Categoria: Fatti

  • Donne d’Ucraina, un 8 marzo di guerra e non di festa

    Donne d’Ucraina, un 8 marzo di guerra e non di festa

    Non potevamo non dedicare il nostro pensiero alla festa delle donne, che l’8 marzo celebrano una ricorrenza che è ormai diventata di tutti noi che riconosciamo nelle nostre mogli e compagne, nelle nostre figlie e madri, nelle nostre amiche e colleghe il contributo prezioso che ciascuna di loro con le proprie virtù e possibilità reca alla comunità intera.

    Avremmo voluto utilizzare una foto di donne che si spendono oggi nelle strutture ospedaliere contro il Covid e le altre patologie passate sotto silenzio. O una foto di studentesse e lavoratrici, di donne che valorizzano le famiglie soprattutto quando le difficoltà della vita si fanno sentire.

    Ma la nostra scelta convinta è stata quella di mostrare una donna ucraina, perché lì le donne stanno pagando un prezzo indicibile di dolore e di angoscia per i propri figli, compagni, amici, per tutto il popolo ucraino.
    L’8 marzo è una “festa”, la festa delle donne in ogni angolo del mondo. In Ucraina non c’è festa, c’è morte.
    Alle eroiche donne di Ucraina, simbolo di ogni donna, il nostro abbraccio.

  • Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    Tanti Comuni, pochi servizi: ok per i poltronisti, non per i cittadini

    In Calabria si contano 327 comuni con meno di 5.000 abitanti, su un totale di 404 enti locali: rappresentano l’80,9% del totale, una delle percentuali più alte tra le regioni italiane. Un terzo della popolazione calabrese vive in questi piccoli comuni. Ma è il nanismo istituzionale che si esprime sul territorio mediante una maggiore frammentazione.
    Sono 17 in Calabria i comuni con meno di 500 abitanti: sette di questi, quasi la metà, sono concentrati nella sola provincia di Cosenza: Carpanzano, Castroregio, Panettieri, Nocara, Alessandria del Carretto, Serra d’Aiello, Cellara. Quando i comuni sono polverizzati per numero di abitanti, è davvero difficile poter offrire ai cittadini servizi adeguati alle necessità.

    Comincia spesso in questi casi un pendolarismo territoriale alla ricerca delle condizioni compatibili, che in diversi casi, come nella sanità, conduce alla l’approdo verso altre regioni del Paese, nella maggior parte dei casi verso il Settentrione.
    Questa realtà vale, sua pure con un caratteristiche meno accentuate, per l’intero territorio nazionale. Su poco meno di 8.000 comuni presenti in Italia, se ne contano 882 comuni con meno di 500 abitanti; quelli con meno di 1.000 abitanti sono poco meno di 2.000.

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    Alessandria del Carretto vista dall’alto

    Poche unioni di Comuni in Calabria

    Per rispondere a questa eccessiva frammentazione del modello istituzionale ed organizzativo, si è adottata la formula della Unione dei comuni, in modo tale da assicurare una migliore erogazione dei servizi ai cittadini. Non dappertutto questa formula è stata utilizzata con la stessa capacità di superare i localismi nell’interesse delle comunità presenti sul territorio. Sono soltanto 12 le unioni di comuni in Calabria, su 564 che se ne contano in Italia: una percentuale pari appena al 2,1%. La scarsa utilizzazione della formula della Unione dei comuni ha impedito di mettere assieme fattori e risorse per assicurare una migliore risposta ai cittadini.

    L’ente consorziato è costituito da due o più comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di competenza comunale.
    L’Unione di comuni è dotata di autonomia statutaria nell’ambito dei principi fissati dalla Costituzione, dalle norme comunitarie, statali e regionali. A questo istituto si applicano, per quanto compatibili, i princìpi previsti per l’ordinamento dei comuni, con specifico riguardo alle norme in materia di composizione e numero degli organi dei comuni, il quale non può eccedere i limiti previsti per i comuni di dimensioni pari alla popolazione complessiva dell’ente.

    Casali del Manco è tra i pochi Comuni calabresi nati dopo la fusione di diversi enti di minori dimensioni

    Cui prodest?

    Per quale motivo non si è affermato anche in Calabria, ed in generale nel Mezzogiorno, un disegno di razionalizzazione degli enti locali capace di dare risposta ai bisogni del territorio? Se continua a prevalere la frammentazione istituzionale vuol dire che il territorio ricava la sua convenienza: a partire dalle organizzazioni criminali, che hanno sempre da guadagnare dalla debolezza istituzionale, per finire alle consorterie politiche, che evidentemente trovano vantaggioso moltiplicare le poltrone per governare meglio il controllo del consenso.

    La frammentazione istituzionale del Mezzogiorno trova radici antiche: da un lato conta un fattore sociologico permanente, che resta ancora primario rispetto al resto del Paese, vale a dire quel familismo amorale studiato proprio in Calabria da Edward C. Banfield negli anni Cinquanta del secolo passato. D’altro lato pesa una classe dirigente politica più attenta a preservare le poltrone del potere rispetto alla soddisfazione degli interessi e dei diritti del cittadino.

    Il contesto normativo

    Eppure, il contesto normativo ha definito anche sistemi di incentivazione per spingere verso le unioni dei comuni ed anche verso altre forme più spinte di aggregazione. La fusione di uno o più enti, con l’istituzione di un nuovo comune, costituisce la forma più compiuta di semplificazione e razionalizzazione della realtà dei piccoli centri. Anche le fusioni di comuni godono di incentivi statali.

    L’entrata in vigore dell’esercizio obbligatorio di tutte le funzioni comunali dei piccoli comuni è stato prorogato più volte, da ultimo al 31 dicembre 2022 da parte del DL 228/2021. Si contano sinora nove proroghe, ma ora dovremmo essere al punto di non ritorno. Questo ennesimo appuntamento dovrebbe indurre ad accelerare non solo ragionamenti, ma anche decisioni, per accorpare i comuni di piccole dimensioni e per raggiungere quelle masse critiche necessarie per una maggiore efficienza amministrativa.
    Insomma, non resta molto tempo per superare una organizzazione comunale che non corrisponde all’ottimo sociale, ma solo ad una geografia politica che ha fatto il suo tempo.

    I Comuni e il PNRR

    In Calabria la strada da percorrere è lunga. La qualità amministrativa del governo territoriale è una delle condizioni essenziali dalle quali dipende il futuro dello sviluppo. Partiamo da una base largamente insoddisfacente. Mentre tutta l’attenzione si concentra sul PNRR, molto di quello che sarà il destino del Mezzogiorno dipenderà dalla configurazione istituzionale dei poteri locali.
    Costituire unioni di comuni e favorire fusioni di comuni sono due indicatori che ci dimostreranno la capacità di innovazione del ceto politico locale in Calabria e nel Mezzogiorno.

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    La Camera dei deputati

    Mentre il Parlamento ha tagliato della metà il numero dei rappresentanti, tra senatori e deputati, a livello locale è cresciuta nei recenti decenni una selva di “cadreghe” territoriali che costituiscono un ostacolo alla modernizzazione della macchina amministrativa.
    Ma, mentre sulla casta nazionale sono state scritte quantità impressionanti di letteratura, sulle caste territoriali è mancata la stessa meticolosa attenzione. Eppure, in termini di danni prodotti, il federalismo asimmetrico degli ultimi decenni è stato molto più dannoso dei poteri centrali sempre meno efficaci.

  • Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    Parenti serpenti, l’eterno scontro tra i cugini di Campagnano

    «Cosenza, che Michele Bianchi ha voluto bella». Il complimento al quadrumviro (e alla città) proveniva da una fonte insospettabile: Pietro Ingrao, che si era rifugiato in Presila e aveva visitato più volte il capoluogo.
    Ingrao parlava della Cosenza dell’immediato dopoguerra, iniziato in Calabria un po’ prima, con l’arrivo degli Alleati. Cioè parlava di una città di poco più di 40mila abitanti che di lì a poco avrebbe vissuto un boom urbanistico formidabile e una crescita demografica impetuosa.

    Ma nel piano di crescita urbana disegnato da Bianchi covavano già i germi del futuro declino della città: prima di altri il supergerarca aveva intuito che l’unica possibilità di espansione di Cosenza era a nordest, cioè verso Rende, perché a sudovest c’era l’ostacolo insormontabile dei colli e c’era un hinterland accidentato, pieno di campagne urbanizzate male e collegate peggio, da strade che tutt’oggi gridano vendetta.

