La notizia rimbalza di sito in sito ormai da qualche ora: la Regione ha pubblicato il nuovo piano che dovrebbe portare all’ammodernamento tecnologico della Sanità calabrese. E via con il lungo elenco di macchinari che presto (?) faranno bella mostra di sé nelle strutture pubbliche destinate alle cure dei cittadini. Un dettaglio, però, sembra sfuggito alle cronache: la cifra messa sul piatto è identica a quella del piano già pubblicato nella scorsa primavera.
In pratica, stando alle cifre riportate, in tutti questi mesi non sarebbe stata comprata un’apparecchiatura che sia una, a dispetto dell’immancabile dose di promesse. C’erano a disposizione 86.488.636,84 euro nel vecchio piano, ci sono a disposizione 86.488.636,84 euro anche nell’attuale. Non un centesimo di più, né uno di meno. A voler essere generosi si potrebbero considerare gli allegati C e D del piano e non il documento principale. In questo caso, gli acquisti ancora da effettuare sfiorerebbero i 70 milioni di euro e quelli già effettuati si fermerebbero al 20% del totale più o meno.
I mammografi in uso da oltre 18 anni
Il budget, datato 2019 quindi già a disposizione da prima di redigere la precedente lista della spesa, dovrebbe servire alla Calabria per dotarsi di tecnologie all’avanguardia. Ma a furia di aspettare, il rischio è che i nuovi acquisti – quando arriveranno davvero – si rivelino meno ultramoderni di quanto sperato. Comunque vada stavolta, saranno comunque meno vecchi dei loro predecessori. In particolare, dei mammografi in uso nella nostra disastrata rete sanitaria pubblica. Dovrebbe andare in pensione dopo quasi 30 anni di onorato (?) servizio il decano della categoria, acquistato nel lontano 1993 per il presidio ospedaliero dell’allora Corigliano. Da quelle parti, in realtà, Fujifilm e Roche Italia ne hanno donato uno poche settimane fa. Nel piano della Regione, però, la cosa non risulta, tant’è che negli allegati si prevede una spesa di quasi365mila euro per acquistarne uno.
L’età media delle apparecchiature in dotazione al Servizio sanitario regionale calabrese
Quello di Corigliano non è l’unico mammografo ad essere “diventato maggiorenne” in tutto questo tempo, anzi. A fargli compagnia ci sono quelli delle Casa della salute di Mormanno (2004), Cariati (2002) e dei presidi ospedalieri di Paola (2002), Gioia Tauro (2004) e Melito (2000), nonché quello del poliambulatorio di Cirò Marina (2003). Senza dimenticare i quasi diciottenni in uso ad Amantea (2005), Mesoraca (2006) e Trebisacce (2007). Le apparecchiature sanitarie, in teoria, sono considerate vecchie già dopo sette anni e andrebbero cambiate perché obsolete entro i successivi cinque.
La Sanità tra tumori ed emigrazione
Tutti i vecchi mammografi citati (e non solo quelli), stando alla relazione di contesto pubblicata dal dipartimento Sanità, richiedono una sostituzione. Consentirà «di avere diagnosi più accurate con una forte riduzione delle dosi di radiazioni e dei tempi dell’esame». Ma, soprattutto, di risparmiare un po’ di quattrini in prospettiva, rimediando «all’obsolescenza delle corrispondenti apparecchiature attualmente installate nel presidio ed ai conseguenti elevati costi di gestione a causa dei frequenti interventi di manutenzione».
Un estratto dell’approfondimento della relazione di contesto pubblicata dalla Regione
La speranza è che servano anche a curare meglio i tumori alla mammella, che da questa parti continuano a risultare più problematici che nel resto d’Italia. Un divario, questo, che trova conferma anche nel trattamento delle altre patologie oncologiche. E va a pesare anche sulle casse regionali alla voce “emigrazione sanitaria” per milioni di euro ogni anno.
Di esperta pare proprio essere esperta, molto più di altri colleghi portaborse passati dalla Regione Calabria in questi anni. E non potrebbe essere altrimenti: fino a dicembre 2019 Angela Robbeera assessore al Lavoro e al Welfare nella giunta Oliverio. Da qualche tempo, invece, si è trasferita in Consiglio regionale. Con oneri e onori decisamente più ridotti del recente passato, pur continuando a occuparsi di lavoro e, per i più maliziosi, di un welfare sui generis. Quello tutto interno alla politica. Robbe, infatti, ha un nuovo incarico: collaboratrice esperta – appunto – al 50% della leader (o presunta tale) dell’opposizione Amalia Bruni.
Il contratto, salvo cambi di idea in corsa della scienziata lametina, durerà fino a ottobre 2026, molto più dell’anno e mezzo trascorso nell’Esecutivo del sangiovannese prima di dimettersi a ridosso delle penultime elezioni. In compenso, gli emolumenti non saranno più quelli di un tempo: circa 78.500 euro lordi in poco meno di un quinquennio, roba (Robbe?) che un assessore regionale calabrese porta a casa in pochi mesi di attività.
Dalle stelle alle stalle
Certo è insolito vedere qualcuno che sedeva in Giunta retrocedere a semplice portaborse, per di più con lo stipendio da dividere a metà con un collega di pari grado. Ma non è un inedito assoluto dalle nostre parti, anzi. Le strutture dei consiglieri regionali sono da sempre piene di politici, alimentando il sospetto che più che l’esperienza per certi collaboratori conti il numero di voti portati al datore di lavoro alle elezioni.
L’ex consigliere regionale Alfonsino Grillo
Nella maggior parte dei casi, molti di loro coincidono con quelli che si offendono ad essere chiamati portaborse come si usa per gli assistenti dei politici. A volte addirittura con quelli che preferirebbero essere chiamati onorevoli – pur non spettandogli il titolo – per i propri trascorsi in Aula Fortugno. Nella scorsa consiliatura, ad esempio, nello staff di Baldo Esposito c’era Alfonsino Grillo, che era stato a sua volta consigliere regionale fino al 2014. Con un quinto dei 1.230 euro netti al mese che la Regione gli passava pagava pure un danno erariale ai danni della stessa Regione per il quale lo aveva condannato la Corte dei Conti.
Dettagli, questi, che non riguardano il suo emulo dell’attuale consiliatura: Francesco Pitaro. La poltrona l’ha lasciata dopo le Regionali di ottobre ma è rientrato a Palazzo Campanella come segretario particolare del democrat Raffaele Mammoliti. Declassamento oneroso ma non troppo, il suo: per lui ci sono circa 200mila euro lordi a rendere meno doloroso il prossimo quinquennio.
Il precedente più illustre (e recente)
L’esempio più noto, però, è ancora in casa Pd. È di qualche settimana fa la notizia dell’ingresso dell’ex consigliere ed assessore Carlo Guccione nello staff del neo eletto Franco Iacucci. Guccione ci arriva da componente interno, ossia da impiegato regionale messo al servizio di un politico in cambio di un extra sullo stipendio mensile che gli passa l’ente. Lui in Regione ha piantato le tende col mitico “concorsone” che ha fatto la gioia dei cronisti dell’epoca. E per anni se l’è presa con quanti lo definivano ex portaborse di Nicola Adamo per aver lavorato nella struttura di quest’ultimo.
Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Franco Iacucci durante le ultime elezini regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi
Alle ultime elezioni non lo hanno ricandidato, ma poco dopo è diventato responsabile della Sanità per il Meridione nel suo partito. Si spera riesca a conciliare l’impegno con le fatiche degne di Stachanov alla quale lo sottoporrà senza alcun dubbio l’altro ex comunista Iacucci negli uffici che non mancherà di frequentare. Anche Guccione, proprio come Robbe dopo di lui, aveva la delega al Lavoro con Oliverio. Seppur in ritardo rispetto a quando dovevano crearli loro, almeno due discreti posti nella Calabria della disoccupazione gli sono rimasti.
“Qui la ‘ndrangheta non entra”, d’accordo, ma forse nemmeno le persone perbene, sempre ammesso che i giornalisti lo siano (i dubbi, in certi casi, sono leciti).
Ha fatto molto discutere, negli anni, il cartello affisso davanti a una delle entrate del Consiglio regionale, quello che si prefiggeva di essere un divieto perentorio poi diventato piuttosto ridicolo, alla luce dei tanti arresti per mafia che, nell’ultimo decennio, hanno coinvolto i politici calabresi.
Bunker e propaganda
Gli eventi hanno trasformato quell’avviso in mera propaganda del tutto staccata dalla realtà, perché il virus ha infettato eccome il Palazzo reggino. L’emergenza Covid è invece riuscita a blindare “la casa dei calabresi” contro qualsiasi influenza esterna, tramutandola in una specie di bunker quasi inaccessibile. Dallo scoppio della pandemia, il Consiglio è praticamente off limits per il «pubblico», termine ampio in cui sono inclusi pure i giornalisti, cioè quei “lavoratori dell’informazione” che dovrebbero avere il diritto/dovere di seguire le sedute dell’assemblea e di darne conto – a modo loro – ai lettori/elettori.
