Categoria: Fatti

  • Lega Calabria «in gravidanza», ansia nel Carroccio per il parto di Salvini

    Lega Calabria «in gravidanza», ansia nel Carroccio per il parto di Salvini

    Più che leghisti, sono legati, praticamente immobili. Il capitano Salvini è, o è stato, alle prese con più di una guerra – quella per il Quirinale, quella interna al centrodestra, quella, personale, vinta contro il Covid, quella propagandistica sull’Ucraina – e così ha giocoforza dovuto abbandonare la compagnia calabrese nelle retrovie, a cimentarsi in piccole ma non trascurabili scaramucce interne e ad aspettare una chiamata alle armi che, assicurano i vertici locali, arriverà molto presto. Solo che nessuno sa dire quando.

    Salvini e l’attesa

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    Ciò che tutti i leghisti ripetono, da Reggio a Cosenza, è che Salvini vuol mettere mano al partito calabrese e riorganizzarlo in vista delle Politiche 2023, appuntamento che la Lega non può fallire. Il punto è che bisogna fare presto, pena una trasformazione pericolosa: da Carroccio lombardo a tipico cartoccio calabrese dentro cui rischiano di finire stracotte le ambizioni di un leader che continua a sognare una Lega nazionale, perfettamente radicata anche in Calabria, e il controsorpasso ai danni di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia.

    La «gravidanza» della Lega

    La disattenzione degli ultimi mesi dell’ex ministro dell’Interno ha infatti creato un clima insieme di nervosismo e di attesa per quello che avverrà. Nino Spirlì, leghista doc e fedelissimo di Salvini, non ama le metafore belliche e, per descrivere il momento, ne usa una pediatrica: «La Lega è in gravidanza e, come succede per tutte le gravidanze, anche questa deve essere rispettata fino al giorno del parto».

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    Matteo Salvini e Nino Spirlì

    Di più l‘ex presidente facente funzioni della Regione Calabria non dice, ma è fin troppo chiaro il suo richiamo al travaglio di un partito che aspetta una maieutica e, in definitiva, una verità da cui ripartire. Anche perché il partito è ancora commissariato. E chi bazzica un po’ gli ambienti della Lega calabrese sa bene quanto sia diffuso il malcontento, dei vertici come dei militanti, verso l’operato del capo regionale, Giacomo Francesco Saccomanno, nominato da Salvini giusto un anno fa.

    «Con lui al 4%, senza al 15%»

    L’avvocato che ha preso il posto del deputato bergamasco Cristian Invernizzi – questa l’accusa più diffusa – avrebbe fatto poco o niente per radicare la Lega nei territori e si muoverebbe sulla scena regionale e nazionale in perfetta autonomia, dunque senza un preventivo confronto con i dirigenti locali. «La sua leadership è barcollante, l’80% degli iscritti calabresi la contesta», conferma un dirigente di primo piano. Opinione non verificabile, ma che viene declinata in forme diverse da altri ufficiali del partito.

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    Giacomo Francesco Saccomanno, contestatissimo commissario della Lega in Calabria

    Uno di loro spiega tutto così: «Non abbiamo riscontri nei territori, ampie aree della regione, come quella di Cosenza, sono senza coordinamento. Saccomanno è al timone da un anno, ma ancora la riorganizzazione interna non è partita. Salvini sa tutto e riceve lamentele continue, ma per ora non si pronuncia». Un giovane quadro del partito è perfino più caustico: «Alle prossime Politiche con Saccomanno prendiamo il 4%, senza di lui arriviamo al 15%». «Tanti militanti – conferma un altro big – aspettano le prossime mosse di Salvini. Nel frattempo, tutto rimane apparentemente fermo». E in questo tempo sospeso ognuno tesse la sua tela.

    Chi vuol essere parlamentare?

    È aumentata, in particolare, l’influenza politica di Filippo Mancuso. Quasi anonimo nella scorsa legislatura, il politico catanzarese, con la benedizione di Salvini, è prima diventato presidente del Consiglio regionale, per poi essere indicato da tutto il centrodestra locale come candidato sindaco di Catanzaro.

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    Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del Consiglio regionale della Calabria

    Il rifiuto colmo di gratitudine, accompagnato da un monito da leader fatto e finito («sono lusingato, ma il centrodestra cittadino ha bisogno di essere opportunamente ripensato»), ha contribuito a far luccicare ancor di più l’aura del già assessore del capoluogo. Che, a parere di molti, tra un anno potrebbe mettere a frutto questo recente successo tentando il grande salto in Parlamento.

    Gli sfidanti interni non mancano di certo. Il primo è lo stesso Saccomanno, a cui non difetta la convinzione di restare al vertice della Lega almeno fino al momento decisivo della compilazione delle liste per Camera e Senato.
    Della partita è, ovviamente, anche l’unico uscente, il lametino Domenico Furgiuele, uno dei primi, in Calabria, a credere nella svolta sovranista di Salvini. Tra i favoriti c’è anche e soprattutto Spirlì, che avrebbe dovuto far parte dell’ormai famigerato ticket con il governatore Occhiuto.

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    Domenico Furgiuele

    Il naufragio di questo accordo, secondo diversi osservatori, lo avrebbe messo in una situazione di credito verso il partito. Del resto, era stato lo stesso Salvini a promettergli pubblicamente «un ruolo determinante sia a livello calabrese che nazionale». Spirlì, dal canto suo, a chi ha avuto modo di parlargli assicura che adesso le sue priorità sono altre dalla politica, e cioè l’arte e la Fondazione Musaba di Mammola, di cui è da poco diventato vicepresidente.

    Chi resterebbe in Calabria

    Chi non sembra interessato al trasferimento nella capitale è il sub commissario regionale Cataldo Calabretta. I bene informati assicurano che il numero uno di Sorical – nonostante i rapporti privilegiati con Salvini – non abbia alcuna intenzione di lasciare la società delle risorse idriche calabresi prima della sua definitiva trasformazione in ente a totale controllo pubblico. Impresa tutt’altro che facile.

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    Salvini e Cataldo Calabretta

    Discorso a parte merita Tilde Minasi, che nelle ultime settimane ha messo in mostra qualità tattiche per certi versi inedite. La sua storia è nota: l’assessore regionale, dopo la morte del veneto Paolo Saviane, ha ottenuto un seggio in Senato. Pare che, in accordo con Salvini, abbia infine deciso di restare in Calabria, lasciando così campo libero al vibonese Fausto De Angelis, il quale avrebbe già concordato con i vertici leghisti il suo addio a Fratelli d’Italia e la contestuale adesione al Carroccio.
    Quello di Minasi potrebbe non essere un addio: qualcuno ritiene che, al momento giusto, tornerà in gioco per un posto in Parlamento. I motivi sono almeno due: ha la stima incondizionata di Salvini e, considerato l’obbligo delle quote rosa, è una delle poche leghiste calabresi con una lunga esperienza istituzionale alle spalle.

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    Salvini e Tilde Minasi a spasso

    Salvini prende tempo, gli ufficiali fremono

    Gli ufficiali verdi rimasti nelle retrovie, insomma, fremono come foglie al vento e contano di ricevere ordini nel breve periodo. Salvini, di recente, avrebbe preso tempo e comunicato l’intenzione di convocare un vertice sulla Calabria, al massimo tra un paio di settimane. Probabilissimo ordine del giorno: riorganizzazione interna e candidature. Accontentare tutta la truppa non sarà per niente facile.

  • Coronavirus Calabria oggi (2 marzo): 1.566 nuovi casi

    Coronavirus Calabria oggi (2 marzo): 1.566 nuovi casi

    Il Coronavirus in Calabria oggi (2 marzo) fa registrare 1.566 nuovi contagi rispetto a ieri. I tamponi effettuati sono stati 10.057. Il tasso di positività è del 15,57%.
    Questi sono i dati giornalieri relativi alla pandemia da Covid-19 comunicati dalle Asp di Catanzaro, Cosenza, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia alla Regione e riportati nel bollettino quotidiano della Cittadella.

