Questi gli aggiornamenti di oggi (19 aprile) sulla diffusione del Covid in Calabria. I contagi comunicati dalla Cittadella restano bassi. Sono, infatti, 849 i nuovi casi. Un risultato che arriva a fronte di soli 4.353 tamponi però. Il tasso di positività risulta, di conseguenza, pari al 19,50%. I guariti dal Coronavirus che il bollettino riporta sono 1.124. I morti della giornata sono 8.
A seguire, i dati delle singole province calabresi relativi alla pandemia comunicati dalle Asp di Catanzaro, Cosenza, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia alla Regione e riportati nel bollettino quotidiano della Cittadella.
Dall’inizio della pandemia ad oggi (19 aprile): i dati sul Covid in Calabria
Territorialmente, dall’inizio dell’epidemia, i casi positivi sono così distribuiti:
– Catanzaro: CASI ATTIVI 7172 (86 in reparto, 7 in terapia intensiva, 7079 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 40147 (39875 guariti, 272 deceduti).
Cosenza: CASI ATTIVI 42569 (92 in reparto, 6 in terapia intensiva, 42471 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 40943 (39909 guariti, 1034 deceduti).
Crotone: CASI ATTIVI 3772 (10 in reparto, 0 in terapia intensiva, 3762 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 30403 (30188 guariti, 215 deceduti).
Reggio Calabria: CASI ATTIVI 10338 (97 in reparto, 5 in terapia intensiva, 10236 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 119890 (119154 guariti, 736 deceduti).
Vibo Valentia: CASI ATTIVI 18260 (16 in reparto, 0 in terapia intensiva, 18244 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 18616 (18450 guariti, 166 deceduti).
L’ASP di Cosenza comunica che nel setting fuori regione si registrano 17 nuovi casi a domicilio. L’Asp di Catanzaro comunica che il decesso a domicilio è avvenuto il 16 aprile.
A queste tocca aggiungere la recente nomina del commissario del Parco delle Serre, Alfonsino Grillo. A dettarla, probabilmente, la fede politico-partitica (in particolare, il sostegno elettorale alle ultime regionali al ticket forzista Michele Comito-Valeria Fedele) e non particolari competenze tecniche. Grillo, difatti, ha svolto la professione di geometra (oggi non risulta iscritto all’albo) ed è laureato in Scienze politiche. Certo, nel 2002 la Giunta Chiaravalloti lo nominò nel cda del Parco delle Serre e da consigliere regionale fu componente della commissione Ambiente. Un background forse un po’ scarno a fronte delle tante eccellenze calabresi, anche giovani, costrette ad emigrare.
Il Grillo cangiante: da Esposito a Mangialavori
Ma il golden buzz (per dirla alla Italian’s Got Talent) per Alfonsino Grillo è scattato di recente, grazie all’abbraccio con Giuseppe Mangialavori e Forza Italia, dopo anni passati al seguito del catanzarese Baldo Esposito.
Dopo l’esperienza da sindaco di Gerocarne nel 2007, Grillo è stato eletto consigliere regionale nella lista “Scopelliti Presidente” nel 2010 con 3.400 voti. Esperienza che non riuscì a replicare nelle due successive tornate, limitandosi a “reggere” le liste che porteranno nel 2014 e nel 2020 all’elezione del catanzarese Baldo Esposito, che ottenne il seggio anche grazie al suo apporto.
Mangialavori e Occhiuto durante l’ultima campagna elettorale
Nel 2014 sotto la bandiera del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (compagine che vide Grillo assumere ruoli partitici di rilievo, in primis il coordinamento provinciale di Vibo Valentia) raccolse 3.610 voti (a fronte dei 6.400 di Baldo Esposito). Nel 2020 con la lista “Casa delle libertà” ne ottenne 2.654, mentre furono oltre diecimila quelli per l’ormai ex presidente della commissione Sanità. In quell’anno Grillo si “candidò” anche per ricoprire incarichi di sottogoverno regionale, senza successo.
