Categoria: Fatti

  • Sergio Abramo, l’eterno “sindaca” che voleva essere governatore

    Sergio Abramo, l’eterno “sindaca” che voleva essere governatore

    Nel suo celebre romanzo d’esordio, Triste, solitario y final, Osvaldo Soriano narra di uno Stan Laurel (Stanlio) che ingaggia l’altrettanto noto investigatore Philip Marlowe affinché scopra perché nessuno lo faccia più lavorare. Ecco, abusare del già citatissimo titolo di quel libro può aiutare a rendere l’atmosfera in cui si consuma l’epilogo istituzionale del più volte sindaco di Catanzaro Sergio Abramo. Che altra metafora si può d’altronde usare per uno che sembrava intramontabile, che nel suo curriculum inserisce il megaconcerto di Vasco Rossi a Catanzaro, che ha nella gallery del Comune una foto con Patti Smith, che pur non arrivando a un metro e sessanta è stato il centravanti della nazionale italiana dei sindaci?

    Per descriverlo non serve molto di più di quanto non abbia detto lui stesso nella lunga parabola iniziata, anche se lo ricordano ormai in pochi, come papabile candidato a sindaco del centrosinistra negli anni ’90. E proseguita come acclamato uomo-del-fare poi incoronato pluricampione del centrodestra.

    Abramo
    La strana coppia Sergio Abramo e Patty Smith

    Il tour «veni trovami» con Riccardo Iacona

    Nel suo ultimo messaggio di auguri da primo cittadino, quello di Capodanno, ha richiamato «tanti momenti ed emozioni» vissuti con la fascia tricolore, ma non ha nascosto la speranza di «essere ricordato, tra pregi e difetti, come il sindaco che ha dato un volto nuovo al capoluogo». Certo Catanzaro era molto diversa nel 1997, quando vinse le elezioni per la prima volta con un largo consenso confermato, con il 70%, nel 2001.

     

    Certo oggi neanche lui è lo stesso di quando le impietose telecamere di Riccardo Iacona immortalarono – rendendolo davvero immortale – il suo modo strapaesano di fare campagna elettorale. «Tutt’appast?» e «veni trovami» entrarono nell’immaginario collettivo, come le strette di mano e i baci seriali che dispensava agli elettori per le vie della città. Non serviva aggiungere altro al saluto, alla garanzia della sua presenza proprio nel momento in cui ci si aspettava che fosse presente e a disposizione.

    I tormentoni di Sergio Abramo

    All’epoca non era solo un politico ma un imprenditore quotato. Con le sue «7-8 società» riusciva a garantire un’occupazione a «circa 2700 lavoratori», tanto da far dire all’autore di Presa Diretta che «Sergio Abramo è un po’ come gli Agnelli a Torino». Lui si schermiva e aggiungeva orgoglioso di non essere iscritto a nessun partito. Eppure negli anni le tessere non gli sono mancate. Così come le frasi-tormentone che gli sono scappate più volte in pubblico.

    Agli annali restano espressioni, rivolte a cittadini spesso esasperati per le più svariate e serie ragioni, come «a ‘mmia non mi dissaru nenta» e «ti cercavi voti io?». Così com’è agli atti, anche delle forze dell’ordine, la baruffa scoppiata davanti alla sede della Provincia con uno degli esponenti della sua maggioranza: si rinfacciavano reciprocamente certi giochetti elettorali che fecero perdere al centrodestra, all’esordio della riforma Delrio, la guida dell’ente. Più recente, ma altrettanto gustosa, è la caricatura che Ivan Colacino fa del «sindaca» esasperando la sua dizione piuttosto “aperta”.

    https://www.facebook.com/ivancolacino82/videos/5203928802972980

    Tutt’altra storia rispetto agli ultimi rantoli del consiglio comunale destinato a rinnovarsi nella prossima primavera. Già qualche giorno prima di Natale lui stesso minacciava di «staccare la spina» di fronte a una scena abbastanza decadente: in aula è stata sfiorata la rissa non per questioni importanti per la città, bensì per l’abbigliamento di un assessore contestato da un consigliere.

    I primi saranno gli ultimi

    Un motivo ci sarà se l’ultimo “Governance Poll” di Noto per Il Sole 24 Ore ha piazzato Sergio Abramo in coda tra i sindaci calabresi con un -14,4% rispetto al 64,4% delle elezioni del 2017. Proprio lui, che è sempre stato tra i sindaci con il più alto gradimento su scala nazionale, già nel 2020 aveva mostrato un calo fermandosi al 51esimo posto. Oggi diventato il 70esimo (su 105).

    È evidente che i problemi sono tanti e le emergenze infinite. Si sa che governare non paga e il potere logora anche chi ce l’ha. Ma forse anche lui aveva pensato a un finale diverso – sempre che abbia mai pensato a un finale – quando, da rampollo di una famiglia di artigiani della tipografia, si affacciava alla politica. Maturità scientifica e corsi di management alla Bocconi, nel 1993 era presidente dei giovani industriali calabresi e nel 1996 entrava nella Giunta nazionale di Confindustria. Un anno dopo arrivava la prima elezione a sindaco, dopodiché diventava anche presidente di Anci Calabria.

    La maledizione di Palazzo Campanella

    Nel 2005 il coronamento della carriera doveva essere la presidenza della Regione, a cui si era candidato con il centrodestra, ma è stato sconfitto da Agazio Loiero, l’unico riuscito a strappare al centrodestra anche il capoluogo con la vittoria (2007) di Rosario Olivo. L’avvento di Peppe Scopelliti alla Regione (2010) gli ha portato in dote un paio di anni da presidente di Sorical. Dopo dei quali (2013) è tornato al posto a cui sembra destinato per diritto divino: sindaco di Catanzaro per la terza volta.

    Quella attuale è la quarta. Nel frattempo (2016) ha lasciato l’azienda di famiglia ed è diventato (2018) anche presidente della Provincia. Proprio l’ente intermedio un tempo preso a modello di buona amministrazione è oggi il suo principale cruccio. La Provincia è sull’orlo del default e rischia di non riuscire a pagare nemmeno lo stipendio ai dipendenti: ha un disavanzo – dovuto al peso di alcuni derivati risalenti al 2007 – di 12 milioni all’anno.

    Gettonopoli

    A Palazzo de Nobili, al netto del sarcasmo sull’intitolazione dell’edificio dopo le diverse inchieste che lo hanno investito, l’aria non è più mite. Il centrodestra è diviso in mille rivoli avvelenati e ci vorrà un intervento romano per individuare il suo successore. Intanto c’è l’onta, benché presunta, del consiglio comunale più indagato d’Italia con i due filoni dell’inchiesta “Gettonopoli” riuniti in un unico troncone processuale che coinvolge 19 consiglieri.

    Queste ombre non lo hanno neppure sfiorato, ma pure politicamente di recente per lui non c’è stata neanche una gioia. «Quando vado in Regione – ha assicurato – non si muove nulla senza il parere di Catanzaro». Intanto negli ultimi due anni il centrodestra ha vinto due volte le Regionali, ma né Jole Santelli né Roberto Occhiuto hanno dato soddisfazione alla sua ambizione mai celata di entrare da amministratore anche all’ultimo piano della Cittadella.

    Dalla Lega a Toti

    È passato, nel giro di pochi mesi, dalle simpatie (ricambiate) per la Lega all’autoconferma in Forza Italia, per approdare subito prima delle Regionali alla creatura centrista di Toti e Brugnaro. Nemmeno il passaggio a “Coraggio Italia” gli ha però giovato: il suo candidato al consiglio regionale, Frank Santacroce, è rimasto fuori perché sorpassato dal vibonese Francesco de Nisi.

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    Sergio Abramo con Luigi Brugnaro, leader di Coraggio Italia

    Anni di amore-odio col suo grande elettore Mimmo Tallini alla fine non sono serviti al grande salto. Altrettanto altalenanti sono state le sue relazioni con le grandi famiglie imprenditoriali di Catanzaro. Prima, fino al terzo mandato, erano tutti con lui. Poi qualcosa si è rotto, pare a causa di autorizzazioni comunali a supermercati che hanno incrinato certi monopoli. Così parte dell’élite degli affari ha finito per appoggiare alcuni suoi avversari. Puntualmente sconfitti nelle urne.

    Il delfino è Polimeni ma sta con Mangialavori

    Il suo uomo ombra più vicino, negli anni, è stato il capo ufficio stampa del Comune Sergio Dragone, che però a gennaio del 2019 si è dimesso per ragioni «personali». Era lui il vero pontiere con Tallini. Oggi il delfino più quotato è Marco Polimeni, presidente del consiglio comunale che ambisce ad essere il suo successore. E che intanto, per sicurezza, si è accasato con il senatore/coordinatore forzista Giuseppe Mangialavori.

    Abramo (al centro) con Baldo Esposito (primo da sinistra) Baldo Esposito e Marco Polimeni (secondo da destra)

    Tra pochi mesi Sergio Abramo non sarà più sindaco e decadrà automaticamente anche da presidente della Provincia. Un po’ solitario lo è sempre stato, ma ha avuto dietro, intorno e sotto un bel po’ di cortigiani che oggi cercano protezione altrove. Quanto possano rivelarsi tristi e finali i prossimi passaggi della sua lunga avventura politica lo si scoprirà a breve. Si tratta pur sempre di un navigato goleador. A cui però nessuno, dopo vent’anni di gloria, pare voler offrire più neanche uno scampolo di partita nel campo della politica che conta.

  • Ciccio Cannizzaro, quando la politica è questione di profumo

    Ciccio Cannizzaro, quando la politica è questione di profumo

    Profumato è profumato, nessun dubbio. La fragranza che lo identifica – adatta a chi paga tavolo e bottiglie di champagne quando la comitiva si riunisce nei privé delle disco – ne annuncia l’arrivo ancor prima che si manifesti fisicamente, alle riunioni politiche come alla Camera. È forte a tal punto, quell’effluvio, che alcuni colleghi lo hanno ribattezzato con la perfidia dei ragazzi un po’ invidiosi: «Ciccio profumo». Ecco, sta arrivando «Ciccio profumo», e partono i sorrisini beffardi di chi, ogni volta, prova a metterlo in ridicolo, pur temendolo parecchio.

    Che sia un ragazzo dal buon odore, dunque, è fuori discussione. Ma Francesco “Ciccio” Cannizzaro può anche essere considerato un profumiere, ovvero uno che promette qualcosa di impossibile, che seduce nella consapevolezza di deludere, insomma uno che millanta un potere che, in effetti, non ha? Qui la questione si fa molto molto più complicata, senza che peraltro si possa giungere a una risposta univoca o condivisa.

