettato verso il futuro. E la Fondazione Giulia Cecchettin, che come simbolo ha scelto uno dei disegni di Giulia, diventa quindi un modo per onorarne la memoria ma anche offrire sostegno alle vittime di violenza e portare avanti progetti di sensibilizzazione su tematiche di cui si parla troppo poco e spesso male. Su questo Gino è molto chiaro: per il dolore personale ha ricevuto sostegno da parte di tutti, dalle persone estranee alle cariche pubbliche, ma quando si è cercato di interrogarsi sul perché dell’accaduto è calato il silenzio. Parla di distacco istituzionale.

    La pericolosa illusione che il patriarcato sia finito

    “Empatizzano con la storia,” afferma “ma si ha difficoltà a condividerne le cause”. Nell’analisi del fenomeno a un certo punto la discussione si è fermata, forse perché, sostiene Gino, non esiste la reale volontà di mettere in discussione il proprio passato e l’attuale presente. Perché non illudiamoci, che il patriarcato sia finito non è altro che una lettura distorta della realtà a discapito dei fatti e delle persone che ne pagano le conseguenze ogni giorno, donne e uomini. Quando poi sono cariche istituzionali a sostenere che esso non esista, la situazione è grave, per non dire pericolosa.

    Lo stesso pericolo, nonché la stessa subdola negazione, si annida nella parola “mostro”. Affermare che uno stupratore sia un mostro afferma Gino, equivale a “delegare la responsabilità al singolo individuo”, mentre la violenza, soprattutto forse se violenza di genere, non è mai solo un atto personale, ma un fenomeno socioculturale. E bisogna affrontarlo in tutte le sue sfaccettature. Perché il sessismo non si conclude nei gesti, ma si costruisce e rigenera anche nelle forme di narrazione che descrivono la donna come vittima passiva e intrinsecamente colpevole. Persino le forme di prevenzione assumono connotati maschilisti, sottolinea una studentessa: si insegna alle donne come difendersi, ma non si è disposti a decostruire l’immaginario collettivo della figura e del potere maschile.

    Parlare ai ragazzi di oggi che saranno gli adulti di domani

    Da questo punto di vista, la Fondazione desidera impegnarsi per portare il dibattito all’interno delle scuole, assicura Gino. Una ragazza lì presente ne coglie l’importanza, sostenendo che è necessario parlare di violenza nelle università ma non sufficiente, perché “è già troppo tardi”. Azzarda poi l’ipotesi di un’educazione per adulti, mista alla preoccupazione per le voci autoritarie che minimizzano la questione di genere.

    Gino ha le idee chiare in proposito: i cambiamenti si mettono in atto lentamente e trasversalmente, attraverso la non violenza (che magari fa meno rumore, ma è la via più giusta ed efficace) e la tempestività: è necessario mobilitarsi da subito perché “i ragazzi di oggi sono gli adulti di domani”. E questo forse restituisce anche un po’ il senso di creare una fondazione. Non solo il desiderio e la necessità di ricordare una persona amata, ma anche e soprattutto la volontà di costruire una strada per le generazioni future, favorire processi di mutamento che si realizzeranno solo con il tempo. “Forse io non vedrò questo cambiamento, ma voi sì” conclude. L’atto ultimo di generosità, fare qualcosa per gli altri senza vederne mai i frutti.

    Mariaida Cicirelli

     

     

  • Vittoriana Abate in onda su Rai uno con “Le voci delle donne”

    Vittoriana Abate in onda su Rai uno con “Le voci delle donne”

    Vittoriana Abate in onda domenica 24 novembre su Rai Tre alle 13:00 con la prima puntata di “Speciale Le Voci delle donne”. Il programma, condotto dalla giornalista di Rai Uno Vittoriana Abate, è un faro acceso sul drammatico fenomeno del femminicidio. Un viaggio attraverso le testimonianze di donne vittime di violenza affidato al ricordo dei familiari di quelle donne – anche molto giovani – che non ce l’hanno fatta e al racconto di quelle più fortunate che sono sopravvissute; senza dimenticare il dolore e le difficoltà di chi resta, gli orfani di femminicidio.