La stretta, introdotta una prima volta nella scorsa legislatura dall’allora presidente, Mimmo Tallini, è stata riconfermata, in forme diverse, dai successori Giovanni Arruzzolo e, infine, da Filippo Mancuso. Così oggi alle sedute possono partecipare solo gli eletti e i dipendenti del Consiglio da cui dipende il funzionamento dell’aula. Niente «pubblico», insomma, da circa due anni.
Niente pubblico nel bunker
Arruzzolo ha ribadito il divieto di accesso lo scorso 13 ottobre, con una deliberazione che permetteva l’accesso al Consiglio solo alle persone in possesso del green pass. Ordine poi prorogato fino al 31 marzo 2022, «e comunque fino al termine di cessazione dello stato di emergenza», con un atto datato 29 dicembre e firmato da Mancuso. Tutto perfettamente regolare e in linea con le normative nazionali, se non fosse per quel paragrafo, il numero 10, che in pratica non consente al «pubblico» di assistere «ai lavori dell’Aula».
Un momento del voto a Montecitorio per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica
Un’aggiunta controversa e che, peraltro, non trova giustificazione se paragonata a quanto avviene in Parlamento, come Mancuso dovrebbe ben sapere. L’attuale numero uno di Palazzo Campanella è stato uno dei tre delegati calabresi che hanno partecipato al voto per la Presidenza della Repubblica. E avrà certamente notato che – oltre a essere state riorganizzate per aumentare il numero dei posti a disposizione dei grandi elettori e garantire così il distanziamento – a Montecitorio le tribune non sono mai rimaste chiuse né alla stampa né al resto del «pubblico». Giornalisti e operatori hanno così potuto svolgere il loro lavoro pur nel rispetto di precise norme anti-Covid.
Restrizioni alla calabrese
Il Consiglio calabrese, invece, non solo non si è adeguato al Parlamento, ma continua a mantenere in vigore disposizioni molto più restrittive, laddove il green pass, una diversa regolamentazione degli accessi e posti distanziati potrebbero assicurare la presenza del pubblico e, in particolare, della stampa. Fonti qualificate della Presidenza spiegano che si tratta di «misure precauzionali emanate per tutelare la salute dei consiglieri e dei dipendenti». L’aula non disporrebbe degli spazi necessari per assicurare il distanziamento. Motivazioni che, tuttavia, non convincono del tutto. A parte gli scranni in sovrannumero destinati ai 30 consiglieri (fino al 2014 l’aula ne ospitava 50), le due tribune per la stampa dispongono di decine di posti e sono ben separate sia da quella dove siede il pubblico sia da quella in cui operano gli addetti alla registrazione delle sedute.
La casta non c’entra
Tanto per eliminare ogni sospetto, va detto che il divieto di accesso per i giornalisti non lede solo le prerogative di una categoria che, spesso, è capace di produrre odiose e autoreferenziali rivendicazioni degne di un’altra casta, quella dei politici, ma colpisce, in primo luogo, il diritto dei cittadini di essere correttamente ed esaurientemente informati su quello che succede nella massima assemblea elettiva regionale.
Oggi le informazioni sono garantite solo dai resoconti scritti dai tecnici del Consiglio e dalle dirette – camera sempre fissa solo su chi interviene in aula – su Youtube. Un giornalista, magari, potrebbe annotare anche altro: i soliti capannelli bipartisan prima dell’approvazione di una certa legge, i conciliaboli da compagnoni tra presunti avversari, le determinazioni dei consiglieri sui singoli provvedimenti, considerato che ancora non esiste – malgrado i buoni propositi del passato – il voto elettronico.
Sono tante le spigolature che potrebbero essere funzionali a una narrazione autentica. Particolari, piccole nuance, che spesso non aggiungono nulla alla trama, ma che, a volte, possono dire molto, molto più di quel che i governanti vorrebbero. Le caste, si sa, di solito amano scegliere in che modo e in che forme raccontarsi.
I compari e la stampa
L’insofferenza nei confronti della stampa si è di certo acuita negli ultimi anni, in particolare dopo la frase – registrata dalla trasmissione Annozero di Michele Santoro – pronunciata dall’allora consigliere Franco Morelli mentre abbracciava il collega Mimmo Crea: «Il compare del tuo compare è anche mio compare». Quel servizio fece scoppiare un pandemonio che finì per screditare tutta l’istituzione regionale, anche perché, di lì a poco, sia Crea sia Morelli finirono in carcere per i loro legami con la ‘ndrangheta, poi confermati da condanne definitive. Da quel momento in poi, i giornalisti hanno avuto una libertà di movimento limitata alle sole tribune, cioè a distanza di sicurezza dai consiglieri.
Filippo Mancuso
L’emergenza attuale non ha fatto altro che favorire una nuova (forse da tempo desiderata) stretta. E forse, allora, val la pena di ricordare Verbitsky e il suo credo: «Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda». Val la pena di ricordare la disinformazione prodotta da quel famoso cartello. Val la pena di ricordare all’Ordine dei giornalisti di fare il suo mestiere. E val la pena di ricordare a Mancuso di aprire le porte e di lasciar perdere le botole.
Cinque paia di pantofoline colorate sistemate all’ingresso. I riscaldamenti accesi già da qualche ora. In cucina il profumo buono di una ciambella appena sfornata. Comincia così, molto presto, la giornata di lavoro di Erminia: madre single, due figli appena adolescenti, professione tagesmutter. Letteralmente “mamma di giorno”, ma la definizione non chiarisce il complesso mosaico di compiti e competenze di queste professioniste riconosciute dal Ministero dello Sviluppo economico.
Bambini giocano con i colori
Oltre gli asili pubblici e privati
Si tratta di educatrici di nido domiciliare formate e le loro case ospitano un massimo di cinque bambini in contemporanea, un’alternativa agli asili pubblici e privati che ha il vantaggio di offrire un’ambiente domestico e una cura familiare, tempi e spazi organizzati in base alle esigenze e ai bisogni dei genitori con i quali si concordano orari e tariffe.
Alle 9 il primo papà suona al campanello e a stretto giro arrivano gli altri bimbi che frequentano questa casa: il più piccolo ha 11 mesi, la più grande due anni e mezzo. Appena entra, ogni bambino sa esattamente cosa fare e lo fa in autonomia: togliere le scarpe, lavarsi le mani, il gioco libero nella sala in attesa che arrivino gli altri.
Pedagogia domestica
Ogni giornata, seguendo i ritmi di quella che sarebbe una routine in famiglia, prevede delle attività da fare insieme: lavare, impastare, cucinare, pulire. «È la pedagogia della domesticità» – spiega Erminia Greco, “zia Erminia” per i suoi piccoli utenti, che è coordinatrice gestionale del servizio Tagesmutter Domus della cooperativa “La Terra”. «Il nostro motto è: proporre, non imporre. Puntiamo alla crescita dell’autostima di ogni bambina e di ogni bambino. Preparare i biscotti o le polpette, lavare i panni, dipingere: i bambini sperimentano tutto in prima persona. Se li lasci fare e non fai le cose al posto loro, si sentiranno capaci e soddisfatti. Aiutiamo anche i genitori a portare avanti questa filosofia, attraverso incontri e seminari con psicologi e pediatri, in maniera che ci sia una continuità educativa tra la casa della tagesmutter e la loro casa».
Coccole e pazienza
I bambini hanno età diverse, il più piccolo viene coccolato dai più grandi che lo aiutano a scegliere i giochi o a sfilare il giubbino. «In questa maniera i bambini si responsabilizzano, fanno comunità e consolidano il loro legame. Ogni attività è pensata in base all’età, perché ogni bambino ha un piano pedagogico a sé». In uno spazio domestico sicuro e senza pericoli, i bambini sbriciolano, esplorano, colorano, si sporcano in libertà.
Impastare è una delle attività principali praticate dai bambini
«Impastare è un gioco che li diverte – continua Erminia – ma è allo stesso tempo un’azione educativa: impastando potenziamo la motricità fine e questo, ad esempio, li aiuterà a impugnare meglio la penna quando saranno a scuola». Facile dedurre che la prima dote della tagesmutter sia la pazienza, indispensabile per affrontare da sola cinque bambini con temperamenti e bisogni molto diversi. «La pazienza, certo. Ma anche tanta fantasia. Quando la situazione precipita perché magari i bimbi piangono insieme o litigano tra loro, ho la mia strategia – sorride Erminia – comincio a cantare a squarciagola: questo di solito funziona».
La Calabria esempio virtuoso in Italia
All’albo nazionale delle tagesmutter In tempi di Covid molte famiglie hanno cercato una soluzione alternativa alle strutture pubbliche ma i micronidi delle tagesmutter sono ancora molto pochi al sud, questo nonostante la Calabria sia un esempio virtuoso in Italia. La Regione è infatti l’unica ad aver disciplinato le tagesmutter all’interno del registro delle professioni atipiche. Domus è l’unica rete di professioniste iscritte all’albo in Calabria (l’albo conta in totale 184 professioniste su tutto il territorio nazionale), anche se – è bene precisarlo – non c’è l’obbligo di appartenere ad un’associazione o ad un ente e in tutta Italia sono numerose le “battitrici libere”. Non in Calabria, dove i nidi domiciliari sono ancora troppo pochi.