    Un politico che ostenta

    Certo è che il giovane deputato e coordinatore provinciale reggino di Forza Italia, quarant’anni a giugno, è uno che ostenta parecchio. Si pavoneggia, si intesta successi, pensa in grande. E, spesso, riesce a convincere gli interlocutori di turno del fatto che lui stesso sia grande, un grande politico.
    Non prova mai imbarazzo, Cannizzaro; come quando, pochi giorni fa, per ben due volte ha dato il suo personale e convinto – ancorché, ovvio, del tutto ininfluente – endorsement nientemeno che al Cavalier Silvio Berlusconi («è ultramotivato e sarà un presidente super partes»).

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    Berlusconi e Cannizzaro

    Solo una civetteria, in fondo, una comune cosetta da politici mitomani; ma il punto è che, quando il giovane Ciccio fa una mossa, instilla sempre il dubbio che, davvero, lui possa essere arbitro e decisore di quella ben determinata questione, fosse anche il voto per il presidente della Repubblica.
    È uno che ci crede, Cannizzaro, uno che non ha mai coltivato dubbi e che la politica, quella cosa fatta di «sangue e merda», checché ne dicano i (tanti) detrattori, la mastica meglio di tanti altri mestieranti sulla breccia.

    Caridi la chioccia

    Inizia dal suo paese, Santo Stefano d’Aspromonte, luogo risorgimentale in cui il ventenne Ciccio viene eletto per due volte consigliere e scelto per altrettante come assessore. Il paese nei cui confini sorge la più rinomata Gambarie sta stretto alle sue ambizioni e se ne allontana presto. Coltiva amicizie e legami importanti, tra cui quello privilegiato con Antonio Caridi, potente assessore regionale nella Giunta Scopelliti e poi senatore, prima della rovinosa caduta per via giudiziaria.

    Cannizzaro diventa consigliere della Provincia guidata da Peppe Raffa ma quello scranno lo occupa per poco tempo. Dopo l’elezione in Parlamento dell’amico Antonio, infatti, si libera uno spazio in Regione e lui, che di quel blocco di potere è uno dei più promettenti terminali politici, fa il primo grande salto. Siamo nel 2014 e trionfa il centrosinistra di Oliverio. Cannizzaro entra in assemblea con la Casa della libertà e con in dote più di 6mila preferenze.

    Il modello Reggio a processo

    L’area destrorsa che lo ha svezzato è però in pieno disfacimento. Il Consiglio comunale di Reggio sciolto per mafia nel 2012 ha fatto partire la slavina: si accavallano le inchieste sui presunti rapporti con la ‘ndrangheta di tanti protagonisti di quella stagione e poi, soprattutto, inizia il declino del leader assoluto e incontrastato, Peppe Scopelliti. Nel 2014 si dimette da presidente della Regione dopo la condanna in primo grado per il crac finanziario di Palazzo San Giorgio e, inevitabilmente, via via si trascina dietro l’intera «classe dirigente» del «modello Reggio» già sublimato in «modello Calabria».

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    Antonio Caridi e Peppe Scopelliti

    Finisce male, anzi malissimo, anche il politico-chioccia di Cannizzaro, Caridi. Da senatore, nell’agosto 2016 viene arrestato nell’ambito dell’operazione “Gotha” contro i capi della ‘ndrangheta reggina. Ne uscirà completamente pulito dopo sei anni e tante, indicibili, sofferenze personali, ma la sua carriera politica è già bella che morta nel momento in cui varca il portone del carcere di Rebibbia.

    Cannizzaro, da sergente a generale

    Pochi mesi dopo, pure Cannizzaro finisce in una brutta storia di mafia: viene indagato dalla Dda di Reggio e accusato di aver ricevuto sostegno elettorale dalla cosca Paviglianiti di San Lorenzo. Il calvario del consigliere non prevede il carcere ed è decisamente più breve di quello del senatore Caridi: meno di un anno dopo, nel settembre 2017, Cannizzaro viene assolto «perché il fatto non sussiste».

    Ed è allora, probabilmente, che il giovane Ciccio si rende conto di essere l’unico superstite in quel deserto che è ormai diventato il centrodestra reggino. Fino a pochi anni prima offuscato dalla luce splendente e fatua degli Scopelliti, dei Caridi, ma perfino da quella dei Bilardi e dei Raffa, adesso Cannizzaro, da semplice ufficiale di complemento, è diventato colonnello, se non addirittura generale: non c’è nessuno più in alto di lui.

    Le occasioni da cogliere

    Tutto si può dire, tranne che il politico «stefanita», come lo appella chi tenta di sminuirlo, non colga le occasioni al volo. Si candida immantinente alle Politiche del 2018 ed è eletto parlamentare nel collegio uninominale di Gioia Tauro per la Camera, uno dei pochi – assieme al senatore forzista Marco Siclari e alla deputata Wanda Ferro – a resistere all’ondata grillina che in Calabria fa man bassa di seggi, ben 18.
    Da lì in poi, è tutta discesa. Il Cannizzaro “onorevole” è un politico diverso rispetto agli esordi: non si può dire propriamente che studi a fondo i molteplici dossier di cui si occupa, ma riesce a perorare le cause a cui tiene come nessuno.

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    Jole Santelli e Ciccio Cannizzaro in Parlamento

    Porta risultati, o almeno così sembra: si intesta il merito di aver fatto arrivare 25 milioni per l’ammodernamento dell’aeroporto dello Stretto, celebra anzitempo il completamento della strada Gallico-Gambarie («pronta entro la fine del 2022»), si mette alla testa della larga opposizione al governo cittadino di Falcomatà.

    Sulle orme di Peppe

    Nel mentre, tiene conferenze stampa a profusione, invita ministri per ogni bazzecola (ospite fissa: l’«amica» Mara Carfagna), organizza convention con migliaia di ospiti in cui il pezzo forte di serata è sempre lui, che chiude ogni evento e ogni comizio in un crescendo di urla vibranti e ad alto tasso emozionale, che ai nostalgici ricordano tanto lo stile da capopopolo di Scopelliti.

    Sembra di vederlo, Cannizzaro, mentre, da sotto il palco, poco più che ragazzo, studia mimica, movenze e repertorio del suo leader: la mano a paletta che si muove ritmica per scandire i momenti topici del discorso, l’«e alloraaaa…» usato a mo’ di intermezzo prima, magari, di una nuova intemerata contro i «nemici di Reggio» o contro i giornalisti «cialtroni».

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    Roberto Occhiuto, Mara Carfagna e Ciccio Cannazzaro

    Io ballo da solo

    Quello stile, quei toni, quei gesti, Cannizzaro li fa suoi. E col tempo diventa un oratore efficace e sicuro di sé, in più capace di ammantare tutto il suo agire politico di uno strato composito di furbizia e cinismo sconosciuto a Scopelliti. Per dire: l’ex governatore, parallelamente alla sua ascesa, ha allevato la sua «classe dirigente»: spesso sgangherata, per certi versi ridicola, in qualche caso collusa con la ‘ndrangheta, ma pur sempre un ceto politico che a Reggio, prima, e in Calabria, poi, ha esercitato potere, il più delle volte fine a se stesso, ma pur sempre potere.

    Cannizzaro, invece, ama fare il solista, forse perché teme che, domani, qualcuno possa fare ciò che ha fatto lui e soffiargli il posto. Non ha eredi, sia perché è troppo giovane sia perché, in un certo senso, teme il parricidio. La sua paranoia – alimentata dalla paura di perdere la preminenza conquistata per una serie di tragiche (per gli altri) coincidenze – traspare dalle sue scelte politiche. Si spiega in questo modo perché mai, in tutte le elezioni successive alla sua nomina a coordinatore provinciale, abbia sempre scelto candidati non reggini e, perciò, difficilmente in grado, in futuro, di rubargli il bacino elettorale più fecondo.

    I Ciccio boys

    Il politico di Santo Stefano ha insomma ereditato un intero mondo elettorale e ha desertificato la concorrenza interna. Il centrodestra reggino oggi è inodore, eccezion fatta per il profumo del capo; è spopolato di dirigenti, a meno che non si vogliano considerare tali i “Ciccio’s boys”. Già, loro fanno narrativa a parte: vestiti in serie, tali e quali al capo. Prediligono i risvoltini ai pantaloni, i mocassini di cuoio, possibilmente senza calzini, talvolta gli occhiali da sole a goccia e, d’estate, la camicia bianca aderente e arrotolata sulle braccia.
    Non si è mai capito se si tratti di un dress code o del semplice desiderio di emulare chi sta al vertice della catena gerarchica.

    L’apparenza che conta

    Cannizzaro sa che l’apparenza conta tantissimo. Quando, nel 2019, Mario Occhiuto forza la mano e organizza la mega convention lametina che avrebbe ufficializzato la sua candidatura a governatore, poi naufragata miseramente, il deputato reggino fa arrivare a Lamezia diversi bus carichi di militanti. Risultato: gli applausi per Cannizzaro sono di gran lunga più scroscianti di quelli dedicati al protagonista dell’evento.

    Sa, Cannizzaro, che per continuare a contare deve piazzare uomini, anzi, donne, di fiducia nelle stanze dei bottoni. È il più leale degli occhiutani quando Mario sembra in rampa di lancio per la Cittadella, ma quando Berlusconi designa Jole Santelli ne sposa senza esitare la causa fino a farsi descrivere come il migliore amico della governatrice, l’alleato di ferro che con lei balla la tarantella in chiusura di campagna elettorale. Nella Giunta Santelli, poi, Cannizzaro riesce appunto a piazzare la fedelissima Domenica Catalfamo.

    La stessa trama si ripete, più di recente, con Roberto Occhiuto, che lo tiene buono nominandone la cugina, Giusi Princi, nel suo Governo. Le deleghe sono tante e di quelle che contano, tra cui l’ambitissima vicepresidenza, un tempo promessa al leghista Nino Spirlì (il ticket rinnegato). Fino a qui, quella di Cannizzaro non sembra certo la carriera di un profumiere. Eppur bisogna andare più a fondo e scoprire che quel potere così ostentato, con ogni probabilità, è meno forte di quanto Ciccio non voglia far credere. Perché, nei momenti davvero decisivi della sua carriera, Cannizzaro ha fallito, anche se nessuno se ne è accorto.