    L’obiettivo è quello di avvicinare – e provare a spiegare – le radici della violenza sulle donne grazie agli interventi di ospiti del mondo della cultura e delle Istituzioni con i quali passare in rassegna gli strumenti legislativi messi in campo per la prevenzione e il contrasto di questa vera e propria ‘piaga’ sociale. E’ stato inserito nella programmazione della direzione approfondimenti Rai guidata dal direttore Paolo Corsini. “Non mi abituerò mai a considerare queste drammatiche vicende solo un ennesimo caso di femminicidio”, sottolinea Vittoriana Abate, tra l’altro autrice assieme all’avvocato e docente universitario Cataldo Calabretta del saggio “Sulla pelle e nel cuore. Quei bravi ragazzi che uccidono” (Graus Edizioni); che ha fornito lo spunto per la realizzazione del format nell’ambito delle strutture del vicedirettore vicario Marco Caputo e del vice direttore Giovanni Alibrandi . Il set, prevede una parte di riprese in esterno – ambientata sulla Piazza di Montecitorio – ed una parte in uno studio televisivo.

    La scena è allestita con panchine e scarpe rosse ed il racconto si avvale anche di una serie di servizi filmati ed interviste.

    Il messaggio che si vuole veicolare è indissolubilmente legato alla consapevolezza che la violenza sulle donne non può essere confinata a mera faccenda privata: la storia delle vittime di violenza può essere la storia di chiunque, anche la nostra. Quindi nessuno può sentirsi escluso dal formulare risposte e da adottare comportamenti che alimentino e rafforzino la cultura del rispetto a cominciare da una presa d’atto: qualunque cosa abbia a che fare con la violenza non può essere chiamato amore.

  • Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Pino Iacino, il sindaco socialista di una Cosenza che non c’è più

    Cosenza era diversa, molto. Corso Mazzini era ancora attraversato dalle macchine, c’era la Standa, il bar Manna e il bar Gatto, la coraggiosa esperienza del Giornale di Calabria provava a rompere il monopolio della Gazzetta,  lo spazio davanti Palazzo degli Uffici era pieno di eskimo e sciarpe rosse e a un certo punto della sera si decideva di andare al cinema, all’Italia. Il biglietto costava 500 lire e il cinema cambiava programmazione ogni giorno. Era il 1975 e a Palazzo dei Bruzi sedeva un socialista, si chiamava Battista Iacino, ma per tutti era Pino, al punto che in tanti erano persuasi si chiamasse Giuseppe.

    Pino Iacino e la giunta rossa

    Governava la città con una giunta di sinistra, la sola della storia non breve di Cosenza. Allora le giunte nascevano dentro i consigli comunali, la legge che avrebbe consentito ai cittadini di scegliere direttamente il sindaco sarebbe arrivata molti anni dopo ed erano gli equilibri tra i partiti a livello nazionale e quelli tra i potentati della città a decidere quali maggioranze avrebbero dato vita a una giunta. Per una alchimia che mai più si sarebbe ripetuta il Psi si unì al Pci, tirando dentro Psdi e Pdup e Cosenza ebbe la sua prima giunta rossa.

    La Cultura a un intellettuale comunista

    L’Assessorato alla cultura con Pino Iacino sindaco andò a Giorgio Manacorda, intellettuale comunista, docente universitario. Sono gli anni in cui il cinema Italia rinasce e nella sua sala, sotto la gestione pubblica, vengono proiettati film e registi che mai sarebbero giunti a Cosenza:  Jodorowski, Arrabal, il cinema francese, Pasolini. È in quella sala che la mia generazione ha visto la fantasmagorica esplosione del finale di Zabriskie Point. Ma sono gli anni in cui il Rendano splende per la proposta culturale e per essere diventato teatro di tradizione, mentre nel salotto buono della città il Living Theatre porta lo scandalo dell’immaginario e sotto un tendone da circo muove i primi passi la Tenda di Giangurgolo, da cui sarebbe nato il Teatro dell’Acquario. Su Corso Telesio intanto apriva la prima libreria Feltrinelli.