    Una rissa per l’Ospedale

    La storia si ripete, ma stavolta in farsa. Riguarda il nuovo Ospedale hub di Cosenza che Marcello Manna, il sindaco di Rende, vorrebbe nel suo territorio.
    E lo vuole così tanto da aver chiesto a Roberto Occhiuto un progetto di fattibilità.
    Manna, nella sua richiesta, ha rilanciato un mantra vecchio di almeno dieci anni: Rende sarebbe preferibile al declinante territorio perché c’è l’Unical, che ha un corso di laurea in Farmacia e uno in Medicina e Tecnologie digitali nuovo di zecca. Inoltre, perché la città del Campagnano ha più territorio disponibile, anche in posizione strategica, a cavallo tra la Statale 107 e lo svincolo Nord della A2.

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    L’Università della Calabria

    Franz Caruso, il sindaco di Cosenza, ha risposto picche e ha rilanciato l’idea, altrettanto di lungo corso, di realizzare l’Ospedale a Vaglio Lise, nei pressi della Stazione ferroviaria. Il presidente del Consiglio comunale bruzio, Giuseppe Mazzuca, a tal proposito ha già annunciato che l’assise si pronuncerà in tal senso da qui a poco
    In questo braccio di ferro, ciò che fa notizia è la pretesa rendese, segno che la città che è stata dei Principe al momento è in vantaggio sulla città che è stata dei Mancini, degli Antoniozzi e dei Misasi.

    Cinquant’anni di braccio di ferro

    Cosenza, al momento, mantiene gli uffici e i servizi pubblici che contano, a partire da Prefettura e Tribunale per finire con l’Ospedale e la sede della Provincia. E, ovviamente, ha l’anagrafe a suo favore che, con circa 67mila e rotti abitanti, la fanno poco più del doppio rispetto alla sua aggressiva dirimpettaia, da cui la dividono un tratto del torrente Campagnano e un segnale sul cavalcavia della Statale 107.

    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Ma il numero degli abitanti è illusorio, perché quei 67mila sono ciò che resta di una città che ha vissuto tempi migliori. E questo resto è destinato a calare, sia per la decrescita demografica sia per la ripresa dell’emigrazione, Al contrario, Rende, coi suoi poco meno di 34mila abitanti, tiene botta e denuncia una flessione minima.
    Come si è arrivati a questo punto? Com’è stato possibile che un paese, sostanzialmente arroccato su una collina e sceso a valle dai primi anni ’70 sia arrivato al punto di dare la polvere all’orgogliosa (e spocchiosa) “Atene delle Calabrie”?

    Un flashback

    Facciamo un passo indietro e torniamo al 1970. Allora Rende aveva incassato un importante risultato: l’Università della Calabria, in quel momento “ospite” a Cosenza, ma la cui sistemazione definitiva era stata concessa a Rende, che l’aveva spuntata su Piano Lago. Fu un colpo da maestro di Cecchino Principe, sindaco dal 1952 e all’epoca deputato di lungo corso e sottosegretario alle Partecipazioni statali. Il notabile socialista fece una serie di espropri “lampo” a costi bassissimi e con un metodo che oggi si definirebbe “clientelare”: indennizzò i proprietari dei terreni di Arcavacata con posti di lavoro nell’Università. Questa mossa, completata col disegno urbanistico affidato al big Empio Malara, cambiò le sorti di Rende e di tutta l’area urbana cosentina.

    Giacomo Mancini
    Giacomo Mancini

    La “grande Cosenza”, ideata da Michele Bianchi iniziava a svilupparsi, ma al contrario: non era Cosenza che si “allargava” verso Rende fino ad inglobarla, ma quest’ultima a estendersi verso il capoluogo. Inoltre, lo sviluppo di Rende ebbe un’altra conseguenza politica di lunga durata: l’irruzione dei Principe sulla scena politica regionale con un ruolo di primo piano e in piena autonomia rispetto alla leadership di Giacomo Mancini.
    Forse meno carismatico rispetto al big cosentino, Cecchino Principe aveva dalla sua una forte empatia coi suoi elettori e un grande senso pratico. L’agronomo di Rende l’aveva fatta sotto il naso al sussiegoso avvocato cosentino, che univa ai galloni dell’antifascismo militante il peso della tradizione familiare.

    La grande Cosenza che fu

    I cosentini minimizzarono: Rende, allora, aveva poco più di 13mila abitanti, una bazzecola. Cosenza, invece, aveva superato da poco i 100mila e si orientava a sudovest, cioè verso la vecchia via del mare, che portava ad Amantea per la vecchia strada borbonica. E aveva una zona industriale di tutto rispetto, tra Molino Irto e Vadue, che faceva perno sulle Cartiere Bilotti e sul Pastificio Lecce.
    Forse per questo non colsero la seconda mossa di Principe, che con un’altra serie di espropri consentì l’arrivo di Legnochimica a Contrada Lecco: era l’atto di nascita della zona industriale di Rende, che oggi è la principale dell’area urbana.
    Ma tant’è: i partiti politici facevano da collante e il vecchio sistema di finanza derivata ridimensionava non poco il peso delle autonomie, perché i quattrini arrivavano in base alla popolazione.

    La gara dei vampiri

    A questo punto si arrivò al paradosso: tutti i municipi dell’hinterland tentarono di agganciarsi al capoluogo per “vampirizzarne” la popolazione. Lo fece Carolei, che inventò Vadue, lo fece Mendicino e lo fece Laurignano. E lo fece Castrolibero con Andreotta.
    Ma chi succhiò più abitanti, fu Rende, semplicemente perché, a differenza dei suoi concorrenti, aveva un piano urbanistico a prova di bomba. E poi perché Cecchino Principe ebbe l’abilità di non farsene accorgere. La “sua” Rende si sviluppò come quartiere della Cosenza bene e benestante. Le cose sarebbero cambiate a partire dagli anni ’90, con l’ascesa di Sandro Principe, che interpretò in maniera particolare il nuovo sistema delle autonomie e pensò Rende come città alternativa e concorrente rispetto al capoluogo. Anche perché, tolto Giacomo Mancini, ormai non aveva quasi rivali.

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    Sandro Principe ha dominato la politica rendese per molti anni

    L’effetto Duracell

    Tangentopoli fu un rullo compressore per Cosenza: azzerati i partiti storici, spento l’astro di Riccardo Misasi, il capoluogo provò a resistere col decennio manciniano, caratterizzato da alcune brillanti intuizioni che si sarebbero rivelate delle cambiali.
    Tutte le misure urbanistiche (il rifacimento di piazza Fera e il ponte di Calatrava) miravano ad arroccare la città a Sud. Al contrario, Sandro Principe potenziò Rende a Nord, con massicci investimenti nella zona di Quattromiglia, che divenne un quartiere modello.
    Era iniziato il braccio di ferro tra una città che perdeva abitanti e un’altra che aveva raddoppiato la popolazione residente. Il volano fu l’Unical, che aveva superato i 35mila iscritti dando il via a un mini boom edilizio.

    Ma l’aspetto politico restava quello più importante: la fine dei partiti aveva provocato l’azzeramento delle vecchie élite cosentine, che riuscirono sì e no a riciclarsi nel nuovo alla meno peggio. A Rende, invece, fu centrale la continuità dei Principe, che consentì una gestione razionale e “dirigista” dello sviluppo urbano ed economico.
    Principe seguiva a Principe. A Cosenza, invece, i Gentile, gli Adamo, i Guccione, gli Incarnato, i Morrone e via discorrendo avevano preso il posto dei Misasi, dei Mancini, dei Perugini, degli Antoniozzi, dei d’Ippolito e via discorrendo. Se non è declino questo…

    E ora?

    Il declino è uguale per tutti ma ad alcuni fa più male. È il caso di Cosenza, che pesa nelle dinamiche regionali solo perché è capoluogo di una delle province più grandi d’Italia. Ma questo peso è illusorio, perché l’ente Provincia, con la fine della Prima repubblica, si era “paesanizzato” non poco: basti pensare che i presidenti provinciali più duraturi, Antonio Acri e Mario Oliverio, sono stati di San Giovanni in Fiore.

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    Mario Oliverio

    Se dalla demografia si passa all’economia, la situazione peggiora. Rende ha il bilancio in crisi, ma evita il dissesto grazie al suo consistente patrimonio immobiliare. Cosenza è andata in default il 2019, dopo aver nascosto per quasi vent’anni un debito imponente, nato in lire e lievitato in euro. Il che significa una cosa: a parità di tasse (al massimo in entrambi i Comuni), Rende riesce a garantire servizi passabili, Cosenza no.