La vendemmia dei bambini
«Al momento tra Cosenza e Rende ce ne sono solo due e ospitano in tutto dieci bambini. Abbiamo purtroppo dovuto rifiutare le richieste di oltre venti famiglie» spiega Erminia. E in questo vuoto di offerta c’è il rischio di lasciare spazio a chi si improvvisa solo perché intravede la possibilità di guadagno. «Le tagesmutter devono avere una formazione specifica come educatrici di nido domiciliare – avverte Erminia Greco – . Noi della rete Domus siamo iscritte ad un albo professionale a cui si accede solo dopo corsi che prevedono, tra l’altro, lezioni di primo soccorso pediatrico».
Si tratta di «una professione che offre grandi soddisfazioni ma anche flessibilità, perché i turni si organizzano in base al tempo che si può mettere a disposizione e soprattutto offre alle donne che non possono permettersi alternative, la possibilità di stare a casa e continuare a prendersi cura anche dei propri figli. E intanto garantirsi un guadagno, che varia ovviamente in base al numero dei bambini e alla tariffa oraria concordata con le famiglie».
Tagesmutter? In principio fu il Trentino
La storia dei nidi domiciliari e delle tagesmutter in Italia è relativamente recente. Lo sviluppo delle politiche per l’infanzia ha inizio con la legge 176 del 1991 con la quale il Governo italiano ha recepito la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia approvata dall’Assemblea delle Nazioni Unite nel 1989. Il processo di ratifica è poi proseguito con la legge 285/97 (Legge Turco) che costituisce il primo grande strumento di cambiamento nel sistema delle politiche sociali italiane, anche per merito della copertura finanziaria che l’ha sostenuta.
Grazie ai finanziamenti previsti dalla Legge Turco, è iniziata la sperimentazione del modello tagesmutter e si sono sviluppate le prime reti di nidi famiglia che – a partire dal Trentino Alto Adige – hanno poi coinvolto le altre regioni. Anche dal punto di vista normativo non c’è una linea unitaria. Il nido famiglia è generalmente un servizio educativo domiciliare, in Italia regolamentato a livello regionale. Quasi tutte le Regioni hanno adottato una normativa ad hoc che stabilisce le modalità attraverso le quali è possibile aprire un nido famiglia, un nido domiciliare o diventare assistente domiciliare. È dunque possibile lavorare come tagesmutter in autonomia, non è necessario dunque far parte ad un’associazione o una cooperativa.
Libertà e creatività sono due cardini degli asili gestiti dalla tagesmutter
Sold out: la domanda supera l’offerta
«Appartenere a una rete ed essere iscritte all’albo nazionale – chiarisce Erminia – è sicuramente una garanzia. Il nostro è un lavoro molto delicato, è assolutamente controproducente improvvisarsi». Il prossimo corso di formazione della rete Domus partirà tra poco: a febbraio ci saranno i seminari formativi per poter poi accedere alla selezione del corso, il 2 e il 3 marzo.
Sulla pagina Facebook “I nidi delle mamme” curata da Margherita Fortebraccio, coordinatrice pedagogica e presidente dell’associazione, si possono trovare tutti gli aggiornamenti in merito ai corsi. I requisiti minimi: dai 21 anni di età, una casa a norma (soprattutto per quanto riguarda impianti e caldaie) e spazi adeguati (si calcola che servano quattro metri quadri a bambino). «Ci piacerebbe diventare più numerose – conclude Erminia – perché a differenza di altri settori nel nostro c’è il paradosso che l’offerta è inferiore alla domanda. E c’è un vantaggio ulteriore, quello di lavorare a casa, prendendosi cura dei bambini del nido e contemporaneamente dei propri figli».
A novembre 2020 esplode una protesta a Cosenza contro l’istituzione della zona rossa.
Tra i bersagli della piazza ci sono i fratelli Gentile ed Ennio Morrone, accusati di aver distrutto la sanità calabrese, pubblica e privata.
A metà gennaio 2022 gli ex dipendenti della clinica Misasi-San Bartolosalgono sul tetto della storica struttura cosentina per protestare contro i licenziamenti che hanno colpito 51 dei 129 lavoratori. Le lettere di licenziamento provengono dai fratelli Greco, che hanno rilevato la clinica dai Morrone.
Operai protestano sul tetto della Clinica Misasi-San Bartolo dopo l’arrivo delle lettere di licenziamento per 51 di loro
Dopo il figlio ecco la nuora
Nel frattempo, sono successe alcune cose importanti: Luca Morrone, figlio di Ennio, non è più in Consiglio regionale, dove sedeva tra i banchi della maggioranza in quota Fratelli d’Italia. Al suo posto è subentrata la moglie, Luciana De Francesco, eletta nella medesima lista meloniana con 4mila 500 e passa voti. Il pacchetto di famiglia, che fu di Ennio e poi di Luca è rimasto in casa, anche se ha cambiato sesso e cognome. Potenza delle dinastie, che rendono il potere una proprietà transitiva.
E con buona pace di chi protesta: saranno pure molti, ma sempre meno di chi vota senza fiatare.
Luciana De Francesco, eletta in consiglio regionale con Fratelli d’Italia
Il patriarca Enniuzzo
Viso paffuto, aria paciosa e modi sornioni, Giuseppe Ennio Morrone, detto Ennio e a volte Enniuzzo, è il meno vistoso tra i big cosentini di lungo corso. Non ha la popolarità di Pino Gentile né il radicamento di Nicola Adamo. Soprattutto, non ha la loro capacità di trasformare le clientele in seguito.
A voler fare un paragone irriverente, Ennio somiglia a un gatto: astuto, aggressivo quando serve, spregiudicato e calcolatore, l’ex esponente socialista (quindi democratico, poi mastelliano e infine azzurro) è un maestro nell’arte della sopravvivenza politica in posizioni di potere. Soprattutto, è il più determinato a trasformare il potere in eredità. Vediamo come.
Quattrini e seggi
C’è una regola non scritta che pochi possono permettersi di violare: la separazione tra attività d’impresa e la politica. In Calabria, le eccezioni eclatanti sono due: Sergio Abramo e, appunto, Ennio Morrone.
Morrone senior, di professione ingegnere, ha esordito come imprenditore attraverso Geocal, un laboratorio di analisi specializzato sui materiali utilizzati nei lavori pubblici.
Il battesimopolitico di Morrone, invece, è stato propiziato da Pino Gentile. Con buoni risultati, tra l’altro: il Nostro fa il vicesindaco a fine anni ’80. Poi, finita la Prima Repubblica, quindi il Psi, riemerge come assessore di Giacomo Mancini.
Il salto di qualità avviene col centrosinistra nel 2000, quando Morrone si candida ne I Democratici e diventa consigliere regionale.
Nel 2005 il big cosentino aderisce all’Udeur di Clemente Mastella e torna in Consiglio regionale con gran scioltezza.
L’anno doro di Ennio Morrone
La giunta Loiero e la vicinanza a Super Clemente si rivelano meravigliosi trampolini di lancio: diventato assessore regionale al Personale, Ennio si gioca la promozione romana nel 2006. E vince: diventa deputato e, in maniera non troppo indiretta, occupa una casella al Comune di Cosenza, dove suo fratello Giancarlo (medico andrologo e poi direttore sanitario della “Misasi”) diventa vicesindaco.
Questo è l’apice di Ennio, che non bisserà più il record di potere e presenze. Ma capitalizza comunque quel che ha a dispetto di tanti scivoloni, che ad altri sarebbero costati più cari. Vediamoli.
Le rogne
Già nel 2003 Morrone era finito nel mirino della Dda di Catanzaro per presunte infiltrazioni delle ’ndrine nei lavori dell’allora A3. L’inchiesta finì in niente per tutti gli indagati.
Nel 2006 Morrone fu intercettato durante un colloquio in carcere con Franco Pacenza, all’epoca notabile dei Ds, mentre ne diceva di tutti i colori di alcuni magistrati. Lo scandalo mediatico rientrò con la velocità con cui era esploso.
Nel 2007 è la volta di Why Not?, la megainchiesta di Luigi de Magistris, allora sostituto procuratore a Catanzaro. Why Not? finì per Morrone allo stesso modo che per altri indagati eccellenti (tra cui Nicola Adamo): in nulla.
La famiglia prima di tutto
Il principale motivo d’orgoglio di Ennio è la famiglia. In particolare, sua figlia Manuela, che ha fatto per anni la magistrata a Cosenza, prima a livello penale poi nel Tribunale fallimentare. Manuela, tra le varie, è moglie di Stefano Dodaro, già capo della Squadra Mobile di Cosenza.
Il sogno di molti padri “che contano” è avere figli “che contano” altrettanto. E quando non ci riescono da soli, arriva il consiglio paterno.
È il caso di Marco e Luca, gemelli quasi indistinguibili, che hanno ereditato i due core business di papà Ennio: l’imprenditoria (Marco) e la politica (Luca).
Marco diventa socio e ad della San Bartolo, la società proprietaria delle cliniche – Misasi, San Bartolo e Villa Sorriso – di famiglia. Luca si dà alla politica, dove riprende e prosegue la carriera paterna.