La condanna della Corte dei Conti
Nel marzo del 2020, però, arrivò per Grillo la condanna della Corte dei Conti per il filone erariale di Rimborsopoli.
Ben 62.570,98 euro di danno erariale per spese non ammissibili per gli anni da consigliere regionale 2011 e 2012. Per quelle del 2010 è arrivata, invece, la prescrizione.
«Sotto il profilo formale, quasi tutta la documentazione non è riferita al Gruppo, ma all’on. Grillo, nella qualità di consigliere regionale», si legge nel testo della decisione. «Sul piano sostanziale è lapalissiano come l’erogazione di contributi alle varie associazioni presenti sul territorio non sia affatto riconducibile alle finalità istituzionali del Gruppo consiliare, ma agli scopi di promozione politica del consigliere Grillo», precisarono i magistrati contabili.
Tra le spese, pagate con soldi pubblici per fini giudicati privati, figurano elargizioni per i festeggiamenti in onore di San Michele Arcangelo a favore del Priore della relativa confraternita di Arena, altre a favore dell’Associazione “Lira Battente” per una manifestazione, contributi a favore della Pro Loco di Zambrone e per la festa patronale di San Basilio a Cessaniti.
Alla fine la condanna è stata pari all’80% del danno (il restante 20% rimane in capo al presidente del Gruppo consiliare per omesso controllo), ossia 50.056,78 euro. Permane, inoltre, ad oggi, il rinvio a giudizio per peculato disposto dal Gip di Reggio Calabria nel 2017 per quanto concerne gli aspetti penali.
Portaborse e vitalizio: i “cuscinetti” alla condanna
Con determina del 4 agosto 2020 a firma di Antonio Cortellaro e Romina Cavaggion – tra l’altro ex componente della struttura di Grillo quando era consigliere regionale – è arrivata la nomina da parte di Baldo Esposito proprio di Alfonsino Grillo quale “responsabile amministrativo al 50% del Presidente della III Commissione”. Un portaborse, insomma, nonostante il diretto interessato non ami sentirsi definire tale.
Ma non è finita. Lo scorso 28 marzo Alfonsino Grillo ha chiesto il vitalizio per il mandato di consigliere regionale svolto dal dal 28 marzo 2010 al 22 novembre 2014. Vitalizio che si vedrà accreditare proprio dal 1 aprile per una cifra pari a 2.434,83 mensili lordi. Piccolo particolare: la somma del vitalizio è ridotta del 25%, ma solo perché Grillo ne ha chiesto la liquidazione anticipata. Ossigeno, quindi, per le tasche dell’ex geometra.
Alfonsino Grillo, da commissario a presidente?
Ma Alfonsino Grillo è tornato in grande spolvero a seguito del cambio di sponsor politico. Decisivo l’apporto elettorale a Michele Comito e Valeria Fedele, eletti nella lista di Forza Italia (anche se sub iudice, soprattutto la seconda, ineleggibile secondo il giudizio di primo grado del Tribunale di Catanzaro).
Ad attendere Grillo, il Parco delle Serre e un discreto stipendio, nonostante i precedenti commissari svolgessero l’incarico a titolo gratuito. Il dirigente regionale Giovanni Aramini, voluto da Jole Santelli nel 2020, il funzionario Domenico Sodaro nel 2016 e il dottor Giuseppe Pellegrino nel 2018, voluti da Mario Oliverio, non percepivano il becco di un quattrino.
La luce trafigge il bosco del Parco delle Serre (dal sito ufficiale dell’Ente: foto Salvatore Federico)
Diversa sorte toccherà a Grillo. Lui arriverà a ricevere oltre 6mila euro lordi mensili (36.308 euro lordi per i sei mesi di durata dell’incarico da commissario). Intanto, solo due giorni fa, l’Assemblea della Comunità del Parco (guidata dalla assessora leghista di Simbario, Melania Carvelli) ha inserito lo stesso Grillo nella rosa dei 5 nominativi in lizza per la presidenza dell’ente. Ma la strada non è proprio in discesa.