    Territorialmente, dall’inizio dell’epidemia, i casi positivi sono così distribuiti:

      • Catanzaro: CASI ATTIVI 4.378 (54 in reparto, 5 in terapia intensiva, 4.319 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 24.436 (24.208 guariti, 228 deceduti).
      • Cosenza: CASI ATTIVI 12.932 (96 in reparto, 4 in terapia intensiva, 12.832 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 34.811 (33.913 guariti, 898 deceduti).
      • Crotone: CASI ATTIVI 3.236 (27 in reparto, 0 in terapia intensiva, 3.209 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 19.094 (18.910 guariti, 184 deceduti).
      • Reggio Calabria: CASI ATTIVI 12.766 (90 in reparto, 8 in terapia intensiva, 12.668 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 79.526 (78.895 guariti, 631 deceduti).
      • Vibo Valentia: CASI ATTIVI 12.624 (9 in reparto, 0 in terapia intensiva, 12.615 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 13.743 (13.590 guariti, 153 deceduti).

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    L’Asp di Cosenza comunica che oggi si registrano 543 nuovi casi; il numero complessivo dei casi è incrementato di 542 unità anziché di 543 unità in quanto un paziente è stato trasferito dalla terapia intensiva dell’AO di Cosenza a quella dell’Ao Mater Domini. Inoltre comunica 4 nuovi casi nel setting fuori regione.

    L’Asp di Catanzaro comunica 57 nuovi soggetti positivi di cui 4 nel setting fuori regione.

  • Guccione, il Parlamento può attendere? Tanto c’è il vitalizio

    Guccione, il Parlamento può attendere? Tanto c’è il vitalizio

    C’è marasma nel Pd cosentino, unica federazione provinciale a non aver ancora celebrato i congressi e unica dove il forzato e imposto “unanimismo” generale non ha attecchito. Già in precedenza lo scorso novembre si sfiorò la rissa tra l’assessore comunale della città bruzia Damiano Covelli e il presidente della commissione per il tesseramento Italo Reale. Nei confronti di quest’ultimo l’ex vicepresidente della Regione Nicola Adamo ha sbraitato «sei a Cosenza, non a Sambiase!», causando svariate polemiche social in quel di Lamezia Terme, città dove l’avvocato Reale (vicino ad Amalia Bruni, che si ostina ad autoincensarsi come leader dell’opposizione) è riuscito a “piazzare” come segretario cittadino Gennarino Masi, con buona pace dei Giovani Democratici guidati da Dario Rocca che han presentato più di un ricorso sul punto.

    Guccione, il Parlamento e l’incubo quote rosa

    Tornando in quel di Cosenza, è chiaro che la posta in gioco è quella da capolista alle prossime elezioni politiche, dove al taglio dei parlamentari corrisponde parallelamente il taglio delle aspirazioni di più d’un notabile locale. E se al Senato si vocifera che la partita sia chiusa con il segretario regionale Nicola Irto in testa pronto a dire “bye bye” a Palazzo Campanella, è chiaro che per la Camera dei deputati sarà Cosenza a battere i pugni.
    Ragionando con la legge elettorale vigente, però, se al Senato il capolista è uomo, alla Camera toccherà a una donna.

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    Il santino elettorale di Maria Locanto alle Politiche del 2018

    Forse proprio a quella Maria Locanto (già candidata alle politiche del 2013 con Scelta Civica di Mario Monti e nel 2018 con Civica Popolare di Beatrice Lorenzin) che Francesco Boccia vorrebbe a tutti i costi segretaria provinciale (difficilmente l’uscente Enza Bruno Bossio starà a guardare).
    Nel caos generale, l’ex consigliere regionale e anti-oliveriano di ferro Carlo Guccione col sogno di fare il parlamentare dopo una vita passata in politica, dallo scorso primo novembre incassa un lauto vitalizio, somma che si aggiungerà al suo stipendio mensile da dipendente regionale.

    Oltre 3.000 euro a vita per una legislatura

    La determina 713 del 4 novembre 2021, a firma del dirigente regionale delle risorse umane Antonio Cortellaro, liquida a favore di Guccione un vitalizio di 3.161,30 mensili lordi per il mandato di Consigliere regionale svolto nella IX legislatura, ossia dal 2010 al 2014. Il mandato da consigliere nella legislatura dell’era Oliverio, dal 2014 al 2020 in aggiunta all’anno di legislatura dell’era Santelli 2020-2021, gli “frutterà” invece una pensione differita con metodo contributivo tra qualche anno.

    Nelle more percepirà cifre molto lontane dai 145.642 euro degli eletti a Palazzo Campanella. Parliamo di 22.903 euro l’anno come dipendente regionale di categoria C (istruttore amministrativo), con indennità di struttura (da 10.730 euro annui) a seguito della nomina come componente interno nella struttura di Franco Iacucci, del quale Guccione è stato grande sponsor elettorale.

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    Carlo Guccione e Nicola Adamo nella segreteria di Franco Iacucci durante le ultime elezioni regionali (foto A. Bombini) – I Calabresi

    La carriera da portaborse

    Guccione è diventato dipendente regionale grazie al concorso indetto con la legge regionale 25 del 2002, chiamata nella vulgata “legge parenti”. Una selezione che portò ad essere assunti in pianta stabile parenti e storici portaborse (ben 86!) in Regione.
    Dall’8 giugno del 2005 Carlo Guccione è stato assegnato alla struttura speciale dell’allora capogruppo dei Democratici di Sinistra Franco Pacenza, nello stesso periodo in cui il futuro antioliveriano era segretario regionale degli stessi Ds e componente della direzione nazionale.
    Dal gennaio 2008, invece, è diventato responsabile amministrativo del nuovo capogruppo regionale dei Ds, Nicola Adamo, poco prima di diventare, con la mozione di Pierluigi Bersani, segretario regionale del Pd Calabria e poi iniziare la carriera decennale da Consigliere regionale per poi retrocedere a portaborse (probabilmente in “servizio esterno”, dato che non si vede né a Catanzaro né a Reggio Calabria) dell’ex presidente della Provincia di Cosenza, Franco Iacucci.

    Il sacrificio sull’altare di Tansi e il sogno del Parlamento

    Alle ultime elezioni regionali Carlo Guccione non si è ricandidato. Da molti il passo indietro è stato visto come un “sacrificio” in virtù del codice etico di coalizione «fortissimamente voluto» (così amava ripetere) da Carlo Tansi che imponeva lo stop per chi avesse già svolto tre legislature.
    «Guccione continuerà a portare avanti con un ruolo politico nazionale nel Pd. Il suo impegno di rinnovamento del partito è stato un punto fermo sin dalla sua prima candidatura» dichiarò subito Francesco Boccia. Gli fece seguito l’ormai ex commissario regionale Stefano Graziano «Guccione con il suo impegno sul programma per la Calabria sarà un punto di riferimento nel suo nuovo ruolo politico nazionale che il segretario Letta gli assegnerà».

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    L’Orlando disamorato

    Lo stesso Enrico Letta, però, che Guccione in segreteria nazionale non lo ha più voluto. Durante la segreteria di Nicola Zingaretti il cosentino aveva incassato, sotto l’auge di Andrea Orlando, l’incarico di responsabile nazionale del dipartimento “crisi industriali” del Pd. Quella casella poi, però, se l’è accaparrata il toscano Valerio Fabiani, probabilmente più orlandiano di lui.
    L’incarico arrivato a gennaio come “responsabile Pd sanità nel mezzogiorno” sa di contentino. Ricorda quello dato a Francesco Cannizzaro dopo la mancata nomina a coordinatore regionale di Forza Italia. E oggi, con Nicola Irto già proiettato su Roma e l’eterno incubo quote rosa, per Carlo Guccione pare che il sogno del Parlamento sia letteralmente sfumato.