Stefano Dodero, ex capo della Mobile a Cosenza e attualmente direttore della scuola di Polizia a Vibo Valentia
Rinascere in Azzurro
Nel 2010 Ennio si candida in Regione in quota Pdl. Non ce la fa per un soffio, ma l’aiuta la sfortuna altrui: prende il posto di Franco Morelli, finito in galera per concorso esterno in associazione mafiosa.
Intanto, nel 2011, Luca diventa presidente del consiglio comunale di Cosenza nella prima sindacatura di Mario Occhiuto. Poi succede un fatto curioso: nel 2014, Ennio torna in consiglio regionale con Forza Italia. A inizio 2016, Luca partecipa alla sfiducia, che fa decadere Mario Occhiuto a pochi mesi dalla scadenza del mandato. Contestualmente, Ennio diventa presidente della Commissione regionale di controllo e garanzia, durante l’amministrazione Oliverio.
L’impero scricchiola
L’avvisaglia è in una dichiarazione rilasciata da Eugenio Facciolla, procuratore di lungo corso, durante una famosa ispezione ministeriale sul Tribunale di Cosenza. Facciolla, in quell’occasione, aveva lanciato l’allarme sul possibile conflitto d’interessi rappresentato da una magistrata moglie del capo della Squadra mobile e figlia di un politico. Dodaro verrà trasferito da lì a poco.
Nel frattempo, anche le cliniche danno problemi: accumulano debiti, soprattutto nelle retribuzioni e nella previdenza, ed entrano nel mirino dei sindacati.
Il punto più alto della crisi si registra nel 2015, quando per tamponare i problemi la San Bartolo ricorre ai contratti di prossimità. Il risultato è accettabile a livello economico ma pessimo a livello politico-sindacale.
Infatti, la situazione si trascina fino alla primavera del 2021, quando i Morrone decidono di vendere tutto o quasi ai Greco, specializzati nel recupero delle cliniche decotte (avevano già acquistato La Madonnina e il Sacro Cuore di Cosenza e La Madonna della Catena di Laurignano), non prima di aver tentato di vendere a un altro big: Piero Citrigno.
Migranti e guai
Un’altra buccia di banana si rivela nel 2015, in seguito alla protesta di alcuni migranti ospiti della struttura, il Centro d’accoglienza di Spineto, frazione di Aprigliano vicinissima alla Sila. Un’inchiesta giornalistica dell’agosto di quello stesso anno rivela che il centro d’accoglienza è gestito dalla Cooperativa Sant’Anna, di cui tra l’altro era stato amministratore Marco Morrone. Nel giro di pochi mesi, la struttura viene chiusa. Ma intanto lo scandalo è scoppiato a livello nazionale e finisce addirittura in Profugopoli, il libro di Mario Giordano.
La coop Sant’Anna, detto per inciso, gestisce anche i servizi ausiliari delle cliniche riconducibili ai Morrone più altre attività terziarie. Ma scoppia un’altra rogna: l’inchiesta Passepartout, in cui è indagato e rinviato a giudizio Luca Morrone.
A causa di questo procedimento, Luca deve rinunciare alla candidatura alle Regionali dello scorso ottobre.
La storia infinita
Il resto è noto. L’elezione della De Francesco ha inaugurato un altro filone di ereditarietà politica: quello che al posto dei figli premia i loro coniugi.
Un filone, tra l’altro non proprio inedito, visto che l’ha sperimentato con successo sulla costa Tirrenica l’ex europarlamentare del Pd Mario Pirillo, che ha sponsorizzato alla grande la carriera di Graziano Di Natale, il marito della figlia.
In un modo o nell’altro, la dinastia resiste. Passano i decenni, cambiano i sistemi, crollano gli imperi (anche i loro), ma i Morrone sono vivi e lottano.
Nel loro caso, il Gattopardo può essere un paragone insufficiente…
Lo scorso 18 ottobre lo stesso Roberto Occhiuto che oggi rivendica il suo «cambio di passo» lanciava, da Milano, una delle dirette a cui avrebbe poi abituato il suo pubblico social. Ancora fresco di elezione, e gigioneggiando un po’, spiegava come tutti, in quel momento, gli chiedessero notizie sull’imminente composizione della sua giunta. Il governatore/factotum della città si descriveva invece come «più impegnato» a cercare «personalità di assoluta qualità» da «coinvolgere, in ruoli chiave», nel «progetto di rilancio della Regione». Obiettivo dichiarato del suo scouting lombardo erano i «calabresi che se ne sono dovuti andare, ma che magari sognano di tornare».
Visto che è stato lui a rispolverare il refrain della diaspora e delle eccellenze, ma senza alcuna voglia di alimentare campanilismi di cui non si sente il bisogno, vale la pena dopo 3 mesi andare a indagare il giro di nomine che si è nel frattempo innescato in quel di Germaneto. Un generatore semiautomatico di incarichi che al momento, sempre al netto della retorica calabrocentrica, non pare inquadrabile nella narrazione, cara a Roberto Occhiuto, del nativo illustre che torna nella riserva indiana a dispensare virtù e conoscenze.
I superconsulenti in quota Bertolaso
I botti di Capodanno, per esempio, alla Cittadella li hanno sparati reclutando due superconsulenti per nulla calabresi, ma che godono entrambi del requisito di provenire dal cerchio magico di Guido Bertolaso. Si tratta di Agostino Miozzo ed Ettore Figliolia, chiamati da Occhiuto a occuparsi rispettivamente di sanità e questioni giuridiche. A onor del vero non avranno dei supercompensi, ma del loro primo mese al servizio della causa calabrese non sembrano esserci grandi tracce. A parte qualche conferenza stampa, un paio di interviste e certamente molte videochiamate.
Uno come Miozzo, d’altronde, nel 2019 dichiarava 213mila euro di incarichi pubblici (fonte Presidenza del Consiglio), mentre ora dalla Regione Calabria avrà 12mila euro all’anno (più rimborsi spese). A parte la sua democratica smania di «arrestare» i no-vax, per adesso l’ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico – che Giuseppe Conte voleva nominare commissario alla sanità – ha fatto scoprire alla Calabria le magnifiche e progressive sorti della telemedicina, una cosa di cui nell’Unione Europea si parla dal 2008.
Ma la Calabria potrà godere anche delle sue competenze in materia di «riorganizzazione del sistema regionale di emergenza urgenza». Lo stesso settore per cui Occhiuto ha annunciato un accordo con Areu (l’Agenzia che se ne occupa per la Regione Lombardia) ribadendo l’obiettivo di «importare buone pratiche senza inventarsi nulla di nuovo». A questi intenti non ha reagito benissimo la Fismu (affiliata Cisl Medici) che ha invitato il governatore a parlare con i medici e a guardare «alle esperienze che funzionano sul territorio».
Aspettando Bortoletti
Certamente meno rumoroso di Miozzo è Figliolia, che dopo anni in servizio all’Avvocatura dello Stato, e con una lunga sfilza di incarichi governativi alle spalle, ora si occuperà di «temi giuridici riguardanti l’azione di governo» della Regione Calabria. Tante volte in questi anni, in effetti, la Regione ha ingaggiato contenziosi non sempre fortunati con il governo nazionale, ma questi quasi sempre riguardano le leggi regionali che, in teoria, sarebbero di competenza del Consiglio.
Il colonnello dei Carabinieri, Maurizio Bortoletti
Uno che ci servirebbe come il pane, nel pieno delle sue funzioni, sarebbe invece il subcommissario alla sanità Maurizio Bortoletti. Colonnello/manager che ha risanato un buco enorme nella sanità campana, è stato nominato per affiancare Occhiuto a metà novembre. Ma ancora oggi non è operativo per via di unbraccio di ferro con l’Arma dei carabinieri dovuto alla procedura per il suo “distacco”.
Alla comunicazione pensa Forza Italia
Vabbè: lasciando da parte i nomi altisonanti e le consulenze in remoto, ci sono comunque anche altri esterni, meno noti ma rigorosamente non calabresi, chiamati in questi mesi alla corte di Occhiuto. Il suo portavoce, per esempio, dal 16 novembre – ma lo aveva seguito già in campagna elettorale – è il messinese Fabrizio Augimeri. Giornalista professionista, già portavoce di Mariastella Gelmini, consigliere per la comunicazione di Renato Brunetta e capo ufficio stampa del gruppo di Forza Italia alla Camera, ha – oltre ai rimborsi spese per le missioni – un trattamento economico pari a quello di un dirigente di settore della Giunta regionale di fascia A.
Fabrizio Augimeri quando era portavoce di Mariastella Gelmini
Ma evidentemente lui non basta, perché ad occuparsi di comunicazione istituzionale il presidente della Regione ha chiamato anche un’altra «esperta esterna»: Veronica Rigoni, «in possesso di alta qualificazione professionale», già consigliere comunale a Creazzo (Vicenza) e responsabile della comunicazione dei giovani di Forza Italia. Neanche lei calabrese, e da quanto risulta nemmeno iscritta all’albo dei giornalisti, avrà un compenso di 36mila euro per un anno.
