Morire per un filare di olivi in più, per un pascolo conteso, per il confine di un podere spostato di una manciata di metri: non ci sono solo gli interessi del narcotraffico e del “controllo” del territorio a insanguinare le strade del reggino, anzi. Da tempo, con la sostanziale “pace” armata siglata dalle cosche del crimine organizzato che nel reggino, dopo l’esaurirsi degli ultimi rinculi delle guerre di ‘ndrangheta, hanno ridotto drasticamente l’abitudine di spararsi tra loro, le pagine di cronaca del territorio si sono colorate del nero degli omicidi tra familiari, vicini di casa o di terreno.
«Qualche assassinio senza pretese» – cantava De André – maturato in un mondo antico, legato alla terra, agli animali, a quella “roba” verghiana che continua a dividere le famiglie e a provocare lutti. Un mondo che sembra non tenere conto del tempo che passa. E che riporta indietro agli scenari delle pagine di Saverio Strati e Corrado Alvaro, quando la legna di una quercia da abbattere o un vitello da portare al pascolo rappresentavano praticamente l’unica ancora di salvataggio per un futuro sempre incerto.
Lo scrittore di San Luca, Corrado Alvaro
L’erba del vicino
I tempi sono cambiati, ma per i fatti legati alla terra si muore ancora, e non solo per volere della ‘ndrangheta. Ultimo, in ordine di tempo, l’omicidio di Leo Romeo, morto per un colpo di fucile che lo ha colpito al collo in seguito ad una rissa con un suo cugino, Rosario Foti: una rissa, ha confessato il presunto autore dell’omicidio agli inquirenti, maturata sullo sfruttamento di un pascolo conteso tra le due famiglie. Teatro della vicenda, la piccola Gallicianò, gioiello semi-deserto della valle dell’Amendolea: è alla periferia del piccolo borgo che ricade nel comune di Condofuri che i dissidi tra i due parenti, storia di una paio di settimana fa, sono naufragati nell’omicidio.
Da quanto emerso – il gip ha confermato il fermo del presunto assassino nei giorni scorsi – la lite tra i due andava avanti da tempo. Si era incancrenita a causa dello sfruttamento di un pascolo al confine tra le due proprietà. Pascolo che la vittima avrebbe utilizzato senza autorizzazione. Un omicidio maturato fuori dai contesti del crimine organizzato, anche se la vittima, un pastore di 42 anni, era stato in passato coinvolto, e infine assolto, in un’indagine della distrettuale antimafia che lo bollava come appartenente alla locale di Condofuri. Resta il mistero sull’arma, un fucile: l’omicida reo confesso ha raccontato agli inquirenti di averlo preso alla sua vittima e di averlo abbandonato accanto al corpo dopo la lite. Nessuno però lo ha mai ritrovato.
La valle dell’Amendolea
«Poso il fucile e ti aiuto»
Per una disputa sulla raccolta delle olive sarebbero invece morti Giuseppe Cotroneo e Francesca Musolino, marito e moglie di mezza età, dipendenti dell’Asp di Reggio, giustiziati nella campagne di Calanna, alle porte della città, da un loro parente, Francesco Barillà. I carabinieri lo hanno arrestato dopo un mese di indagini serrate.
Secondo la ricostruzione degli inquirenti Barillà, anziano cugino delle vittime e loro vicino di casa, avrebbe discusso violentemente con la coppia – intenta a raccogliere le olive in un terreno di una terza persona, adiacente al podere del presunto omicida – prima di fare fuoco con il suo fucile da caccia registrato legalmente.
Un duplice omicidio assurdo, commesso da un anziano incensurato che, per una manciata di olive, avrebbe aperto il fuoco sui suoi stessi parenti. Un blitz eseguito approfittando della momentanea assenza del figlio delle due vittime. Quella mattina era al lavoro con loro e si era allontanato per sistemare in auto parte delle cassette raccolte. E fu proprio al presunto omicida che il ragazzo, ironia della sorte, chiese aiuto quando si accorse della strage: un appello a cui Barillà rispose con un surreale «poso il fucile e torno».
Africo vecchio
L’omicidio per qualche albero in più
Un confine territoriale conteso sarebbe invece la causa dell’omicidio di Salvatore Pangallo, il giovane agricoltore ammazzato a colpi di fucile nella sua casa tra le campagne di Africo. Ad aprire il fuoco sarebbero stati Santoro e Pietro Favasulli, padre e figlio costituitisi ai carabinieri di Bianco dopo una caccia serrata durata tre giorni e, anche in questo caso, parenti del ragazzo ucciso. In quell’occasione, rimase gravemente ferito anche il padre di Pangallo, che durante lo scontro aveva provato a fare scudo al figlio con il suo corpo. Un epilogo tremendo per una lite che sembra andasse avanti da anni a causa di una linea di confine spostata di pochi metri. Una furia omicida che, secondo le ricostruzioni degli investigatori, sarebbe stata organizzata in anticipo dai due presunti omicidi che, dal loro parente a discutere di quel terreno, ci sarebbero andati armati di un fucile mai ritrovato dalle forze dell’ordine.
Dopo la bocciatura arrivata ieri per quello sull’eutanasia legale, arrivano i primi sì della Corte costituzionale a quattro dei sei referendum sulla Giustizia. La Consulta ha proseguito oggi, infatti, in Camera di consiglio l’esame sull’ammissibilità dei quesiti referendari. E ha dato il suo via libera per i quattro analizzati dopo quello sull’omicidio del consenziente. Gli italiani saranno chiamati a votare tra aprile e maggio sui seguenti temi:
Abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità
Limitazione delle misure cautelari
Separazione delle funzioni dei magistrati
Eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati del CSM
Altri due referendum sulla giustizia
L’Ufficio comunicazione della Consulta ha divulgato una nota in cui si spiega che «i quesiti sono stati ritenuti ammissibili perché le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario». Restano, dunque, ancora al vaglio della Corte altri due referendum che riguardano da vicino il mondo della Giustizia, in particolare quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Da valutare, inoltre, l’ammissibilità del quesito che introdurrebbe la depenalizzazione della cannabis per uso personale.
La Corte Costituzionale ha respinto il referendum sull’eutanasia legale: giudizio della Consulta il quesito referendario è inammissibile. Prevedeva la parziale abrogazione della norma dell’articolo 579 del codice penale, omicidio del consenziente, introducendo così l’eutanasia legale in Italia. E secondo la Corte con l’eventuale abrogazione non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili.
Referendum: eutanasia legale inammissibile, ora gli altri quesiti
L’eutanasia legale non sarà dunque un tema su cui gli italiani si pronunceranno in un referendum. A chiedere questa possibilità era stata l’Associazione Luca Coscioni, raccogliendo oltre 1 milione e 200 mila firme, tra fisiche ed elettroniche. Ora si attende la pronuncia sull’ammissibilità degli altri sette quesiti referendari: uno sulla legalizzazione della cannabis per uso personale e sei sulla giustizia. Riguardano legge Severino, custodia cautelare, separazione delle carriere, consigli giudiziari, responsabilità civile dei magistrati, elezione dei componenti del Csm.
Da sempre in Calabria le persone affette da patologie trattabili con la cannabis vivono un calvario senza fine. E nelle altre regioni la situazione non è migliore. La normativa proibizionista su coltivazione, vendita ed uso ricreativo finisce per penalizzare i pazienti che ne fanno richiesta. Tantissimi di loro aspettano di sapere cosa dirà stasera la Consulta sull’ammissibilità del referendum che vorrebbe far decidere agli italiani se introdurre o meno la possibilità di coltivare cannabis per uso personale.