La possibile sospensione e l’orientamento dell’Anac
Come si è detto, permane a carico di Alfonsino Grillo l’accusa di peculato dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria, nel filone penale dell’inchiesta “Rimborsopoli”. In caso di condanna, anche se non definitiva, per peculato il soggetto esterno all’amministrazione che abbia un incarico pubblico (come è quello di commissario/presidente del Parco delle Serre) va sospeso senza retribuzione (come sospesa è l’efficacia del contratto di diritto privato stipulato con l’amministrazione).
Non solo, l’Autorità nazionale anticorruzione suggerisce al legislatore di estendere la disciplina delle inconferibilità anche in caso di condanna della Corte dei Conti per danno erariale.
Tali condanne, si legge nella delibera, «portano dietro un giudizio di disvalore, dal punto di vista della lesione dell’immagine della pubblica amministrazione… analogo a quello delle sentenze di condanna emesse all’esito di giudizio penale». Ma se a Roberto Occhiuto va bene così, non sarà certo l’opposizione a farglielo notare.
Uno slogan elettorale di Alfonsino Grillo particolarmente azzeccato
Questi gli aggiornamenti di oggi (17 aprile) sulla diffusione del Covid in Calabria. I contagi comunicati dalla Cittadella sono sostanzialmente identici rispetto a ieri. Sono, infatti, 1.494 i nuovi casi. Un risultato che arriva a fronte di 7.669 tamponi. Il tasso di positività risulta, di conseguenza, pari 19,48,14%. I guariti dal Coronavirus che il bollettino riporta sono 2.369. I morti della giornata sono 4.
A seguire, i dati delle singole province calabresi relativi alla pandemia comunicati dalle Asp di Catanzaro, Cosenza, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia alla Regione e riportati nel bollettino quotidiano della Cittadella.
Dall’inizio della pandemia ad oggi (17 aprile): i dati sul Covid in Calabria
Territorialmente, dall’inizio dell’epidemia, i casi positivi sono così distribuiti:
– Catanzaro: CASI ATTIVI 7.106 (82 in reparto, 8 in terapia intensiva, 7.016 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 39.980 (39.709 guariti, 271 deceduti).
Cosenza: CASI ATTIVI 41.994 (91 in reparto, 6 in terapia intensiva, 41.897 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 40.936 (39.906 guariti, 1030 deceduti).
Crotone: CASI ATTIVI 3.683 (10 in reparto, 0 in terapia intensiva, 3.673 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 30.235 (30.021 guariti, 214 deceduti).
Reggio Calabria: CASI ATTIVI 11.713 (94 in reparto, 3 in terapia intensiva, 11.616 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 118.150 (117.416 guariti, 734 deceduti).
Vibo Valentia: CASI ATTIVI 18.185 (17 in reparto, 0 in terapia intensiva, 18.168 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 18.544 (18.380 guariti, 164 deceduti).
L’ASP di Cosenza comunica 499 nuovi soggetti positivi di cui 8 fuori regione.
La vicenda, certamente poco seria e non si sa quanto grave, richiama subito il celebre aforisma di Ennio Flaiano. E viene in mente anche una battuta – già cult – dell’ultimo film di Paolo Sorrentino. Ma prima, per ricondurre tutto alla sua reale misura, forse è meglio soppesare le dichiarazioni che stanno rinfocolando la polemica tra Catanzaro e Reggio. Che ricaccia la Calabria indietro di 50 anni, se non ai tempi delle Calabrie degli Aragonesi (Citeriore e Ulteriore) e poi dei Borboni (Ulteriore I e II).
Quanto ce ne fosse bisogno, in un momento storico come quello attuale, è superfluo rilevarlo. Ma si sa: quando ci sono elezioni in ballo la frizione che regola l’emissione di comunicati stampa scappa sempre un po’ troppo. Dunque eccoci qua, catapultati all’indietro in un surreale dibattito che contrappone il centro e la punta della periferia d’Italia.