    La città ai cittadini mentre tutto sta cambiando

    È la prima volta che l’idea che i cittadini possano abitare davvero la casa municipale si fa avanti. Sarà ripresa senza troppa fortuna anni dopo da un gruppo di matti che daranno vita a Ciroma. Quella è stata probabilmente la migliore Cosenza di sempre, ma stava già cambiando. Come in un film di mafia nel 1977 viene assassinato Luigi Palermo, capo incontrastato della malavita non ancora organizzata e la città precipita in una guerra sanguinosa, sul piano politico si annunciano gli anni di piombo.

    Ma in quella fase storica nulla avrebbe fermato il lavoro della giunta rossa e del suo sindaco, che ressero a tutto malgrado in consiglio avessero una maggioranza risicata.  Cosenza conoscerà con Pino Iacino il suo punto più alto di crescita urbana, civile e culturale e quella esperienza finirà nel 1980. Dopo torneranno le camarille, gli accordi, le alleanze strumentali al saccheggio. Oggi Pino Iacino non c’è più, quella sua Cosenza è scomparsa da un pezzo.

  • Il modello droni non basta a salvare l’Aspromonte dal fuoco

    Il modello droni non basta a salvare l’Aspromonte dal fuoco

    A babbo morto. Dopo che anche quest’anno si è sfiorato il disastro col fuoco divampato nel cuore del Parco Aspromonte a pochi chilometri dalle faggete vetuste, si fa la conta dei danni: 50 ettari andati in fumo a Polsi in piena area protetta (zona A) cui si somma il vasto incendio dei Piani di Lopa di Bagaladi dello scorso agosto.

    Il 28 maggio 2024 la Prefettura di Reggio aveva presieduto una riunione di coordinamento per la mitigazione del rischio incendi boschivi con Comune, Metrocity, Ente Parco, Calabria Verde, Vigili del fuoco, Anas, Rfi, Prociv regionale e forze dell’ordine. Mezzi e uomini erano stati garantiti da Calabria Verde (11 Dos, 20 squadre, 5 autobotti a Oppido Mamertina, Bagaladi, Bova, Bovalino e Mammola). Il Parco aveva annunciato i contratti di responsabilità con 15 associazioni di volontariato per le attività di prevenzione, avvistamento e primo spegnimento nelle 15 aree in cui è suddiviso. Tutto il resto a cascata, ognuno per la propria area di competenza. E non è bastato.

    Oggi è una beffa conoscere il destino di quei mezzi forniti da Calabria Verde. Due vasche mobili erano state posizionate al Santuario di Polsi e a Bagaladi, le aree che hanno bruciato di più e per ordini di ragione presumibilmente diversi, se è vero che il fuoco di Bagaladi è stato causato da un fulmine. Per Polsi si parla di un incendio ripartito nella stessa notte almeno 3 volte in una zona impervia, difficilmente raggiungibile, in generale poco battuta e fuori dai normali circuiti di frequentazione del grande pubblico. Un incendio divampato alla fine di una stagione particolarmente secca e proprio a chiusura delle annuali celebrazioni della Madonna della Montagna, quest’anno ancora più restrittive: inibiti l’area mercatale, il transito dei veicoli a diversi km dal santuario e la presenza degli ambulanti privi di certificazioni Haccp e di registratori per gli scontrini fiscali. Nonostante fosse stata predisposta una navetta, non è stata sufficiente e sono comunque mancati coordinamento e comunicazione della logistica per permettere ai fedeli di organizzare gli spostamenti.