Allo stesso modo, tantissimi e qualificati sono gli studi scientifici, tra i quali le ricerche condotte sin dagli anni Settanta dal medico Giancarlo Arnao, che sostengono l’efficacia dei preparati a base di canapa nel trattamento dei sintomi di gravi patologie come glaucoma, sclerosi multipla, Alzheimer, epilessia, traumi cerebrali ed ictus, sindrome di Tourette, glioblastomi, artride reumatoide, morbo di Crohn, colite ulcerosa. Inoltre è un efficace antiemetico in chemioterapia e coadiuvante nella terapia del dolore e nella stimolazione dell’appetito nell’AIDS.
Cannabis, un primato tutto calabrese
La Calabria vanta pure un singolare primato. È calabrese il primo paziente ad aver ottenuto in Italia il diritto di impiegare la preziosa infiorescenza per curarsi. Quella di Gianpiero Tiano è una battaglia estenuante, iniziata 30 anni fa. Nel 1992 rimase vittima di un terribile incidente stradale. Durante la lunga convalescenza, scoprì che il violento trauma gli aveva provocato una grave forma di epilessia. Aveva letto un articolo sulla cannabis come valida alternativa ai farmaci tossici. Decise così di provare assumendo dei quantitativi minimi e si rese conto che le infiorescenze della pianta funzionavano: le crisi epilettiche erano sparite. Già in quegli anni, però, le pene previste per chi la maneggiava erano altissime.
Non potendo acquistarla, decise di coltivarla come prezzemolo, basilico e mentuccia. È noto che alle latitudini di Calabria la marijuana cresce rigogliosa. La conferma scientifica è arrivata pochi anni fa, quando uno studioso calabrese, il geologo Giovanni Salerno, ha realizzato un’accurata mappa dei siti calabresi ideali per la produzione di cannabis. All’epoca Gianpiero versò pochi semini nei vasi esposti alla finestra del balcone di casa, a San Giovanni in Fiore. Dal terreno spuntarono 6 germogli. Ma ben presto ricevette la visita dei carabinieri, forse allertati da qualche delazione. Così gli costarono care quelle piantine appena sbocciate. Finì in carcere, nonostante le sue precarie condizioni di salute.
Cannabis e Giustizia, l’impresa di Mazzotta
In primo grado il tribunale di Cosenza lo condannò. I giudici non ammisero che la documentazione presentata dalla difesa avesse valore probatorio. Ma in appello, difeso dal geniale e coraggioso avvocato Giuseppe Mazzotta, la sentenza ridusse la pena sospesa e per la prima volta riconobbe che Tiano aveva realizzato la minicoltivazione non per spaccio, bensì per un uso terapeutico. Quel testo era destinato a fare giurisprudenza. Negli anni successivi, innumerevoli sono state le sentenze assolutorie dei tribunali italiani nei confronti di persone che hanno deciso di coltivare in proprio, e per uso esclusivamente personale, la pianta tabù.
L’ingresso del tribunale di Cosenza
Ottenuto un dispositivo non criminalizzante, a Gianpiero rimaneva però il problema di come approvvigionarsi della sostanza, vista la rigorosità della permanente normativa proibizionista. Si fece allora promotore di una battaglia civile. Scrisse lettere aperte ai parlamentari, nel 1999 fu tra i fondatori dell’associazione Cannabis terapeutica, trovò un valido sostenitore nel professore Andrea Pelliccia dell’università La Sapienza, che gli prescrisse l’uso dei preparati a base di THC, il principio attivo della cannabis.
Nel 2001 presentò alle autorità competenti formale richiesta ed ottenne che il sistema sanitario importasse le infiorescenze da un’azienda olandese. Nel 2002, nel summit sulle droghe a Genova, insieme ad altri attivisti dell’associazione fu ricevuto dal ministro della Salute, Umberto Veronesi, e gli consegnò un libro bianco sul diritto negato di assumere cannabis ad uso terapeutico.
Cannabis e appetito
«Oggi – denuncia Gianpiero Tiano – mi sembra d’essere tornato al punto di partenza. Non c’è nessun neurologo che me la prescriva. Il medico di famiglia non ne vuole sapere. Conosco tanti altri pazienti calabresi che, come me, sono costretti a compiere clamorose azioni di protesta per tornare a sollevare il problema. Ritengo che i principali ostacoli al riconoscimento dell’uso terapeutico della cannabis derivino dagli interessi delle multinazionali farmaceutiche che per tutelare i loro famelici profitti, nella nostra regione pilotano medici, gruppi di pressione e apparati politici contrari a questa prospettiva.
«Una cura alternativa a base di cannabinoidi – prosegue Tiano – sarebbe competitiva nei confronti di altri costosissimi farmaci già impiegati per certe patologie. Inoltre, più difficile è ottenere la canapa, maggiori sono i profitti delle farmacie galeniche, le uniche abilitate a preparare i prodotti a base di cannabis. Per capire l’entità dei profitti, si pensi che nel biennio 2015 – 2017 tra Lamezia, Catanzaro e Crotone il costo di questi preparati è aumentato del 400%. Gli stessi consiglieri regionali che in anni passati sono stati promotori di iniziative politiche in Calabria si sono rivelati una delusione, un bluff. Volevano solo farsi pubblicità proponendo assurde spending review preventive, ma è chiaro che non avevano la minima intenzione di raggiungere un obiettivo che sarebbe prima di tutto sanitario». Dietro uno scontro in apparenza ideologico, dunque, si muovono ben altre manovre. È risaputo che la marijuana provoca appetiti non solo alimentari.
Una ricostruzione della realtà «macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza», un atteggiamento «aspro, polemico, al limite dell’insulto» e la preoccupazione di trovare MimmoLucano colpevole «ad ogni costo». Hanno ritmi sferzanti le argomentazioni utilizzate da Giuliano Pisapia e Andrea Daqua nelle quasi 140 pagine di richiesta d’appello alla sentenza con cui, in primo grado, il Tribunale di Locri ha “sepolto” l’ex sindaco di Riace, condannato nel settembre scorso a 13 anni e due mesi di reclusione.
La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano
Una puntigliosa ricostruzione del lungo processo a carico di Mimmo “il curdo” Lucano, che prova a smontare, pezzo per pezzo, le monumentali motivazioni (oltre 900 pagine) con cui i giudici locresi hanno messo la parola fine a quel progetto di accoglienza integrata che aveva portato il piccolo paese jonico all’attenzione dei media internazionali. Nel fascicolo presentato in Appello, i legali di Lucano ribadiscono quanto espresso in udienza, sottolineando la totale estraneità del loro assistito alle accuse che lo hanno visto condannato per i reati di associazione a delinquere, falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa: 21 i reati in totale, contenuti in 10 capi d’accusa dei sedici originari.
Pezzo per pezzo
Sono tanti e dettagliati i punti che non tornerebbero nella sentenza di primo grado e che gli avvocati difensori sottolineano per sostenere l’innocenza di Mimmo Lucano. Punti che bollano la sentenza emessa dal giudice Fulvio Accurso come «in toto censurabile» e dalla cui lettura «matura la netta convinzione» che il giudicante «sia incorso in un palese errore prospettico che ha condizionato pesantemente il giudizio, restituendo una ricostruzione della realtà macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza».