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    Cannizzaro e la vice presidente della Giunta regionale, sua cugina Giusy Princi

    Le sconfitte

    Partiamo dalla fine. Alle ultime Regionali, il deputato azzurro, che ha il vizio di sopravvalutarsi, appoggiava almeno tre candidati (tutti “periferici”, of course): Giovanni Arruzzolo, di Rosarno, Raffaele Sainato, di Locri, e Patrizia Crea, di Melito Porto Salvo. Le ricostruzioni apocrife su quelle elezioni riferiscono di un Cannizzaro che, pochi giorni prima del voto, si rende conto del rischio di non eleggere nemmeno un consigliere per via della mal calcolata forza elettorale di altri due candidati di Fi, Giuseppe Mattiani e Domenico Giannetta, a lui profondamente ostili.

    Così, secondo questa interpretazione, il coordinatore provinciale sarebbe stato costretto a dirottare tutti i “suoi” voti sul solo Arruzzolo (poi primo eletto), abbandonando al proprio destino Sainato e Crea, che infatti restano fuori. È però sempre il racconto a fare la storia, e Cannizzaro, a urne chiuse, si attribuisce tutto il merito del 21% ottenuto da Fi, record regionale e risultato, dice, in linea con i tronfi berlusconiani del 1994. I 20mila e passa voti di Mattiani e Giannetta, su un totale di 44mila, nello storytelling di «Ciccio profumo» non guadagnano neppure una piccola nota a margine.

    Cannizzaro profumiere?

    Un millantatore, dunque? Un profumiere? Di sicuro Cannizzaro è bravissimo nel far passare una sconfitta come una vittoria. Come in occasione della scelta del nuovo coordinatore regionale di Fi, decisiva in vista delle candidature per le prossime Politiche. Il deputato reggino schiera tutta la sua batteria di ministri amici e plenipotenziari forzisti per ottenere la nomina a scapito dell’altro pretendente, il senatore Giuseppe Mangialavori. Alla fine la spunta, e anche piuttosto agevolmente, quest’ultimo. E Cannizzaro? Un altro si sarebbe abbattuto, invece lui briga per farsi nominare “responsabile nazionale per il Sud”, uno di quegli incarichi fuffa che il Cavaliere ha sempre usato per salvaguardare gli equilibri interni.

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    Cannizzaro e Occhiuto

    Il passo falso sulla segreteria calabrese non sopisce le ambizioni del giovane parlamentare. Che, raccontano i bene informati, avrebbe fatto di tutto e di più per sottrarre a Occhiuto la candidatura a governatore. Proprio così: oggi, film già visto, Cannizzaro sembra il miglior amico del presidente, ne appoggia le politiche, lo difende, lo accompagna a Roma e in giro per la Calabria come fosse il suo primo cavaliere; lo stesso ha fatto in campagna elettorale, quando, da “responsabile nazionale per il Sud”, teneva sempre il penultimo discorso per riscaldare la folla a beneficio del futuro vincitore. Ma prima, quando Berlusconi e gli alleati hanno ancora dubbi sul nome del candidato, Cannizzaro avrebbe giocato tutte le sue carte – e, dicono, usato ogni mezzo politico – per ottenere quella nomination a scapito dell’«amico Roberto».

    Il tonfo di Reggio

    Il tonfo più clamoroso di Cannizzaro, tuttavia, avviene nella sua Reggio. Ottobre 2020: Falcomatà, uno dei sindaci più contestati della storia cittadina, si impone al ballottaggio su Nino Minicuci, improbabile candidato scelto da Salvini. Che c’entra dunque il deputato di Fi? C’entra eccome, perché Cannizzaro aveva aspettato quel momento per anni, assicurando a tutto il centrodestra che lui, l’ex consigliere di Santo Stefano diventato un big nazionale, sarebbe stato il kingmaker della coalizione e avrebbe scelto il nome più adatto per asfaltare Falcomatà.

    Invece, Salvini, con il beneplacito di Berlusconi, manda avanti Minicuci e Cannizzaro, in buon ordine, si adegua e gli fa pure la campagna elettorale. Lo Scopelliti dei tempi migliori si sarebbe mai fatto imporre il candidato nella sua città? Forse no. E allora, è giusto chiedersi: è «Ciccio profumo» o è «Ciccio profumiere»? Blowin’ in the wind, canterebbe Bob Dylan: «La risposta, amico mio, se ne va nel vento». Come il profumo.

  • Anche i Lupi piangono: Cosenza perde Di Marzio

    Anche i Lupi piangono: Cosenza perde Di Marzio

    Gianni Di Marzio conosceva bene il paradosso di Achille e della tartaruga. E lo applicava. Su un muro di Città 2000, il quartiere dove abitò da allenatore e lavorò da dirigente – la società si era trasferita lì tra un’esperienza e l’altra – del Cosenza, nell’anno culminato con la promozione c’era un adesivo che celebrava l’amore del mister per l’andatura lenta ma costante di quell’animale. Sarebbero stati i piccoli passi a permettere alla squadra di arrivare al traguardo lasciandosi alle spalle le rivali in classifica. Lo diceva spesso Di Marzio e i risultati gli diedero ragione.

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    Il Cosenza di Gianni Di Marzio, primo in Serie C1 al termine del campionato 1987-88

    “Occh’i vitro”

    Lo chiamavano occh’i vitro già all’epoca, quando il politically correct era più lontano della regola dei tre punti a vittoria. Ma sembrava uno di quei soprannomi un po’ cattivi che si affibbiano a un amico ironico, convinti che il primo a riderne sarà lui. Diventò occhio stuartu, con tanto di coro in facile rima col più classico degli insulti locali, poco tempo dopo. Il tentativo dei tifosi rossoblù di ostentare indifferenza nei suoi confronti non riuscì granché bene. Si era ripresentato in città da allenatore del Catanzaro, che pure aveva già guidato fino alla serie A ben prima di approdare a Cosenza. E il calcio in quei giorni era passione viscerale e identitaria, certi tradimenti era difficile mandarli giù in fretta.

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    Il Catanzaro di Gianni DI Marzio promosso in serie A: nella stagione 1975 – ’76.

    L’uomo che aveva scoperto Maradona

    Ma Di Marzio, oltre che di calcio, era uomo di mondo e sulla panchina dei Lupi ci tornò in breve tempo. Una salvezza insperata non bastò per una vera riconciliazione con la città. Quella arrivò quando portò in riva al Crati da direttore generale la sua esperienza di talent scout pochi anni dopo. E che talent scout: era l’uomo che aveva “scoperto” Maradona quando era solo un ragazzino in Argentina. Quel calcio di stadi pieni a mezzogiorno, partite la domenica, numeri da 1 a 11 ed entusiasmo popolare, però, era già al crepuscolo. Rimanevano brandelli di sogno, sepolti sotto il fuoco della passione che per fortuna ancora oggi la tv non ha spento del tutto.

    Prigionieri di un sogno

    Sogno pieno, e più reale che mai, era stato quello della promozione di pochi anni prima e Di Marzio tornò presto ad esserne l’iconico protagonista nella memoria collettiva. Un eroe, come un simpatico Achille dal tallone giallorosso. E come i giocatori della sua squadra tartaruga che i tifosi ripetono ancora oggi in sequenza, quasi fossero versi di una filastrocca. “Mai più prigionieri di un sogno”, quello del ritorno in B atteso dagli anni ’60, avevano scritto d’altronde in uno striscione in curva gli ultrà quando il trionfo era ormai cosa fatta. E di striscioni ne erano spuntati un po’ ovunque nei quartieri durante i giorni della festa. Perché la città festeggiò per giorni, non una sera soltanto come si fa adesso.

    Le scritte sui muri diventano cult cittadino

    I ragazzini facevano collette per comprare la vernice e lasciare il loro segno sui muri e nei cortili, fosse anche una semplice lettera B. Pubblicità e proverbi ispiravano le scritte dei più grandi. Alla Massa erano più tecnologici, col telefunkeniano “Potevamo stupirvi con effetti speciali, ma noi non siamo fantascienza: siamo i tifosi del Cosenza”. A via degli Stadi il mitico “L’uomo del monte ha detto Bi”. Il migliore? “Il lupo perde il pelo ma non il B…izio”, probabilmente. Di Marzio, quando glielo ricordavano, sorrideva. A ripensarci, ora che non c’è più, viene da piangere.

     

  • Ne resterà sempre qualcuno e si chiamerà Gentile

    Ne resterà sempre qualcuno e si chiamerà Gentile

    I Gentile non si creano, i Gentile non si distruggono, i Gentile si trasformano. E ritornano, eccome se ritornano.
    Prendiamo Andrea Gentile, ripreso di recente dalle telecamere del Tg3 davanti a Montecitorio.
    Il giovane avvocato cosentino, noto per una lunga serie di consulenze, dentro e fuori regione, è riuscito a entrare a Montecitorio in seguito alla vittoria di Roberto Occhiuto alle Regionali di ottobre.
    Infatti, Andrea si era candidato alla Camera nel 2018 nella lista di Forza Italia ed era stato travolto dallo tsunami grillino.

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    Andrea Gentile, figlio di Tonino e deputato di Forza Italia

    L’eclisse dei fratelli Gentile

    Due anni dopo, si verificò la massima eclissi per la sua famiglia, che fu assente in maniera totale dalle istituzioni per la prima volta dagli anni ’90: zio Pino non fu eletto in Regione, papà Tonino non era in Senato da oltre due anni e la cugina Katya non era più a Palazzo dei Bruzi.
    Poi, la scomparsa prematura di Jole Santelli rimescola le carte: Katya, grazie anche al formidabile aiuto di papà Pino, fa il pieno di voti e diventa la donna più votata in Regione, Roberto lascia la Camera e i Gentile tornano in versione 2.0: non più fratelli, bensì cugini, ma con ruoli simili a quelli dei rispettivi papà.

    Piccoli scandali, grandi consensi

    Una leggenda metropolitana tramanda che i fratelli Gentile furono di fatto costretti a lasciare il Pdl nel 2013 perché, come aveva rivelato un giornale dell’epoca, Pino era amico del magistrato che, prima di condannare Berlusconi, aveva esternato cose non proprio bellissime sull’ex Cavaliere.
    Vera o meno che sia questa storia, la scelta di mollare l’ex premier e di approdare a Ncd, il partito salva-notabili di Angelino Alfano, si dimostrò vincente: di lì a poco, (2014) Tonino Gentile sarebbe entrato come sottosegretario nel governo Renzi. Vi durò pochissimo, perché fu colpito dall’Oragate. Questa vicenda è diventata un pigro ricordo, ma allora esplose a livello internazionale e accese i riflettori sull’informazione in Calabria.

    L’Ora chiude, gli altri restano

    I protagonisti furono Andrea Gentile, finito nel mirino della Procura di Paola per la sua attività di legale dell’Asp di Cosenza, L’Ora della Calabria, il giornale fermato in tipografia quando la notizia stava per uscire, Alfredo Citrigno, l’editore del giornale, e Umberto De Rose, il tipografo accusato di aver stoppato le rotative.