  • Ucraina e Russia: le comunità della Calabria tra paure e voglia di pace

    Ucraina e Russia: le comunità della Calabria tra paure e voglia di pace

    «Purtroppo sentiamo le bombe, perché qui siamo a circa 200 chilometri da Kiev». Padre Cirillo parla in maniera pacata, ma la voce tradisce l’emozione del testimone oculare di una grande tragedia: il primo atto militare su grande scala della Russia in territorio europeo dai tempi dell’invasione di Praga.

    Padre Cirillo è un testimone prezioso per più motivi. Innanzitutto, perché proviene da Vinnycja, una cittadina a sudovest dell’Ucraina, non troppo distante dal confine e quindi particolarmente interessata dai flussi dei profughi, che la attraversano come una fiumana incessante. Il video che vedete poche righe più su è girato dalla sua finestra, quello alla fine del paragrafo mostra come si passa la notte da quelle parti.

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    Padre Cirillo

    In seconda battuta, la testimonianza di padre Cirillo ha il valore dell’assoluta imparzialità del religioso, che mette da parte le questioni politiche e aspira soltanto alla pace.
    Infine, Padre Cirillo è una persona che vive a cavallo tra due paesi, l’Ucraina – dov’è nato e dove si trova da dicembre per assistere la madre ammalata – e l’Italia. Anzi, la Calabria, visto che il religioso fa parte dei minimi di San Francesco di Paola.

    Testimone dall’Ucraina

    Proprio grazie a questo ruolo, il padre minimo raccoglie le preoccupazioni dei suoi connazionali in Calabria e dei loro parenti rimasti in patria a subire o a fronteggiare l’invasione russa. Cerca di rassicurare tutti, con un racconto imparziale.
    «Le persone hanno iniziato ad andar via anche da qui, ora che sono iniziati i bombardamenti». Certo, la situazione non è paragonabile a quel che succede nei centri più grandi e nella capitale, ma ormai anche le province sono a rischio. «Molti passano la notte nei sotterranei e tutti facciamo i conti con le carenze nelle forniture idriche ed elettriche». E ancora: «Finora Vinnycja è stata risparmiata, ma non escludo che a breve potremmo subire anche noi l’occupazione militare». Con rischi che salirebbero alle stelle per tutti, specie se dalle operazioni “convenzionali” si dovesse passare alle tattiche, ben più sanguinose, della guerriglia.

    Il racconto di Inna

    Inna Stets vive a Cosenza da oltre dieci anni ed è una pittrice molto apprezzata. È originaria di Khmelnistkiy, una città turistica vicina a Vinnycja, dove ha lasciato la maggior parte dei suoi parenti. A partire dal fratello e dai nipoti.
    La sua testimonianza è meno imparziale di quella di padre Cirillo. Tuttavia, Inna non considera i russi dei nemici. Anzi: «Non sarebbe giusto far pagare a tutto il popolo russo le responsabilità della politica di Putin, perché loro sono vittime come noi». Sia nella loro madrepatria sia in Ucraina, dove la situazione “etnica” è più complessa di come la raccontano i nostri media e, soprattutto, di come filtra dalle propagande contrapposte. «Noi e i russi siamo popoli fratelli, perché ci sono molte famiglie miste: io stessa ho cugini di origine russa che parlano il russo normalmente e ho paura anche per loro».

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    Inna Stets

    Già: non si può mai sapere a quali conseguenze può portare la spirale dell’odio attivata «per semplici motivi di potere e di avidità». L’accusa a Putin («è un dittatore») è scontata. Molto meno la preoccupazione umanitaria per il popolo “fratello”: «Vedere tutti quei ragazzi mandati a combattere, e a morire, nel mio paese mi ha stretto il cuore. Ognuno di loro ha delle madri, delle mogli, dei figli che tremano per loro e forse li piangeranno come in molti facciamo per i nostri». E i calabresi? «Ho avvertito molta solidarietà e vicinanza dai cosentini, che fanno il possibile per aiutare la nostra comunità in questo momento difficile».
    Più particolare il rapporto coi russi che vivono a Cosenza: «Ho varie amiche russe, con le quali non ho mai avuto motivi di lite. Ma ora registro il loro silenzio e la loro assenza: alla manifestazione per la pace che si è svolta a Cosenza non ne ho vista nessuna».

    Russia e Ucraina, due comunità a confronto

    Quella ucraina è la comunità di stranieri residenti dell’Est europeo più numerosa, in Calabria. In tutto, sono 5.720, con una maggioranza schiacciante di donne (4.304). La concentrazione maggiore è nella provincia di Cosenza, dove le donne sono 1.349 e gli uomini 435.
    Decisamente minore la comunità russa, che conta 1.017 residenti in tutta la regione, con un rapporto tra donne e uomini ancora più sbilanciato: 852 contro 165. A Cosenza sono 468 (389 donne e 79 uomini).
    I loro riferimenti in città sono innanzitutto religiosi: gli ucraini si ritrovano attorno alla chiesa di San Nicola, dove seguono le funzioni religiose prevalentemente in rito greco bizantino; i russi, invece, nella chiesetta vicina a Loreto, dove seguono la liturgia ortodossa.

    Katia e il nazionalismo

    Katia Nykolyn, originaria di Leopoli, è tra le animatrici di un gruppo di attivisti che, in collaborazione con la Caritas Migrantes e con la Croce Rossa, raccoglie beni di prima necessità, medicine e soldi da inviare ai familiari rimasti in patria.
    L’ultima spedizione è stata piuttosto importante: oltre trenta pacchi, più 1.200 euro, raccolti tra connazionali ma soprattutto tra i cosentini. «Ho ricevuto tantissime telefonate dai calabresi, che sono riusciti a commuovermi». Ma la solidarietà non riesce a calmare la preoccupazione: «A Leopoli ci sono mio figlio Bogdan, mia nuora e la mia nipotina di sei anni». Nei confronti dei russi Katia esprime perplessità analoghe a quelle di Inna: «Ho varie amiche russe, ma sono letteralmente sparite da quando è iniziata la guerra».

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    Katya Nikolin

    Anche Katia non polemizza contro il popolo “fratello” ma limita i suoi strali a Putin e al suo establishment: «Hanno lanciato un seme di odio tra due popoli che vogliono solo stare in pace e hanno creato divisioni che non avevano più motivo». Katia, inoltre, racconta le emozioni contrastanti – ed estreme – dei suoi compatrioti: «Il popolo è pronto a difendersi anche a mani nude». E su queste emozioni pesa non poco la memoria sovietica: «Nell’Urss eravamo un popolo di serie b, la nostra lingua non aveva un valore e le nostre tradizioni erano represse». Ora, si chiede Katia, «è nazionalismo voler praticare le nostre tradizioni e parlare la nostra lingua in casa propria, senza controlli e censure? O dobbiamo chiedere il permesso al signor Putin?».

    La parola ai russi

    Tuttavia, non è corretto dire che i russi tacciono o, come sospettano gli ucraini, sotto sotto sono putiniani. Più semplicemente, non parlano di politica, forse perché temono che le critiche rivolte alo zar Vladimir si ritorcano contro di loro.
    Non parla di politica ma si limita a invocare la pace, Elena Semina, presidente di un’associazione molto attiva nel periodo pre pandemia nella promozione della cultura russa.

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    Elena Semina

    «Ricordo con molta nostalgia le iniziative che abbiamo promosso, a cui hanno partecipato molti italiani e molti amici dell’est Europa, ucraini compresi».
    Ora, invece «siamo piombati in un clima surreale di sofferenze e di odi. Ma la guerra non ha vincitori né vinti, solo vittime». Elena non fa il tifo per nessuno ma spera che «si arrivi a una soluzione che riporti pace e dignità a tutti».
    Un obiettivo minimo, che forse adesso sembra utopico.