Incongruenze e errori che secondo Pisapia e Daqua avrebbero riguardato tutte (o quasi) le determinazioni della sentenza: dalle intercettazioni «utilizzate oltremodo» con un’interpretazione «macroscopicamente difforme dal suo autentico significato», al cambio in corsa del capo di imputazione da abuso d’ufficio a truffa aggravata, fino all’ipotesi di associazione a delinquere dove la sentenza «appare raggiungere il massimo livello di creatività». E poi le spinte all’accoglienza dell’ex sindaco che sarebbero state dettate dalla voglia di arricchirsi e dalla necessità di mantenere gli equilibri per continuare a guidare Riace da primo cittadino: tutte, mettono nero su bianco gli avvocati difensori «letture forzate, se non surreali, dei risultati intercettivi».
Mimmo Lucano, un caso politico
Travolto da una copertura mediatica imponente, il processo a Mimmo Lucano si è soffermato a lungo sul ruolo politico rivestito dall’ex sindaco. Dichiaratamentedisobbediente e legato agli ambienti della sinistra radicale, Lucano ha riproposto attraverso il modello Riace un’idea diversa dell’accoglienza, nella stessa terra in cui gli slums di Rosarno e San Ferdinando riempiono le pagine della cronaca. Ed è proprio analizzando il ruolo politico di Lucano – e il conseguente utilizzo dei migranti per ottenere la rielezione, come ipotizzato dal Tribunale – che gli avvocati affondano il colpo.
Giuliano Pisapia
Pisapia e Daqua sottolineano «le malevoli interpretazioni, le contraddizioni, il rovesciamento di senso, le enfatiche distorsioni» di un giudizio «preoccupato, più che a valutare gli elementi probatori forniti dall’istruttoria dibattimentale, a “dipingere” e “romanzare” la figura di Lucano. Dov’è lo scambio politico? – si chiedono gli avvocati nell’istanza di appello – Dove sono i voti di riscontro all’atteggiamento omissivo che Lucano avrebbe tenuto? Dov’è quella tanto ricercata (ma inesistente) ricchezza, quel vantaggio economico acquisito dal Lucano attraverso lo sfruttamento del sistema integrazione?».
Ricostruzioni fantasiose
Una sentenza pesantissima quella emessa dal Tribunale di Locri che ha, di fatto, raddoppiato la pena avanzata dalla Procura che in sede di requisitoria aveva chiesto la condanna a sette anni. Una sentenza che, scrivono ancora i difensori di Lucano si baserebbe su «ricostruzioni apodittiche e fantasiose» e che si rivolge all’imputato Lucano con «espressioni caratterizzate da una aggettivazione aspra, polemica, al limite dell’insulto», descrivendolo «coma una figura avida, infida, arrogante, una controparte da perseguire più che una persona da sottoporre a giudizio»
Le modalità di spesa dei fondi comunitari in Italia – soprattutto nelle regioni meridionali – illustrano un itinerario di scelleratezze che getta ombre inquietanti sul futuro prossimo. Da un lato si è verificata costantemente una forbice rilevante tra risorse disponibili e capacità effettiva di spesa. Dall’altro, spesso è capitato che i fondi comunitari siano stati occasione per frodi ed irregolarità. In entrambe queste specialità poco commendevoli la Calabria si è sinora distinta. A metterlo nero su bianco è stata la Corte dei Conti col suo report su “I rapporti finanziari con l’Unione Europea e l’utilizzazione dei fondi comunitari”.
Calabria regina delle frodi
Per il periodo 2014-2020 la Calabria ha ottenuto in programmazione 1,9 miliardisui fondi per lo sviluppo regionale e 0,4 miliardi attraverso il fondo sociale europeo. Alla fine del 2020, gli impegni ammontavano rispettivamente al 63,3% e al 30,2% delle risorse, i pagamenti al 35,3% e al 24,6% del totale. Le irregolarità e le frodi comunicate nel solo 2020 sui fondi strutturali comunitari sono state complessivamente in Italia 155, di cui 91 (pari al 58,7%) in Calabria; il valore complessivo è pari a livello nazionale a 65,5 milioni di euro, di cui 34,3 in Calabria (52.5%).
In Italia è stato recuperato il 10% del valore, in Calabria nulla. Se ci riferiamo alla politica agricola le irregolarità e frodi sono state pari nel 2020 a 326 casi in Italia, di cui 68 in Calabria (20,9%); il valore complessivo è pari a 35,6 milioni di euro di cui 7 in Calabria (19,7%); in Italia sono stati recuperati 5,4 milioni di euro (15,2%), in Calabria 0,97 milioni (13,8%).
La sede della Regione Calabria a Germaneto
Fondi recuperati? Pochissimi
Queste pessime abitudini sono radicate nel tempo. In Italia, considerando la somma dei piani territoriali per il fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) nel periodo 2007-2013, i casi di irregolarità e frode sono pari a 1.324: il valore complessivo degli importi irregolari pesa per 401,7 milioni di euro, con un valore da recuperare pari 236,1; l’importo recuperato è di 63,5 milioni di euro.
Il POR della Calabria registra per lo stesso FESR, sempre nel periodo 2007-2013, 513 casi (38,7% sul totale nazionale); l’importo irregolare complessivo è pari 129,9 milioni di euro (pari al 32,3% del totale italiano), con importo irregolare da recuperare di 63,4 milioni (26,8% del valore nazionale), ed un importo recuperato pari a 2,9 milioni (il 4,5% del totale nazionale).
Se si considerano i casi irregolari e di frode segnalati nel periodo 2007-2013 per il fondo sociale europeo (FSE), i casi complessivi in Italia sono 278. La Calabria svolge la parte dominante per la numerosità (38,8% dei casi), mentre la regione pesa per il 10,7% in termini di valore dell’importo irregolare complessivo. E incide per il 17,6% sull’importo irregolare da recuperare e l’8,7% dell’importo recuperato.
Nel caso dei fondi europei per l’agricoltura, i casi irregolari in Calabria sono 584, pari all’8,3% in termini di numerosità sul totale nazionale, all’8.6% in termini di valore economico, al 9,6% in termini di importo ancora da recuperare.
Un passato da lasciarsi alle spalle
Questa è la storia recente dalla quale veniamo. Ora è richiesto al nostro sistema istituzionale ed amministrativo di fare un salto di qualità rispetto al passato, in uno scenario che è ancora più complesso. L’intero sistema del Next Generation EU è caratterizzato da un regime di condizionalità (definita anche “aggravata”) riferita quindi non più alla dimostrazione delle spese effettuate, ma ai risultati raggiunti, anche in termini di riforme che devono essere attuate con l’obiettivo di essere maggiormente conformi con il contesto comunitario. Le risorse disponibili sono complessivamente ingenti. Ma vanno conquistate con serietà.
Il bilancio a lungo termine dell’UE 2021-2027, insieme al Next Generation EU, rappresenta una “risorsa combinata” complessivamente pari a 2.018 miliardi di euro a prezzi correnti. Il pacchetto comprende da un lato il bilancio a lungo termine per il periodo 2021-2027 (il quadro finanziario pluriennale), da 1.211 miliardi di euro a prezzi correnti e dall’altro lo strumento temporaneo per la ripresa, Next Generation EU, da 806,9 miliardi di euro a prezzi correnti.
Il saldo cambierà?