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    Alfredo Citrigno bacia suo padre Piero in un’occasione pubblica

    Com’è andata a finire è noto: a Tonino è rimasto il nomignolo di “cinghiale”, De Rose è stato assolto dopo cinque anni e passa di processo. In compenso, Pino Gentile ha ottenuto la condanna per diffamazione di Piero Citrigno, papà di Alfredo ed ex editore dell’Ora della Calabria. L’Ora, invece, ha chiuso i battenti nel giro di un mese. A dispetto del fatto che l’inchiesta sui Gentile e sulla Sanità cosentina avesse spinto in alto le vendite della testata.

    Ma erano cifre insufficienti: l’Ora raggiunse al massimo 6mila copie di vendita in un giorno. Invece i fratelli Gentile erano quotati ancora attorno ai 16mila voti. Tanti elettori in una terra di grande astensione contro pochi lettori in una regione in cui si legge pochissimo… di cosa parliamo?

    De Rose è per sempre

    Ciò spiega la prudenza con cui, nel 2016, la stampa diramò la notizia della condanna inflitta dalla Corte dei Conti a De Rose per danno erariale durante la sua presidenza a Fincalabra. In particolare, al tipografo furono contestate le consulenze date ad Andrea e a Loredana Gentile. Loredana, detta Lory, è la sorella di Andrea. Sui due fratelli, che non risultano indagati nel procedimento penale legato ai fatti di Fincalabra, la magistratura contabile ha espresso giudizi diversi: Andrea non è causa di danno erariale, sia perché la sua parcella era piuttosto “contenuta” (35mila euro), sia perché con la sua attività aveva consentito un risparmio. Su Lory, invece, è emerso un dato curioso: coi suoi circa 50mila euro per un incarico a tempo determinato, la sorella di Andrea aveva causato il danno erariale.

    Lo stampatore Umberto De Rose

    Tuttavia, si affermò che la giovane Gentile avrebbe lavorato per circa 370 giorni in un anno. Un refuso marchiano o un adattamento dello spazio-tempo a misura dei Gentile?
    Come per l’Oragate, De Rose si è sobbarcato il processo, con qualche difficoltà in più: è stato prosciolto dalla Corte d’Appello di Catanzaro nel novembre 2020 dall’accusa di abuso di ufficio che gli era costata un anno e mezzo di condanna in primo grado.

    Scarpelli, l’appendice sanitaria

    Un altro gentiliano che ha passato qualche guaio è Gianfranco Scarpelli, primario di Neonatologia all’Annunziata e direttore generale dell’Asp durante l’era Scopelliti. Proprio quest’ultimo ruolo ha procurato grane giudiziarie a Scarpelli, uscito solo di recente da processi spinosi. Ma il medico cosentino non può lagnarsi: sua figlia Rita è diventata dirigente del Settore farmaceutico della Regione grazie a una determina firmata da Roberto Occhiuto in persona. Ad appena 33 anni, la giovane Scarpelli è una delle dirigenti più giovani della storia della Pa. C’è di che rincuorare papà Gianfranco per le disavventure subite.

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    Gianfranco Scarpelli è stato direttore generale dell’Asp di Cosenza

    Super Pino

    Il gentilianesimo, a Cosenza, non è una corrente filosofica ma una dottrina quasi religiosa, che si basa su un solo elemento: il consenso elettorale.
    Le cattedrali in cui si celebra questa fede, che conta tuttora oltre 9mila adepti, sono la Sanità e altre importanti centraline di spesa pubblica, come ad esempio l’edilizia popolare.
    Infatti, il nome di Pino Gentile è emerso in vari procedimenti penali legali all’edilizia pubblica, come indagato e, a volte, come imputato. C’è da dire che questi procedimenti sono prossimi alla prescrizione. Tuttavia, proprio questa situazione giudiziaria avrebbe costretto Pino a fare un passo indietro nelle ultime Regionali a favore di sua figlia.
    Comunque, questa “sostituzione” cambia poco: quando si parla di fede l’importante è pregare, a prescindere che si preghi un santo o il Padre Eterno in persona.

    Le metamorfosi di Pino

    Il gentilianesimo ha un suo dogma particolare, che richiama in maniera stramba quello della Trinità: i calabresi quando dicono Gentile pensano a una famiglia, tuttavia il capo resta Pino, che vanta oltre cinquant’anni in politica, iniziati in quella grande chiesa che era il Psi e proseguiti, salvo qualche incidente, in Forza Italia, Ncd e di nuovo Forza Italia. E una piccola parentesi come sindaco di Cosenza da indipendente eletto con il Partito Repubblicano.

    Ma restando sempre Pino, perché a un leader religioso come lui nessuna confessione può negare il ruolo di arcivescovo. Nel suo caso, di assessore regionale a oltranza nei dicasteri in cui ci sono risorse vere da gestire.
    Tonino, invece, è il cardinale. Esploso con Forza Italia negli anni ’90, è diventato subito senatore e da allora non ha più mollato Roma.
    All’apice del loro successo, i Gentile contavano oltre 20mila voti, che li rendevano forti quando erano al governo e, ancor più forti, all’opposizione, da dove potevano negoziare meglio…

    Lo scontro con gli Occhiuto

    Chi ha a che fare i due fratelli, come alleato o avversario, sa benissimo due cose: si vince se si ha un loro pensiero Gentile, si governa per Gentile concessione.
    E c’è da dire che quasi tutti hanno avuto a che fare coi Gentile sia come alleati sia come avversari.

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    Il sindaco di Cosenza Mario Occhiuto con il suo vice Katya Gentile prima di rimuoverla dalla poltrona

    Prendiamo il caso dei fratelli Occhiuto, che si rifugiarono nel Ccd e poi nell’Udc a partire dagli anni ’90, quando i Gentile li defenestrarono da Forza Italia.
    Dopo anni di guerre feroci, Mario Occhiuto divenne sindaco di Cosenza anche grazie all’apporto dei Gentle Bros, che resero Katya la consigliera più votata nelle Amministrative del 2011. Poi ci fu la rottura tra Katya e Mario.

    Quest’ultimo sopravvisse benissimo perché si rifugiò in Forza Italia assieme al fratello Roberto, approfittando del fatto che Pino e Tonino se n’erano andati con Alfano. Ma il prezzo lo pagò Wanda Ferro, candidata alla presidenza della Regione nel 2014 sotto le insegne azzurre. I Gentile non fecero coalizione ma corsero da soli. E si impegnarono parecchio, proprio contro la candidata berlusconiana, che perse in malo modo grazie alla loro campagna elettorale martellante.

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    Il posto di Katya Gentile lasciato vuoto al tavolo della Giunta di Cosenza (foto Camillo Giuliani)

    Il soccorso a Manna e Talarico

    Discorso leggermente diverso a Rende. Avversari di Sandro Principe, i fratelli Gentile furono determinanti nella prima vittoria di Marcello Manna, grazie a un listone in cui figuravano un battaglione di medici e Annarita Pulicani, moglie di Granfranco Ponzio, ex consigliere provinciale di provata fede gentiliana.
    Poi arrivò la rottura. Ma niente paura: c’è sempre qualcuno che ha bisogno dei Gentile. In questo caso, Mimmo Talarico, che tentò l’elezione a sindaco nel 2019 anche con l’appoggio dei Fratelli Terribili.
    Talarico non arrivò al ballottaggio, dove i gentiliani si ritrovarono schierati con Principe. Anche lui perse, ma pazienza: un pensiero Gentile lo aveva avuto comunque…

    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    La sfida per il futuro

    Mario Occhiuto non è più sindaco di Cosenza. Roberto ha il suo da fare per gestire anche i gentiliani in Regione.
    L’unica certezza è che i Gentile, a dispetto del calo di voti, sono vivi e vegeti. A questo punto, è obbligatoria una domanda: riusciranno i cugini Gentile a perpetuare il potere dei rispettivi genitori?
    Tutto lascia pensare che il loro cognome resterà a lungo sinonimo di potere in una terra, la Calabria, che critica i potenti perché in realtà li venera e li combatte solo per potercisi accordare meglio. E resteranno a lungo anche le villone di Muoio Piccolo con le piscine a forma di ostrica. Perché, si sa, non c’è potere vero senza un tocco di kitsch.

  • La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    La compagnia degli Anello: la talpa, i kalashnikov nella posta, la sfida e la pace coi Mancuso

    Una volta uscito dal carcere, il superboss di Limbadi Luigi Mancuso avrebbe praticato una «politica di pace» per cui ognuno, sul territorio vibonese, doveva avere il suo spazio. E tutti dovevano essere «belli garbati, precisi» e fare «le cose col silenzio». Ne parlavano in questi termini, intercettati, due imprenditori ritenuti sodali del clan di Filadelfia capeggiato da Rocco Anello. Che proprio dai nuovi equilibri garantiti dal «supremo» sembra abbia tratto negli anni grossi vantaggi.

    In passato era stato tra i protagonisti di quella che negli ambienti venne definita «linea bastarda», un’alleanza di ‘ndrangheta che si opponeva allo strapotere dei Mancuso. Poi alcuni boss di quella fazione sono stati uccisi, altri ridimensionati, e i rapporti sull’asse Filadelfia-Limbadi si sono ricomposti.

    Anello, il boss imprenditore

    Anello viene d’altronde descritto oggi come un boss imprenditore. Lontani gli anni in cui il suo paese era famigerato per la lupara bianca, si sarebbe rivelato un mediatore scaltro con un infallibile fiuto per gli affari. E dal suo feudo, sul confine tra Vibonese e Lametino, avrebbe costruito un impero economico che arriverebbe oltre le Alpi. Villaggi turistici, impianti eolici, movimento terra, forniture di calcestruzzo, appalti boschivi, estorsioni su lavori pubblici. Armi e droga. Con intermediari legati alla politica e talpe nelle forze dell’ordine.

    Niente telefono, basta la moglie

    Anello faceva business ma non aveva telefoni. Gli bastava che chi ne aveva facoltà facesse il suo nome. Era la moglie, Angela Bartucca, a fare da catalizzatore di tutti i messaggi in entrata e in uscita per il boss. Formalmente separati, lui nei giorni scorsi è stato condannato in primo grado a 20 anni di reclusione, lei a 12.

    Con un passato oscuro che rimanda alla scomparsa di due giovani – Santino Panzarella e Valentino Galati avrebbero avuto relazioni con lei, ma sulla loro sorte non c’è mai stata alcuna certezza giudiziaria – Angela Bartucca avrebbe rivestito il ruolo di tramite tra il capocosca e gli altri affiliati.