Valerio Donato, prof all’Università di Catanzaro e candidato a sindaco
Catanzaro vuole pure il consiglio regionale
L’apriti cielo si materializza con un’uscita del “Comitato elettorale Valerio Donato Sindaco”. I sostenitori del prof catanzarese, fuoriuscito dal Pd e ora appoggiato dal centrodestra, la buttano lì: «Giunta e Consiglio regionale devono essere riuniti presso la stessa sede, quella naturale, ossia Catanzaro». Presentata come una «battaglia concreta per la riduzione reale dei costi della politica», risponderebbe a «un fatto di correttezza istituzionale giacché il capoluogo della regione deve essere messo nelle condizioni di esercitare pienamente il proprio ruolo».
La sortita prende le mosse da un antefatto, anzi da due collegati tra loro. Il primo: l’11 aprile si tiene alla Cittadella regionale di Catanzaro una riunione del «Coordinamento dei presidenti delle Commissioni per le Politiche europee delle Assemblee legislative delle Regioni». Prima e dopo non mancano i comunicati di giubilo perché la riunione si svolge «per la prima volta in Calabria».
Lo strappo istituzionale
Il secondo: due giorni dopo si riunisce il consiglio regionale e in apertura il capogruppo (reggino) del Pd Nicola Irto parla (nel video in basso dal minuto 16) di «strappo istituzionale» perché «la sede naturale» di quella riunione era l’Astronave di Reggio. Raccoglie «il monito» il presidente (catanzarese) del Consiglio Filippo Mancuso che dice di aver già chiarito il «malinteso» con il presidente (catanzarese) della commissione competente, Antonio Montuoro.
Si tratta di una questione definita con sarcasmo «assai urgente» dal Comitato di Donato, che con un certo sprezzo del dileggio appena usato parla di «polemica forse non molto qualificante» e lancia l’ormai famigerata proposta di cui proprio tutti, da Praia a Mare a Melito Porto Salvo, non potevano fare a meno.
Segue, immancabile come un buffet dopo un meeting aziendale, una delle pratiche in cui eccelliamo da tempo immemore: la levata di scudi. Dalla sponda calabrese dello Stretto si alza un coro unanime di «giù le mani dal consiglio regionale». Gli stessi partiti che sostengono o sono dati come vicini a Donato insorgono.
Ciccio Franco, uno dei protagonisti del Moti di Reggio
«Non stuzzicate la città di Reggio»
Peppe Neri (capogruppo di FdI a Palazzo Campanella) quasi rievoca i moti del 1970 contro Catanzaro capoluogo: la sede del Consiglio a Reggio «assicura quell’equilibrio istituzionale che la storia ha decretato non senza tensioni». Il deputato di Forza Italia Francesco Cannizzaro definisce «grottesche» le dichiarazioni di Donato e ipotizza che le abbia rilasciate «dopo un’allegra serata con gli amici».
Mancuso ha provato a stoppare le polemiche bollandole come «surreali e divisive», ma un assessore comunale a lui vicino, Francesco Longo, ha rincarato la dose: «Ha fatto non bene, ma benissimo il comitato elettorale di Valerio Donato a ribadire che per evitare ulteriori “sgarbi istituzionali” basterebbe riportare il Consiglio Regionale a Catanzaro». Probabilmente però vince tutto il sindaco facente funzioni di Reggio Calabria, Paolo Brunetti: «Si è deciso 50 anni fa di portare il capoluogo a Catanzaro. Ormai avevamo metabolizzato la cosa, però non stuzzicate la città di Reggio. Non fateci rispolverare l’idea d’avere qui la Giunta…»
Vabbè: forse non ci si poteva aspettare molto altro dal Paese dei campanili e da una regione in cui si litiga pure per un lampione tra rioni e rughe di piccoli paesi. Ma far girare ancora, dopo mezzo secolo di fallimentare regionalismo, il disco rotto del «popu-campanilismo» (la definizione è del giornalista Giuseppe Smorto) è esattamente il contrario di ciò che davvero ci servirebbe: un po’ di sincera solidarietà e di sana ironia. Allora proviamo, per una volta, a non disunirci. E soprattutto a non prenderci sempre così tanto sul serio.