Se il nostro Paese sarà in grado di gestire con efficacia ed efficienza il processo di gestione delle risorse comunitarie, cambierà anche il saldo per la contabilità nazionale. Secondo i dati della Commissione europea, nel 2020 l’Italia ha partecipato al bilancio unionale con versamenti a titolo di risorse proprie per complessivi 18,2 miliardi (+1,4 miliardi rispetto al 2019). Le risorse assegnate all’Italia dal bilancio UE nel 2020 sono state pari a 11,66 miliardi di euro, in aumento di circa 486 milioni rispetto all’anno precedente (+4,4%).
Nell’esercizio considerato, il saldo netto tra versamenti e accrediti è stato dunque negativo per 6,5 miliardi, più ampio rispetto a quello del 2019, in cui era stato di 5,6 miliardi. Nel periodo 2014-2020, il saldo netto cumulato è negativo per un ammontare di 37,92 miliardi. In tale periodo, l’Italia ha pertanto contribuito alle finanze dell’Europa con un saldo medio annuo di 5,4 miliardi. Gli Stati membri con i saldi positivi più rilevanti, nel settennio in considerazione, sono in ordine decrescente: Polonia, Ungheria, Grecia, Romania, Repubblica Ceca e Portogallo.
Fondi, la duplice sfida per la Calabria
I dati che fotografano la situazione a fine 2020 rappresentano il portato di una forza inerziale che andrà gradualmente, ma decisamente, spegnendosi, a condizione che le amministrazioni sappiano impiegare le risorse che saranno assegnate. La tradizionale posizione di contributore netto dell’Italia, con ogni probabilità, andrà incontro ad una inversione. Si può, anzi, affermare che tale inversione è già visibile nelle stime effettuate sui flussi del 2021: l’accredito netto per l’Italia sarebbe di poco superiore a 3 miliardi di euro. L’Italia ha davanti una duplice sfida, in relazione alle prossime mosse da mettere in atto: su un fronte, dovrà considerare le “normali” attività, quali la conclusione della Programmazione 2014-2020 ed il contestuale avvio di quella 2021-2027; sull’altro fronte, peraltro strettamente connesso, l’impegno forte riguarderà il pieno sfruttamento delle risorse messe a disposizione per il PNRR.
Roberto Occhiuto e il generale Guido Mario Geremia firmano il protocollo
Dai tanti errori che sono stati commessi negli anni precedenti, in Italia ed in Calabria in particolare, dobbiamo trarre gli insegnamenti necessari per non ripercorrere le stesse orme. Nelle ultime ore il presidente regionale Occhiuto ha firmato un protocollo d’intesa integrativo con la Guardia di Finanza. L’addendum mira proprio a ridurre le frodi nella spesa dei fondi Ue e favorire il recupero delle somme erogate erroneamente. C’è da sperare che l’integrazione basti, visti i risultati dell’accordo precedente.
Di sicuro, nel recentissimo Lobby e Logge di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, uscito per Rizzoli la scorsa settimana, ci sono alcuni vizi, non proprio leggeri: l’ansia di rivalsa e il desiderio di autodifesa dell’ex presidente dell’Anm più la proverbiale allergia del direttore di Libero nei confronti delle toghe.
E tuttavia, le dichiarazioni al vetriolo dei due – che spesso vanno ben oltre il politicamente corretto – meritano una certa attenzione, per almeno due motivi: scombussolano un po’ le carte sulle questioni giudiziarie e, cosa più importante, si basano su fatti.
Anche per quel che riguarda la Calabria, che emerge in questo libro-intervista soprattutto per quel che riguarda alcuni aspetti del processo a Mimmo Lucano, terminato con una condanna più commentata che analizzata.
La lettura della sentenza di condanna per Mimmo Lucano
Il magistrato e l’ex sindaco
Le dichiarazioni di Palamara, sul caso Lucano, sono piccanti e argomentate.
All’ex magistrato romano non interessa la vicenda di Lucano in sé, ma solo come punto di partenza per polemizzare contro gli equilibri interni al potere giudiziario. Cioè gli assetti di potere di quello che lui, nel suo libro precedente, ha definito “Il sistema”.
Infatti, su Lucano l’ex capo delle toghe è piuttosto garantista: «Pur nel pieno rispetto delle motivazioni dei giudici di Locri, depositate il 17 dicembre del 2021, non mi spiego una pena così alta viste le imputazioni contestate e il contesto nel quale le condotte dello stesso Lucano si sono verificate».
Il vero bersaglio di Palamara è Emilio Sirianni, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro, finito nei guai per via della sua amicizia per Lucano, in nome della quale si espose un po’ troppo, al punto di essere indagato dalla Procura di Locri e di subire un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura.
Per onestà è doveroso ribadire che i fastidi giudiziari di Sirianni sono solo un ricordo, visto che il giudice catanzarese è stato archiviato a Locri e prosciolto dal Csm nel 2020, quindi oltre un anno prima che Lucano venisse condannato.
Emilio Sirianni
Piange il telefono
Tuttavia, ciò non toglie che certe affermazioni di Sirianni siano pesanti, come rilevano i magistrati di Locri nell’ordinanza di archiviazione dell’inchiesta sul loro collega: «il comportamento mantenuto è stato poco consono a una persona appartenente all’ordine giudiziario, peraltro consapevole di parlare con una persona indagata».
Ma cos’ha detto di così pesante Sirianni?
Innanzitutto, c’è una battuta piccantissima su Nicola Gratteri, “colpevole” di non aver difeso a sufficienza Lucano. In altre parole, Lucano era preoccupato del fatto che il procuratore di Catanzaro si era dimostrato tiepido sull’inchiesta di Locri, limitandosi a un banale: «Sarei cauto, bisogna leggere le carte», dichiarato in tv ad Alessandro Floris.
Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri
Sirianni avrebbe cercato di rassicurare Lucano per telefono con un commento al peperoncino rivolto al magistrato antimafia più famoso d’Italia: «Lascialo stare, è un fascista di merda ma soprattutto un mediocre, un mediocre e ignorante».
Addirittura alla ’nduja le dichiarazioni di Sirianni su un altro calabrese di peso: Marco Minniti, all’epoca ministro dell’Interno nel governo Gentiloni, che viene definito «uno pseudo comunista burocrate che ha leccato il culo a D’Alema per tutta la vita».
Non entriamo nel merito di queste dichiarazioni, così come non ci è entrata la commissione disciplinare del Csm che ha prosciolto Sirianni perché ha detto quel che ha detto in privato e non in pubblico e quindi non ha discreditato la magistratura.
Compagni in toga
A essere pignoli, la frase più pesante del giudice di Catanzaro sarebbe quella in cui non ci sono parolacce ma tira in ballo un altro magistrato: Roberto Lucisano, presidente della Corte di Assise d’Appello di Reggio e compagno di Sirianni in Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe italiane.
Sempre stando alle intercettazioni riportate in Lobby e Logge, Sirianni avrebbe detto a Lucano una cosa non troppo sibillina: «Ho parlato con Lucisano, il quale mi dice che la procura di Locri sta indagando ma che su questo Magistratura democratica farà una crociata». Non è proprio poco visto che, commenta Palamara, Lucisano, in virtù del suo ruolo, potrebbe essere giudice di Appello di Lucano.
Ma l’ex magistrato evita i processi alle intenzioni e si sofferma, piuttosto, sull’aspetto ideologico della vicenda.
Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace condannato in primo grado
Toghe rosse
Un lungo virgolettato di un’altra intercettazione, riportato stavolta da Sallusti, chiarisce i motivi per cui Sirianni si è sbilanciato tanto nei confronti di colleghi ed esponenti di governo. E il diritto c’entra davvero poco.