    E la Grande Cosenza, in tutto questo? È solo un richiamo retorico per i cosentini che vivono nel capoluogo e consolano il proprio campanilismo con l’idea della “città policentrica” (un’assurdità urbanistica, perché tutte le città hanno un centro). I cosentini che hanno popolato Rende, al contrario, sono piuttosto tiepidi: a nessuno fa piacere diventare periferia di una città in declino e subirne i contraccolpi finanziari.
    E Telesio? L’Accademia Cosentina? E le memorie risorgimentali? Un’altra volta…

  • Psicodramma grillino in Calabria: aspettando Giggino o Giuseppe

    Psicodramma grillino in Calabria: aspettando Giggino o Giuseppe

    Il loro è un dramma reale, mica scenico. Non aspettano la comparsa del signor Godot, ma che il signor Giuseppe prevalga sul signor Giggino o viceversa. E che uno dei due, alla fin fine, dica loro che tipo di futuro vivranno.

    Quella del M5S è una vicenda per certi versi beckettiana, solo che nel loro caso è tutto perfettamente comprensibile. Non c’è nonsense nella loro storia: attendono impazienti il momento in cui succederà qualcosa. Ammesso che qualcosa possa davvero succedere.

    Su quella isolata strada di campagna si attardano anche gli 11 parlamentari calabresi. Dietro di loro, un albero continua a perdere le foglie, perché il tempo passa, le elezioni sono vicine e nessuno sa bene da che parte andare: stare col signor Giuseppe o con il signor Giggino? Con Conte o con Di Maio? Con il nuovo corso o con i governisti?

    Come i personaggi di Beckett, i pentastellati sono disorientati, vittime della maledetta paura di non essere rieletti. Allora cercano di posizionarsi nel miglior modo possibile. Ma chi può dire quale sia?

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    L’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte

    M5S senza una guida politica

    Non è facile scegliere, soprattutto in questo momento di crisi, interna ed esterna. Il Tribunale di Napoli ha rinviato la decisione sul ricorso presentato da Conte per mettere fine alla sua sospensione da leader del Movimento. Per ora, dunque, i 5 stelle sono privi di una guida politica (l’ex premier ha comunque assicurato che si sottoporrà a una nuova votazione) e tutti i problemi restano sul tappeto, irrisolti: l’alleanza progressista con il Pd alle prossime Politiche si farà? Quale sarà la nuova legge elettorale? Infine, la domanda più assillante di tutte: la regola del doppio mandato sarà cancellata o no?

    La questione è dirimente, considerato che le diverse posizioni sul tema hanno contribuito a generare due fazioni distinte, anche in Calabria.

    Di Maio in gran spolvero

    Conte sarebbe contrario all’eliminazione del tetto e favorevole alla possibilità di concedere deroghe solo in casi particolari («Grillo l’ha detto in più occasioni che per lui il doppio mandato è una regola fondativa del M5S»). Dall’altra parte sta Di Maio, che ha attirato nella sua corrente la stragrande maggioranza dei parlamentari che – come lui – sono già al secondo mandato, oltre ai governisti.

    Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio

    La lotta interna è aspra ed è esplosa in tutta la sua virulenza all’indomani del voto per il Quirinale, culminata poi con le dimissioni di Di Maio dal Comitato di garanzia del Movimento. Solo che, oggi, il ministro degli Esteri – a differenza di Conte, la cui buona stella degli esordi pare averlo abbandonato – sembra in grande spolvero, anche per via della guerra in Ucraina che gli sta regalando una straordinaria esposizione mediatica. Una posizione di forza che il capo della Farnesina, giurano i pentastellati che lo conoscono bene, sfrutterà a suo vantaggio al momento opportuno, anche facendosi trovare pronto nel caso in cui l’ex premier dovesse perdere la leadership del Movimento.

    Conte, dal canto suo, sembra aver fatto dell’attendismo e dell’indeterminatezza le sue regole auree. «Non ha una linea chiara sulle questioni, dal green pass alla guerra, passando per la riforma del catasto. Facciamo fatica a seguirlo, siamo come appesi al niente», dice una parlamentare calabrese, parecchio disorientata.

    Chi sta con chi nel M5S

    Malgrado la confusione, anche tra deputati e senatori eletti tra il Pollino e lo Stretto si sono comunque create due fazioni avversarie, i cui rispettivi perimetri sono tuttavia molto sottili e, spesso, invisibili. Quella di Di Maio è nettamente minoritaria, anche se, da qui a breve, gli ultimi eventi, anche internazionali, potrebbero cambiare i rapporti di forza.

    Dalla parte del ministro sta la sottosegretaria Dalila Nesci, la più governista tra i parlamentari calabresi. Decisamente più incerta la collocazione di Alessandro Melicchio. «È un po’ di qua e un po’ di là, anche se in questo momento pende più dalla parte di Conte», osserva un attento osservatore del Movimento.

    Il parlamntare grillino Massimo Misiti con Giuseppe Conte

    Tra i contiani di ferro figurano di certo il cosentino Massimo Misiti, il vibonese Riccardo Tucci e il catanzarese Paolo Parentela.

    Difficile incasellare con certezza l’ex sottosegretaria Anna Laura Orrico e la deputata Elisa Scutellà, entrambe considerate più vicine a Conte che a Di Maio, così come la crotonese Elisabetta Barbuto.

    Indipendenti, quindi non riconducibili a fazioni, i deputati Federica Dieni (anche per via del delicato ruolo di vicepresidente del Copasir) e Giuseppe d’Ippolito (da sempre attestato sulle posizioni di Grillo più che dei capi politici). Tra i fedelissimi di Conte ci sarebbe anche il senatore Giuseppe Fabio Auddino.

    Il grosso del pattuglione calabrese starebbe quindi con il leader tuttora sospeso. «Ma se domani dovesse essere defenestrato, tutti passerebbero subito con Di Maio», rileva un attivista molto ascoltato del Cosentino.

    Paolo Parentela, parlamentare catanzarese del Movimento 5 stelle

    Poche seggiole disponibili

    Al di là dei posizionamenti, i 5 stelle devono fare i conti con il taglio dei seggi in Parlamento – voluto proprio da loro – e con i risultati poco incoraggianti che riguardano la Calabria.

    Alle ultime Regionali – nonostante, con due eletti, sia riuscito per la prima volta a essere rappresentato in Consiglioil M5S ha preso il 6,5%, meno della metà rispetto al già non esaltante dato nazionale, che oscilla dal 13 al 15%.

    La situazione, insomma, è tutt’altro che rosea. Anche per questo i parlamentari aspettano con ansia che uno tra il signor Giuseppe e il signor Giggino prenda la situazione in mano per tempo, facendo il possibile per aumentare i consensi, decisamente in calo, del Movimento. Le Politiche del 2018, quando i 5 stelle sfondarono il muro del 40%, sembrano lontanissime, elezioni di un’altra era geologica.

    Altre avventure fuori dal M5S

    Da allora, tantissime cose sono cambiate e molti degli eletti – in tutto erano 18 – hanno preso altre strade e tentato, non sempre con successo, altre avventure. È il caso di uno dei cinquestelle un tempo più rappresentativi, Nicola Morra, che rischia di rimanere fuori dal Parlamento perché orfano di partito.

    La sua parabola è emblematica e, forse, consiglia prudenza a tutti quelli che sarebbero tentati di abbandonare il dramma stellato per calcare altre scene. Così, non resta che aspettare. Magari domani succederà qualcosa. Magari.

    Fuori dal Movimento 5 stelle. Il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra
  • L’armata Brancaleone della Sanità calabrese

    L’armata Brancaleone della Sanità calabrese

    Chi tocca certi fili muore. E forse non ha torto chi afferma che il problema della Sanità calabrese è “di sistema”. Cioè, è l’esito di una situazione incancrenita da decenni di cattive prassi, che si riassumono in un’espressione: inefficienza totale.
    La quale si riflette, in maniera pesante, sulla salute dei cittadini e sull’economia di tutto il territorio, considerato che le strutture sanitarie calabresi inglobano il 75% del bilancio regionale. Sono cose note. Meno note sono le statistiche globali, pubblicate la scorsa estate da Openpolis.

    A dicembre 2020, le Aziende – sanitarie e ospedaliere – commissariate in Italia erano 34. A luglio 2021 il numero si è ridotto della metà, perché sono uscite dal commissariamento la Valle d’Aosta, l’Umbria e le Aziende piemontesi, liguri e venete finite nel mirino. Circa metà delle 17 Aziende rimaste sono calabresi.
    Gli altri numeri sono evanescenti e virtuali. Ci si riferisce alla contabilità, che risulta impossibile ricostruire con precisione. Ma anche i numeri approssimativi fanno paura.