    Un inquietante last minute

    La situazione resta fluida, sebbene i primi negoziati lascino intravedere qualche spiraglio. Logico, allora, cercare di saperne di più. Ma gli ulteriori tentativi di contatto con padre Cirillo in Ucraina sono inutili: «Non posso parlare, scusami, c’è la censura militare».
    Quanto dobbiamo preoccuparci?

  • Fratelli d’Italia, meno di Calabria: la decrescita infelice dei meloniani

    Fratelli d’Italia, meno di Calabria: la decrescita infelice dei meloniani

    Fratelli d’Italia è il primo partito d’Italia o il secondo, dipende dai giorni e dai sondaggi. Le rilevazioni più recenti lo danno attorno al 20%, dietro al Pd di circa un punto percentuale. Il dato consolidato è un altro: alla creatura di Giorgia Meloni è definitivamente riuscito il sorpasso sulla Lega (17%), in calo costante dopo la decisione di Matteo Salvini di entrare nel Governo di salvezza nazionale di Mario Draghi.

    Ma se Fdi è ormai il partito guida del centrodestra – con la sua leader che sogna di diventare premier –, in Calabria arranca vistosamente, al punto di essere una sorta di junior partner non solo del Carroccio, ma soprattutto di una Forza Italia che, pur viaggiando intorno all’8% in Italia, tra il Pollino e lo Stretto sembra rivivere i fasti del 1994.

    Fratelli d’Italia cresce ovunque, tranne in Calabria

    L’exploit del partito berlusconiano, capace, assieme alla lista satellite “Forza azzurri”, di sfiorare il 26% alle ultime elezioni regionali e di esprimere gli ultimi due presidenti di Regione, Jole Santelli e Roberto Occhiuto, è un’anomalia che si può spiegare con la propensione della Calabria ad andare sempre in direzione ostinata e contraria.
    Tendenza che vale anche per Fratelli d’Italia.

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    Wanda Ferro, leader di FdI in Calabria, deve indicare alla coalizione di centrodestra il candidato a sindaco di Catanzaro

    Ancora una volta, a parlare sono i dati: lo scorso ottobre, i fratellisti, con l’8,7% delle preferenze, sono sì riusciti ad arrivare secondi dietro Fi e a staccare, seppur di uno zero virgola, la Lega, ma hanno perso due punti percentuali rispetto alle Regionali del 2020. Insomma, quello di Meloni è un partito che in Calabria, a differenza di quanto succede nel Paese, sta decrescendo. I motivi principali potrebbero essere due: un voluto disinteresse frammisto a una mania del controllo da parte dei vertici romani e un’organizzazione abbastanza approssimativa del partito regionale.

    Le inchieste e il disamore di Giorgia Meloni

    In ambienti di centrodestra si dice che il probabile disamore verso la Calabria di Giorgia Meloni potrebbe essere iniziato tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, quando due distinte operazioni antindrangheta finiscono per coinvolgere personaggi di primo piano del partito.
    Prima tocca a Giancarlo Pittelli, inizialmente arrestato con l’accusa associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta Rinascita Scott della Dda di Catanzaro. L’imbarazzo della leader di Fdi è enorme perché, nelle ore successive alla mega operazione, esce fuori un suo tweet del 2017 in cui dava il benvenuto nel partito all’ex parlamentare, definito «un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia».

    Nemmeno il tempo di riprendersi dalla botta mediatica-giudiziaria, che un’altra tempesta si abbatte su Fdi, stavolta nel Reggino: un mese dopo le elezioni del 2020, viene spedito ai domiciliari il neo consigliere regionale Domenico Creazzo, accusato di aver ottenuto i voti della cosca Alvaro di Sinopoli. Per Meloni è un’altra batosta che rischia di offuscare l’immagine di un partito che in quel momento ha preso l’abbrivio tanto ricercato; una pubblicità pessima e per di più evitabile, dato che l’allora sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte era transitato in Fdi da poche settimane, dopo essere stato per molto tempo un esponente del Pd.

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    Domenico Creazzo

    Raccontano che, dopo i due arresti eccellenti, l’ex ministro dei governi Berlusconi non abbia più guardato questa regione con gli stessi occhi. E che ne abbia in qualche modo preso le distanze, disponendo al contempo un controllo ferreo sull’intero gruppo calabrese per evitare altri guai o imbarazzi.

    Fratelli d’Italia sotto la tutela di Wandissima

    Tant’è che il partito ancora oggi si trova sotto la tutela della commissaria Wanda Ferro, la persona di maggior fiducia di Meloni a queste latitudini. I risultati, in termini politici ed elettorali, sono però tutt’altro che entusiasmanti, perché al disallineamento dei dati calabresi si aggiungono pure i problemi di autorevolezza di una forza politica che non sembra avere un ruolo attivo nei processi decisionali, in Regione come nelle altre realtà locali. «Inutile negarlo, abbiamo un peso politico minimo se confrontato non solo con quello di Fi, ma anche in relazione alla Lega, che è arrivata terza ma ha strappato posti di comando più prestigiosi dei nostri», confessa un colonnello del Cosentino.

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    Giorgia Meloni e Wanda Ferro

    Il riferimento è al manuale Cencelli usato da Occhiuto per Giunta e Consiglio regionale. Saltato il ticket con Nino Spirlì, a cui sarebbe dovuta andare la vicepresidenza, Salvini ha comunque guadagnato la seconda carica regionale, cioè la presidenza del Consiglio, andata a Filippo Mancuso. A Fratelli d’Italia sono invece toccati solo due assessorati: uno, rilevante, a Fausto Orsomarso (Turismo, marketing e Mobilità), l’altro, decisamente meno ambito, a Filippo Pietropaolo (Organizzazione della burocrazia regionale). Un assessorato, quest’ultimo, «che poteva avere un valore nella Calabria degli anni ’80, non certo ora», riflette un dirigente del Catanzarese, uno di quelli – e sarebbero tanti – che in provincia non hanno affatto gradito la scelta di Ferro.

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    Filippo Pietropaolo, neo assessore regionale nonostante la sconfitta elettorale

    Il caso Pietropaolo

    Pietropaolo, candidato nella circoscrizione Centro, ha infatti fallito l’appuntamento elettorale (4.498 voti), surclassato da Antonio Montuoro (5.241), ma è comunque riuscito a entrare in Giunta, grazie proprio alla spinta decisiva della commissaria regionale. Una mossa che ha scosso e indignato buona parte del partito. «Da noi i dirigenti premiati dagli elettori devono farsi da parte per permettere a Wanda di continuare a dettare legge», spiega con un filo di rancore un esponente di primo piano dei meloniani.

    Tra i delusi non c’è solo Montuoro. Ferro non ha tenuto in considerazione nemmeno le performance elettorali di Luciana De Francescoerede politica della famiglia Morrone – e di Peppe Neri. Entrambi si sono dovuti accontentare di ruoli di secondo piano: rispettivamente, la presidenza della commissione Affari istituzionali e la guida del gruppo in assemblea.

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    Luciana De Francesco

    La delusione di Neri

    Tra i due consiglieri, è soprattutto Neri a masticare amaro, considerato che, nelle ultime due elezioni, ha fatto il pieno di voti senza mai essere indicato per un posto nell’esecutivo. Segno che il suo peso politico, all’interno del partito, è pari allo zero. Secondo i bene informati, il capogruppo reggino – che ha un passato nel centrosinistra di Oliverio e che viene ancora percepito da molti fratellisti come un corpo estraneo – sarebbe stato in corsa fino all’ultimo per la poltrona più alta dell’assemblea regionale, prima di essere affondato dal fuoco amico, cioè dal «no» perentorio dei vertici di Fdi, per la gioia di Mancuso e di un partito alleato ma pur sempre avversario.