Ecco il passaggio, che sa più di Potere Operaio che di Anm: «Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte, siamo dalla parte, siamo dalla parte del più debole, perché questo è scritto nella Costituzione, non perché questa è una rivoluzione».
Il commento di Palamara, che si riporta per dovere di cronaca, è piuttosto duro: «In questa intercettazione c’è tutto quello che ho vissuto nei miei undici anni alla guida del Sistema che ha governato la politica giudiziaria. L’egemonia culturale di sinistra che sovrasta la Costituzione, la partigianeria che interpreta la legge». Non è il caso di entrare nel merito di questa dichiarazione dell’ex magistrato, perché la vera notizia, in questo caso è un’altra.
Uno scandalo inedito?
Luca Palamara
La fornisce Palamara: «Strano che l’integrale di queste intercettazioni non sia mai uscito sui giornali, e ancora più strano che non siano mai arrivate al Csm, e non penso che sia stato un disguido delle poste». Dichiarazione sua, che spetta ai diretti interessati smentire.
Ma è una dichiarazione che, se non smentita, autorizza le peggiori dietrologie. Ad esempio questa, sempre di Palamara: «Penso che quelle frasi gravemente scorrette nei confronti di importanti magistrati e politici avrebbero creato dei grattacapi non solo a lui ma a tutta la sinistra giudiziaria».
Di sicuro queste dichiarazioni, che si prestano a tutte le strumentalizzazioni possibili, non aiutano a far chiarezza in una vicenda, quella di Mimmo Lucano, che richiede ben altra serenità.
L’unità, che bella cosa, era pure il nome del giornale di famiglia. L’istituto del commissariamento, invece, è un male antidemocratico. Per il Pd nazionale sono due verità incontrovertibili, a patto che in gioco non ci sia la Calabria. Sotto al Pollino, l’unità diventa un diktat tartufesco, il commissariamento un’arma da brandire alla bisogna.
Il congresso regionale, già celebrato, e quelli provinciali, che si svolgeranno dal 18 febbraio, sono lì a dimostrare la relatività di tutte le cose dem. Un osservatore esterno, ad esempio, potrebbe domandarsi perché mai, in una comunità democratica come quella del Pd, l’unità diventi necessariamente una sorta di obbligo ineludibile di stampo leninista.
Missione unità: tutti con Irto
È avvenuto anche in occasione dell’elezione del nuovo segretario regionale, Nicola Irto, imposto dai vertici romani e poi accettato – non sempre con entusiasmo – da tutti i maggiorenti locali. A Irto il Nazareno ha affidato un mandato chiaro: realizzare l’«unità» pure nelle federazioni provinciali e nei circoli cittadini. Il segretario, ormai da settimane, è al lavoro per ridurre al minimo i conflitti e arrivare a «sintesi» in ogni territorio, con l’obiettivo di schierare candidati «unitari» in tutti i congressi e di ridurre a zero le faide e, quindi, i problemi per Roma.
Nicola Irto
Le preoccupazioni del Nazareno
Il Nazareno, infatti, segue sempre lo stesso modus operandi: liquidare la pratica Calabria senza conseguenze e, in caso di rischi troppi alti, affidare la guida del partito a persone di assoluta fiducia come i commissari esterni.
Il Pd regionale, dalla sua nascita, ne ha avuti tre – Musi, D’Attorre e Graziano –, tutti arrivati con la regola d’ingaggio di mettere ordine nei vari «feudi» regionali (copyright: Irto). Missione sempre fallita: il partito era ed è tuttora balcanizzato.
Una consapevolezza di tutte le segreterie dem, sempre pronte a prendere le distanze dalla “democrazia” interna del Pd calabrese. Così, ecco i commissari a fare il coperchio di una pentola a pressione; così, adesso, ecco Irto, il candidato unico benedetto da Roma, e i congressi in perfetto stile sovietico.
Ma quale democrazia reale
«L’unità è un valore, ma solo se è vera. Qui invece la si impone per evitare scandali», sostiene un autorevole rappresentante istituzionale del Pd. Si fa presto a dire quali scandali: le primarie farlocche, i pacchi di tessere nelle mani dei ras locali, i candidati controversi per parentele o frequentazioni. La cronaca politica (e giudiziaria) degli ultimi anni ha fornito molti esempi che in qualche modo possono aver giustificato le azioni dei vari Bersani, Zingaretti, Letta e via dicendo.
Unità fake
Quella predicata e realizzata è solo un’unità posticcia, un fake politico; un’unità imposta a chi poteva scegliere di evitare commissari peggiori. Irto, in fondo, è stato accolto di buon grado: giovane, moderato, con una buona esperienza alle spalle, aperto al dialogo e al compromesso, mai divisivo. In più, meno di un anno fa era stato candidato governatore con la benedizione di tutto il partito calabrese, prima di essere silurato dall’area Orlando-Provenzano (quindi l’intervista a L’Espresso e le accuse a un partito sempre più «in mano ai feudi»).
È probabile, tuttavia, che l’unità attorno a Irto, più che reale, sia stata tattica: il modo migliore che i big locali hanno trovato per togliersi di torno Graziano, il commissario capace di inanellare una lunga serie di disastri elettorali.
Le alternative poste in modo implicito dal Nazareno, infatti, erano solo due: l’accordo (Irto) o il regime speciale (Graziano). L’unità diktat e il commissariamento arma, appunto.
Stefano Graziano
La guerra nelle federazioni
Sono state queste le opzioni in gioco anche nelle varie federazioni locali, torri di Babele in cui ogni corrente continuerà a perseguire i propri scopi.
A Cosenza si arriverà a un congresso con un vincitore già designato dopo una guerra muscolare tra il commissario uscente, Francesco Boccia, e i vari capataz provinciali. Alla fine, l’ha spuntata proprio l’ex ministro, che è riuscito a imporre Maria Locanto a dispetto dei desideri dei vari Adamo, Bruno Bossio, Guccione e Iacucci, che sostenevano Vittorio Pecoraro.
Pare che Boccia, per vincere la partita, abbia messo i dirigenti locali di fronte al classico aut aut: o Locanto o rinvio del congresso, cioè ancora commissariamento. Si può chiamare unità di partito? Non proprio, anche perché è poi saltata fuori la candidatura dell’outsider Antonio Tursi, che potrebbe catalizzare il voto degli scontenti.
Vibo a Di Bartolo
A Vibo sembravano pronti ad andare ai materassi, ma anche qui sarà congresso unitario con un unico candidato, il ventenne Giovanni Di Bartolo. Il suo avversario, Sergio Rizzo, pochi giorni fa ha annunciato il ritiro sottolineando l’importanza di «seguire la linea tracciata» da Irto. L’esito, però, non nasconde la realtà di un partito lacerato dalle tensioni interne, come dimostra l’atteggiamento ondivago dell’ex consigliere regionale Luigi Tassone, candidato, poi sostenitore di Di Bartolo, poi ricandidato e infine di nuovo al fianco del futuro segretario. «È un’unità di facciata, perché tutti i dirigenti hanno capito che, senza una soluzione comune, toccherà ancora al commissario», conferma uno che conosce bene le dinamiche in atto tra i dem vibonesi.
Analisi, questa, che trova riscontri nella guerra per la segreteria cittadina. Francesco Colelli, sostenuto da Tassone, sfiderà Claudia Gioia, rappresentante dell’area del consigliere regionale Raffaele Mammoliti. Tassone e Mammoliti non possono certo essere definiti due amiconi e, secondo più di un osservatore, venderanno cara la pelle.