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Dieci anni e otto commissari

    Riavvolgiamo il nastro per capire che nulla è cambiato, nonostante dieci anni di controlli (si fa per dire…) romani e otto commissari.
    A fine 2010, il disavanzo complessivo della Sanità calabrese era di 1 miliardo 46 milioni e 983mila euro. A poco, così rilevava il “famigerato” tavolo Massicci, erano serviti gli accorpamenti delle Aziende sanitarie locali nelle cinque Asp, avvenuta nel 2008.
    Alla fine dell’amministrazione Oliverio, il debito rilevato, più o meno a tentoni, dalla Corte dei Conti era di 1 miliardo e 51 milioni.
    La beffa ulteriore emerge dalla demografia: nel 2010 gli abitanti della regione erano 2 milioni e 10mila circa, ora sono 1 milione 849 e 145. I calabresi calano, i debiti aumentano e non sono proprio leggeri: circa 539 euro per abitante. Davvero, in tutto questo disastro, ha un senso la caccia al responsabile?

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    La sede dell’Azienda sanitaria provinciale di Cosenza

    Il garantismo è impossibile

    È impossibile raccontare la storia recente della Sanità calabrese prescindendo dai suoi risvolti giudiziari, a volte pesantissimi, che vanno dai “banali” abusi d’ufficio ai falsi in bilancio, dove rintracciabili.
    È il caso dell’Asp di Cosenza, una delle più grandi Aziende del Paese, di cui si sospetta un triennio di bilanci farlocchi (2015-2017). Su questi bilanci farà luce il processo Sistema Cosenza, che inizierà a breve, nel quale risultano indagati i due ex commissari regionali Massimo Scura e Saverio Cotticelli e l’ex direttore generale dell’Azienda cosentina Raffaele Mauro.
    I tre presunti bilanci falsi di Cosenza più i problemi contabili esplosi nel 2018 hanno fatto ipotizzare perdite di bilancio per circa 600 milioni. Peggio che andar di notte a Reggio, dove i bilanci semplicemente non esistono, e a Catanzaro, dov’è emerso lo zampino delle ’ndrine.

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    L’ex presidente della Regione ed ex commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti

    In principio era Peppe

    Peppe Scopelliti era partito alla grande. Nel 2010 aveva stracciato Loiero alle urne e poi, a commissariamento dichiarato, si era lanciato in proclami degni più del giocatore di basket che era stato che di un politico: tagliare gli sprechi, rivedere le strutture fatiscenti, sforbiciare il personale di quel che serve.
    Il tutto per un risparmio totale di circa 200 milioni. Peccato solo che Super Peppe, più lungo che lungimirante, non si fosse accorto che il punto debole della Sanità calabrese era proprio la sua Reggio: pochi e vaghi i dati forniti alla commissione ispettiva inviata dal ministero, bilanci evanescenti o comunque non rispettati, tendenza all’indebitamento e spese iperboliche.

    I presupposti della contabilità “orale” che hanno reso famosa l’Asp reggina c’erano tutti.
    C’è voluto Roger Waters con la sua recente sortita su Cariati per ricordare ai calabresi che “Pappalone” è riuscito nel “miracolo” di tagliare gli ospedali, ben sei nel solo Cosentino, ma non le spese. E a proposito di Cosenza: la parabola di Gianfranco Scarpelli, direttore generale dell’Asp, insegna che tagliare non basta. Infatti, il pediatra cosentino, notoriamente legato ai Gentile, aveva provato a mettere mano al contenzioso legale della sua Azienda e qualcosa l’aveva sforbiciata qui e lì. Ma questo non gli ha evitato le attenzioni dell’autorità giudiziaria e qualche scandalo giornalistico, culminati in un processo da cui è uscito per il rotto della cuffia.
    Voto: 4 meno meno, perché una rockstar ci ha ricordato che ha gestito la Sanità.

    Un manager alla carica

    La Sanità calabrese ha ripetuto, nel piccolo, ciò che accadeva nel resto del Paese: l’eclissi ingloriosa della politica, dovuta al crollo del berlusconismo, e l’arrembaggio dei tecnici.
    Infatti, il prudente Mario Oliverio, che aveva stravinto nel 2014 con una campagna elettorale piuttosto dimessa, è riuscito a non farsi tritare per la Sanità per il semplice motivo che (almeno formalmente) non l’ha gestita. La mission impossible è toccata a Massimo Scura, manager ingegnere di area Pd, che aveva rilevato il posto di Super Peppe dopo il breve interregno (circa sei mesi) di Luciano Pezzi, già subcommissario di Scopelliti.

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    Gli ex commissari alla Sanità Massimo Scura e Saverio Cotticelli

    A Scura si deve riconoscere di aver provato per davvero a fare il commissario ad acta. Al punto di attirarsi le ire di Oliverio, arrivato al punto di annunciare iniziative eclatanti. Peccato solo che durante il triennio di Scura (2015-2018) si sono verificati i presunti falsi in bilancio dell’Asp cosentina, è avvenuto il commissariamento per mafia dell’Asp di Catanzaro, è arrivata al capolinea la vicenda della Fondazione Campanella e, contemporaneamente, sono esplose le magagne dell’Azienda ospedaliera di Cosenza. In pratica, sono emerse tutte le criticità già rilevate dalla Commissione ministeriale nel 2009.
    Scura ha rimediato dalla sua esperienza calabrese un rinvio a giudizio per la vicenda della Task Force veterinaria regionale e un’inchiesta pesantissima.
    Voto: 5 meno meno, per essere riuscito a far sembrare il Pd, quando era al governo, una forza di opposizione.

    Il generale distratto

    C’è da sperare che la Sanità regionale non anticipi le tendenze della politica nazionale, perché l’esperienza di Saverio Cotticelli, generale dei carabinieri in pensione, dimostra che neppure il peggiore Pinochet potrebbe mettere un po’ d’ordine.
    Ad ogni buon conto, a Cotticelli, nominato dai cinquestelle in versione gialloverde e poi confermato nella versione giallorossa, non si possono fare troppi rilievi: a differenza di chi lo ha preceduto, non ha governato (e forse non ci ha neppure provato). Ha subito tutto ciò che gli capitava sotto e attorno. Anche la pandemia, che non si è accorto di dover gestire.
    Voto: 3, perché fa quasi tenerezza.

    L’asso pigliatutto

    È durato appena nove giorni, giusto il tempo di farsi tritare dai media per l’infelice battuta sul Covid trasmissibile solo col bacio alla francese, tra l’altro genderfluid. Tuttavia, i calabresi conoscevano già Giuseppe Zuccatelli, ex presidente dell’Agenas, che aveva gestito il “Pugliese Ciaccio”, la “Mater Domini” e l’Asp di Cosenza.
    Voto: in generale non pervenuto, ma comunque 3, per il doppio record del siluramento lampo e della dichiarazione maliziosa.

    Il record di Giuseppe Zuccatelli: nove giorni da commissario per il piano di rientro sanitario

    Il prefetto di ferro

    C’è chi è durato meno di Zuccatelli: è Eugenio Gaudio, ex rettore della Sapienza, che il 17 novembre 2020 ha rifiutato l’incarico a commissario ad acta propostogli dal governo il giorno prima.
    Si sa che i calabresi, quando qualcosa non va, diventano reazionari, invocano legge e ordine e sognano i prefetti, meglio se “di ferro”.
    Chi meglio del supersbirro siciliano Guido Longo, conosciutissimo dai calabresi per essere stato prefetto di Vibo, quindi in prima linea nella lotta alle super ’ndrine?
    Longo ha gestito la Sanità durante l’interregno di Spirlì con un piglio più burocratico che poliziesco. Infatti, ha amministrato in maniera “difensiva”: ha bocciato il bilancio dell’Asp di Crotone (2019), quelli di Vibo (2018-2019) e quello di Reggio (2019), l’unico che quell’Asp fosse riuscita a presentare. Non ha sbloccato le assunzioni e non ha applicato le norme anticovid.
    Nella Sanità calabrese conoscevamo la medicina difensiva. Longo ha dimostrato che l’amministrazione può non essere da meno.
    Voto: 5, per rispetto ai galloni.

    Il prefetto Guido Longo, ex commissario alla Sanità in Calabria

    Occhiuto ha ripoliticizzato la sanità calabrese

    Dare i voti a Roberto Occhiuto, che ha “ripoliticizzato” la funzione di commissario ad acta è prematuro. Le sue sortite principali nel settore sono quelle relative all’Ospedale di Cariati (anche lui fan dei Pink Floyd?) e sul piano di assunzioni di medici e Oss per l’Annunziata di Cosenza.
    Roberto Occhiuto non ha promesso le “montagne di pilu”. Ma qualcuno tra i suoi lo avrebbe fatto durante l’ultima campagna elettorale. Riuscirà il Nostro a resistere alle pressioni dei tanti che si aspettano il pane quotidiano dalla Sanità e premono dalle graduatorie che giacciono nelle stanze dei bottoni? Si accettano scommesse…

  • Tutti gli uomini di Valeria Fedele: il socialista, il pentito, il… Delfino

    Tutti gli uomini di Valeria Fedele: il socialista, il pentito, il… Delfino

    Valeria Fedele è una politica dal basso profilo, che ama accentuare il suo lato da tecnica giurista e burocrate. Attuale consigliera regionale di Forza Italia, in campagna elettorale in uno spot inneggiava a scegliere la competenza. Catanzarese, dei suoi quasi ottomila voti di preferenza, la metà li ha ottenuti nella provincia di Vibo Valentia.
    Nel suo background politico si rileva una candidatura al Senato nel 2018 con gli azzurri, mentre è consigliera comunale del suo paese, Maida (CZ) dal 2007.
    Se nella sua prima consiliatura comunale è stata vice sindaca e assessora, sia nel 2012 che nel 2017 Valeria Fedele puntava invece a diventare sindaca con una lista civica. Ma è arrivata sempre terza.