    Il finanziere coinvolto

    Una condanna a 12 anni l’ha rimediata anche un brigadiere della Guardia di finanza, Domenico Bretti. Gli uomini del clan lo chiamavano “Gardenia” e da lui avrebbero avuto informazioni di polizia giudiziaria, roba di microspie e bonifiche, che dovevano rimanere segrete.

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    L’aula bunker di Lamezia Terme

    Anello, la moglie, il finanziere, più un’altra sessantina di imputati, hanno optato per l’abbreviato e sono stati quasi tutti condannati. L’hanno chiamato “Imponimento”, il secondo maxiprocesso vibonese dopo “Rinascita-Scott”, ed è arrivato a sentenza proprio nei giorni scorsi. Ancora in corso, invece, è il rito ordinario in cui ci sono imputati eccellenti come l’ex assessore regionale Francescantonio Stillitani.

    Il precedente processo sugli Anello, denominato “Prima”, si era fermato al 2004. Così la Dda di Catanzaro ha provato a ricostruire gli affari e i rapporti che, da allora e fino a oggi, il clan avrebbe intessuto con molte famiglie del Vibonese, ma anche del Reggino e del Catanzarese, per arrivare fino in Sicilia. Per farlo, oltre all’immancabile mole di intercettazioni, sono stati incrociati i racconti di ben 29 pentiti.

    Kalashnikov all’ufficio postale

    Tra questi il più importante è Andrea Mantella, ex boss scissionista di Vibo città che ha rivelato come Anello avesse un canale per le armi con la Svizzera. Da lì, via Piemonte, pistole e kalashnikov in quantità sarebbero arrivate in Calabria addirittura per posta, con l’ufficio postale di Curinga utilizzato come una sorta di magazzino-polveriera dai sodali del boss. L’indagine della Dda si è intrecciata con quanto ha raccolto la Polizia Federale elvetica, che grazie al contributo di un agente infiltrato ha svelato gli interessi del clan di Filadelfia in alcuni night club in Svizzera e in un ristorante in Germania.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Un pentito che conosce bene quel territorio è poi Francesco Michienzi, che ha confermato il canale svizzero per le armi e ha tratteggiato la «figura carismatica di Rocco Anello»: quando era libero «riuscì a controllare completamente la costruzione e la gestione» di un villaggio sulla statale 18 «estromettendo i Mancuso». E quando era dentro era la moglie a portare fuori le sue «imbasciate».

    Dal Tirreno allo Jonio

    La zona di confine tra Vibonese e Catanzarese su cui Anello esercitava il suo potere non è però solo quella della costa tirrenico tra Pizzo e Lamezia, ma anche l’area interna dell’istmo che arriva all’altro tratto di costa, quello jonico. Da quella parte c’è Roccelletta di Borgia, il paese di un altro pentito che, fin nei verbali depositati di recente, ha rivelato alcune cose scottanti. Si tratta di Santo Mirarchi, affiliato da giovanissimo a un gruppo criminale che fino al 2009 non aveva un “locale” autonomo di ‘ndrangheta ma era, appunto, sotto quello di Filadelfia.

    Mirarchi ha parlato parecchio di estorsioni. Grosse estorsioni a danno di imprese importanti. Il suo gruppo avrebbe partecipato a quella sui lavori della statale 106 all’altezza di Borgia a danno dell’Astaldi, uno dei principali general contractor italiani e tra i primi 100 a livello mondiale nel settore delle costruzioni.

    «Una parte dei proventi di questa estorsione – in tutto circa 300mila euro secondo il pentito, ndr – e precisamente la somma di 50mila euro, spettava a Rocco Anello». Il boss avrebbe allungato le mani anche sui lavori di movimento terra dell’allora autostrada A3, nonché su un subappalto per la costruzione «del padiglione universitario alle spalle del policlinico a Germaneto». Ancora: il gruppo di Roccelletta, sempre col permesso di don Rocco, avrebbe avuto la sua fetta sui lavori «per il posizionamento delle cosiddette antenne relative alla telefonia cellulare che dovevano essere installate nelle montagne di Roccelletta, Filadelfia e Vallefiorita».

    «I capannoni degli Abramo»

    C’è infine una vicenda che era inedita fino alla discovery degli ultimi verbali. Mirarchi la colloca «fra il 2000 e il 2004» e riguarda «la costruzione dei capannoni industriali in località Germaneto da parte dei fratelli Abramo».
    Da Borgia avrebbero chiesto l’estorsione ma «costoro, cioè gli Abramo, fecero presente – dice Mirarchi – di essere legati a Rocco Anello, pertanto l’estorsione venne pagata a quest’ultimo».

    Il pentito lo avrebbe saputo perché, lavorando al cantiere come guardiano, avrebbe assistito alle discussioni tra Anello, gli Abramo e i referenti di Borgia. «Ricordo – dichiara il pentito – che Rocco Anello ebbe 200mila euro a titolo estorsivo, quelli di Roccelletta vennero ricompensati con gli appalti e con l’assunzione di diversi guardiani tra i quali anche me». Ma non c’è nessun riscontro giudiziario.

    L’erba con la Panda

    Non solo estorsioni, però: nei racconti di Mirarchi c’è spazio anche per traffici di droga. Il pentito dice di aver acquistato spesso cocaina e marijuana da «un certo Fruci». I fratelli Giuseppe e Vincenzino Fruci sono ritenuti l’ala operativa degli Anello su Curinga e, anche loro, sono stati condannati a 20 anni a testa in “Imponimento”.
    Una volta, a consegnare dieci chili di marijuana al pentito sarebbe stato un «corriere di Fruci»: si trattava di «un vecchietto» che gli portò l’erba a casa «a bordo di una Panda».

  • Ombre rosse: la favola di Adamo ed Enza

    Ombre rosse: la favola di Adamo ed Enza

    Tra i big politici che hanno iniziato dal centro storico di Cosenza, Nicola Adamo vanta almeno un primato: è il più alto. Una sfida piuttosto facile: Ennio Morrone è di altezza media, Pino e Tonino Gentile sono decisamente bassini e Luigi Incarnato non potrebbe comunque candidarsi in una squadra di basket. Questa è una prima certezza sul leader ex comunista. La seconda certezza su Adamo riguarda i faldoni delle inchieste giudiziarie in cui è risultato coinvolto a vario titolo: se qualcuno si prendesse la briga di metterli in pila, risulterebbero decisamente più alti di lui.

    Pd, Cosenza 2022

    Non sappiamo come finirà la partita dei congressi provinciali del Pd, rinviati per i consueti casini interni a febbraio. L’unica sicurezza, ancora una volta, è che Nicola Adamo c’è e, d’accordo con Carlo Guccione, ha lanciato a Cosenza la candidatura del giovane Vittorio Pecoraro. Il tutto, dopo aver negoziato un sì scontato alla candidatura di Nicola Irto alla segreteria regionale e a dispetto della lite furibonda di novembre col malcapitato Italo Reale, il presidente della commissione per il tesseramento del Partito democratico.
    Questi brevi cenni dovrebbero far capire una cosa: passano i decenni, passano le inchieste, ma Adamo resiste.

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    Enza Bruno Bossio e Vittorio Pecoraro prima del comizio di Enrico Letta a Cosenza (foto Alfonso Bombini) – I Calabresi

    Onda araba

    I tempi in cui l’ex mattatore del Pci faceva il pieno di voti sono lontani. Dopo le disavventure dell’era Scopelliti, Adamo ha capito che è meglio fare il “padre nobile” dietro le quinte che mettere la faccia nelle contese, tanto più che c’è chi lo fa per lui: sua moglie Enza Bruno Bossio.
    L’Adamo degli ultimi otto anni ricorda l’ultimo Gheddafi, che non aveva più ruoli pubblici nello Stato e nell’esercito libico e tuttavia gestiva le sorti della Libia dalla sua tenda nel deserto. E forse questa similitudine, più di ogni altra cosa, fa capire come il termine “democratico”, nel partito di Letta, molte volte sia solo un aggettivo.

    Amore e potere

    Quello tra Enza Bruno Bossio e Nicola Adamo è un amore politico cementato dalla militanza e sublimato dal potere. Quando i due si conobbero – tra l’altro in maniera burrascosa, come tramandano alcuni sapidi pettegolezzi – esistevano ancora il Pci, dove lui si era fatto le ossa, e la sinistra indipendente o “extraparlamentare”, da dove proveniva lei, che aveva esordito col gruppo del Manifesto. Più che una coppia, Nicola ed Enza sembrano una staffetta.

    In una prima, lunghissima fase, lui ha macinato elezioni e incassato incarichi istituzionali mentre lei si è dedicata al management nell’informatica e nelle telecomunicazioni.
    Poi è esplosa Why not, la maxi inchiesta di Luigi de Magistris, e la parabola di Adamo entra in fase discendente. Non è il caso di soffermarsi su polemiche e dietrologie vecchie: l’inchiesta, in cui era coinvolta anche Enza, è finita in nulla, ma si è rivelata comunque una mazzata forte a livello politico e d’immagine. Soprattutto, costrinse una parte del Pd calabrese, fresco di nascita, a mutare atteggiamenti di fronte alle inchieste giudiziarie e ad assumere atteggiamenti garantisti simili a quelli di Forza Italia.

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    Nicola Adamo ed Enza Bruno Bossio ai tempi di Why Not

    Adamo, nel frattempo, ha rotto anche con Mario Oliverio, ha suicidato il centrosinistra alle Amministrative di Cosenza del 2011 ed esce dal gruppo del Pd in Regione.
    La pace con Oliverio, siglata a partire dal 2012, ha un costo politico: l’elezione di Enza in Parlamento. Già: qualcuno che tenga un piede nelle istituzioni in famiglia serve sempre, perché in democrazia il potere puro non si giustifica.
    Il passaggio di testimone è celebrato nelle elezioni politiche del 2013, a dispetto del fatto che l’avvento di Renzi riduce un po’ gli spazi per gli ex comunisti, ed è confermato nel 2018, quando Bruno Bossio sopravvive allo tsunami grillino, che travolge tutti ma soprattutto il Pd, bollito ovunque e a rischio evaporazione in Calabria.

    Nicola Adamo contro le toghe

    Nel frattempo, Nicola sopravvive a ben altro. Esce da Why Not nel 2016, ma entra in altre quattro inchieste: Eolo (2012), che passa da una Procura all’altra e finisce praticamente in prescrizione; Rimborsopoli (2015), Lande desolate (2019), da cui viene prosciolto per non aver commesso il fatto, e Rinascita Scott (2019), tuttora in corso. Le uniche conseguenze per l’ex vice di Agazio Loiero sono piccole misure cautelari, tra l’altro revocate a velocità lampo. In pratica, dei graffietti.