Raffaele Mammoliti
La vendetta di Falcomatà
Sarà un congresso dall’esito scontato anche a Reggio, ma il futuro segretario provinciale, Antonio Morabito, si troverà a guidare un partito lacerato. Secondo gli accordi romani, la scelta del candidato unico toccava a Giuseppe Falcomatà. Il sindaco metropolitano (oggi sospeso) si sarebbe però visto bocciare tutti i nomi proposti, per poi essere quasi costretto a dire sì a Morabito, la cui famiglia è storicamente vicina a Irto. E adesso c’è chi giura che, presto, Falcomatà potrebbe passare al contrattacco. La città dello Stretto non è insomma il regno dell’armonia sognato da qualcuno.
Giuseppe Falcomatà
Lotta dura a Catanzaro
Fervono le trattative anche a Catanzaro, dove nemmeno la presenza di Boccia avrebbe sortito effetti ecumenici. Fino all’ultimo verrà tentata una mediazione tra i due candidati in campo, Salvatore Passafaro, sostenuto dai circoli cittadini, e Domenico Giampà, appoggiato dai consiglieri regionali Ernesto Alecci e Mammoliti.
Finora è stata una lotta senza esclusione di colpi e carica di veleni, con l’area di Passafaro che ha anche accusato la commissione di garanzia di strane manovre nella suddivisione dei collegi per il voto e Giampà inflessibile nella volontà di non fare un passo indietro per favorire un candidato di superamento. «Nessuno vuol trovare una mediazione, vogliono la guerra», commenta un esponente del Pd cittadino.
Salvatore Passafaro
Il clima generalizzato è questo. A Crotone lo scontro al congresso provinciale è stato evitato solo al fotofinish: Sergio Contarino si è ritirato per lasciare campo libero a Leo Barberio. Pace fatta, dunque? No, perché la contesa si è solo trasferita a un livello più basso, al congresso cittadino. Annagiulia Caiazza, corrente Barberio, sfiderà Mario Galea, area Contarino.
Del resto, è una fatica di Giobbe tenere unito ciò che non lo è. Sembra di vederlo, Irto, mentre implora il suo partito con la battuta cult dell’ultimo film di Sorrentino: «Non ti disunire!». Ma ci vorrebbe proprio la mano di Dio.
Stavolta la nomina non l’ha fatta un politico. La politica però in qualche modo c’entra sempre. Anche quando una superburocrate a capo di un apparato monstre decide di affidare all’esterno un incarico che, evidentemente, a suo parere non si può proprio assolvere con le risorse interne. Difficile a credersi, ma è quanto succede in uno dei Palazzi in cui resistono privilegi impensabili in altri luoghi di lavoro.
Il segretario della segretaria generale
L’ultima perla consegnata ai calabresi attraverso il Burc riguarda l’ennesima chiamata diretta in uno staff. Solo che stavolta non si tratta di un consigliere regionale, ma del vertice della struttura amministrativa di Palazzo Campanella. Il segretario generale Maria Stefania Lauria, che sta al punto più alto di una piramide di ben 250 dipendenti, ha dovuto arruolare un esterno come suo segretario particolare.
Il segretario generale Maria Stefania Lauria e l’ex presidente del consiglio regionale, Mimmo Tallini
Quarantamila euro per il portaborse
Lei percepisce uno stipendio di 184mila euro lordi all’anno, a cui si aggiunge un’indennità di risultato in rapporto ai mesi di servizio e alla valutazione dei risultati conseguiti. Il suo segretario particolare al 100% ne prenderà invece 40mila. Molti di meno, certo, ma in realtà il prescelto, tale Francesco Noto, con questa nomina raddoppia: fino al giorno prima era infatti il segretario particolare al 50% del presidente del consiglio regionale, Filippo Mancuso.
La fortuna del portaborse
È questo uno dei tanti tratti quantomeno singolari di questa vicenda, che vede un portaborse passare di fatto dallo staff di un organo politico di vertice a quello del più alto burocrate dello stesso palazzo. Ma di passaggi che destano, diciamo così, un certo stupore, ce ne sono anche altri. Il primo, lampante paradosso, è che un dirigente che è a capo di una megastruttura amministrativa il cui personale costa già di per sé 25 milioni di euro all’anno di soldi pubblici decida di farne spendere un altro po’ per pescare all’esterno un collaboratore.
Promossa da Tallini
Un altro è che la stessa Lauria, a cui l’allora presidente Mimmo Tallini ha affidato anche la direzione generale del consiglio regionale, abbia già alle dipendenze dirette un Settore (il Segretariato generale, appunto) che conta solo al suo interno circa una cinquantina di persone. Per non parlare degli altri uffici che, comunque, sempre a lei fanno riferimento.
C’è poi il fatto che il provvedimento, una determina dirigenziale, porti la firma, oltre che della responsabile del procedimento Romina Cavaggion, anche della stessa Lauria, alla quale il 19 gennaio scorso l’Ufficio di Presidenza – di cui ovviamente è a capo Mancuso – ha conferito l’incarico dirigenziale ad interim del Settore Risorse Umane.
Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del consiglio regionale della Calabria
Si libera un posto nella struttura del presidente del consiglio regionale
Per ricapitolare, dunque, con questo atto Lauria comunica al Settore diretto da Lauria che intende avvalersi di un collaboratore esterno. E Lauria prende atto che nulla osta alla nomina del segretario particolare che la stessa Lauria poi dispone con una sua determina. Liberando così, ché non guasta mai, un posto in più nella struttura del presidente del consiglio regionale, il quale certamente troverà presto un sostituto di Noto, che vi era stato inserito lo scorso 25 novembre.
Certamente sarà tutto legittimo, e si tratta comunque di poca cosa rispetto alla guerra dei mandarini che abbiamo già raccontato. Ma è la conferma di quanto il pudore, al contrario di una miriade di portaborse, non trovi proprio alloggio ai piani alti di Palazzo Campanella.
Il giudizio della Corte dei Conti sulla sanità calabrese
La politica bipartisan, ormai da mesi, batte all’unisono: cancellare il debito sanitario calabrese. Per i proponenti, un passaggio necessario, azienda unica o meno, per auspicare una ripartenza. Per altri un colpo di spugna su anni di intrallazzi e ruberie. Che la pandemia da Covid-19 ha mostrato in tutta la sua drammaticità, con la Calabria spesso declassata da “zona bianca” a una condizione di limitazioni e restrizioni. Non già per il numero dei contagi, ma per la fatiscenza e l’inadeguatezza del suo sistema sanitario.
Ora su quel buco, enorme, della sanità calabrese interviene anche la Corte dei Conti. I giudici contabili sostengono l’inattendibilità del deficit sanitario e la sua probabile sottostima: «Dall’esame dei risultati d’esercizio, relativi all’esercizio 2020, tutte le aziende del Ssr calabrese hanno chiuso in perdita, per un totale di -267 milioni 167mila euro. Le aziende del Ssr calabrese, nel periodo 2014-2019, non hanno rispettato la direttiva europea sui tempi di pagamento. Nel 2020 gli indicatori risultano ancora elevati, seppure, nella maggior parte dei casi, in leggera diminuzione. Con una media, per il 2020, di 159 giorni. La situazione debitoria delle Aziende sanitarie e ospedaliere ammonta complessivamente ad oltre 1 miliardo 174 milioni di euro».