    Tornando ai primi anni in politica, è stata coordinatrice cittadina, componente della direzione regionale e responsabile nazionale della segreteria femminile del movimento “Italiani nel mondo” dell’ex senatore Sergio De Gregorio.
    Quest’ultimo, lo si ricorderà, è stato indagato per corruzione nell’ambito del procedimento sulla compravendita dei senatori da parte di Berlusconi che portò alla caduta del secondo Governo Prodi. Il Cavaliere se la cavò con la prescrizione, De Gregorio patteggiò una pena di 20 mesi nel 2013. «Tra il 2006 e il 2008 Berlusconi mi pagò quasi 3 milioni di euro per passare con Forza Italia» affermò.

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    Berlusconi e De Gregorio

    La società dei D’Addosio

    Il braccio destro storico del senatore in questione, nonché coordinatore organizzativo nazionale e componente dell’ufficio di presidenza del movimento “Italiani nel mondo”, era Gennaro D’Addosio. È un ex politico locale socialista in quel di Napoli e, soprattutto, il compagno di Valeria Fedele. D’Addosio è il proprietario della Energy Max Plus srl, società di famiglia nata nel 2007. L’azienda ha sede in Campania e in Calabria (dove ha molte commesse pubbliche), si occupa di impianti tecnologici e di produzione di energia alternativa.

    Tra i proprietari di quote societarie figura il figlio di Gennaro, Gianluca D’Addosio. Quest’ultimo, già giornalista dell’Avanti!, nel 2008 finì in arresto nell’ambito dell’inchiesta “Sim ‘e Napule’” coordinata dal pm della Dda di Napoli Catello Maresca.
    Il magistrato, alle amministrative partenopee dell’anno scorso, fu il candidato del centrodestra alla carica di sindaco, sostenuto dalla ministra per il Sud Mara Carfagna.

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    La ministra Mara Carfagna

    Un’altra proprietaria delle quote della Energy Max Plus è Concetta D’Addosio, detta Conny. Nella tornata elettorale appena citata si candidò contro Maresca nella lista civica “BassolinoXNapoli” ottenendo 90 preferenze. Alle Amministrative 2016 ci aveva già provato, invece, con Forza Italia a sostegno di Gianni Lettieri (con capolista Mara Carfagna) ottenendo 962 voti personali. La D’Addosio era andata a lezione di cambi di casacca da un’autorità indiscussa della materia: nel 2011 era candidata come riempilista alle Comunali di Crotone a sostegno della trasformista per antonomasia Dorina Bianchi.

    Valeria Fedele, Tallini e i subappalti

    In questo asset societario (che comprende anche un altro parente, Leandro D’Addosio) si è inserita anche Valeria Fedele. Nel suo curriculum dichiara, infatti, di aver svolto il ruolo di direttore generale di Energy Max Plus s.r.l. dal dicembre 2015 al gennaio 2019. L’organigramma aziendale pubblicato nel blog personale di Gennaro D’Addosio, tuttavia, non prevede quella figura professionale, ma solo quella di direttore allo sviluppo e direttore tecnico.
    Dal febbraio 2019, comunque, la Fedele è divenuta direttore generale della Provincia di Catanzaro. La società della famiglia del compagno, intanto, ha continuato a vincere gare d’appalto nello stesso territorio, come quella sul servizio di manutenzione del verde dell’Asp di Catanzaro nel 2020 (per 80mila euro).

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    Domenico Tallini (Forza Italia)

    In una interrogazione del 19 novembre 2019 (la numero 521), l’allora consigliere regionale Domenico Tallini (legato politicamente alla Fedele) chiese conto alla Giunta regionale in merito al mancato pagamento di talune ditte subappaltatrici di Manitalidea spa, destinataria di una commessa dalla Regione Calabria. Manco a dirlo, una delle ditte subappaltatrici era la Energy Max Plus del compagno di Valeria Fedele.
    Conflitto di interesse? Se davvero tale, permarrebbe ancora oggi: la società risulta nell’elenco delle ditte registrate presso la Regione Calabria per manutenzione e installazione di impianti termici.

    Le dichiarazioni shock del killer Pulice

    Non solo questioni aziendali. A turbare la Fedele c’è anche un verbale di interrogatorio datato 7 ottobre 2017, acquisito su consenso delle parti, incluso il Pm De Bernardo, all’udienza dibattimentale del processo “Imponimento” dello scorso 17 dicembre. Un documento che potrebbe far non poco scalpore.
    A rendere dichiarazioni davanti ai pm Vincenzo Luberto ed Elio Romano in quel verbale c’è il killer ‘ndranghetista (considerato esponente apicale delle cosche confederate “Iannazzo e Cannizzaro-Daponte”), oggi pentito e collaboratore di giustizia, Gennaro Pulice di Lamezia Terme.

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    Il pentito Gennaro Pulice

    «Conosco Fedele Filadelfio anche perché sono stato fidanzato con la di lui figlia che si chiama Valeria dal ’92 al 2000. È un imprenditore originario di San Pietro Lametino, a Lamezia si occupa di uno scasso e gestisce il porticciolo turistico di Gizzeria. È vicino a tutte le famiglie lametine in quanto è stato sempre dedito alle truffe alle assicurazioni e non ha mai fatto mancare il proprio apporto agli ‘ndranghetisti. Praticava le truffe per il tramite dei suoi legami con periti e con i medici» dichiara a verbale Pulice.

    L’amore uccide

    Una storia adolescenziale, quella (secondo le dichiarazioni rese) con l’attuale consigliera regionale di Forza Italia, di poco conto se non fosse che già in tenera età Pulice divenne un assassino. Proprio negli anni da lui indicati come quelli del fidanzamento con la futura politica azzurra, uccise da minorenne in sequenza Salvatore Belfiore nel 1995 (nel giorno in cui ricorreva la data di omicidio del padre, su sollecitazione del nonno), Antonio Dattilo e Gennaro Ventura nel 1996.

    Un amore sgradito in famiglia secondo il pentito. Che a verbale dichiara: «Dopo aver interrotto il fidanzamento, Nino Torcasio mi disse che Fedele aveva, addirittura, cercato di assoldare un killer tra i Torcasio in quanto non sopportava che io fossi fidanzato con la figlia. Fedele aveva chiesto il killer proprio a Nino Torcasio. So che Fedele era legato anche agli Anello per come riferitomi dai fratelli Fruci e dallo stesso Fedele Filadelfio».
    Circostanze e rivelazioni tutte da riscontrare, ma che sono messe nero su bianco e acquisite nel processo in corso.

    L’incontro tra Fedele e Anello

    Il padre della consigliera regionale, Filadelfio Fedele, detto “Delfino”, in passato è stato assolto in vari procedimenti a suo carico. Assolto nel 2015 nel processo Fedilbarc per la vicenda inerente il porticciolo di Gizzeria Lido; assolto nel processo “Medusa” in abbreviato, con le accuse di aver favorito la cosca Giampà dal 2005 al 2012 respinte con formula piena.

    Seppur non indagato, il suo nome compare in altre carte di “Imponimento” in riferimento alle elezioni comunali a Maida del giugno del 2017. Nei documenti si legge che Filadelfio Fedele, detto “Delfino”, padre di Valeria, era pronto ad intercedere per la figlia, allora candidata sindaca, chiedendo aiuto a Rocco Anello, considerato dagli inquirenti (e dal Tribunale di Vibo Valentia) il boss della cosca Anello-Fruci. Il tutto, compreso l’incontro col presunto boss condannato a 20 anni lo scorso gennaio con rito abbreviato, ha a corredo intercettazioni telefoniche ed ambientali della Dda di Catanzaro, in particolare un dialogo tra Anello e Fedele del 24 marzo 2017.