Silvio Berlusconi e Veronica Rigoni, ex consigliere comunale in provincia di Vicenza e responsabile comunicazione giovani FI
La rivoluzione di Roberto Occhiuto può aspettare
Pure guardando ai dirigenti autoctoni, però, non sembra che sulla Cittadella si sia abbattuta quella rivoluzione burocratica che era stata annunciata. A fronte di due nuovi direttori generali – Iole Fantozzi alla Sanità e Claudio Moroni alle Infrastrutture – altri due – Filippo De Cello al Bilancio e Maurizio Nicolai alla Programmazione comunitaria – sono rimasti dov’erano.
L’arrivo di Fantozzi alla Salute ha suscitato malumori dentro e fuori il palazzo. Ma ancora più perplessità ha sollevato la conferma di Nicolai. È il manager protagonista, in negativo, del blocco dei 69 milioni di euro per cui Roberto Occhiuto è dovuto andare fino a Bruxelles. Ed è anche un politico: si era candidato con Forza Italia alle Regionali del 2020 prendendo, nel collegio di Cosenza, 3.279 voti.
Fatte salve alcune indubitabili competenze, alla fine è pur sempre la politica che sponsorizza superconsulenti e incaricati di partito. Chiamati da fuori, alla faccia dei «calabresi che se ne sono dovuti andare», a colonizzare una regione già tradizionalmente terra di conquista che, per ora, non è proprio quella «che l’Italia non si aspetta».
Raggiungere in funivia il cuore dell’Aspromonte direttamente dal mare, garantendo un collegamento veloce tra Condofuri e Roccaforte del Greco, seguendo il corso dell’Amendolea. Si tratta della fiumara più importante del reggino che, partendo da quota 1900 metri, taglia in due la parte grecanica della Montagna fino allo Jonio. Un progetto ambizioso (e costosissimo) pensato dalle amministrazioni dei due piccoli centri e presentato nei giorni scorsi tra le proteste di una decina di agguerrite associazioni locali. Ma, soprattutto, tra lo sconcerto dei vertici del Parco nazionale (entro i cui confini si troverebbe a passare per intero il tracciato “volante”). Dell’idea della funivia immaginata dai sindaci Tommaso Iaria e Domenico Penna, non sapevano assolutamente nulla.
Roccaforte del Greco, capolinea della funivia che dovrebbe attraversare la valle dell’Amendolea
Il progetto della funivia
Quasi 15 chilometri di tracciato, un dislivello di 930 metri e una capacità potenziale di 800 – 1000 passeggeri ogni ora che, se la scheda presentata in Regione nell’ambito dei Cis (contratti istituzionali di sviluppo) dovesse essere finanziata, porterebbe i potenziali utenti da San Carlo di Condofuri fino a Roccaforte del Greco in 16 minuti. Un risparmio di una mezz’oretta sul tragitto consueto lungo le stradine di uno degli ultimi ritagli di natura non vandalizzata del reggino, che verrebbe a costare 2,7 milioni di euro a chilometro: un percorso “aereo” coperto da una ropeway di sei cabine in continuo movimento in grado di trasportare 20 persone per ogni “guscio”. Un progetto ambizioso e controverso che ha scatenato il consueto vespaio di polemiche. E che ha messo a nudo, ancora una volta, la sconcertante assenza di comunicazione tra il Parco nazionale d’Aspromonte e i comuni, 37 in tutto, che ne costituiscono il cuore.
Zona protetta
Tutta la valle dell’Amendolea – la fiumara colonizzata dai primi migranti greci che tanto hanno caratterizzato il territorio nei secoli passati, da lasciarvi in dote, tra le altre cose, anche una lingua vera e propria – ricade nella “Zona di protezione speciale” prevista dalla “Rete natura 2000”, il progetto europeo nato a tutela dell’avifauna; e in questi mesi, proprio in quell’aerea, è attivo il progetto per il ripopolamento del nibbio, un particolare tipo di rapace trasferito sulle montagne reggine da un’analoga riserva in Basilicata. Il percorso della funivia, con i suoi tralicci, i suoi cavi, le sue sei cabine coperte e con la stazione di sosta di metà percorso alla periferia della meravigliosa Gallicianò, ci passerebbe proprio in mezzo.
Un grifone in volo sull’Amendolea
Rette parallele
«Io, come sindaco, non sono tenuto a informare il Parco per ogni progetto che presento per il mio comune. Con il Parco ne parleremo se e quando il progetto verrà finanziato». Arroccato dietro l’autonomia comunale, il primo cittadino di Condofuri Tommaso Iaria – passato alle cronache per avere esposto nel suo ufficio il manifesto di giuramento delle Waffen SS italiane, prima di rimuoverlo in seguito alle proteste dell’Anpi – difende l’idea della funivia e rilancia: «I Cis chiedevano progetti riguardanti le “vie verdi”, e noi ci siamo adeguati. La funivia è un progetto ecosostenibile e bellissimo e va a colmare una parte del gap infrastrutturale che la nostra terra paga nei confronti del resto del Paese. Con questo progetto raggiungiamo due obiettivi: da una parte favoriamo l’afflusso di un sempre maggiore arrivo di turisti togliendo le auto e i pullman dalla strada, dall’altra garantiamo la mobilità per i residenti dei due paesi collegati».
Gallicianò (foto Parco Nazionale dell’Aspromonte)
E poco importa se, tra Gallicianò e Roccaforte del Greco, i residenti siano poco più di un centinaio e di autorizzazioni e nulla osta dai vari enti interessati non se ne è proprio parlato. «Non capisco che problema possa esserci. Le Dolomiti sono patrimonio dell’umanità eppure sono sature di impianti di risalita. È vero siamo nel territorio del Parco – dice ancora il sindaco che del Parco d’Aspromonte, paradossalmente, è membro del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva – e quando riceveremo la risposta dagli uffici regionali a cui abbiamo sottoposto la nostra idea, parleremo di autorizzazioni e nulla osta».
Leo Autelitano, presidente del Parco
E se il comune si è guardato bene dall’informare dell’iniziativa i vertici dell’ente, dal canto suo, il presidente Leo Autelitano – travolto dalle polemiche la scorsa estate in seguito ai devastanti incendi che in pochi giorni hanno distrutto ettari e ettari di montagna protetta, portando devastazione e morte proprio in quei territori dove si vorrebbe far passare la funivia – cade dal pero, relegando a boutade l’intera faccenda. «Abbiamo saputo di questo progetto dai giornali – dice Autelitano – ma stiamo parlando del sesso degli angeli. Io sono di Bova superiore e di funivie se ne parla da quando ero ragazzo. Ma così, tanto per dire. Io ufficialmente non so niente di questa storia, quando ci presenteranno il progetto lo valuteremo, ma io non posso andare dietro alle stravaganze di 37 comuni».
Le associazioni contro la funivia
Ufficialmente, il Parco non ha preso nessuna posizione restando in attesa del progetto. Una posizione netta l’hanno presa invece una decina di associazioni del territorio, che del progetto della funivia non ne vogliono proprio sentire parlare. Presenti all’esterno dell’auditorium comunale durante la conferenza stampa di presentazione, i rappresentanti delle associazioni contrarie – guide turistiche, residenti, appassionati di archeologia e di montagna – si sono messe di traverso ai piani di Iaria e Penna.
Lo striscione di protesta contro la funivia esposto durante la presentazione del progetto
«Il nostro è un turismo molto particolare» racconta Francesco Manglaviti, responsabile dell’associazione archeologica Valle dell’Amendolea. «Un turismo lento, che punta a scoprire un angolo alla volta di questa meraviglia che abbiamo la fortuna di abitare, e che non ha bisogno di scorciatoie. La funivia rappresenta una vera e propria violenza. Da anni ci battiamo per l’azzeramento del consumo del territorio, ogni angolo qui ha qualcosa da raccontare, e sono proprio gli stessi turisti che ogni anno accompagniamo su e giù per la valle che ci spingono, con le loro considerazioni e i loro suggerimenti, a tenere duro su questo aspetto».
“Come si cambia” canta Fiorella Mannoia. E come sono cambiati a Reggio Calabria il clima e l’umore nei confronti del presidente della Reggina, Luca Gallo. Arrivato in riva allo Stretto da trionfatore, rilevando la società dalla famiglia Praticò, Gallo è stato, per anni, osannato. Quasi idolatrato. Esternazioni di giubilo, propositi di risalita, per una società che, nei primi anni 2000, è stata capace di rimanere in serie A per circa un decennio. Cori allo stadio. Amato più dei bomber che gonfiavano le reti in campo. I tifosi preferivano una foto con Gallo piuttosto che uno scatto con El Tanque, German Denis. O un autografo del “presidentissimo”, anziché la firma dell’ex Roma e Milan, Jeremy Ménez. Ma qualcosa sembra essersi rotto.
Gli scarsi risultati
I primi anni, con la promozione dalla Lega Pro alla serie B lasciavano presagire un miracolo amaranto. Con una città che, notoriamente, ha sempre vissuto a pane e calcio, i tifosi sognavano ritornare a vincere all’Olimpico. O fare ammattire Inter e Milan. A far uscire la Juventus con le ossa rotte dal Granillo. Ma la spinta propulsiva dell’avvio dell’esperienza in riva allo Stretto, sembra essersi un po’ spenta per Luca Gallo e il suo entourage.