La mammella da spremere
La sanità calabrese è, da sempre, una mammella da spremere senza fine per le cosche e per affaristi di vario genere. Non a caso, il settore – che avvolge il 70% del bilancio regionale – è commissariato da anni. E il debito più che miliardario. «Il ritardo con cui – è scritto nella relazione della Procura contabile – le aziende sanitarie e ospedaliere del Ssr calabrese effettuano i propri pagamenti determina ingenti interessi moratori che incidono negativamente sui risultati finanziari». Con riferimento al contenzioso, si legge ancora, «il totale ammonta ad oltre 481,21 milioni di euro e il totale degli accantonamenti ammonta ad oltre 51,89 milioni di euro. In definitiva sui costi del servizio sanitario calabrese continua a incidere fortemente il contenzioso con i correlati oneri aggiuntivi».
Un sistema che non si regge in piedi
La Procura regionale ha poi rilevato «svariate criticità». Permangono carenze di effettivo supporto alla struttura commissariale, carenze assunzionali, carenze nella gestione degli accreditamenti. E poi, una pesante situazione debitoria delle Aziende sanitarie, forti ritardi nei pagamenti e pignoramenti. Infine, gravi ritardi nell’approvazione del bilanci e insufficienza dei flussi informativi. Tutti questi fattori «contribuiscono a determinare l’enorme difficoltà a realizzare efficacemente il piano di rientro dal disavanzo che, infatti, da oramai oltre un decennio è rimasto pressoché immutato».
In particolare – sostiene ancora la Corte dei Conti – «con riguardo al disavanzo totale 2020 […] si deve porre in evidenza che, seppure in lieve miglioramento rispetto all’anno scorso, non è certo un dato ottimistico perché, comunque, il deficit sanitario in oltre dieci anni si è ridotto di circa soli 13 milioni di euro (da oltre 104 ad oltre 91 milioni)». Giudizio negativo, poi, anche per i cosiddetti LEA, i livelli essenziali di assistenza: «Il punteggio per il 2019 è di 125. Di molto al di sotto della soglia (almeno tra 140 e 160) e molto meno del 2018 (162)».
Il caso Reggio Calabria
Il pur enorme deficit quantificato potrebbe addirittura essere sottostimato. Questo, soprattutto, a causa della situazione grottesca e paradossale dell’Asp di Reggio Calabria: «In primis ciò è legato alla situazione dell’Asp di Reggio Calabria, dove dal 2013 esiste unacontabilità non fondata su documenti amministrativi». Questa “contabilità orale”, di fatto, «rende impossibile ricostruire il quadro debitorio dell’azienda». E non si parla di cifre di poco conto, ma di «una situazione debitoria potenzialmente dirompente, con passività che potrebbero toccare i 500 milioni».
L’Asp di Reggio Calabria per anni avrebbe persino pagato per (almeno) due volte le stesse fatture a studi privati e cliniche convenzionate. Il risultato è un danno erariale di svariati milioni di euro fin qui accertati dalle indagini della Procura della Repubblica. Proprio alcuni mesi fa, sono state rinviate a giudizio quasi venti persone per le doppie fatture pagate dall’Asp in favore dello “Studio radiologico sas di Fiscer Francesco” di Siderno.
Tra i rinviati a giudizio ci sono il legale rappresentante della clinica, ma anche funzionari dell’Asp, nonché l’ex direttore sanitario Salvatore Barillaro e quello amministrativo Pasquale Staltari. Ma, soprattutto, l’ex commissario straordinario dell’Asp, Santo Gioffrè. Proprio quel Santo Gioffrè che aveva evitato il doppio pagamento di una fattura da 6 milioni di euro alla clinica “Villa Aurora” denunciando tutto in Procura.
I doppi pagamenti
Le indagini, infatti, avrebbero permesso di constatare una duplicazione di pagamenti peroltre 4 milioni di euro. Soldi corrisposti dall’Asp reggina a favore dello studio radiologico privato, operante nel settore dell’erogazione di prestazioni diagnostiche ai pazienti in convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale. Gli inquirenti si sono poi concentrati su una transazione, conclusa nel 2015 tra l’Asp ed il privato, che ha disposto il pagamento della somma di quasi 8 milioni di euro a saldo di crediti pregressi, presuntivamente vantati come non ancora riscossi.
Oltre dieci anni di prestazioni sanitarie dichiarate non pagatedallo studio radiologico e poste a fondamento di diversi decreti ingiuntivi divenuti esecutivi a seguito della mancata opposizione dell’Asp reggina. Ma quelle somme erano state già liquidate per un ammontare complessivo di oltre 4 milioni di euro. Compresi interessi. Le indagini avrebbero quantificato in quasi due milioni e mezzo di euro le imposte non pagate.
La ‘ndrangheta classe dirigente
Anche così si spolpa la Sanità calabrese. Quella in cui la ‘ndrangheta si è fatta classe dirigente. Con i figli dei vecchi boss degli anni ’70 e ’80, che hanno conseguito lauree in Giurisprudenza e Medicina, soprattutto presso l’Università degli Studi di Messina. Per anni un vero e proprio feudo della ‘ndrangheta della Locride soprattutto. Affonda le sue radici nel mito la versione secondo cui i giovani esponenti dei clan della fascia jonica reggina sostenessero gli esami “con la pistola sul tavolo”. E un collaboratore di giustizia, negli anni, ha affermato: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dépendance di Africo Nuovo». Proprio l’Africo Nuovo di Peppe Morabito, il “Tiradritto”.
L’Università di Messina
Del resto, è utile ricordare le risultanze emerse, alcuni anni fa, con la relazione di scioglimento per ‘ndrangheta dell’allora Asl di Locri. Agli atti la fitta ed intricata rete di rapporti di parentela o di affinità e frequentazione che legano esponenti anche apicali della criminalità organizzata locale a numerosi soggetti alle dipendenze dell’azienda. Alcuni dei quali con pendenze o pregiudizi di natura penale.
Il delitto Fortugno
Quelli sono gli anni del delitto del vicepresidente del Consiglio Regionale della Calabria, Franco Fortugno, assassinato il 16 ottobre del 2005 a Palazzo Nieddu del Rio a Locri. Le indagini sul suo omicidio e la parallela inchiesta “Onorata Sanità”, che porterà alla condanna definitiva dell’allora consigliere regionale Mimmo Crea, sveleranno un sistema inquietante. In cui, a prescindere dalle responsabilità penali accertate, sarebbero emerse relazioni molto strette e intense tra politica, imprenditoria, mondo delle professioni e ‘ndrangheta.
Francesco Fortugno
Molti nomi, menzionati nelle migliaia di carte investigative, citati nelle infinite udienze davanti ai giudici, ricorrono e ricorrono. E continuano, ancora oggi, a ricoprire incarichi di grande rilievo in seno alla sanità reggina e calabrese. Non è un caso che a distanza di molti anni dalla relazione del prefetto Basilone sull’Asl di Locri, anche l’Asp di Reggio Calabria verrà commissariata per infiltrazioni della criminalità organizzata, con lavori per imprese non inserite nella white list della Prefettura o, peggio, colpite da interdittiva antimafia.
Nessuno firma i bilanci di Cosenza
Lo stesso discorso vale per un’altra importante Asp della regione, quella del capoluogo Catanzaro, anch’essa considerata di grande interesse per le cosche. E la situazione è grave anche all’Asp di Cosenza. Qui diversi manager della Sanità pubblica sono indagati per aver truccato i bilanci dell’Ente nel tentativo di far quadrare, almeno sulla carta, conti altrimenti molto più drammatici. L’ultimo consuntivo approvato – oggi nel mirino della Procura – risale ormai al 2017. Da allora otto commissari si sono alternati senza mettere la propria firma su quelli successivi. Anche a Cosenza doppie fatture e un contenzioso monstre non quantificato né gestito come si dovrebbe hanno generato una voragine finanziaria da centinaia di milioni di euro.