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    Il municipio di Maida

    In quella tornata elettorale Valeria Fedele arrivò ultima tra i candidati sindaci, divenendo consigliera comunale. Lo si ripete, né Fedele padre né la figlia risultano indagati. Ma il faro della Procura sull’intermediazione “politica” del presunto boss Anello in quella tornata amministrativa si evince dalle carte prodotte nel processo Imponimento.
    Difatti, nel capo di imputazione di Giovanni Anello, ex assessore comunale di Polia ritenuto factotum del presunto boss, si legge: “Contribuiva a formare la strategia del sodalizio in ambito politico, come quando promuoveva il sostegno della cosca alle elezioni comunali di Maida del 2017 dei candidati al Consiglio comunale Francesco Giardino cl. 87 (al Consiglio comunale) e Valeria Fedele (candidata alla carica di sindaco)”.
    La vita da politica regionale di Valeria Fedele pare ancora dover decollare. Ma – tra situazioni scomode, conflitti di interesse e atti di processi di mafia – inizia con dei macigni di cui farebbe volentieri a meno.

  • Amalia Bruni e il giudice, le affinità “elettive”

    Amalia Bruni e il giudice, le affinità “elettive”

    «Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati…» scriveva Ennio Flaiano degli italiani e la frase sembra ancora calzare a pennello, decenni dopo, per una vicenda che riguarda Amalia Bruni. La giudice Francesca Garofalo, presidente di sezione civile al Tribunale di Catanzaro, è stata anche la presidente del collegio giudicante del ricorso di Annunziato Nastasi (M5S) sulla presunta ineleggibilità della Bruni, rigettato con una ordinanza dello scorso 14 febbraio, depositata dieci giorni dopo. Amalia Bruni è rimasta in Consiglio regionale, il pentastellato ha dovuto pagare circa 3.250 euro di spese legali.

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    Commensali abituali

    Le motivazioni dietro quest’esito sono materia per giuristi. Qualche perplessità sulla composizione del collegio potrebbe non essere peregrina, però. Perché, anche di fronte a decisioni pienamente legittime, esistono questioni di opportunità. I magistrati, infatti, devono astenersi dai processi in determinati casi, tra cui quello in cui il giudice o il coniuge sia “commensale abituale” di una delle parti di causa. Ossia quando il magistrato abbia con la parte una frequenza di contatti e di rapporti tale da far dubitare della sua serenità di giudizio.

    La giudice Garofalo è di Lamezia Terme. Suo marito Fabrizio Muraca era nella lista “Oliverio Presidente” alle elezioni regionali del 2014 e ottenne 2.313 voti. Un anno dopo ci riprovò alle Comunali di Lamezia Terme nella lista del Pd, racimolando 363 preferenze personali. Il “suo” candidato sindaco era il dottor Tommaso Sonni, marito di Amalia Bruni.

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    Il santino di Fabrizio Muraca, marito della giudice Garofalo, candidato a sostegno del marito di Amalia Bruni

    Una lunga sfilza di cognati

    Fratello di Fabrizio Muraca e, quindi, cognato della Garofalo è Pierpaolo Muraca. Nel 2010 nella lista del Pd a sostegno di Gianni Speranza ha raccolto un bottino di 390 preferenze personali. Nella medesima lista era diventata consigliera comunale con 315 voti Aquila Villella, cognata di Amalia Bruni (ha sposato il fratello, Mimmo Bruni) e candidata alle ultime Regionali in suo sostegno sempre nella lista del Pd. Pierpaolo Muraca in quella stessa consiliatura divenne assessore comunale all’Ambiente.

    Fabrizio e Pierpaolo hanno una sorella, Maria Gabriella. Genealogista, rientra nel personale dell’associazione per la ricerca neurogenetica che ha Sonni come tesoriere e sua moglie Amalia Bruni nel comitato scientifico. Il marito di Maria Gabriella Muraca, quindi cognato anch’egli della giudice Francesca Garofalo, è il dottor Raffaele Maletta. Quest’ultimo fa parte dell’equipe di medici del Centro regionale di Neurogenetica diretto da Amalia Bruni.

    Meglio astenersi su Amalia Bruni?

    Con tutti questi incroci (e cognati) di mezzo, insomma, e in una città che per popolazione non compete certo con New York è difficile non pensare che l’ex sfidante di Roberto Occhiuto e Francesca Garofalo possano corrispondere all’identikit di commensali abituali o che ragioni di convenienza avrebbero potuto spingere il magistrato ad astenersi dal giudizio in questione. Ma anche i potenziali conflitti d’interessi in Calabria sono abituali e nessuno ha dato loro peso.

  • Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Tirreno cosentino, fiumi di denaro e un mare di opere incompiute

    Da quando – dagli anni ’80 in poi – il Tirreno cosentino è diventato meta turistica con leggi ad hoc per la costruzione di alberghi e villaggi, magari abusivi e usati come lavanderia dalle cosche locali, anche le opere pubbliche hanno accompagnato questa crescita disordinata e devastante.

    Molto denaro per nulla

    Una pioggia di denaro si è riversata su tutti i paesi costieri, per la gioia di politicanti di centro, destra e sinistra che così hanno accresciuto il proprio peso politico ed elettorale. Sono gli anni in cui i big si chiamano Misasi, Pirillo, Gentile, Adamo, Covello, Antoniozzi. Anni in cui si dissemina la costa di marciapiedi e si rifanno centri storici con marmi di Trani e pietre di porfido del Trentino. Sorgono mattatoi, centri sportivi, porti turistici, strade di penetrazione finite nel nulla. Opere quasi tutte abbandonate o inutilizzate.

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    Massi per arginare le mareggiate a Belvedere

    Come può un masso arginare il mare?

    La follia degli anni ’80 inizia con i massi a difesa della ferrovia. Una serie di pietre provenienti da cave, gestite spesso dalle potentissime cosche del Tirreno, gettate alla rinfusa a protezione della linea ferroviaria colpita da forti mareggiate. A trasportare i massi una serie di ditte, a studiare il fenomeno tecnici di dubbia esperienza che hanno costruito quell’inutile barriera di massi favorendo indirettamente o direttamente l’erosione verso il paese vicino. Così i massi a Belvedere hanno rovinato le spiagge di Sangineto e, via verso sud, fino al disastro di San Lucido.

    Fronte del porto

    Dopo i massi, ecco i finanziamenti sulle condotte sottomarine legate alla depurazione. Miliardi di vecchie lire hanno fatto sì che ogni depuratore avesse la sua condotta che sarebbe dovuta arrivare a trenta metri di profondità. Diverse però, finiti i finanziamenti, si sono fermate a poche decine di metri dalla riva espandendo liquami secondo le correnti.

    Poi l’esplosione della portualità negli anni ’90. Ogni paese voleva un porto, ogni paese presentò progetti in massima parte finanziati dalla Regione o dal Comune. Anche stavolta a regnare sembra essere l’improvvisazione. Progetti fantasiosi e soprattutto miliardari, che vanno dal Porto canale mobile e retraibile di Tortora alla foce del fiume Noce a quello attorno alla Torre Talao a Scalea. C’è poi quello nel fiume Corvino a Diamante con annesso lago, e poi ecco quello di Belvedere fra i massi della ferrovia, quello di Fuscaldo, di Paola, di Cittadella, di Campora San Giovanni.

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    Diamante vuole un porto turistico

    Al momento, passata la buriana dei fallimenti finanziari, sono operativi solo quelli di Cetraro e Campora san Giovanni. Ma entrambi convivono annualmente con l’insabbiamento degli ingressi e i relativi esborsi di centinaia di migliaia di euro per liberarli e permettere così alle imbarcazioni di entrare ed uscire.

    Il porto di Damante è emblematico del disastro compiuto da quattro sindaci, iniziato nel 1990 con il sindaco De Luna, e proseguito con Caselli, Magorno, Sollazzo, e tre governatori (Oliviero, Santelli, Spirlì) che non sono riusciti a gestire cospicui finanziamenti finiti in mano di un concessionario, riducendo solo la scogliera ad un ammasso di cemento.

    Aviosuperficie e ospedale: Scalea abbandonata

    La madre di tutte le opere pubbliche abbandonate è probabilmente  l’aviosuperficie di Scalea. Circa 23 miliardi di vecchie lire sperperate lungo il fiume Lao in un corridoio verde, un’area Sic e un’area demaniale. Per costruirlo sono state estirpate ben 2.000 piante di cedro che decine di contadini coltivavano da decenni. Un disastro passato inosservato e che ha fatto posto ad una lingua di bitume lunga circa 2.000 metri e larga 30 e ritornato alla luce grazie all’inchiesta “Lande desolate” nella quale venne coinvolto anche il governatore Oliverio, poi assolto.

    Sempre a Scalea un’altra delle opere pubbliche abbandonate e solo in parte restituita alla collettività negli anni recenti, è l’ospedale. Una struttura imponente di tre piani che troneggia su una collina costata alla collettività ben 10 miliardi di vecchie lire. Non è mai entrato in funzione come ospedale né lo diventerà dopo la chiusura di altri 19 presìdi in tutta la regione. Rimasto senza alcun controllo dopo essere stato attrezzato, per anni è stato vandalizzato, fino a farne sparire le cucine e tutti gli arredi delle stanze.