Parafrasando un bel film dei fratelli Coen, potremmo che dire che questa “Non è una città per ragazzi”. Eppure quello spazio colorato su via Panebianco era nato esattamente per loro. Era una idea di Mancini, di cui recente si è ricordata la morte e del quale si rivendica vanamente l’eredità. Di quella stagione la Città dei ragazzi è forse la sola cosa che resta. Piazza Bilotti e il ponte di Calatrava, così come viale Parco, nel tempo sono diventati una cosa diversa da quanto immaginato dal vecchio sindaco.
Oggi, dopo l’immobilismo causato dalla pandemia, alcune pastoie burocratiche e forse anche una attenzione non esattamente vigile, minacciano di impedire il rilancio di quello spazio dedicato alla cultura e alla creatività.
La concessione
Accade infatti che nel 2020 le associazioni Teca, la Cooperativa delle donne e Don Bosco vincano un bando promosso dalla fondazione “Con i bambini” per fronteggiare la povertà educativa. Al loro fianco ci sono l’Istituto comprensivo Gullo e l’Unical. I fondi sono cospicui: 850mila euro. Ma per portare a compimento l’iter e realizzare il progetto alle tre associazioni serve avere uno spazio adeguato per un tempo congruo. Il Comune, allora guidato da Mario Occhiuto, concede loro la Città dei Ragazzi, sgravandosi di ogni costo. Poi la pandemia cambia ogni cosa. Palazzo dei Bruzi dopo una sola settimana revoca la concessione e dà due dei tre cubi alle aule della scuola De Matera.
Attività in uno dei cubi della Città dei ragazzi
La stessa clausola che levava gli spazi alle associazioni, però, prevede la “provvisorietà” della revoca degli spazi. E questo alimenta l’aspettativa delle associazioni circa la restituzione, essendo stata dichiarata conclusa l’emergenza Covid.
«Non vogliamo mandare via i bambini dai cubi – dice Antonio Curcio, dell’associazione Teca – ma immaginiamo di poter riprendere il progetto finanziato non appena l’anno scolastico si concluderà».
Per questo le associazioni hanno scritto una Pec al Gabinetto del sindaco, per chiedere un confronto. Quella Pec per vie misteriose finisce sulla stampa prima che sul tavolo di Franz Caruso. Ma finisce inaspettatamente anche nel dibattito interno alla commissione consiliare per l’Istruzione. E lì il delegato del sindaco, Aldo Trecroci, annuncia candidamente che quegli spazi resteranno alla De Matera, «perché le scuole hanno la priorità». Scatenando un putiferio.
Le opposizioni
«Si sarebbe dovuto parlare di altro, ma incidentalmente Trecroci ha detto di aver ricevuto la chiamata della preside della De Matera, preoccupata per il rischio di perdere gli spazi per le aule della sua scuola», racconta Bianca Rende, posizionatasi dopo la comune vittoria elettorale, tra i banchi dell’opposizione. «Quello che la preside paventa come un rischio è esattamente quanto deve accadere», dice con veemenza la consigliera Rende. Per lei la Città dei ragazzi deve tornare rapidamente alla sua vocazione originaria.
Non diversa la posizione di Giuseppe D’Ippolito, di Fratelli d’Italia. Quel luogo deve «essere restituito alla sua funzione sociale; chi governa deve valutare in che modo, ma non può essere destinato alle scuole», sostiene. E accusa l’amministrazione di «aver del tutto stravolto la visione manciniana».