    L’opinione pubblica, italiana e calabrese, non è più quella di Tangentopoli e dei tempi delle prime inchieste di de Magistris. Non è un caso, allora, che Nicola ed Enza contrattacchino alla grande, con esposti al Csm e polemiche furibonde a mezzo stampa.
    Il risultato è un pari: nessuno tocca i magistrati (soprattutto quando si chiamano Gratteri) e i due restano al loro posto, dove continuano a passarsela bene.

    Una geometria trasversale e variabile

    Meno grosso di quello dei Gentile, il pacchetto di voti di Nicola Adamo è comunque resistente e capace di condizionare gli equilibri politici del centrosinistra e non solo. Lo si è visto in occasione della diatriba con Mario Oliverio, la cui leadership fu prima incrinata e poi rafforzata da Adamo.
    Ma lo si vede anche dal rapporto con Carlo Guccione, se possibile più burrascoso di quello con l’ex governatore. Ora che vanno d’accordo, Adamo e Guccione condizionano Cosenza, tornata al centrosinistra dopo i dieci anni di Occhiuto.

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    Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi

    Ma in realtà il rapporto è triangolare: nel 2011 Adamo diede una prova di forza contro Guccione e Oliverio, che non riuscirono a sostenere adeguatamente Paolini; nel 2014 Adamo e Oliverio spinsero alla grande su Guccione che, grazie anche ai voti di entrambi, risultò il consigliere regionale più votato.
    Ora, con l’eclissi del sangiovannese, i due cosentini sono padroni del campo e mirano a rafforzarsi in provincia. Anche a dispetto del fatto che il Pd continua a perdere consensi. Non importa, in altre parole, che la casa sia piccola: l’importante è che ci stiano bene loro.

    Il futuro

    È difficile capire, al momento, se Enza Bruno Bossio riuscirà a tornare a Montecitorio, dove comunque ha dato prova di attivismo.
    Certo, grazie al taglio dei parlamentari passato a furor di popolo nel 2019, gli spazi elettorali sono minori. Ma c’è da dire che la famiglia Adamo ha dimostrato che la politica, a volte, può essere l’arte dell’impossibile.
    Soprattutto, gli Adamo hanno dimostrato di essere una famiglia resistente. Anche all’infedeltà di Nicola, che a suo tempo ha fatto il giro d’Italia.
    Finché morte non li separi, nel loro caso, può non essere solo un modo di dire.

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    Nicola, Enza, figli e figliocci (politici) al seggio qualche anno fa: sulla destra l’attuale capogruppo deo Pd in consiglio comunale a Cosenza, Francesco Alimena (foto C. Giuliani) – Calabresi

    Perciò i cosentini stiano tranquilli: il centro storico potrebbe spopolarsi del tutto, ma resterebbe comunque un primo circolo del Pd dominato da Adamo e Bruno Bossio e capace di condizionare la città. Ancora: potrebbe finire tutta l’informazione cartacea, ma Nicola resisterebbe imperterrito con la “mazzina” di quotidiani sotto il braccio e col cellulare più vintage del suo linguaggio politico.
    Di più: i magistrati passano, ma Nicola ed Enza restano. E resteranno anche se il Pd dovesse finire, come sono finiti l’Urss, il blocco orientale il Pci, il Pds e i Ds.
    Chi dice che il Gattopardo è solo di destra?

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    Enza Bruno Bossio (foto A. Bombini) – I Calabresi

     

  • Sanità, appalti, portaborse: le ultime parole famose dei politici calabresi

    Sanità, appalti, portaborse: le ultime parole famose dei politici calabresi

    Certo si tratta di contraddizioni meno drammatiche rispetto a quella per cui, nello stesso giorno, si esulta perché Studio Aperto parla del «primato» della Calabria sui vaccini ma si registrano, in appena 24 ore, 8 morti per Covid e migliaia di nuovi contagi. Con i ricoveri che schizzano al 41% in area medica e al 19% in Terapia intensiva.

    Le dichiarazioni dei politici calabresi

    La situazione degli attuali politici calabresi, giusto per scomodare una volta di troppo Ennio Flaiano, resta grave, ma davvero poco seria. Specie se ci si attarda nell’esercizio di mettere a confronto certe dichiarazioni che protagonisti e comparse della scena regionale rilasciano, con evidente sprezzo del ridicolo, smentendo puntualmente se stessi. La scarsa memoria dei cittadini amministrati è sempre un buon alleato, dunque ricordare ogni tanto le acrobazie verbali dei Nostri può essere uno spunto per valutarne l’affidabilità.

    Chiudere gli ospedali? Ottimo, riapriamoli

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Partiamo proprio dal dominatore del momento, Roberto Occhiuto. Oltre a citare i «target di Figliuolo» almeno tre volte al dì ha da poco annunciato con altrettanto zelo la riapertura degli ospedali di Cariati, Trebisacce e Praia a Mare. Giova fare un salto indietro di oltre un decennio. Il 23 luglio 2010 l’allora presidente della Regione Peppe Scopelliti, commissario-governatore proprio com’è oggi Occhiuto, diceva al consiglio regionale che «la chiusura degli ospedali – riportano i resoconti di Palazzo Campanella – rappresenta un messaggio culturale nuovo».

    Neanche 3 mesi dopo (9 ottobre 2010) Scopelliti presentava il Piano di rientro al teatro Morelli di Cosenza. E in prima fila c’era proprio Occhiuto, all’epoca deputato dell’Udc, che dichiarava: «Oggi finalmente si mette mano a una riforma che, certo, genera qualche protesta come è naturale quando si fanno scelte impopolari. Diamo tempo a chi governa di affrontare tutti i problemi».

    Tra i 18 ospedali indicati dall’allora governatore c’erano anche quelli di Trebisacce, Praia a Mare e Cariati. A disporre la riapertura dei primi due è stato in realtà il Consiglio di Stato. Per il terzo c’è voluta un’occupazione a oltranza dei cittadini e il sostegno clamoroso di Roger Waters. Dopo l’intervento del fondatore dei Pink Floyd Occhiuto ha almeno ammesso che «l’errore fu quello di chiudere, forse, gli ospedali sbagliati e soprattutto di non convertirli in Case della salute e poliambulatori».

    Dema di lotta e di governo

    A ricordargli questa contraddizione è stato, con la nota veemenza, il tre volte ex (pm, sindaco di Napoli e candidato alla Presidenza della Calabria) Luigi de Magistris durante la recente campagna elettorale. Anche a lui però la memoria gioca brutti scherzi. È ancora agli atti dei social un suo tweet del 24 febbraio 2013 in cui si autodefiniva un «visionario» sostenendo che «la fase più avanzata della democrazia sia l’anarchia». E aggiungendo di «sognare» comunità che «si autogestiscano senza poteri, solo amore!».

    In quel momento, più che un ibrido tra Bakunin e Mario Capanna, Dema era però già sindaco di Napoli da due anni e sarebbe stato rieletto anche per un altro mandato. Qualche anno dopo la sua tendenza alla sovversione, e giammai al potere, lo avrebbe portato a candidarsi alla Regione mentre ancora vestiva la fascia di primo cittadino. E la via rivoluzionaria di de Magistris alle istituzioni probabilmente continuerà con le Politiche 2023. Intanto è cronaca di questi giorni la molto poco anarchica nomina di suo fratello Claudio nello staff di uno dei due consiglieri regionali eletti nelle sue liste, Ferdinando Laghi.

    Scontro tra titani

    Il populismo fa fare di queste figure ai politici calabresi (autoctoni o adottati, come Dema)come, di recente, ha confermato il comportamento del 5stelle locali con i portaborse. Ma de Magistris è riuscito nell’impresa di farsi rinfacciare l’incoerenza perfino da un campione di giravolte come Carlo Tansi. Il geologo ha ricordato all’ex pm di averlo criticato perché si era avvicinato al «PUT (Partito Unico della Torta)» come in effetti avvenuto con l’ingresso di Tansi in coalizione col vituperato Pd, mentre ora «quel PUT gli ha sistemato suo fratello come portaborse alla regione».

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    C’eravamo tanto amati: Luigi de Magistris e Carlo Tansi ai (brevi) tempi della loro alleanza

    Feudalesimo democratico

    A proposito di Pd, nel girone dei politici calabresi smemorati non può certo mancare Nicola Irto, neo incoronato leader con un congresso – «unitario» per gli apologeti, farsa per i detrattori – che, nei fatti, non ha certo brillato per dialettica democratica. È stato eletto segretario l’unico candidato alla segreteria e sono entrati nell’assemblea regionale tutti i delegati che erano stati inseriti nelle liste. Il 21 maggio scorso in un’intervista all’Espresso Irto annunciava di non volersi più candidare a governatore. E, soprattutto, dichiarava che «il Pd è in mano ai feudi». Se dopo pochi mesi quell’impostazione medievale si sia dissolta non è dato saperlo. Ma valvassini e valvassori sembrano ben rappresentati nel gioco correntizio che ha portato Irto dov’è ora. Magari anche lui in prospettiva Politiche 2023.

    Nicola Irto prima delle ultime elezioni regionali
    Nicola Irto prima delle ultime elezioni regionali

    Garantismo a processi alterni

    Irto è il futuro, ma anche il recente passato dei dem ha regalato soddisfazioni. Basti pensare all’ex presidente Mario Oliverio: quando usò come pretesto gli avvisi di garanzia di “Rimborsopoli” per liberarsi della sua prima giunta politica si mostrò nei fatti giustizialista; le grane giudiziarie successive che lo hanno visto coinvolto in vicende da cui è puntualmente uscito pulito ne hanno fatto un indefesso garantista. Ma è lo stesso Oliverio che durante il suo mandato aveva giurato e spergiurato di non volersi mai e poi mai ricandidare alla guida della Regione. E che ha poi finito ingloriosamente la sua carriera candidandosi e ottenendo un misero 1,7%.

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    Mario Oliverio festeggia con Carlo Guccione dopo la vittoria alla Regionali: lo nominerà assessore per poi scaricarlo

    Dottor Orso e mister Marso

    Non mancano esempi fulgidi anche nell’attuale Giunta. Delle dichiarazioni di Gianluca Gallo, che le cantava proprio a Oliverio su politica e sanità, abbiamo già scritto. Ma non è da meno il collega Fausto Orsomarso. L’assessore di FdI, che si faceva fotografare in discoteca con Bob Sinclar mentre sulle strade del Tirreno cosentino veniva inviato l’Esercito per controllare gli assembramenti della movida, si è prodotto in un discreto carpiato anche sulla metro leggera Cosenza-Rende.