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    Doveva essere l’ospedale di Scalea, ma è solo abbandonato e vandalizzato

    Tre viadotti e due gallerie

    Poi ci sono le strade di penetrazione dal Tirreno verso l’autostrada, quelle che avrebbero dovuto favorire il turismo. La strada di collegamento di Lagonegro è obsoleta e se ne cerca un’altra. La prima negli anni ’90 fu il congiungimento di Guardia Piemontese attraverso San Marco. Una variante che era partita bene ma che si è fermata a metà con una sola bretella ben fatta: riporta, però, alla vecchia strada provinciale senza raggiungere l’autostrada a pochissimi km.

    Ed ecco in alternativa un’altra grande pensata, una nuova strada che da Scalea possa raggiungere Mormanno. I soldi pubblici ci sono, ben 100 milioni di euro. Si parte alla grande dal fiume Lao, ma, completata una bellissima rotonda, la strada si ferma ad un piccolo ponte della ferrovia. Soldi impegnati, dieci milioni di euro. Contro l’opera interviene anche il Parco del Pollino che non dà nessuna autorizzazione.  La strada per raggiungere Mormanno dovrebbe attraversare il territorio di Papasidero con tre viadotti e due gallerie. Uno sfondamento e una cementificazione selvaggia nel pieno del parco.

    La protesta dei lavoratori Sateca all’interno delle terme di Guardia Piemontese

    Non solo opere pubbliche: il disastro delle Terme

    Storia a sé fanno le Terme Luigiane e il contenzioso fra i due comuni che la dovrebbero gestire (Guardia Piemontese e Acquappesa) e la società che la aveva in concessione. Struttura chiusa, dipendenti in cassa integrazione, indotto volatilizzato, pazienti privati del servizio: a perdere è stato come sempre il territorio, ennesima conferma della disastrosa gestione delle cose pubbliche nell’alto Tirreno cosentino.

    Sempre a Guardia Piemontese, vicino alle terme è stata costruita una grossa struttura. È il Centro Congressi, costato centinaia di milioni in vecchie lire, abbandonato per decenni. Ripreso e ristrutturato recentemente, per poi essere destinato ad altro. Anche stavolta un’opera pubblica costretta a lungo a fare i conti con degrado e abbandono, quale sarà la prossima?

    Il centro congressi di Guardia Piemontese

     

  • Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il buco nell’acqua, la Calabria mette a rischio i fondi per tutta l’Italia

    Il rischio che si faccia un enorme buco nell’acqua è direttamente proporzionale alla banalità della battuta. La questione è però molto seria: se le risorse idriche calabresi entro il prossimo 30 giugno non verranno affidate a un soggetto gestore c’è la contreta possibilità che non solo la Regione Calabria, ma anche tutte le altre Regioni italiane, perdano l’opportunità di utilizzare i finanziamenti europei destinati al settore: dal Pnrr ai fondi Ue 2021/2027 fino alla riprogrammazione del React Eu. Un potenziale disastro.

    Quattro regioni mancano all’appello

    Per la fine di giugno è infatti fissata la deadline per l’affidamento a regime del Servizio idrico integrato e, a livello nazionale, l’Italia deve garantire alcune «condizioni abilitanti». Che mancano, o sono solo parzialmente soddisfatte, per 4 Regioni: Molise, Campania, Sicilia e, appunto, Calabria. Le condizioni abilitanti sono i pre-requisiti che gli Stati membri devono soddisfare per poter fruire dei fondi europei. Il dipartimento per le Politiche di coesione della Presidenza del Consiglio dei ministri specifica che «affinché la singola condizione possa ritenersi soddisfatta, è necessario che l’adempimento copra la totalità dei criteri previsti e, per alcune condizioni abilitanti, la copertura dell’intero territorio».

    Conseguenze per tutti

    È proprio il caso del Servizio idrico. «Eventuali carenze, anche parziali in ordine a specifici criteri o ambiti regionali, non permetterebbero di asseverare la condizione come soddisfatta, con conseguenze penalizzanti per l’intero Stato membro». Dunque le spese collegate all’obiettivo specifico, benché certificabili, non potrebbero essere rimborsate allo Stato membro «per quanto riguarda la quota Ue, finché l’adempimento non sia certificato dalla Commissione». La Calabria sconta un pesante ritardo verso l’individuazione del soggetto gestore unico previsto dalla normativa nazionale (D.lgs. 152/2006) e regionale (l. r. 18 del 18 maggio 2017).

    In attesa del servizio idrico integrato

    L’affidamento della gestione del servizio idrico integrato, che è una condizione abilitante per usufruire dei finanziamenti europei, spetta per legge all’ente di governo d’ambito, ovvero l’Autorità idrica calabrese in cui sono rappresentati i Comuni. L’Aic nei mesi scorsi ha indicato una strada: l’affidamento a una società, creata sulle ceneri della “Cosenza Acque”, che si dovrebbe chiamare “Acque Pubbliche della Calabria”, un’Azienda speciale consortile in cui dovrebbero entrare, come soci, tutti i 404 Comuni calabresi ed eventualmente altri enti pubblici.

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    Assemblea dell’Autorità idrica calabrese con i sindaci

    Sorical fino al 2034?

    Sorical ha la concessione della grande adduzione dell’acqua fino al 2034. È una partecipata al 53,5% dalla stessa Regione e per la restante quota è in mano privata. Nel tentativo – in corso da quasi un anno e a un decennio dalla messa in liquidazione – di essere ripubblicizzata, si ritrova alle prese con le condizioni poste dal suo principale creditore. Si tratta di una banca irlandese di cui abbiamo scritto che ha ceduto i suoi circa 85 milioni di euro di crediti a un Fondo governativo tedesco.

    Che, stando a quanto riportato dalla Gazzetta del Sud domenica scorsa, pare si stia mettendo di traverso. Dunque, da un lato, se non si supera questa impasse non si può affidare l’intero servizio a Sorical. Ma anche la soluzione, pur indicata come provvisoria, di affidare solo la fornitura al dettaglio alla nuova “Acque Pubbliche della Calabria”, lasciando l’ingrosso alla società mista le cui quote private sono pignorate dai tedeschi, sembra essere altrettanto irta di ostacoli.

    La diga del Menta, gestita dalla Sorical, società partecipata della Regione Calabria

    Chi metterà i soldi?

    L’Aic sta sottoponendo ai Comuni, illustrandole negli incontri delle Conferenze territoriali di zona, le delibere da approvare in consiglio comunale per entrare nella nuova società. Ben pochi però finora lo hanno fatto. Si sta tentando pure la strada dei Contratti di rete, ma i comprensibili dubbi dei sindaci, soprattutto relativi al «chi ci metterà i soldi», si moltiplicano. Così il cronoprogramma iniziale, che prevedeva di arrivare ad avere un Piano industriale entro metà febbraio, e all’affidamento definitivo del servizio il 18 marzo, è già ampiamente non rispettato.

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    La multiutility di Occhiuto

    In mezzo c’è la Regione che, secondo quanto va ripetendo da tempo il presidente Roberto Occhiuto, punta a creare un’unica «multiutility» per gestire tutto: la fornitura dell’acqua dalla captazione fino ai rubinetti delle case, ma anche la depurazione e la riscossione delle bollette. Il tempo però stringe e in pochi mesi è difficile creare un simile soggetto. Le alternative sono due: rendere Sorical pubblica, ma bisogna pagare almeno 85 milioni di euro di debiti e potrebbe anche non bastare. La seconda possibilità è rendere operativa la “Acque pubbliche della Calabria”. Ma servirebbero risorse e personale che al momento non esistono.

    Tra Manna e Calabretta spunta Occhiuto

    Entrandoci, infatti, i Comuni dovrebbero versare 1 euro per ogni abitante nell’arco di tre anni. Poca cosa. I vertici dell’Aic stanno dunque cercando di interloquire con Utilitalia (Federazione che riunisce le Aziende operanti nei servizi pubblici rappresentandole presso le Istituzioni nazionali ed europee) per la redazione del Piano industriale. C’è poi il tentativo di trovare un sostegno economico da parte del Ministero, ma senza l’appoggio politico-istituzionale della Regione è dura.

    Sì, perché dalla Cittadella – che potrebbe anche entrare in “Acque pubbliche” come socio – non pare sia arrivato al momento alcun segnale di accompagnamento a questo percorso, che pure lo stesso Occhiuto aveva detto di voler intraprendere in via provvisoria per non perdere i fondi del Pnrr. È chiaro, allora, che tutto è subordinato a una partita politica: da un lato c’è l’Aic guidata dal sindaco di Rende e presidente di Anci Calabria Marcello Manna, dall’altro Sorical guidata dal leghista Cataldo Calabretta, in mezzo Occhiuto. Che vorrà certamente avere un ruolo di primo piano anche in un settore decisivo come questo.