Franz Caruso sul palco del suo comizio finale insieme ad altri tre sfidanti del primo turno passati dalla sua parte per il ballottaggio: Fabio Gallo, Bianca Rende e Francesco De Cicco (foto A. Bombini) – I Calabresi
A rievocare l’emergenza che portò gli scolari della De Matera nei cubi della Città dei ragazzi è Francesco Caruso, all’epoca vicesindaco di Occhiuto. Il consigliere per il futuro immagina prioritariamente il ritorno delle associazioni in quello spazio, magari la condivisione del luogo «se necessario» anche con una scuola, domandandosi però «perché mai proprio la De Matera?».
Troppe deleghe sovrapposte
Tutti e tre gli esponenti dell’opposizione sparano ad alzo zero sulla frammentazione delle deleghe assegnate dal sindaco a troppi consiglieri. La cosa pare stia creando situazioni complicate, visto che spesso gli ambiti di intervento si sovrappongono. Per esempio questa vicenda vede coinvolte tre deleghe: l’istruzione, il welfare e l’educazione e non si capisce chi comanda. Sul punto specifico la Rende ha le idee chiare. E con disincanto dice ridendo che «a comandare su tutto è Incarnato». Padre e non figlia, si direbbe, visto che quest’ultima in Giunta ha le deleghe ad Urbanistica ed Edilizia.
Il sindaco e il delegato
Trecroci è un preside e ha la delega all’Istruzione. A scatenare la tempesta sono state le sue parole. Lui, però, le rivendica con fermezza: «È la posizione della maggioranza, ne ho parlato anche con il sindaco. Per noi le scuole hanno l’assoluta priorità».
Forse però il sindaco era distratto. «Qui tutti parlano con tutti, salvo con chi decide, cioè il sindaco. Sull’argomento non ho delegato nessuno» dice Caruso, ammettendo che del futuro della Città dei Ragazzi «ancora non ne abbiamo parlato, anche perché fino a quando ci sono le scuole è difficile affrontare la questione». Di sicuro per il sindaco «è necessario rivitalizzare quello spazio, la cui destinazione deve essere partecipata e condivisa».
Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto A. Bombini) – I Calabresi
Si apre il confronto
«Quello spazio sociale ha avuto anche 120 mila presenze – spiega accorata Lucia Ambrosino, presidente della Cooperativa delle donne – perché non è una realtà solo legata all’area urbana, ma al territorio regionale. La lotta alla povertà educativa si fa assieme alla scuole, ma dobbiamo intenderci su come deve funzionare una idea di comunità».
Le associazioni sono ottimiste, l’interlocuzione è appena cominciata. Sanno che quel luogo è una opportunità importante che nessuno vuole perdere. «È stata una sorta di aula decentrata, in accordo con le scuole. E lì devono tornare a svolgersi delle azioni come un museo della Scienza e progetti di reinserimento sociale».
Ma in ballo ci sono 850 mila euro, di cui 84 mila investiti direttamente dalle associazioni. Inevitabile domandare ai rappresentanti se siano disposti a una guerra legale contro il Comune, nel caso la mediazione appena iniziata andasse male. Ambrosini e Curcio sono cauti, nessuno va al tavolo delle trattative con una pistola in mano. Dichiarano di non aver nemmeno preso in considerazione questo aspetto e quindi eludono la questione, esibendo ottimismo e fiducia, di cui presto conosceremo la fondatezza.
Quale futuro per la Città dei ragazzi?
Le associazioni sono pronte al confronto «per verificare quanto previsto dalla concessione, cercando di trovare una soluzione alle esigenze reali delle scuole», spiega Antonio Curcio.
Ma in gioco ci sono parecchi quattrini, il lavoro di un bel po’ di persone e una idea precisa dell’uso di uno spazio sociale. E pure su questo si misura la qualità di una amministrazione.
La recente polemica sulla mini parentopoli alla Provincia di Cosenza fa quasi tenerezza.