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    Fausto Orsomarso insieme al celebre dj Bob Sinclar

    A luglio 2011 intestava a Scopelliti il merito di aver «snellito l’iter burocratico» e sbloccato «i capitali che serviranno ad implementare la mobilità urbana». Una mossa grazie alla quale «entro il 2015 […] ogni giorno 50/60 mila utenti useranno questo sistema per spostarsi». A giugno 2016 tacciava l’allora governatore Oliverio di «scarsa cultura istituzionale» perché non aveva consultato l’allora sindaco Occhiuto (Mario) prima di procedere alla gara d’appalto per una metro «con una previsione assurda di 40mila persone di bacino quotidiano».

    Politici calabresi ed elettori smemorati

    Da notare che il fratello dell’attuale presidente della Regione – fuoriclasse di giravolte, specie sulla metro in questione, e promesse da marinaio: giusto in questi giorni a Cosenza si festeggiano i cinque anni di quella sulla realizzazione (mai avviata) del nuovo stadio nei successivi 36 mesi – era stato eletto proprio ai tempi della prima dichiarazione di Orsomarso. Che nel 2011 (in maggioranza) esaltava l’opera – «in meno di mezz’ora collegheremo tutta l’area metropolitana» – e nel 2016 (all’opposizione) ne metteva in risalto i problemi. D’altronde è la stessa classe dirigente che annuncia i «ticket» ancora prima del voto e li dimentica subito dopo. Ed è forse quella che, essendo noi elettori i primi smemorati, ci meritiamo.

  • Viale Parco non potrà ritornare come prima (VIDEO)

    Viale Parco non potrà ritornare come prima (VIDEO)

    Non è passato giorno in cui il neosindaco Franz Caruso non abbia parlato dei debiti “insostenibili” («centinaia di milioni di euro») lasciati in Comune dal suo predecessore, Mario Occhiuto. Intervistato dal direttore de I Calabresi – Franco Pellegrini-, il primo cittadino afferma: «Non pensavo di dovere approvare un bilancio preventivo con un disavanzo già di 11 milioni di euro».

    Condannato a non riaprire Viale Parco

    Viale Parco non tornerà come prima. Franz Caruso lo fa capire espressamente: «Dobbiamo terminare il Parco del benessere». Poi continua: «Uno degli errori più grandi è stato distruggere l’opera più importante realizzata nella città dal Dopoguerra ad oggi».
    Ma ne esistono diverse versioni che sopravvivono. Quantomeno nei finanziamenti. La Regione Calabria, per esempio, continuerà ad inviare ogni anno 140mila euro fino al 2026 per la versione manciniana dell’infrastruttura, soldi impegnati nei giorni scorsi. Intanto il Rup è cambiato ancora una volta, dopo due anni di vacatio: adesso è Giuseppe Iiritano. E nelle prossime ore una riunione alla Cittadella potrebbe di nuovo cambiare le carte in tavola. Pare, infatti, che si possa riallargare lo spazio destinato alle auto in transito, ma solo nell’area delle ex ferrovie su cui ora sorge il Rialzo.

    Occhiutiani in Giunta

    Rispetto alla discontinuità sbandierata nei programma, Franz ha poi portato in Giunta quattro esponenti che militavano nella ex maggioranza di Occhiuto. Questione di criteri oggettivi, sottolinea il sindaco: «In Giunta siedono tutti i primi eletti delle liste che mi hanno sostenuto». Il Cencelli del penalista cosentino diventa: «Ho rispettato la volontà dell’elettorato».

    L’Atene delle Calabrie sognata da Caruso

    «Cosenza è stata un punto di riferimento sul piano culturale e politico per l’intera Calabria e anche per il Meridione». Parole che precedono le promesse: «Ridare vita alla Casa delle Culture, alla Biblioteca Nazionale, alla Biblioteca civica e soprattutto al teatro Rendano». Che torni, quest’ultimo, ad essere «teatro di tradizione e, quindi, di produzione».

    La Grande Cosenza arriva al Savuto

    Ma quale città unica, Caruso vuole ricostruire ridisegnare la geografia della Calabria Citra. Mette dentro tutto: Cosenza, Rende, Zumpano, Castrolibero, Montalto e pure la zona del Savuto.

    L’eterna vicenda dell’Unical

    Caruso lavora per un maggiore «coinvolgimento e integrazione dell’Università della Calabria nel territorio cosentino». Perché crede che «il Campus non abbia sviluppato un rapporto simbiotico con la città capoluogo». Poi rincara la dose: «Arcavacata non è nemmeno l’università di Rende». Un Ateneo di gente che «vive quella città solo nei giorni della movida».
    Nel concreto Caruso dice di «aver già chiesto al rettore Nicola Leone di poter collaborare con l’università per i progetti del Pnrr».

    Una leghista per i 90 milioni del Cis

    I 90 milioni del Cis per il centro storico di Cosenza? Venerdì 21 arriva il sottosegretario per i Beni e le attività culturali, Lucia Borgonzoni. Seguirà il tavolo tecnico. Lo ha annunciato lo stesso sindaco.

    Ciclabili ma con giudizio

    La viabilità di Occhiuto ha danneggiato il commercio. È il pensiero di Franz e non solo. E se – come sostiene il primo cittadino – «Cosenza è la sua provincia, allora dobbiamo consentire alle persone di raggiungere la città». E gli amanti della bicicletta? La città sostenibile di Caruso non vuole diminuire le piste ciclabili. Piuttosto vuole aumentarle. Distruggendo parte delle vecchie però e senza quella proliferazione di circuiti per scalare, fittiziamente, le graduatorie delle città ecosostenibili.

    Un jolly da giocare sulle confluenze

    «ll Jolly abbattuto è stata opera importante di Occhiuto, ma non ho nessuna intenzione di proseguire nella costruzione del museo di Alarico». Franz dixit. E se proprio c’è da scegliere qualcuno che rappresenti lo spirito della città? C’è già il buon «Telesio». Sull’immobile pende un vincolo di destinazione. Franz Caruso vorrebbe rimodulare tutto e fare di quel posto un «grande parco verde che ricongiunga città vecchia e nuova».

    Cosenza verde

    Nella visione di Caruso dovrebbero essere eliminate «tutte quelle mattonelle cinesi di Piazza Bilotti per lasciare spazio al verde». Spostando il parco del benessere «lungo gli argini dei fiumi magari navigabili». Ecco il manifesto di Franz contro la cementificazione del verde in salsa Occhiuto. Per ora solo intenzioni.

  • Amalia Bruni dopo Mattarella? Ok per la Dandini, non per i suoi compagni

    Amalia Bruni dopo Mattarella? Ok per la Dandini, non per i suoi compagni

    I giochi nel consiglio regionale calabrese sono fatti da poco più di 24 ore quando un’icona de sinistra, in una trasmissione che riscuote ampio consenso proprio in quel target, fa il nome di Amalia Bruni. Intervistata da Diego Bianchi a Propaganda Live (La7), Serena Dandini affronta un trend topic: perché non una donna al Colle?

    Donne di Calabria (e non)

    Dandini si indigna perché si sente spesso dire che il presidente della Repubblica può essere Draghi, o Berlusconi, o una donna. «Cioè una donna a caso: Draghi, Berlusconi o un dromedario. Come se nel nostro Paese non esistessero decine e decine di donne con un curriculum elevatissimo in grado di ricoprire questo ruolo».

    Dunque tira fuori un elenco con le sue papabili. E tra una Barbara Jatta (nominata direttrice dei Musei Vaticani da Papa Francesco) e un’Anna Maria Loreto (prima donna a capo di una grande Procura come quella di Torino) piazza proprio la neuroscienziata lametina sconfitta alle elezioni regionali da Roberto Occhiuto.

    La calabrese Antonella Polimeni, prima donna nella storia a guidare l'Università La Sapienza di Roma
    La calabrese Antonella Polimeni, prima donna nella storia a guidare l’Università La Sapienza di Roma

    Nell’elenco c’è un’altra calabrese, almeno di origine, ovvero Antonella Polimeni, «prima donna dopo 700 anni a guidare l’università della Sapienza». Ma il dato è politico, non geografico. Al di là della facile battuta – «avere in Italia un presidente che ha scoperto il gene dell’Alzheimer può aiutare…» – l’interessata subito reagisce con comprensibile orgoglio postando il video sui social e ringraziando pubblicamente Dandini.

    La solitudine di Amalia Bruni

    Poi aggiunge due cose. La prima è un autoelogio – «sono quaranta anni anni che dedico tutte le mie energie professionali al miglioramento delle condizioni di vita dei calabresi» – mentre la seconda va al punto: «Fa strano – dice Bruni – che se ne debba parlare in una trasmissione, per quanto colta e intelligente come Propaganda Live, e che a sollevare il problema debba essere una donna, preparata e sensibile, come Serena Dandini, mentre dalla politica che conta, Parlamento, Istituzioni e Palazzi vari, nessuno batte ciglio».

    Amalia Bruni durante la campagna elettorale per le Regionali 2021
    Amalia Bruni durante la campagna elettorale per le Regionali 2021

    Ecco, la riflessione è opportuna ma anche rivelatrice della solitudine di chi la suggerisce. Amalia Bruni in un Palazzo c’è entrata e, coerentemente con la campagna elettorale, continua a definirsi – o almeno dà questa indicazione al suo ufficio stampa – come «leader dell’opposizione in consiglio regionale». Ma per eleggere il presidente della Repubblica la sua coalizione non ha mandato lei a Roma.

    Tre uomini come delegati

    Proprio giovedì dal consiglio regionale sono venuti fuori i delegati calabresi che parteciperanno al più alto rito istituzionale della Repubblica. Si tratta di tre uomini, come sempre due di maggioranza e uno dell’opposizione: per il centrodestra ci sono i due presidenti – quello della Giunta Roberto Occhiuto e quello del Consiglio Filippo Mancuso – e per il centrosinistra il capogruppo del Pd Nicola Irto. L’indicazione non può non avere un significato politico. E, al netto del bon ton di facciata, esautora di fatto Bruni dal ruolo di leader della coalizione Pd-M5S.

    Amalia Bruni: celebrata in tv, ignorata dai suoi

    Certo lei non ha fatto molto per evitarlo: aderire al gruppo Misto appena eletta, diventando capogruppo di se stessa, pur nell’intenzione di rimanere equidistante non è sembrata una scelta strategica fruttuosa. Tanto più che proprio nel Pd Bruni sta pescando per il suo staff – ne fanno parte la dirigente dem lametina Lidia Vescio e la vicepresidente di Avviso Pubblico Maria Antonietta Sacco da Carlopoli – e proprio al Pd lei ha tolto le castagne dal fuoco accettando la candidatura dopo la girandola di nomi che ha coinvolto anche lo stesso Irto, Enzo Ciconte e Maria Antonietta Ventura.