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    Giuseppe Neri

    Così come Orsomarso, a caccia di una rivincita dopo aver mancato di un soffio l’elezione alla Camera nel 2018, anche Neri potrebbe tentare il salto in Parlamento alle prossime Politiche. Ma con ogni probabilità dovrà fare i conti con Ferro, una commissaria che non pare troppo amata dai suoi colonnelli. Questi malumori generalizzati sarebbero stati comunicati da tempo a Roma, ma né Meloni né il responsabile dell’organizzazione interna, Giovanni Donzelli, sembrano intenzionati, almeno per il momento, a sostituire la Wandissima calabrese. I problemi interni, però, restano e potrebbero esplodere nei prossimi appuntamenti elettorali.

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    Fausto Orsomarso contava di raggiungere Giorgia Meloni in Parlamento

    La kingmaker senza nomi

    L’operato di Ferro non sta entusiasmando neppure a Catanzaro. La commissaria ha rivendicato da tempo il ruolo di kingmaker nella scelta del prossimo candidato sindaco, che da accordi nel centrodestra spetta proprio a Fdi; eppure, dopo un’attesa di mesi, gli alleati aspettano ancora che faccia un nome. Ad approfittare di questa esitazione è stata ancora una volta Fi, per cui è da tempo schierato il giovane Marco Polimeni.

    Lo stesso Mancuso, nel corso dell’ultimo vertice del centrodestra, è stato indicato in modo compatto come candidato sindaco, ma ha infine declinato l’offerta anche perché la sua eventuale elezione rimetterebbe in discussione gli attuali assetti istituzionali in Regione.

    Filippo Mancuso (Lega) è il presidente del Consiglio regionale della Calabria

    Ferro, dal canto suo, ha avuto il suo bel da fare per allontanare da sé più di un sospetto. Diversi esponenti del centrodestra catanzarese sono convinti che la deputata meloniana lavori sottotraccia per il suo avvocato, quel Valerio Donato iscritto al Pd e candidato sindaco alla testa di un costruendo polo civico.

    «Fdi – ammette un quadro del partito – è alle prese con molte fibrillazioni interne che ne limitano la crescita. Ecco perché non andiamo bene come nel resto del Paese. Questa crisi può rientrare, a patto che si cambi rotta al più presto».
    Chissà cosa ne pensa Wanda.

  • Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Verdi colline di rifiuti in attesa di bonifica a Scalea

    Al di là delle polemiche, dei blitz ambientalisti, delle risposte da parte del sindaco, il problema della discarica di Scalea esiste e pesa quanto un macigno. E’ inutile nasconderselo, il sito della discarica a Piano dell’Acqua andava bonificato e da anni.  Invece è rimasto lì come se non esistesse. Il blitz di Carlo Tansi, geologo e presidente di Tesoro Calabria, assieme agli ambientalisti del Tirreno, una settimana fa ha riportato a galla la questione.

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    Il geologo Carlo Tansi, leader del movimento “Tesoro di Calabria”

    La Procura chiude la discarica

    Era il 2013 quando la Procura di Paola chiuse la discarica. Tutti i rifiuti esistenti vennero raggruppati con ruspe e sepolti da tonnellate di terreno costituendo così delle verdi collinette oltre che finire in profonde buche. Cosa c’è in quelle collinette di Scalea forse non lo sapremo mai. Intanto quella discarica non doveva essere costruita in quel luogo al centro di tanti villaggi turistici. Si trova a poche centinaia di metri dall’ospedale, ora sede del Sert e di alcuni uffici dell’Asl e adiacente a diversi terreni ad uso agricolo.

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    La strada che conduce alla discarica ormai chiusa di Scalea

    Lo scempio ambientale a Scalea

    Un sito che sovrasta la cittadina tirrenica e sorvolato ancora oggi da centinaia di gabbiani in cerca di cibo. Dove passano falde acquifere e partivano ruscelli di percolato che raggiungevano le spiagge davanti alla Torre Talao. Uno scempio ambientale sotto tutti i punti vista, non valutato da chi ha dato le concessioni alla fine degli anni 90. Poi, agli inizi degli anni 2000 ecco fioccare le prime denunce da parte degli ambientalisti e le proteste di commercianti e cittadini sfociate in una manifestazione che ha sfilato per le vie di Scalea.

    Nel 2013 la chiusura definitiva, senza che nessuno ne pagasse le conseguenze. Un omicidio ambientale senza colpevoli. Poi ecco l’arrivo da parte della Regione Calabria di un finanziamento per la bonifica di circa 3 milioni di euro. L’attuale sindaco Perrotta dice di volerlo utilizzare al più presto.

    I siti pericolosi e le bonifiche mancate

    Resta aperta in tutto il Tirreno cosentino così come nel resto della regione la questione delle bonifiche mancate. Il piano regionale delle bonifiche risale al 2002 ( ordinanza del commissario n.1771 del 26.02.2002) e come riportato da un successivo piano in Calabria esistono 48 siti che necessitano di una bonifica; 20 ricadono in provincia di Cosenza, 2 ricadono in provincia di Crotone, 5 ricadono in provincia di Catanzaro, 5 ricadono in provincia di Vibo Valentia e 16 ricadono in provincia di Reggio Calabria.

    Ma molti altri siti non ricadono in questo elenco. Nei 409 comuni calabresi vennero censiti 696 siti di discarica potenzialmente contaminati da rifiuti, dei quali 354 attivati con autorizzazione regionale o ai sensi del DPR 915/1982 e i restanti 342 in assenza di autorizzazione. Secondo la classificazione del rischio relativo, i siti potenzialmente contaminati sono stati così suddivisi: 73 siti a rischio marginale, 262 a rischio basso, 261 a rischio medio e 40 ad alto rischio.

    Oltre 5 milioni dal Pnrr per le bonifiche

    Forse per avere un piano completo dei siti contaminati aggiornato e delle bonifiche da fare, (ma chi lo farà se manca la figura dell’assessore all’Ambiente all’interno della giunta regionale?), bisognerà attendere l’arrivo del fondi del Pnrr, fra i quali dovrebbero esserci 5.443.128 euro espressamente per le bonifiche di alcune superfici. Lo chiarisce il deputato calabrese del Movimento 5 Stelle Alessandro Melicchio, che indica anche le aree che saranno interessate dal processo di bonifica.

    «Sono previsti – ha detto – interventi a Celico per l’ex discarica di località Tufiero e a Buonvicino per l’ex discarica di località Fossato, in provincia di Catanzaro a Lamezia Terme in località Scordovillo e nella città metropolitana di Reggio Calabria a Siderno presso la Fiumara Novito». Intanto i cittadini si chiedono quanto tempo si dovrà attendere per le altre bonifiche.

    Terreni e fiumi inquinati

    Altra situazione da monitorare con attenzione è quella del fiume Noce a Tortora inquinato dall’impianto di san Sago. Qui sono stati accertati dai carabinieri importanti sversamenti  di percolato. Ciò nonostante è in corso, da parte dei gestori dell’impianto, presso la Regione Calabria una richiesta per la riapertura dell’impianto.

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    L”ingresso della fabbrica della Marlane

    Un sito altamente inquinato è il fiume Oliva ad Amantea. Qui sono stati sotterrati dagli anni 90 in poi oltre 100 mila metri cubi di rifiuti di ogni tipo. Nessuno dimentica l’oscura vicenda della Motonave Jolly Rosso spiaggiata nei pressi della sua foce nel lontano 1990. Infine restano i terreni della Marlane a Praia a Mare, che rischiano di essere “tombati” se venisse approvato il progetto di una grande struttura alberghiera, con annesso centro commerciale.

    Non mancano testimonianze rispetto a quanto avvenuto nel sito della Marlane. Come quella di Francesco De Palma, poi morto di tumore. La sua posizione, così come quella di altri lavoratori, non è mai stata presa in considerazione nei processi a Paola e a Catanzaro sui 110 operai morti in quella fabbrica. A Paola i 12 imputati vennero tutti assolti. Oggi è in corso un nuovo processo dopo i recenti rilievi su quei terreni.