Una società che, negli anni, ha cambiato diverse volte il proprio organigramma. Con il fedelissimo Vincenzo Iriti, prima vicinissimo al presidente con il ruolo di direttore generale, poi scomparso dai radar con le dimissioni e ora, solo recentemente, rientrato nei ranghi. Ma anche la fugace esperienza di una bandiera della Roma come Tonino Tempestilli, per un po’ di tempo responsabile dell’area giovanile amaranto. Poi dimessosi senza troppe spiegazioni. Per non parlare dell’altrettanto oscura (e polemica) interruzione del rapporto con un altro dg, Giuseppe Mangiarano.
Le scelte sbagliate
Insomma, è possibile da tempo udire distintamente gli scricchiolii nel percorso di Gallo a Reggio Calabria. E anche l’operato del direttore sportivo Massimo Taibi, ex grande portiere amaranto, è sul banco degli imputati. Tra acquisti improbabili, giocatori pagati a peso d’oro a fine carriera e scelte di mercato che continuano a non convincere, l’attuale stagione della Reggina, iniziata con fiducia e con ottimi risultati in serie B, sta prendendo una piega preoccupante.
La dirigenza aveva puntato sull’appartenenza amaranto. E così, all’inizio della stagione, il ruolo di trainer era stato affidato una vecchia gloria come Alfredo Aglietti. Indimenticato attaccante delle stagioni in serie C, prima di approdare al Napoli. Un avvio promettente fino al secondo posto in classifica, che aveva fatto immaginare un po’ a tutti una stagione alla ricerca dei playoff. Ma poi un crollo verticale che, alla fine, è costata la panchina all’allenatore.
Mimmo Toscano, ex tecnico della Reggina (foto pagina Facebook Reggina1914)
E così, Gallo e Taibi hanno tentato di sistemare le cose con una scelta low cost. Richiamando cioè l’ex allenatore Mimmo Toscano, reggino doc, ancora sotto contratto, dopo l’esonero della scorsa stagione. Poche partite, risultati, se possibile, ancor più deludenti, anche sotto il profilo del gioco espresso. A costare la panchina a Toscano è stata la sconfitta in casa del Monza.
Tre allenatori in metà stagione
La crisi amaranto sembra senza fine. L’ultima mossa del duo Gallo-Taibi è ancora nel solco della tradizione. Con l’esonero di Toscano, infatti, arriva il terzo tecnico nella sgangherata stagione amaranto. Questa volta la società punta su Roberto Stellone, ex attaccante della Reggina nella stagione 2003-2004.
Ma adesso gli obiettivi sono ben altri. La Reggina, infatti, si trova attualmente in 14esima posizione con 23 punti. Viene da un solo pareggio nelle ultime otto giornate. E deve guardarsi le spalle, dato che la maggior parte delle squadre dalla 13esima posizione in giù ha addirittura disputato una partita in meno rispetto agli amaranto. Insomma, il rischio di perdere ulteriori posizioni, quando alcune gare rinviate per Covid saranno recuperate, è concreto. E inquietante.
La presentazione di Stellone
A Stellone, quindi, la dirigenza ha chiesto di evitare i playout. Una vera e propria lotteria che potrebbe condurre la Reggina alla clamorosa retrocessione in Lega Pro. Che dopo le spese pazze di questi anni potrebbe aprire scenari fin qui inesplorati sul futuro di Luca Gallo in riva allo Stretto e, quindi, della società amaranto.
Tempi bui per Luca Gallo?
Sì perché in questi anni Luca Gallo ha speso tanto. Male, ma tanto. Lui che ha acquistato la Reggina per togliersi uno sfizio. Per alimentare il proprio ego. Per emulare grandi presidenti del calcio italiano, spostatisi con successo dal proprio core business ai campi verdi. Lui che, nella vita, ha costruito le sue fortune su altri aspetti. Per qualcuno, sullo sfruttamento degli esseri umani, spolpati professionalmente senza troppe garanzie.
Da anni, le attività di somministrazione della manodopera delle aziende del presidente della Reggina sono al centro di accertamenti e polemiche. La sua azienda, la M&G, con sede a Roma, fornisce dipendenti ad alcune migliaia di aziende. Oltre 4.000, secondo le ultime stime. Ma già da tempo, a seguito di diverse segnalazioni, la società è finita nel mirino dell’Ispettorato del Lavoro. Soprattutto in Emilia Romagna, ma non solo. In diversi casi sono stati segnalati il mancato pagamento di uno o più stipendi ed il mancato versamento dei contributi previdenziali.
La galassia aziendale di Luca Gallo
Qualche anno fa il Ministero del Lavoro sosteneva che il sistema con cui opera Gallo racchiudesse una serie di illeciti, penali e amministrativi. Ma anche recuperi contributivi per circa 30 milioni di euro.
Nel 2018, la M&G si è anche impegnata a versare 7 milioni di euro all’Agenzia delle Entrate, evitando in questo modo l’insorgere di una lite tributaria. Questo perché la Guardia di Finanza, nel giugno 2017, avrebbe effettuato delle indagini a carico della M&G, con riferimento ai pagamenti riguardanti il quadriennio d’imposta 2013-2016. Trovando, evidentemente, delle irregolarità per svariati milioni di euro.
Nel corso della scorsa estate, peraltro, a quasi tutti i dipendenti della Reggina 1914 srl è stato chiesto di “traslocare” il proprio contratto presso la società Azione Lavoro srls, di recente creazione, con sede a Roma e di proprietà di Luca Gallo. Una mossa che è stata interpretata come un alleggerimento sul piano economico e, forse, anche fiscale.
La battaglia con l’Ordine Nazionale dei Consulenti del Lavoro
Sì perché quella è una delle principali accuse mosse nei confronti del modo di operare di Gallo. Da tempo, infatti, l’Ordine Nazionale dei Consulenti del Lavoro taccia Gallo e le sue aziende di sfruttamento delle persone. Sul sito ufficiale dei Consulenti del Lavoro è possibile trovare anche una lettera aperta alla M&G in cui la si invita “a certificare la genuinità dei contratti di appalto da questa stipulati, attraverso le Commissioni di certificazione istituite presso i Consigli Provinciali dei Consulenti del Lavoro; nonché ad asseverare con l’AsseCo la regolarità dei rapporti di lavoro instaurati dalla Cooperativa”. Secondo le denunce dei sindacati, i soldi che la M&G dovrebbe versare all’INPS non arriverebbero mai. Parliamo di 13esime, 14esime e persino i tfr.
L’interrogazione di Laura Boldrini
Tra il luglio 2020 e la fine dello stesso anno, sono anche arrivate anche due interrogazioni al Ministero del Lavoro sulle aziende di Gallo. Una delle due è firmata, tra gli altri parlamentari, anche dall’ex presidente della Camera, Laura Boldrini: «Nella sola Bologna sono state presentate circa 90 denunce da parte di lavoratori che non si sono visti corrispondere la tredicesima, il trattamento di fine rapporto o parte dei contributi e i controlli effettuati hanno messo in luce l’irregolarità di almeno 43 aziende. La questione è stata denunciata all’Ispettorato nazionale del lavoro, che aveva già inviato un’informativa alle sezioni territoriali per metterle in guardia sulla vicenda e avviare i controlli e che, sempre secondo quanto riportato dal quotidiano, stava svolgendo attività di vigilanza» – è scritto nell’interrogazione al Ministero.
Gallo e Reggio: la fine del feeling
Adesso, per Gallo sembra anche essere finita la “luna di miele” con una piazza esigente come Reggio Calabria. Lui che, nei primi mesi, ci aveva saputo fare. Puntando sulla goliardia e sull’orgoglio del popolo amaranto. Rimane celeberrima la maglietta “Lavati i peri e va curcati” dopo il derby con il Catanzaro. Il sindaco Giuseppe Falcomatà(oggi sospeso) gli ha anche conferito la cittadinanza onoraria.
Quando Luca Gallo, presidente della Reggina, sfotteva i tifosi del Catanzaro dopo la vittoria nel derby
Tempi che sembrano molto lontani. Al momento, la Curva Sud, cuore pulsante del tifo amaranto, si è limitata solo a qualche coro per stigmatizzare il difficile momento sportivo vissuto dalla Reggina. Ma online, sul forum ufficiale dei tifosi, su alcune pagine social seguitissime, iniziano ad apparire i primi segni di una contestazione nei confronti del presidente.
Per adesso virtuale, ma col tempo chissà. «Gallo non è diverso dagli altri che ci mettono i soldi» – scrive un utente da 3 stelle su 6 nel ranking del forum ufficiale Regginalife. «Vero colpevole: la società. Inefficiente e alla deriva più che mai, il resto è una conseguenza» gli fa eco chi, invece, è un utente ancor più storico e attivo, con 5 stelle su 6.«La cosa più grave di tutta questa situazione è che né la squadra né soprattutto la società hanno capito la gravità della situazione, ancora non hanno preso coscienza che così retrocederemo sicuro al 100%» – risponde un altro tifoso. E si inizia a puntare il dito sull’aspetto gestionale: «Agire subito prima che sia la fine, se non ci sono i soldi per farlo, allora che si ritorni pure in serie D e basta!» si legge ancora sul forum.