Rispetto a decenni di nepotismi e comparaggi vari, praticati a tutti i livelli (e sempre intensivamente) non dà quasi nell’occhio che la presidente Rosaria Succurro abbia scelto come consulente suo marito Marco Ambrogio.
Al riguardo, è arrivato puntuale il richiamo “storico” a Egidio Masella, ex assessore regionale di Rifondazione comunista, che fu costretto a dimettersi all’inizio dell’era Loiero per aver tentato di assumere sua moglie, Lucia Apreda, nella propria struttura.
Marco Ambrogio e Rosaria Succurro
Un caso da manuale
Masella – che per quella vicenda ha subito un processo da cui fu prosciolto nel 2012 – ha avuto una menzione d’onore nientemeno che dalla Treccani, che cita la sua vicenda per chiarire il termine Parentopoli.
Ma anche la storia dell’ex assessore rifondarolo risulta soft, se paragonata alla prassi (non solo) calabrese.
Maledette telecamere
Gli italiani si accorsero della Calabria grazie ad Anno Zero, la trasmissione di Michele Santoro, che immortalò il Consiglio regionale quando il cadavere di Francesco Fortugno era ancora caldo. «’u cumpari dù cumpari è tu cumpari», il compare del compare è tuo compare, disse Franco Morelli, ex capo di gabinetto di Giuseppe Chiaravalloti e allora consigliere in quota An, ripreso cheek to cheek con Domenico Crea, appena subentrato in Consiglio al posto di Fortugno. Oggi i due valgono assieme circa quindici anni. Di galera: a tanto ammontano le condanne ricevute per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ciò non toglie che allora avessero ragione: la Calabria funziona proprio come diceva Morelli.
Il quinquennio di Chiaravalloti fu il regno di Bengodi, grazie al fatto che erano consentiti i cosiddetti “monogruppi”, cioè gruppi costituiti da un solo consigliere. Ciascun monogruppo poteva avere la sua struttura, composta di sette collaboratori al massimo, per un totale di 180 portaborse, con stipendi che andavano da un minimo di circa 1.700 euro netti a un massimo di 5mila e rotti lordi al mese. Di questi 180, raccontano alcuni ex funzionari, almeno 32 erano parenti diretti dei consiglieri.
La “legge Masella”
Questo andazzo, moralmente riprovevole, era tuttavia a norma di legge. L’affaire “Masella” costrinse la Regione a prendere provvedimenti seri.
Il principale fu la legge regionale 16 del 22 novembre 2005, che introduceva una serie di incompatibilità per l’assunzione nelle strutture consiliari, tra cui il rapporto di parentela e affinità fino al terzo grado tra l’aspirante portaborse e il suo “patrono”.
Con questa legge, la Calabria è stata la prima Regione a dotarsi di norme “antiparenti”. Un record doveroso, conferma oggi Peppe Bova, all’epoca presidente del Consiglio in quota Ds: «Eravamo giunti al limite e dovevamo dare un segnale forte».
Mario Pirillo è stato assessore regionale ed europarlamentare
Album di famiglia
Ma chi erano i consiglieri nepotisti? Dati i numeri, quasi tutti e forse menzionarne solo qualcuno significherebbe far torto agli altri.
L’amministrazione Chiaravalloti si segnala anche per il famigerato Concorsone del 2001, destinato ai funzionari di partito. Tra gli illustri assunti, c’è (oltre al plurimenzionato Carlo Guccione), Salvatore Pirillo, ingegnere e figlio di Mario, big amanteano della Dc, transitato nella Margherita e poi nel Pd, assessore all’Agricoltura dell’era Loiero e poi europarlamentare.
Mario & Giulio: cuori di padre
Salvatore Pirillo emerse agli onori della cronaca nel 2010, quando Giulio Serra, consigliere di centrodestra dell’era Scopelliti, lo volle come suo collaboratore. In cambio, Pirillo senior assunse come propria collaboratrice, Roberta Pia Serra, manco a dirlo la figlia di Giulio.