     

     

     

  • Quer pasticciaccio brutto di via Roma

    Quer pasticciaccio brutto di via Roma

    Comunque vada a finire, dello scontro sulla riapertura di via Roma in Misasi a Cosenza la vera vittima, più che bambini, residenti o commercianti, rischia di essere il senso del ridicolo. Resteranno agli annali i dettagli più coloriti, a partire da quelli – colorati – dei cartelli affissi alle recinzioni del cantiere dai soldatini in trincea per difendersi dal ritorno dalle auto promesso da Franz Caruso già in campagna elettorale. Quei «Sindaco pelato», la versione petalosa (pelatosa?) del più goliardico nomignolo Cap’i lampadina toccato in sorte a un suo recente predecessore in altri tempi, e qualche parolaccia extra – in cui si avverte l’improvvido zampino di qualche meno maturo ma più adulto suggeritore – sarebbero da liquidare con un sorriso.

    Scontri di piazzetta a via Roma

    Certo, i bambini le parolacce è meglio le evitino finché possono. Ma da qui ai comunicati ufficiali di qualche consigliere comunale per censurare l’episodio ce ne corre. Eppure è successo. Così come è successo che il sindaco socialista e di vedute storicamente ampie quanto la sua calvizie abbia chiesto la rimozione del dirigente scolastico Massimo Ciglio, reo di aver profanato il cantiere ancora inattivo per una simbolica difesa della piazzetta della discordia.

    Massimo Ciglio, megafono in mano, all’interno del cantiere

    La piega presa dalla disfida tra il preside barricadero, volto storico della sinistra cosentina, e il primo cittadino ricorda un po’ la Prima repubblica. Solo che i comunisti che mangiavano i bambini ora li vogliono addirittura far correre in libertà indurendone la carne. Mentre i socialisti, gaudenti per antonomasia della gauche italiana di un tempo, oppongono al divertimento il ritorno di un più austero cemento. Grande è la confusione sotto il cielo.

    Lo scivolone di Caruso

    Sorgerà il sol dell’avvenire riaprendo quei pochi metri di via Roma o tramonterà? O, ancora, forse le nuvole che lo hanno sempre coperto resteranno i bipartisan genitori fraccomodi che nel trafficatissimo orario di uscita delle scuole si piazzano beati in terza fila pur di evitare quattro passi in più con i diletti pargoli? Giusto nel frattempo lamentarsi dello scivolone di Caruso, come hanno fatto i docenti della scuola solidali col dirigente e molti cittadini che magari lo hanno pure votato perché via Roma la vorrebbero riaperta. O perché erano stufi delle accuse di lesa maestà con cui Palazzo dei Bruzi ha respinto negli scorsi dieci anni ogni critica e si sperava divenissero un ricordo.

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    Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto A. Bombini) – I Calabresi

    A gongolare probabilmente è proprio il sindaco uscente Mario Occhiuto, artefice della piazzetta, che, dopo aver incassato nei giorni scorsi l’assoluzione da un corposo danno erariale attribuitogli, ora si starà godendo gli avversari di un tempo che prendono le parti di una sua creatura. E con una passione che negli anni scorsi non si è vista nell’invocare il ripristino dell’agibilità nella palestra della stessa scuola ribelle.

    Con quello forse, non ci sarebbero state le polemiche sulla piazza (o la piazza stessa), quelle sul perché non ne abbiano fatte altrettante davanti alle scuole di quartieri meno nobili, le gonfiatissime rappresentazioni del neonato spazio come un irrinunciabile paradiso pedonale dei piccoli eternamente gremito, il contraltare anacronistico degli adoratori tout court della dea Automobile.

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    Auto incolonnate in prossimità delle scuole su via Misasi

    Le critiche da opposizione e… opposizione

    Gongola pure l’opposizione ufficiale, che finora non aveva brillato per vigore e ha trovato una bella onda da cavalcare con facilità. E dispensa battutine al vetriolo qua e là anche quella dell’ultima ora (?): Bianca Rende, dopo essere stata in maggioranza solo nel relativo gruppo WhatsApp dalle elezioni ad oggi, è ormai ufficialmente in rotta col vincitore del ballottaggio che lei stessa aveva supportato in quella occasione.

    Logica vorrebbe che lo fosse anche con il M5S. Che la voleva sindaca al primo turno, eppure si tiene la sua casella nella giunta Caruso come se l’addio della leader di coalizione non lo riguardasse neanche di striscio. Anche qui c’entra Roma forse, anche se non la via. Ma fa sorridere altrettanto.

  • “L’autogestione” dei bimbi: a scuola senza banchi, voti e campanella

    “L’autogestione” dei bimbi: a scuola senza banchi, voti e campanella

    Nina sta saltando con i piedi scalzi nella pozzanghera. Mael guarda sul fondo alla ricerca di pesci e creature misteriose che, talvolta, emergono dal fango. Il fatto che stia per piovere e che oggi ci sia un vento freddissimo non sembra preoccupare né i bambini né gli adulti. Siamo nel mondo delle Terre di Castalia, due curve dopo il vecchio tracciato ferroviario di contrada Santo Stefano a Rende e questo giardino è una scuola.

    La scuola libertaria senza banchi e campanella

    Senza banchi e senza campanelle, perché è una scuola parentale a ispirazione libertaria. Ce ne sono solo tre in Calabria, le altre due si trovano a Catanzaro (Cascina Montessori) e a San Nicola Arcella (Scuola di Pace). Si tratta di una alternativa alla scuola pubblica, una forma di istruzione riconosciuta dal Miur che segue il programma ministeriale, ma si svolge al di fuori delle strutture istituzionali. Gli studenti – guidati dai loro educatori – ogni anno sostengono un esame di idoneità per il passaggio all’anno successivo.

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    Imparare tutti insieme: dal più piccolo al più grande

    Imparo quando voglio

    Perché “scuola libertaria”? Perché qui sono i bambini e le bambine a scegliere, individualmente e in gruppo, come, quando, che cosa, dove e con chi imparare. In una scuola libertaria i verbi più usati sono: Ti va di farlo? Ti piacerebbe farlo? Non ci sono voti ma solo complimenti e incoraggiamenti.
    Le Terre di Catalisa sono popolate da 21 bambini tra i 3 e i 9 anni che frequentano la scuola dell’infanzia e la primaria, ad occuparsi di loro 8 educatori che preferiscono definirsi “accompagnatori”. Gli obiettivi di apprendimento della scuola libertaria – che si mantiene con i contributi e le donazioni dei genitori attraverso una tariffa mensile definita “sociale” – coincidono con quelli indicati nei programmi ministeriali, ma vengono perseguiti attraverso attività diverse e certamente senza l’urgenza di stabilire tempi e scadenze.

    Educazione libertaria

    Libertà – chiarisce subito Emilio Ruffolo, coordinatore scientifico della scuola – non significa mancanza di regole o di una pianificazione del percorso. «La progettazione educativa è pensata intorno agli interessi dei bambini e nel rispetto di ciò che gli piace fare. In una scuola all’aperto viene stimolata la libera esplorazione e la scoperta, non ci sono attività strutturate e men che meno obbligatorie». Si impara attraverso il gioco e la curiosità, «gli obiettivi si raggiungono incrociando l’interesse e il piacere».
    Terre di Castalia è una piccola comunità in cui le attività, sempre orientate dal curricolo ministeriale, sono co-progettate da un’assemblea quotidiana in cui i bambini sono protagonisti.

    «Non è una scuola dei campioni – sorride Emilio Ruffolo – e non garantiamo neanche che alla fine del percorso i nostri allievi sappiano più degli altri che frequentano le scuole pubbliche. Il nostro impegno è quello di piantare i semi del pluralismo, della democrazia, della libertà di esprimersi e di crescere liberi da ogni stereotipo. Nella nostra scuola, ad esempio, i maschietti si tingono le unghie, se lo desiderano».