Dagli striscioni di repertorio a quelli veri?
Molti contestano a Gallo una gestione dissennata delle finanze, l’affidamento totale a persone giudicate incompetenti e un atteggiamento smargiasso e accentratore, con sparate, dette in varie occasioni, come «voglio la serie A subito» oppure «porto subito la Reggina in A e poi mollo». La realtà, adesso, è tutt’altra. Lo spettro della Lega Pro inizia a materializzarsi. E tutto ciò potrebbe portare a conseguenze ben più gravi dell’insuccesso sportivo.
Striscioni accompagnano il disappunto dei supporter della Reggina contro la società (foto Instagram Regginanews)
Non è solo il forum ufficiale del malcontento (per adesso virtuale) che cresce attorno alla società e al suo presidente. Negli ultimi giorni, il seguitissimo profilo Instagram “Regginanews” ha pubblicato due foto di repertorio, dove campeggiano due striscioni che sembrano dei chiari segnali alla società. Il primo afferma: «Non basta una vittoria per ricominciare, il nostro sostegno lo dovete meritare. Solo per la maglia». Ancor più esplicito l’altro, dove si legge: «Oltre i risultati, oltre i presidenti, la Reggina siamo noi!».
Un evidente messaggio al presidente che, un tempo, non riusciva a fare due passi in città senza che qualcuno gli chiedesse una foto o un autografo. E se quegli striscioni, quando il calciomercato, tra pochi giorni, sarà chiuso dovessero essere veri e non più di repertorio?
Striscioni accompagnano il disappunto dei supporter amaranto contro la società (foto Instagram Regginanews)
Calma, calma, non alimentiamo facili populismi e non cediamo alle semplificazioni più becere e scontate: non esistono prestanome e in piedi non c’è alcun teatro con tanto di pupi e pupari. Sarebbe scorretto soltanto pensarlo. Epperò, una qualche chiave interpretativa sulla nascita della Giunta Occhiuto bisogna tentare di inserirla nella toppa di questa generale confusione istituzionale.
Proviamo a sintetizzare: il governatore, a parte due soli casi, potrebbe contare su tanti assessori “alexa”, nel senso che – con ogni probabilità – a comando devono giocoforza rispondere con una certa sollecitudine. Forse, però, i boomer (persone mature, diciamo così), che spesso ignorano i vantaggi offerti dall’assistente vocale di Amazon, avranno qualche difficoltà a capire di cosa parliamo. Un’altra definizione, allora. Ecco: Occhiuto, secondo un’idea parecchio diffusa tra gli addetti ai lavori, avrebbe nominato assessori “per conto terzi”. L’espressione è tratta dal burocratese applicato ai trasporti ma, probabilmente, rende meglio il concetto in questione.
Cinque esterni alla Regione
Andiamo dritti al punto: il presidente della Regione, a novembre, circa un mese dopo la straripante quanto scontata vittoria elettorale, ha varato la sua squadra di Governo, composta inizialmente da sei assessori, a cui in seguito se ne è aggiunto un settimo. Tra loro, solo due sono stati pescati dal Consiglio regionale: Gianluca Gallo (Fi, quasi 22mila voti) e Fausto Orsomarso(Fdi, 9mila).
Tutti gli altri sono componenti esterni al parlamentino calabrese, dunque non eletti e non premiati dal corpo elettorale: Giusi Princi, vicepresidente con tanto così di deleghe (Istruzione, Lavoro, Bilancio, Città metropolitana di Reggio); Tilde Minasi (Politiche sociali); Rosario Varì (Sviluppo economico e Attrattori culturali); Filippo Pietropaolo (Organizzazione e Risorse umane); e poi, appunto, l’ultimo arrivato, Mauro Dolce (Infrastrutture e Lavori pubblici).
Chi sono costoro? Alcuni erano sconosciuti al grande pubblico fino al momento della nomina, altri si erano candidati senza successo alle ultime Regionali o avevano avuto qualche discreto successo nelle rispettive attività lavorative o professionali. Una cosa accomuna tutti gli esterni: il fatto di essere stati sponsorizzati o – se vogliamo rimanere nella metafora trasportistica – l’aver ottenuto l’autorizzazione dei proprietari dei carichi, che non hanno mai smentito, anzi, il loro ruolo attivo nella formazione della Giunta.
Questi assessori sono offerti da…
Partiamo dalla vice di Occhiuto. Princi è stata una dirigente scolastica che, alla guida del Liceo scientifico “Vinci” di Reggio, ha riscosso un buon successo personale. Preparata, affabile e, nella maggior parte dei casi, apprezzata da studenti e genitori. Questo curriculum, per quanto brutalmente riassunto, può bastare a giustificare la sua presenza nel Governo della Regione, perdipiù con un portafoglio di deleghe da far impallidire anche il più scafato degli amministratori pubblici?
Senza nulla togliere alla vicepresidente, in Calabria tanti altri dirigenti scolastici, stando così le cose, avrebbero potuto ambire a quel ruolo. La discriminante è un’altra e si chiama Ciccio Cannizzaro, deputato di Forza Italia (il partito di Occhiuto) e, soprattutto, cugino di Princi. Il parlamentare azzurro è insomma riuscito a replicare quanto fatto nella scorsa legislatura, quando impose il nome di Domenica Catalfamo all’allora presidente Jole Santelli.
Gli assessori Princi e Dolce
Avvocato con impegni lavorativi a Roma, con un lontano passato da assessore a Vibo, Varì è invece tornato in Calabria e ha assunto l’incarico in Cittadella grazie all’appoggio del numero uno di Fi Calabria, Giuseppe Mangialavori. Tra il senatore e Varì esiste infatti un forte legame di amicizia coltivato fin dall’adolescenza.
Le ricostruzioni ricorrenti, anche queste mai smentite, riportano che pure altri due assessori, sebbene politici di medio-lungo corso, sarebbero stati “raccomandati” con calore dai big dei rispettivi partiti. È il caso di Minasi, indicata dal leader della Lega Matteo Salvini, e di Pietropaolo, benedetto dalla commissaria regionale di Fdi Wanda Ferro.
Sia Minasi, sia Pietropaolo, si erano candidati alle elezioni dello scorso ottobre senza essere rieletti. I calabresi, con il loro voto, hanno cioè stabilito che non dovessero rappresentarli nelle istituzioni regionali.
Tilde Minasi con Matteo Salvini
Bertolaso rifiuta la Regione
Dolce merita un discorso a parte. Pare che Occhiuto, nelle settimane precedenti al varo della Giunta, fosse in cerca di un nome altisonante per la sua squadra. Secondo alcuni (i soliti maligni), per camuffare il livello non proprio altissimo degli altri assessori; secondo altri (forse ancora più maliziosi), per scimmiottare la stessa Santelli, che in Cittadella era riuscita a far arrivare personaggi del calibro di Capitano Ultimo, Sandra Savaglio e, alla Film commission, Giovanni Minoli (tutti con risultati piuttosto controversi, ma questo è un altro discorso).
Il governatore avrebbe dunque corteggiato a lungo il feticcio per eccellenza del berlusconismo, Guido Bertolaso. L’ex capo della Protezione civile, in un primo momento, si sarebbe fatto convincere, per poi gradualmente richiudere la porta di casa, lasciando Occhiuto interdetto e con i piedi ancora sullo zerbino. Indiscrezioni di stampa avevano però fatto trapelare la trattativa, e a quel punto l’ex capogruppo di Fi alla Camera non poteva certo permettersi di fare una figura barbina, peraltro causata da un tecnico della propria area politica.
E così, si dice negli ambienti della politica, Bertolaso, per farsi perdonare il gran rifiuto, avrebbe suggerito la nomina di Dolce, con cui aveva collaborato gomito a gomito ai tempi della Prociv. Curriculum di tutto rispetto, quello del prof della “Federico II” di Napoli, «un uomo – ha commentato lo stesso Occhiuto – che negli anni ha coordinato e gestito tante emergenze, uno specialista in lavori pubblici, un ricercatore e uno studioso con alle spalle innumerevoli e pregnanti esperienze». A lui toccherà la funzione di «raccordo tra la Regione e i Ministeri per il Pnrr». Un ruolo che, tuttavia, forse il governatore avrebbe voluto affidare a Bertolaso e non a quello che in molti ritengono un «sostituto», per quanto super competente.
Oliverio e la riforma
Bisogna sottolineare che questa apertura estrema a figure sponsorizzate da terzi e, sostanzialmente, sconosciute agli elettori, non è un’invenzione di Occhiuto, ma di quel gran riformatore di Mario Oliverio. L’allora presidente della Regione, siamo nel gennaio 2015, come primo atto della legislatura pensa bene di far approvare dal Consiglio una legge di modifica dello Statuto regionale. Prima del suo intervento, gli assessori esterni potevano essere al massimo tre, dopo la riforma fino a sette, cioè tutti.