    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    I Comuni nella Sorical

    Intanto va detto che la via che porterebbe all’affidamento del servizio a una Sorical interamente pubblica non potrebbe essere percorsa se non mettendo dentro anche i Comuni, perché senza di loro non si può esercitare il controllo analogo previsto dalla gestione in house. Gli stessi Comuni, rispetto alla società “Acque pubbliche della Calabria”, sono d’altronde alle prese con una scelta che appare forzata, perché la legge 233/21 prevede, sostanzialmente, la possibilità dell’ente d’ambito di commissariare le gestioni in economia. Che in Calabria sono attualmente la quasi totalità, con i risultati che conosciamo.

    Chiare, fresche e dolci Acque pubbliche

    Se diventasse operativa la “Acque pubbliche”, che avrebbe sede legale a Cosenza, si instaurerebbe un rapporto di tipo negoziale con Sorical che, come avviene anche oggi, avrebbe competenza fino ai serbatoi comunali. Gli organi della nuova società sarebbero l’Assemblea composta da tutti i Comuni e gli enti pubblici coinvolti, il Consiglio di Amministrazione (composto da quindici membri, compreso il presidente, in rappresentanza delle cinque Province e delle diverse fasce di popolazione), il direttore (che, come il Cda, verrebbe nominato dall’Assemblea) e il collegio dei revisori dei conti.

    I crediti della Sorical

    I problemi storici però resterebbero immutati nella loro gravità. Sorical, nel bilancio 2020, ha inserito alla voce «crediti verso clienti» una somma di 96,5 milioni di euro (31 sarebbero dovuti dalla fallita Soakro, 14 dalla Lamezia Multiservizi, 13,9 dal Comune di Cosenza, 3,3 da Congesi). Nel bilancio di previsione approvato a fine anno dalla Regione, per rischi connessi alla riscossione delle somme relative al servizio idropotabile, vantati nei confronti dei Comuni in dissesto e predissesto e degli enti che non hanno sottoscritto piani di rateizzazione o accordi con la Regione, sono stati previsti 69,7 milioni di euro. I debiti maturati dai Comuni verso la Regione fino al 2004, anno in cui è stata creata Sorical, restano tra le «criticità rilevanti ancora irrisolte».

    Cataldo Calabretta, commissario della Sorical

    L’evasione dei comuni

    Secondo quanto dichiarato negli anni scorsi dagli stessi vertici Sorical, il servizio idrico calabrese registrerebbe un’evasione del 50%, con punte del 70%. A novembre del 2020 l’attuale commissario Calabretta dichiarava che i Comuni dovevano versare ancora 160 milioni di euro «con i quali si potrebbero coprire i debiti della società», che oggi ammontano in totale a 188 milioni. D’altro canto negli anni molti Comuni hanno contestato la determinazione delle tariffe, questione rispolverata in questi giorni anche dal Codacons calabrese.

    Perdite idriche pari al 52,3 %

    Qualche altro dato può essere utile a comprendere la complessità del problema. Le regioni del Mezzogiorno fanno registrare il 52,3% di perdite idriche: più di metà dell’acqua immessa nei sistemi di acquedotto viene cioè sprecata, a fronte di una media nazionale del 43,7% (Relazione annuale Arera 2020). Circa 1 milione e 450mila famiglie meridionali subiscono interruzioni della fornitura idrica (Istat, 2020). Il 20% del territorio italiano è a rischio desertificazione (Anbi, 2021).

    La Calabria senza servizio idrico integrato

    Secondo il governo nazionale la soluzione sta nelle gestioni industriali, che al Sud scarseggiano. Nel Pnrr sono individuate quattro linee di investimento e due riforme che hanno lo scopo di «garantire la sicurezza dell’approvvigionamento e la gestione sostenibile delle risorse idriche lungo l’intero ciclo».

    A questo sono riservate complessivamente risorse per 4,38 miliardi di euro, di cui una quota intorno al 51% secondo il governo sarà indirizzata al Mezzogiorno (circa 2,2 miliardi di euro). Ma la Calabria non ha ancora il servizio idrico integrato né un soggetto gestore che possa intercettare e, come si usa dire molto in questo periodo, mettere a terra questi potenziali finanziamenti. Nonostante si tratti probabilmente dell’unica occasione per mettere mano a reti colabrodo risalenti a mezzo secolo fa.

  • Cono Cantelmi, l’ex leader anticasta M5S portaborse da 150mila euro

    Cono Cantelmi, l’ex leader anticasta M5S portaborse da 150mila euro

    Se la Regione Calabria avesse un suo dizionario politico-antropologico lo si dovrebbe aggiornare, alla voce staff, con continui, sorprendenti innesti: l’ultimo è quello di Cono Cantelmi. Ovviamente non c’è da scandalizzarsi né da farne una questione morale, tanto più che tra i vituperati portaborse spesso – non sempre – ci sono bravi professionisti che non difettano di curriculum e competenze. Probabilmente sarà così anche in questo caso. Ma come si fa a non registrare che la traiettoria di certi percorsi appare, per così dire, quantomeno poco lineare? Cambiare idea è sinonimo di intelligenza, ma forse Cono Cantelmi ha in questo senso un po’ esagerato. Da candidato alla Presidenza della Regione del Movimento 5 Stelle, oggi si ritrova a fare da braccio destro a un esponente di primo piano della Lega.

    Cono Cantelmi, da aspirante governatore a portaborse

    Va detto che tra una circostanza e l’altra sono passati 8 anni. E lui, qualche tempo dopo l’esperienza fallimentare delle Regionali del 2014, si è allontanato dal mondo calabro-grillino. Però va detto pure che il suo era ancora il Movimento dei duri e puri, che mai avrebbero pensato che il loro leader calabrese potesse un giorno diventare il collaboratore esperto al 100% del presidente leghista del Consiglio regionale Filippo Mancuso. Invece nei giorni scorsi il salviniano più influente di Calabria ha indicato proprio Cantelmi per l’incarico di fiducia, che prevede un compenso di oltre 30mila euro all’anno.

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    Filippo Mancuso

    Parola d’ordine: lotta agli sprechi

    Avvocato di Catanzaro, Cantelmi nel novembre 2014 spiegava sul Blog delle Stelle che il primo punto del suo programma per la Calabria era ciò che sarebbe poi diventato una realtà su scala nazionale: il Reddito di cittadinanza. «I soldi – gli chiedeva un anonimo intervistatore – dove li prendete?». Risposta facile: «Attingeremo dal fondo di riserva per i debiti fuori bilancio, ma soprattutto faremo una guerra senza quartiere contro gli sprechi della casta in Regione: e lì i soldi ci sono eccome!».

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    Cantelmi sul palco e Nicola Morra al suo fianco

    Parole scolpite sulla roccia del sacro Blog. Altra domanda: «Da dove comincerà la lotta agli sprechi?». Ancora più facile: «Dai vitalizi dei consiglieri regionali. Ho chiesto agli altri candidati presidenti di sottoscrivere un impegno etico per ridursi lo stipendio a 2.500 euro e restituire i rimborsi elettorali, ma fanno finta di non sentire».

    Meno voti che click

    Con gli anni la furia anticasta si deve essere un po’ placata, ma Cantelmi non sembra aver dimenticato del tutto le sue posizioni di allora. Sul suo profilo Facebook compare infatti qualche post che richiama il grillismo delle origini. Come quello del 20 settembre 2021 con cui – cinque stelline gialle ad aprire e chiudere la frase – ha ricordato che «l’ambiente e la sua cura» sono sempre stati una sua «passione» ed un «impegno» anche durante le sue «precedenti militanze politiche».

    Un manifesto elettorale di Cono Cantelmi per le Comunali 2021 a Borgia

    In quei giorni stava di nuovo prendendo parte a una campagna elettorale, quella per le Comunali di Borgia. Candidato a consigliere a sostegno della riconfermata Elisabeth Sacco, Cantelmi ha preso 135 voti – per essere candidato alla Presidenza della Regione gli erano bastati 183 clic – e non è riuscito a entrare in consiglio comunale. Nel Comune del Catanzarese si è votato proprio il 3-4 ottobre scorso, stessi giorni in cui Mancuso prendeva sotto il vessillo della Lega i quasi 7mila voti che lo avrebbero proiettato sulla poltrona più alta del consiglio regionale. Mentre lui trionfava, il suo futuro collaboratore, già aspirante governatore 5 stelle, era candidato in una lista guidata da un’esponente del Pd: Elisabeth Sacco è componente dell’Assemblea regionale dem.