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    Attività all’aperto anche in pieno inverno nelle Terre di Castalia

     

    «Vedrai che passerà in fretta»

    «Ho le manine congelate!». Anna ci interrompe e mostra i palmi arrossati. «Questo succede perché hai giocato nell’acqua e oggi fa molto freddo». Emilio non si scompone. «Adesso, se ti va, potresti andare dentro, cambiare i calzini e il pantalone sporchi di fango e stare un po’ al caldo. Vedrai che passerà in fretta». Alle Terre di Castalia il contatto con il fango, la terra, la pioggia è un’esperienza quotidiana. «I bambini così sperimentano con le mani, entrano in contatto con la natura, sviluppano la propria creatività, arricchiscono il proprio sistema immunitario, vivono esperienze indimenticabili» – spiega Ruffolo. Per fortuna ci sono scaffali pieni di vestititi puliti, rigorosamente di seconda mano, a disposizione di tutti.

    L’educazione libertaria promuove le peculiarità di ogni bambino, «piuttosto che costruire un metodo in cui gli viene detto cosa fare, cosa non fare, in che modo e con quanta dedizione apprendere – continua Ruffolo – mettiamo gli scolari nelle condizioni di sperimentare quella libertà, quello spirito critico che poi ci aspettiamo che abbiano alla fine del percorso educativo».

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    Il momento dell’assemblea nelle Terre di Castalia

    Scuola libertaria: i bambini votano 

    È quasi ora della merenda, sul terrazzo arriva una cesta di frutta. Nerone scodinzola alla ricerca di coccole e di qualcuno che gli lanci un bastone per correre a riprenderlo. Intanto, dentro, è tutto pronto per il momento dell’assemblea. Sulla lavagna i punti all’ordine del giorno: si vota ad alzata di mano per l’elezione del bibliotecario, ci sono tre candidati. L’assemblea stabilisce poi chi parteciperà ai laboratori di pittura, teatro, danza e capannismo previsti per la settimana. Infine, il gruppo dei più piccoli porta all’attenzione di tutti una questione da risolvere: i bambini più grandi ultimamente dicono troppe parolacce. L’idea fondante è quella di condividere le regole, il gruppo si fa carico delle esigenze dei singolo, si sostiene vicendevolmente.

    Arrampicarsi sugli alberi e costruire capanne

    «Nella scuola a ispirazione libertaria – prosegue ancora Ruffolo – si pensa al bambino e alla bambina come persone autorevoli, competenti rispetto alla loro vita ed è per questo che si mette ognuno di loro nelle condizioni di esercitare la propria responsabilità sulle questioni che riguardano la quotidianità».
    Nelle stesse ore in cui loro coetanei stanno seduti al banco, gli allievi delle Terre di Castalia si arrampicano su un albero, costruiscono una capanna, ascoltano una storia sdraiati sull’erba. «Costruiamo delle attività finalizzate a ottenere i livelli di apprendimento richiesti dal curricolo – prosegue il referente scientifico della scuola – ma attraverso una pluralità di metodologie, in modo da riuscire ad aderire ai diversi modi di apprendere degli scolari, ai loro stili cognitivi».

    Il sogno di ogni bambino: costruire una capanna sull’albero

    Una scuola che non divide i bambini per età

    Qualche giorno fa i bambini si erano messi in testa di costruire un forno solare, i più grandi hanno illustrato le fasi del progetto ai più piccoli, alla fine hanno festeggiato insieme il risultato del lavoro di squadra.
    «Nel gruppo gli interessi si socializzano» – spiega Luana Florio, coordinatrice educativa delle Terre di Castalia. «Il nostro progetto sceglie di non dividere i bambini per età ma di avere una pluriclasse. La suddivisione per età nelle classi sostiene l’idea che ci sia un’età precisa per determinati apprendimenti. Un’idea superata. La programmazione strutturata – continua – serve più agli insegnanti e alla scuola, non risponde alle domande degli allievi, offre risposte preconfezionate che sono uguali per tutti. La suddivisione per età limita la possibilità che una persona più competente aiuti quella meno competente. Che il grande aiuti il più piccolo in matematica, che il meno competente guardi le persone più grandi di lui e ne sia in qualche modo ispirato».

    È ora di andare. Le nuvole sono scomparse, i bambini sono tutti dentro per il laboratorio di teatro. In giardino, disseminati, i segni di un’altra giornata di giochi e scoperte. Gli stivali di gomma abbandonati vicino alla pozzanghera, i piccoli abiti sporchi di fango stesi ad asciugare. La bandiera che sventola sulla casa costruita sull’albero. Nel silenzio della campagna Nerone, il bidello di questa scuola, scodinzola e mi segue fino al cancello, vuole accertarsi che venga chiuso bene.

  • Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    Dai riti voodoo alla tratta delle donne: la mafia nigeriana è sbarcata a Reggio

    L’inizio dell’incubo ha una data certa: siamo nel 2014. Proprio in quell’anno una giovane ragazza nigeriana sarebbe arrivata in Italia, a Reggio Calabria, per la precisione. La promessa è quella di farla lavorare in un bar. Qualcosa di paradisiaco se raffrontato alla fame e alla miseria che si vive in Africa. Ma, se possibile, quella giovane nel nostro Paese vivrà atrocità pari a quelle patite in Africa.

    L’arrivo a Reggio Calabria e l’inizio dell’incubo

    Lo chiamano “Fred” o “Friday”. Il suo nome reale è Favour Obazelu. Sarebbe lui il suo principale aguzzino. È un 43enne, considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Fred/Friday l’avrebbe costretta a prostituirsi per ripagare il debito di averla “salvata” dalla povertà della Nigeria. Ma non solo.  L’avrebbe sequestrata in un appartamento a Bari, l’avrebbe violentata e messa incinta, cacciandola poi di casa, trattenendo però i documenti della giovane e del figlio nato dallo stupro.

    La giovane, quindi, sarebbe arrivata nel 2014 a Reggio Calabria, per essere trasportata poi a Bari. Con la promessa di quel lavoro in un bar. Ma nel capoluogo pugliese non vi sarebbe stato nessun bar ad aspettarla. Anzi, l’avviamento alla prostituzione, insieme ad altre due giovani. Anche loro dovevano “ripagare il debito” per l’arrivo in Italia dalla Nigeria.

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    Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri

    L’indagine

    Il presunto boss della mafia nigeriana è stato arrestato dalla Squadra Mobile di Reggio Calabria, con l’accusa di riduzione in schiavitù, tratta di esseri umani, sequestro e violenza sessuale. Le indagini sono condotte dal procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, e dal pm antimafia Sara Amerio.

    Questo perché Favour Obazelu è considerato uno dei boss della mafia nigeriana presente sul territorio italiano.  Assieme al fratello, Eghosa Osasumwen detto “Felix” di 32 anni, e ad altri soggetti che si trovano in Libia e in Nigeria, Obazelu avrebbe reclutato in patria ragazze da condurre con l’inganno in Italia. Nell’inchiesta sono indagati altri tre nigeriani, due donne di 30 e 22 anni, e un uomo di 25.

    Il rito voodoo

    Inquietanti i dettagli raccontati da una delle vittime. Le donne, infatti, non solo erano costrette a prostituirsi. Ma, nei periodi in cui non lavoravano, venivano tenute segregate, talvolta legate materialmente. Ma, soprattutto, mentalmente incatenate tramite un rito voodoo che le avrebbe tenute in uno stato di completa prostrazione.

    Stando al racconto di una delle vittime, in quel periodo appena 21enne, la giovane sarebbe stata sottoposta ad un rito di magia nera per vincolarla al rispetto dell’impegno di pagare la somma di 25mila euro. Questo il debito calcolato da Fred/Friday e dai suoi fratelli per l’arrivo in Italia.