    È la politica matrigna, che a queste latitudini, dietro una facciata di sinistra, non si crea troppi problemi né di genere né di merito. Divorando con implacabile cinismo le creature che ha da poco generato. E senza curarsi del paradosso di una «leader» celebrata in diretta nazionale ma ignorata dai suoi stessi compagni di banco.

     

  • Salerno-Reggio Calabria e alta velocità: il gioco delle tre carte

    Salerno-Reggio Calabria e alta velocità: il gioco delle tre carte

    L’alta velocità ferroviaria nel tratto Salerno-Reggio Calabria sembra una commedia degli equivoci. Vi è una confusione lessicale che non aiuta a comprendere le scelte tecniche per la nuova linea. Si parla di alta velocità di rete (AVR), alta capacità, alta velocità passeggeri. Il rischio è quello di generare un gioco delle tre carte che non va verso l’efficienza nell’allocazione delle risorse pubbliche e l’efficacia nella qualità delle connessioni. I tre termini non sono affatto sinonimi e conducono a costi di investimento, modelli di esercizio ed effetti trasportistici molto differenti.

    È indubbio che l’alta velocità realizzata da Salerno verso il Settentrione abbia rappresentato una delle poche innovazioni infrastrutturali a sorreggere la competitività dell’economia italiana, soprattutto nel centro-nord. È noto che oggi la rete veloce con caratteristiche ad alta capacità si ferma sostanzialmente ad Eboli, per riecheggiare il romanzo di Carlo Levi.
    La decisione di investire per il collegamento ferroviario Salerno-Reggio Calabria costituisce dunque una scelta opportuna per accorciare il Paese. Tuttavia, dobbiamo entrare nel merito delle scelte che saranno operate, per misurarne l’impatto e comprenderne le ricadute sul tessuto economico nazionale.

    L’equivoco (e il flop) dell’alta capacità

    Occorre partire da quanto accaduto con la realizzazione dell’investimento nei decenni passati per la rete attualmente operativa. La discussione fu allora molto animata e vivace. Si decise di costruire quella che fu definita alta capacità, perché consentiva di far transitare sulla nuova rete convogli passeggeri e merci al tempo stesso.

    Era una esperienza unica nel mondo, perché nessuna altra rete di alta velocità ferroviaria consente anche il transito dei convogli merci. Altrove si realizzavano reti funzionali al solo transito di treni passeggeri. Qui, invece, per far transitare i convogli merci si rese necessario realizzare pendenze coerenti, moduli adeguati, sagome ampie, resistenze indispensabili per il passaggio di treni pesanti. E il costo di investimento, per questa sola ragione, risultò più elevato di un terzo rispetto alle esperienze internazionali comparabili.

    Un treno ad alta velocità (low cost) in Francia
    Un treno ad alta velocità (low cost) in Francia

    A distanza di due decenni, possiamo trarre conclusioni inequivocabili. Non un solo convoglio merci, ad eccezione di un treno ETR 500 viaggiatori adattato al suo interno per trasportare merce leggera, ha utilizzato la esistente rete italiana ad alta capacità. Le ragioni sono, e forse anche erano, evidenti: il mercato del trasporto commerciale non è in grado di pagare per il costo di un servizio che, solo per la componente del pedaggio di accesso alla rete, è superiore al prezzo di mercato delle modalità di trasporto alternative alla ferrovia. Non pare il caso di insistere in questo errore.

    Il trasporto ferroviario delle merci

    Una svolta rivoluzionaria, però, è in corso nel trasporto ferroviario delle merci, anche qui da noi. DB Cargo Italia, la società delle ferrovie tedesche che opera nel nostro Paese, grazie alle modifiche introdotte da Rfi, ha cominciato a far circolare – sulle linee del Nord Italia che lo consentono – treni da 2.500 tonnellate. Nel Sud, invece, per limiti indotti dall’acclività e dalla vetustà delle linee circolano convogli da 800 tonnellate.

    Un treno della DB Cargo
    Un treno della DB Cargo

    Bisogna considerare anche il pedaggio di accesso alla infrastruttura. La rete alta velocità presenta un valore economico molto più elevato rispetto a quella tradizionale. Ciò sconsiglia di prendere in considerazione la prima per il trasporto delle merci: il mercato non richiede servizi ad elevata velocità, bensì prestazioni affidabili e tempo di consegna certo.

    La chimera

    Non serve una rete di alta capacità al Sud perché mai i treni merci circoleranno su una rete ad elevato pedaggio. Tanto più con una domanda che si orienta prevalentemente su altri parametri prestazionali. Sarebbe uno spreco di soldi: se l’armatura industriale del centro-nord non è stata in grado di attivare una domanda per servizi merci veloci, questa aspirazione nel Mezzogiorno diventa una pura chimera.

    I treni merci per essere competitivi devono raggiungere uno standard di portata incompatibile con le caratteristiche di una rete ad alta velocità, se non a costi proibitivi. Occorrerebbe, quindi, investire nell’adeguamento della rete ferroviaria tradizionale alle caratteristiche necessarie per la competitività del trasporto ferroviario merci. Servono convogli più lunghi e più pesanti, almeno di 1.600 tonnellate. Bisogna adeguare la sagoma delle gallerie, i raccordi nei porti e nei siti industriali, allungare i moduli di stazione, riclassificare il peso assiale.

    Passeggeri ed alta velocità

    Potremmo dedicare così la nuova rete di collegamento veloce nel Mezzogiorno solo ai servizi passeggeri di lunga percorrenza, garantendo viaggi più rapidi. Una rete ad alta velocità che riguardi unicamente i passeggeri costa molto meno e assicura una drastica riduzione dei tempi di percorrenza. Spostamenti più rapidi e un aumento nella frequenza dei convogli consentono al trasporto ferroviario di allargare molto la quota di mercato, generando anche nuova domanda di mobilità.

    Insomma, per il Mezzogiorno servono due approcci specifici dal punto di vista ferroviario: uno focalizzato sulle merci, per intervenire sulla competitività rispetto agli altri modi di trasporto; l’altro sui passeggeri, che deve guardare alla riduzione dei tempi di percorrenza e al miglioramento della connessione anche verso il centro-nord dell’Italia.

    Il cronoprogramma degli interventi

    La variabile temporale nella realizzazione degli investimenti costituisce un elemento decisivo per il futuro del Mezzogiorno. Se leggiamo le risorse finanziarie stanziate nel PNRR per le ferrovie, ci accorgiamo che quello che sarà realizzato entro il 2026 racconta un’altra storia.

    Esiste una diversa articolazione temporale degli interventi: su totale di 24,77 miliardi di euro destinati agli interventi per investimenti sulla rete ferroviaria, le risorse a disposizione dell’alta velocità verso il Sud per passeggeri e merci (4,64 miliardi) sono circa la metà di quelle per le linee che collegano il Nord all’Europa (8,57 miliardi di euro). Il grado relativo di connettività delle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali, dunque, è destinato a peggiorare in termini di tempi di percorrenza rispetto ai mercati.

    L’errore nella scelta del tracciato

    Infine, c’è il tema della scelta dei tracciati. Sulla Salerno-Reggio Calabria sarebbe irragionevole e sciagurato investire in un collegamento che segue un itinerario nelle aree interne. Toccherebbe creare un sistema di gallerie lungo decine e decine di chilometri, con tempi di realizzazione che andrebbero verso le calende greche e col rischio di un aumento esponenziale dei costi.
    Come sostiene spesso Mario Draghi, farsi guidare dal buon senso è un eccellente viatico per proseguire su un corretto tracciato. Così direbbe anche un ferroviere. Ma sono proprio i ferrovieri, in questo caso, a generare una commedia degli equivoci pericolosa.

    Il tracciato ipotizzato per la nuova tratta ad alta velocità Salerno-Reggio Calabria
    Il tracciato ipotizzato per la nuova tratta ad alta velocità Salerno-Reggio Calabria

    Il documento di RFI sulla Salerno-Reggio Calabria

    In un documento di 211 pagine della Direzione Investimenti di Rfi, invece di fare chiarezza sulle scelte tecniche, si intorbidiscono ulteriormente le acque. È esattamente quello che non dovrebbero fare i tecnici. Il testo manca di due requisiti indispensabili per una valutazione trasportistica: l’analisi della domanda potenziale e la costruzione di un modello di esercizio. È, al contrario, un caleidoscopio di opzioni possibili per singole tratte della linea: questo metodo non restituisce chiarezza di scelte. Siamo più in presenza di uno spezzatino ferroviario, che lascia impregiudicate le decisioni che devono essere assunte.

    Sull’alimentazione elettrica resta non sciolto il nodo tra tensione a 3.000 o a 25.000 mila Volt. Pare un dettaglio ma non lo è, perché determina nel secondo caso una integrazione con la rete AV esistente, lasciando fuori gli operatori normalmente privi di materiale rotabile idoneo a circolare con detta tensione (es. Imprese Ferroviarie merci) oppure nel primo caso una scelta per una velocizzazione di rete.

    I ferrovieri sanno bene che per ottimizzare il modello di esercizio non si possono concepire tratte singole con caratteristiche tecniche differenti. Quanto alla analisi della domanda, se non si definiscono i tempi di percorrenza manca uno degli elementi fondamentali per comprendere la domanda potenzialmente catturabile.

    Il collegamento trasversale merci

    Va valorizzato, in un documento deludente, un elemento che può essere invece una chiave di volta importante per le operazioni logistiche. Un collegamento trasversale dal porto di Gioia Tauro verso l’asse adriatico può costituire una soluzione interessante. L’itinerario adriatico è stato già dotato di quelle caratteristiche, per modulo, sagoma e peso assiale, che sono coerenti con la circolazione di treni merci con standard europei. Gioia Tauro è un porto di transhipment: serve quindi confrontare l’assetto potenziale dei meccanismi competitivi tra soluzione ferroviaria e navi feeder.

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    Il porto di Gioia Tauro

    Insomma, siamo tutti d’accordo sulla necessità di realizzare un collegamento ferroviario veloce al servizio delle regioni meridionali. Come lo si realizzerà, con quale progetto, con quale tracciato, con quali caratteristiche e con quali costi sarebbe necessario discuterlo in modo serio. Gli equivoci che si annidano nelle scelte tecniche vanno sciolti. Non vorremmo ripercorrere la triste storia della Salerno-Reggio Calabria autostradale.