La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza
Massoni e legami politici: l’interrogazione parlamentare
A Reggio Calabria o a Locri, un po’ ovunque la sanità è un coacervo di interessi. Anche e soprattutto a Cosenza. Ne è convinto il deputato Francesco Sapia, ex grillino duro e puro che, non accettando la svolta governativa dei 5 Stelle, è confluito ne L’Alternativa. Il parlamentare proprio in queste ore con un’interrogazione parlamentare ha chiesto «se il ministro dell’Interno non intenda promuovere l’accesso agli atti presso l’Asp di Cosenza».
Sapia, peraltro, alla Camera siede proprio in Commissione Sanità.E non usa troppi giri di parole: «Primariati non autorizzati, anomala conservazione dei tamponi, proroghe allegre di contratti scaduti, sforamenti di bilancio, incompatibilità, parenti che lavorano insieme, ruoli svolti senza requisiti e procedure selettive pubbliche, carenze da Terzo mondo e gestioni incontrollate di presìdi salvavita. Questo squallore deve finire, non è più tollerabile».
Il parlamentare pare essersi fatto un’idea ben precisa sulle possibili ragioni dietro i problemi elencati: «È urgente verificare se massoni e legami politici negli uffici abbiano condizionato o possano pregiudicare l’imparzialità amministrativa nell’Asp di Cosenza».
Il buco nero dell’Asp di Cosenza
Ma a cosa si riferisce, nello specifico, l’ex grillino? Da anni sono sempre più insistenti i dubbi sulla spesa farmaceutica e gli affidamenti illegittimi di incarichi a esterni. Con riferimento a questi ultimi, secondo quanto previsto dalla legge possono ammontare, al massimo al 50% di quella sostenuta nel 2009 per le stesse finalità. Ma negli scorsi anni si è andati ben oltre: dell’82% nel 2016 e del 76% nel 2017.
Come per altre Asp calabresi, peraltro, anche all’Asp di Cosenza diventaun’impresa trovare le fatture. Agli atti emergono sei diverse società a responsabilità limitata che da tempo reclamano pagamenti dall’Asp cosentina. Circa 20 milioni di euro per un debito che sarebbe maturato a partire dal 2007. Il problema è che però negli uffici dell’Asp non esistono fatture che possano giustificare queste richieste esorbitanti. E da quelle che si trovano, molto spesso i pagamenti risultano già effettuati da anni.
Le fatture che non si trovano
Perché poi, ovviamente, nel disordine, nella negligenza, possono annidarsi anche tentativi di raggiro. E così, per anni, l’Asp di Cosenza è stata letteralmente assaltata da una lunga sfilza di società di factoring, pronte a vantare crediti (reali o presunti) nei confronti dell’Ente. «L’Azienda non è in grado di identificare con certezza la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati, questa situazione espone la stessa al rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo debito», ha scritto tempo fa la Corte dei Conti. Tra fatture già pagate e altre scomparse, il buco nelle casse dell’Asp cresce a dismisura.
Al 31 dicembre 2017 l’Asp di Cosenza aveva ben 541 milioni di euro di debiti. E le anticipazioni di cassa, che dovrebbero essere un’eccezione, sono diventate una regola. E, con il tempo, si sa, i debiti crescono. Nel 2005, infatti, l’Azienda Sanitaria di Cosenza aveva un debito di circa 3 milioni e mezzo di euro ereditato dall’ex As 1 di Paola legato a una condanna in tribunale. Nessuno ha pagato e quella somma è cresciuta a dismisura. Nel 2020 gli interessi pagati sulla cifra prevista inizialmente ammontavano a quasi 8 milioni e mezzo.
La “favorita” dell’ex dg
Ma Sapia parla anche di concorsi fatti ad hoc. Una inchiesta della Procura di Cosenza, infatti, sostiene come la procedura riguardante una donna abbia avuto un trattamento di favore, con un bando creato proprio per lei. E questo in forza della relazione sentimentale che avrebbe intrattenuto, per un determinato periodo, con l’ex direttore generale dell’Asp, Raffaele Mauro. Questa procedura le avrebbe fatto ottenere una promozione, senza averne avuto diritto.
Alcune modifiche normative (inserite usando come stratagemma il pensionamento di un funzionario) sarebbero state inserite su misura proprio per favorire la “preferita” di Mauro. Tra le varie presunte e creative irregolarità, quella di non tenere conto dell’esperienza nel settore. E la donna, pur non avendo alcuna pregressa attività lavorativa (a dispetto degli altri candidati) nel settore in esame vince la selezione. Un artifizio che, sempre secondo i pm, sarebbe avvenuto grazie a una commissione compiacente, per non urtare la suscettibilità dell’allora dg.
«Processate i commissari»
Ma proprio quell’inchiesta – denominata, non a caso, “Sistema Cosenza” – afferma come la gestione allegra dell’Asp cosentina sia stata di fatto avallata dal silenzio (nel migliore dei casi) della Regione e dei commissari. A non opporsi a tutto questo, anche Massimo Scura e il generale Saverio Cotticelli, per i quali, proprio alcuni giorni fa, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per i falsi bilanci dell’Asp.
Gli ex commissari massimo Scura e Saverio Cotticelli
Secondo l’accusa, il buco di bilancio sarebbe stato occultato, omettendo, tra le altre cose, di riportare in bilancio le cifre del contenzioso legale che, da solo, ammonta ad oltre mezzo miliardo di euro. Bilanci, secondo i magistrati, palesemente falsi e che, nonostante le irregolarità e i pareri negativi del collegio sindacale, con riferimento al triennio 2015-2017 sono stati comunque approvati dagli organi di controllo istruttorio.
Le ultime inchieste
“Sistema Cosenza” non è l’ultima inchiesta che mette nel mirino la sanità calabrese. Praticamente tutte le procure calabresi hanno fascicoli aperti di una certa rilevanza. Nel marzo del 2021, un’altra operazione ha portato all’arresto di medici e dirigenti perché responsabili di essere affiliati alla cosca Piromalli, una delle più potenti della ‘ndrangheta. Secondo l’inchiesta “Chirone”, tramite alcune aziende il potente clan di Gioia Tauro si sarebbe aggiudicato gli appalti di fornitura dell’Asp di Reggio Calabria. Uno dei dirigenti coinvolti era proprio colui che aveva il compito di valutare il fabbisogno sanitario della provincia di Reggio ai fini della fissazione dei budget.
Nicola Paris
E rischia il processo anche l’ex consigliere regionale della Calabria, Nicola Paris, eletto nel 2020 con la lista dell’Udc e arrestato nell’agosto scorso con l’accusa di corruzione. Secondo l’inchiesta “Inter Nos”, Paris avrebbe tentato di intervenire sull’allora presidente f. f. della Regione, Nino Spirlì. A che scopo? Sollecitare il rinnovo contrattuale per Giuseppe Corea, direttore del settore Gestione risorse economico-finanziarie dell’Asp. Secondo gli inquirenti, è la persona grazie alla quale le imprese vicine ai clan Serraino, Iamonte ed a quelli della Locride ottenevano gli appalti. Paris avrebbe caldeggiato la nomina di Corea nell’interesse degli imprenditori che, stando al campo di imputazione, «lo avevano sostenuto durante la campagna elettorale».
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