    Sempre la vittima, che ha trovato il coraggio di denunciare, sarebbe stata sottoposta a una vera e propria cerimonia tribale: in quell’occasione lei e la sua famiglia sarebbero state minacciate di morte nel caso in cui avessero infranto il giuramento.

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    L’ingresso della Questura di Reggio Calabria

    La mafia nigeriana in Italia

    E’ un allarme che risuona da tempo quello della presenza della mafia nigeriana nel nostro Paese: «La criminalità nigeriana è dedita prevalentemente al traffico di esseri umani, allo sfruttamento della prostituzione e al narcotraffico ed è risultata anche in osmosi con organizzazioni criminali albanesi» –  è scritto nell’ultima relazione semestrale redatta dalla Direzione Investigativa Antimafia.

    Una vera e propria mafia. Così come è stata riconosciuta da recenti sentenze italiane, che ne hanno sottolineato i caratteri di mafiosità: «…Si manifesta non solo internamente attraverso l’adozione di uno stretto regime di controllo degli associati ma, anche, esternamente attraverso un’opera di controllo del territorio e di intimidazione nei confronti di terzi appartenenti alla comunità nigeriana ovvero appartenenti a gruppi malavitosi contrapposti, i cui intenti criminali devono essere stroncati così da evitare ogni forma di concorrenza delinquenziale…» – si legge in una di esse.

    Un’organizzazione caratterizzata da una grande ritualità, che mischia elementi della tradizione ancestrale con la necessità di fidelizzare gli affiliati. Tra le più importanti investigazioni che di recente hanno confermato la forza e la pericolosità dei sodalizi nigeriani si rammentano le operazioni “Maphite – Bibbia verde” e “Burning Flame”, coordinate rispettivamente dalle DDA di Torino e Bologna.

    La “Supreme Vikings Confraternity”

    Favour Obazelu, quindi, è considerato un elemento di spicco della mafia nigeriana. Dal 2019, infatti, è detenuto nel carcere di Agrigento perché coinvolto nell’inchiesta “Drill”, coordinata dalla Procura di Bari che lo accusa di far parte di un’associazione a delinquere di stampo mafioso denominata Cults. Fred/Friday è considerato il capo della “Supreme Vikings Confraternity”, una sorta di cosca conosciuta anche come “i rossi”.

    Le caratteristiche di queste realtà criminali sono: l’organizzazione gerarchica, la struttura paramilitare, i riti di affiliazione, i codici di comportamento e in generale un modus agendi tale che la Corte di Cassazione si è più volte espressa riconoscendone la tipica connotazione di “mafiosità”.

    Ancora dalla relazione della DIA: «Si tratta di elementi tipici che costituiscono il modello operativo dell’associazionismo criminale nigeriano a connotazione mafiosa che contempla interessi per i reati di riciclaggio e di illecita intermediazione finanziaria verso la Nigeria, tratta di donne da avviare alla prostituzione, cessione di stupefacenti, reati violenti nei confronti di aderenti ad altri cults o punitivi nei confronti di connazionali. Le investigazioni hanno infatti permesso di documentare le violente punizioni corporali nei confronti di affiliati non rispettosi delle regole e il ricorso all’esercizio di violenza fisica anche nella risoluzione dei conflitti interni per costringere terzi ad affiliarsi anche contro la loro volontà oppure per opporsi e scontrarsi con cult rivali».

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    Gli uomini della Squadra mobile di Reggio hanno arrestato il presunto boss della mafia nigeriana Favour Obazelu

    La mafia nigeriana a Reggio Calabria

    La mafia nigeriana è un’organizzazione in grande crescita sul territorio italiano. Fin qui l’avevamo vista radicata in altre città. Roma, soprattutto, dove è capace di dialogare con altri cartelli. Diverse indagini, peraltro, ne hanno mostrato l’operatività in Emilia Romagna e altre regioni. Ma anche la Campania, dove, da tempo, il clan camorristico dei Bidognetti dialoga con quelle cellule. E poi in Sicilia. Ancora dalla relazione della DIA: «Si conferma infine la costante vitalità e una progressiva affermazione della criminalità di matrice nigeriana che starebbe acquisendo uno spazio operativo progressivamente sempre più ampio. Si tratta di gruppi criminali che, forti dei legami con le analoghe consorterie che agiscono a Catania e Palermo risultano attivi soprattutto nel capoluogo nell’ambito dei consueti settori degli stupefacenti e dello sfruttamento della prostituzione».

    Quello che, invece, risulta un dato nuovo è la presenza in riva allo Stretto. Per la Dda, infatti, l’organizzazione criminale di cui faceva parte Favour Obazelu sarebbe operativa tra la Nigeria e l’Italia. E in particolare a Reggio Calabria, Bari e in altri centri pugliesi.

  • L’attacco alla libera stampa in Calabria

    L’attacco alla libera stampa in Calabria

    È inutile girarci attorno: in Calabria c’è una strana idea della stampa libera. Viene applaudita quando tocca “nemici”, secondo una classificazione tanto personale quanto sfuggente. Quando, invece, racconta interessi personali o di cordata diventa un nemico da combattere o, meglio ancora, da abbattere. Gli strumenti a disposizione non mancano: diffide, che preludono ad atti di mediazione, che aprono le porte a richieste di risarcimento che sfociano in querele, spesso temerarie.

    Gli esempi sono decine: agli imprenditori che, ritenendosi diffamati da un articolo di cronaca, arrivano a chiedere cifre a sei zeri si aggiungono quelli per i quali la richiesta di risarcimento diventa imponderabile. Politici feriti nell’orgoglio da una frase chiedono la cancellazione di un pezzo il giorno dopo la sua pubblicazione, pena una causa (milionaria anche quella?) che costringerà giornalista, direttore ed editore a girovagare per le aule dei tribunali, forse per anni. L’elenco sarebbe lunghissimo.

    Chiariamo: non si mette in dubbio il diritto di rivolgersi a un giudice qualora ci si ritenga diffamati. Il punto è che il campionario che ogni redazione può esibire mostra richieste tanto bizzarre da far sorgere il dubbio che la vera questione sia un’altra, e cioè cercare di mettere il bavaglio alla stampa. Ci si muove nel terreno che segna la distanza tra la lesione della propria onorabilità e il tentativo di intimidire cronisti, editorialisti, testate. La sensazione è che spesso si tenda a raggiungere il secondo obiettivo. Non ci stracceremo le vesti per questo, continueremo tutti a fare il nostro lavoro. A raccontare fatti, riportare opinioni, evidenziare le incongruenze di una regione in cui il grigio si allarga sempre più. E ci difenderemo dalle richieste di risarcimento e dalle querele temerarie.

    Ciò che non possiamo più fare è restare in silenzio davanti a metodi e numeri che fanno pensare a un attacco vero e proprio alle prerogative della libera stampa. È tempo di rispondere a questa aggressione. Come? Per dirla con le parole del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, «dobbiamo garantire i giornalisti dalle azioni temerarie. I giornalisti sono chiamati in tante cause civili con risarcimenti dei danni stratosferici. E il giornalista così non può svolgere serenamente il proprio lavoro».

    Il magistrato, già a capo della Dda di Reggio, conosce bene la realtà calabrese. Nel suo intervento alla tavola rotonda internazionale organizzata a Siracusa dall’associazione Ossigeno per l’informazione ha proposto una soluzione: «Quali possono essere i modelli di garanzia? Quando viene chiesto il risarcimento se la querela è temeraria, il soggetto che ha citato in giudizio il giornalista se ha torto dovrebbe essere condannato al doppio del risarcimento del danno richiesto». Perché «l’informazione oggi è il cardine della democrazia». E non un accessorio da esibire a seconda della (propria) convenienza.

    Le redazioni di:

    • I Calabresi
    • Corriere della Calabria
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