Carlo Guccione e Mario Oliverio festeggiano dopo la vittoria alla Regionali: il primo sarà nominato assessore sull’onda dei risultati elettorali per poi essere sostituito in Giunta da un esterno in seguito a Rimborsopoli
Oliverio segue un suo disegno. Dopo l’inchiesta Rimborsopoli, in cui erano rimasti coinvolti gli assessori della sua prima Giunta, il governatore azzera tutto e nomina un esecutivo composto di soli membri esterni. Le ragioni di questa scelta sono in qualche modo legate anche alla riduzione dei membri del Consiglio regionale, passati da 50 a 30, così come deciso dal Governo Monti. Il taglio, per i politici calabresi, è un trauma terribile, dal momento che vengono a mancare, non proprio dalla sera alla mattina, 20 ben comode poltrone. Grosso guaio. Oliverio lo attenua con la modifica dello Statuto e, per effetto conseguente, aumentando per sette i posti/costi della Regione. Alla faccia della spending review.
Col senno di poi, è certamente interessante, oltreché istruttivo, ricordare in che modo venne bollata l’operazione da uno degli allora maggiorenti di Fi, Mimmo Tallini: «Una riformicchia che serve solo a sistemare i conflitti interni al centrosinistra». Curioso che, sei anni dopo, a trarre benefici dalla «riformicchia» sia stato l’azzurrissimo Occhiuto, che per questa via ha trovato la quadra e con i compagni di partito e con gli alleati.
La differenza
Bisogna intendersi: la nomina di assessori esterni non è certo un unicum della nostra regione e in linea teorica è perfino auspicabile, perché un presidente ha il diritto/dovere di scegliere gli uomini che ritiene più adatti per realizzare il proprio programma di governo. Il punto cruciale, a parte l’esagerato quantum di membri non eletti, ha tuttavia a che fare con la democrazia stessa. Che peso politico possono mai avere assessori nominati in ossequio a queste liturgie? Mettiamo il caso che uno di loro entri in rotta di collisione, per una qualsiasi questione, con il proprio dante causa: quest’ultimo, fautore della nomina, potrebbe cambiare repentinamente idea e chiedere un cambio in corsa a Occhiuto.
Gianluca Gallo (FI), eletto in Consiglio regionale con più di 20mila preferenze
Questo perché i politici “alexa” (abbiate pazienza, boomer) di fatto non possiedono alcun potere contrattuale; il medesimo potere che facilita la pronuncia di quei «no» che, nell’azione di governo, spesso sono doverosi e necessari, nella logica dei pesi e contrappesi che reggono ogni democrazia. La differenza con gli assessori eletti è lampante. Gallo, ad esempio, è stato legittimato – tanto legittimato – dal voto popolare e il governatore avrebbe il suo bel da fare per levarselo di torno nel caso in cui si mettesse a fare ostruzione rispetto a certe politiche, a certe iniziative, a certe, magari, esagerazioni amministrative.
Un enorme potere
Occhiuto, invece (grazie a Oliverio), dispone di un potere pressoché enorme anche per via della presenza dei “conto terzi”, sostituibili in un battibaleno perché in possesso solo della fiducia (rivedibile) di chi li ha indicati e non di quella popolare. Non è questione da poco, in una terra in cui il presidente di Regione è anche capo assoluto della sanità (e dei fondi correlati, più di quattro miliardi), gran signore della programmazione europea e dominus del Pnrr.
Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto
Un governo di assessori autonomi, in questo contesto, non guasterebbe di certo. Calma, di nuovo: non si può affermare con certezza che gli esterni non lo siano. Allo stesso tempo, in linea di principio, non si può nemmeno escludere che, durante le riunioni di Giunta, vengano pronunciati ordini e non illustrate proposte. Cose tipo «Alexa, cambia canale». Perfino i boomer intravedono i rischi di una tale situazione.
Le colonne del pronao del “vecchio” Telesio di cose ne hanno viste parecchie, dagli amori adolescenziali a occupazioni con qualche pugno tra studenti di destra e sinistra. Ma quello che sta accadendo ora era del tutto imprevedibile. Una audace e ben congegnata opera di marketing sta proiettando il liceo classico di Cosenza verso una modernità vagamente yankee. Fatta di divise, trasporti privati, ambienti destinati al relax, cucine e mense, un brand identitario che si chiama Casa Telesio, rette pagate dalle famiglie e qualche non marginale forzatura delle normative.
Hashtag identitari sulle scalinate che portano al liceo (foto A. Bombini) – I Calabresi
Casa Telesio e l’occupazione
È un cammino intrapreso da qualche anno e che solo recentemente ha assunto in modo palese i connotati di un embrione di scuola di élite. I primi a insorgere contro questo snaturamento dell’idea di scuola pubblica sono stati gli studenti che hanno occupato una parte della struttura scolastica, le aule presenti presso le Canossiane, dove erano d’arbitrio trasferite le classi del triennio. Quelle dove sono gli alunni le cui famiglie non pagano le rette. Proprio a seguito alla protesta, destinata a rientrare dopo l’accordo raggiunto tra gli occupanti e il preside Antonio Iaconianni e che prevede che tra le classi ci sia una turnazione mensile, il problema del Telesio è esploso in modo clamoroso.
Ma cos’è Casa Telesio? Si tratta del frutto della mente del preside Iaconianni, uomo intelligente, capace di esprimere efficacemente lo spirito manageriale che oggi è richiesto ai presidi. E che ha capito che solo l’annessione del Convitto nazionale, di cui è reggente, trasformandolo in una scuola primaria e media, poteva garantire un bacino d’utenza in grado di andare successivamente ad alimentare le iscrizioni del Classico. Della serie: gli studenti me li prendo sin da bambini e poi me li tengo fino alla fine. Una strategia che in tempi di guerra spietata tra le scuole per accaparrarsi le iscrizioni, sarebbe risultata vincente. Ma non bastava.
Attorno a questo progetto era necessario far crescere una idea di scuola speciale, migliore, più efficiente. Per farlo servono risorse, delle quali normalmente le scuole sono prive. Qui entra in gioco il Convitto nazionale. Nato come tutti i convitti come istituto educativo destinato ai ceti sociali meno abbienti, per garantire loro livelli base di istruzione, il Convitto nazionale ha una sua autonomia economica, perché destinatario di risorse necessarie a sostenete le spese dei convittori, quindi la mensa e una volta anche l’alloggio. Oggi quel ruolo è andato sbiadendo, i convittori sono diminuiti, ma le risorse sono rimaste. Queste, sommate ai 1600 euro chiesti alle famiglie, danno vita a una sorta di college, conservizi esclusivi negati ai comuni studenti. Una privatizzazione silenziosa dell’istruzione.
Il Convitto annette il Telesio
Ma questo mondo luccicante aveva bisogno di passi concreti, di tipo burocratico: fare in modo che le due entità didattiche, il Telesio e il Convitto, diventassero una cosa sola. Ma i Convitti non possono, per normativa, essere annessi, quindi era necessario il contrario. Ed ecco che sul sito della Provincia compare l’annuncio che il Convitto annette il Telesio. Del resto le due strutture scolastiche condividono già il nome e anche il dirigente.
Sin da subito tutto questo appare come una forzatura, della quale presso l’Ufficio scolastico regionale di Catanzaro non sanno ufficialmente nulla. Lo dicono chiaramente i vertici dell’istruzione calabrese a Franco Piro, segretario della Cgil scuola, spiegando che fin qui per loro «tutto questo resta solo un annuncio», parole che sembrano anticipare una bocciatura del progetto di Casa Telesio. Su questo Piro è tranciante: «Iaconianni vuole fare una scuola non accessibile a tutti, seducendo i benestanti di Cosenza e acquisendo il Convitto».
Ma pure dentro il Telesio, tra i docenti cresce un certo mormorio, anche se assai cauto. Infatti è sempre Piro a spiegare che i due passaggi fondamentali che riguardano il parere del Collegio dei docenti e del Consiglio d’Istituto pare non siano stati affrontati. La tempesta sollevata dall’occupazione da parte degli studenti e il clamore cresciuto attorno al progetto di Casa Telesio hanno indotto il preside a bloccare tutto, rinunciando anche a rilasciare ogni dichiarazione, rimandando i chiarimenti necessari ad una annunciata conferenza stampa.
Pari e dispari
L’ingresso del liceo “vecchio” (foto A. Bombini) – I Calabresi
Nell’agonia dell’istruzione pubblica, relegata da sempre a ruolo di Cenerentola, l’idea di proporre alle famiglie, non tutte, ma a quelle più agiate, una scuola che trasmettesse il senso di una élite, non poteva che avere successo. Soprattutto in una città dove lo studiare al Classico significa ancora “marcare l’appartenenza” sociale, collocarsi dentro una gerarchia di status. Una visione della scuola ancora segnata da una impronta gentiliana, per la quale gli altri indirizzi didattici sono destinati a forgiare quadri intermedi, tecnici, comunque fuori dalla possibilità di diventare classe dirigente. Una visione evidentemente condivisa dal preside Iaconianni, che forse in altri tempi avrebbe invece apprezzato le parole con cui Erri De Luca spiega che «La scuola faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori». Oggi il “dispari” minaccia di entrare dalla porta principale del Telesio.
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