    Proprio la scorsa settimana al TG1 andava in onda un servizio sulla prevenzione agli incendi adottato da Regione Calabria con la legge regionale del 27 marzo 2024 e basato sull’utilizzo dei droni: 30 al momento quelli che sorvolerebbero giornalmente i territori. Il provvedimento stanzia 2,5 milioni l’anno per il triennio 2024-2026 e traccia un indirizzo politico preciso: utilizzare il modello droni per costruire tutta la strategia regionale per la tutela del territorio richiamandola nel Piano contro gli incendi boschivi 2024, approvato con delibera 174 dello scorso 15 aprile, cui dovrebbero essere allegati i piani dei singoli parchi. Tutti confluiti nel Programma regionale ponte per lo sviluppo nel settore della forestazione e per la gestione delle foreste regionali 2024. Una serie di atti di indirizzo e norme transitorie in attesa della finalizzazione e dell’approvazione del “redigendo nuovo programma regionale per le attività di forestazione e per la gestione delle foreste regionali”.

    Nonostante il commissariamento l’Ente Parco Aspromonte ha approvato il proprio Piano antincendio boschivo 2024 –2028, con un modello che guarda invece alla sperimentazione avviata da Perna e Bombino e prevede il coinvolgimento attivo delle comunità attraverso i contratti di responsabilità con avvio previsto dalla determina 257 del 17 luglio 2024. A ogni zona del Parco avrebbe dovuto essere assegnata un’associazione tra coloro che avevano inviato la propria manifestazione di interesse a collaborare con il Parco. Tutto bene, si dirà. Invece no, perché, a quanto riferiscono alcune fonti, le manifestazioni di interesse giunte sarebbero state inferiori al fabbisogno stimato. Questo ha condotto a un dato e due riflessioni: per coprire l’intera zonizzazione, il Parco avrebbe assegnato la sorveglianza di più zone alla stessa associazione, da una parte impattando sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione di quelle associazioni e, dall’altra, dimostrando che diversi operatori del territorio non troverebbero interesse a collaborare con l’Ente Parco.

    La prima parte della determina dell’Ente Parco nazionale d’Aspromonte n° 257 del 17 luglio 2024

    Emergono dunque una serie di criticità: se il modello droni, non ancora a regime, può rappresentare un sistema di monitoraggio e raccolta dati utile, non è sufficiente ad fronteggiare un problema che non può essere risolto con azioni repressive di giusta tolleranza zero, ma che deve prevedere il coinvolgimento e la sensibilizzazione delle comunità e delle loro associazioni. Serve un approccio misto, anche perché i droni possono essere utilizzati con ottimi risultati per la lotta agli incendi di vegetazione che colpiscono le aree al confine tra aree urbanizzate e vegetazione – come descritto nel servizio del TG1, ma poco possono fare contro gli incendi boschivi che si sviluppano sotto il fitto manto degli alberi che inibisce la visuale dell’occhio elettronico, spesso oggetto di attacco di specie rapaci molto territoriali. E perché non battere anche la strada del monitoraggio satellitare concludendo le interlocuzioni avviate tra Nasa, Città Metropolitana ed Ente Parco prima del commissariamento?

    Per Luca Lombardi, Presidente dell’Associazione Guide Parco Aspromonte il punto non riguarda solo il metodo, ma come viene applicato: “Perché l’area intorno a Polsi, così come altre zone spesso interessate dai roghi, non vengono monitorate maggiormente”. Dalla zona di San Luca e Natile di Careri abbiamo potuto raccogliere testimonianze di chi è arrabbiato per lo stato in cui versa Polsi, madre di uno dei culti mariani più importanti del Meridione, tutt’oggi poco accessibile, senza una strada sicura che conduca al Santuario. Questo il ragionamento: Polsi è rimasta come secoli fa, della strada annunciata da Occhiuto non c’è traccia e i divieti sono sempre più stringenti e quest’anno è stato vissuto un disagio enorme da parte di fedeli e operatori commerciali. Può questo elemento costituire un movente che spinge qualche scellerato a ricorrere al fuoco come arma di protesta?».

    E può una politica puramente repressiva rappresentare una soluzione di lungo periodo senza azioni di educazione, formazione e mediazione dei conflitti? Nell’attesa di una risposta i boschi calabresi, nostro patrimonio, continuano a bruciare.