Ma Salvatore Pirillo non è solo un ingegnere. Infatti, ha ereditato da papà Mario la passione per la politica: è stato segretario del circolo Pd della “sua” Amantea nel 2014.
Fedele… alla sua linea
Nel caso di Luigi Fedele – assessore regionale durante l’amministrazione Caligiuri, poi presidente del Consiglio nell’era Chiaravalloti, infine assessore in quella Scopelliti – e finito nei guai per Rimborsopoli – più che di nepotismo si dovrebbe parlare di “compresenza”.
Luigi Fedele
Infatti, suo fratello Giovanni, avvocato ed ex sindaco di Sant’Eufemia di Aspromonte, è entrato in Regione nel 2000 come collaboratore esperto della presidenza del Consiglio. Poi è diventato capo della medesima struttura fino al 2005. Ed è rimasto a Palazzo Campanella dove, da circa un decennio, è dirigente di settore.
Gianni Nucera: l’asso pigliatutto
Il recordman potrebbe essere Gianni Nucera, ex big dell’Udc. Nella sua struttura, all’inizio dell’era Loiero, c’erano sua moglie Felicia Pensabene e i figli Carmela e Francesco.
Per evitare lo tsunami che allora travolgeva Masella, Nucera azzerò la struttura. Ma la famiglia può essere anche allargata: Nucera è cognato di Giuseppe Suraci, padre di Grazia Suraci, anche lei collaboratrice del consiglio regionale e moglie dell’ex assessore regionale Antonino De Gaetano, poi finito nei guai per l’inchiesta Erga Omnes.
Grazia ha una sorella, Giuseppina Suraci, che ha collaborato con Antonio Billari, allievo di De Gaetano e consigliere regionale nell’era Santelli.
Maurizio Priolo, superburocrate della Regione Calabria
Maurizio & Stefano Priolo: Regione di famiglia
Non si può, a questo punto, passare sotto silenzio la vicenda della famiglia Priolo. Stefano Priolo, il padre, è stato consigliere nella Prima Repubblica. Attualmente presidente dell’Associazione ex consiglieri regionali, Priolo sr. passerà alla storia per la sua battaglia contro la riduzione dei vitalizi.
Suo figlio Maurizio è un superburocrate della Regione, in cui è entrato senza concorso. Al momento, è impegnato in un braccio di ferro giudiziario contro Maria Stefania Lauria, che ha preso il suo ruolo, incluso il lucrosissimo stipendio a Palazzo Campanella…
Sviluppo Italia: il parentificio
Chiediamo scusa ai consiglieri regionali non menzionati (rimedieremo quanto prima) e passiamo all’over the top: l’agenzia Sviluppo Italia, che in Calabria pullulava di nomi eccellenti.
Ne citiamo solo qualcuno: Paola Santelli, sorella minore della compianta Jole, Cecilia Rhodio, la figlia di Guido, presidente di Regione negli anni ruggenti della Dc.
Sempre a proposito di notabili Dc: come non ricordare Luigi Camo, figlio dell’ex senatore scudocrociato Geppino? Ma faremmo un torto maggiore se non citassimo Cristiana Miceli, moglie di Geppino.
Roberto Occhiuto
La fine della Balena Bianca non comportò la fine delle relative pratiche: infatti, in Sviluppo Italia figuravano Giada Fedele, ex moglie di Roberto Occhiuto, e Giovanna Campanaro, nipote della compianta Annamaria Nucci, ex deputata ed ex assessora al Bilancio di Cosenza nell’era Perugini.
Non potevano mancare i Gentile: al riguardo, figurano nella lista Sandro Mazzuca, nipote di Pino Gentile, e sua moglie Fausta D’Ambrosio.
Sviluppo Italia andò in liquidazione nell’era Loiero. Che fine hanno fatto i dipendenti (in totale 180)? Assorbiti a vario titolo dalla Regione e da altri enti.
Così fan tutti
Sul familismo calabrese la classe politica nazionale ha puntato poco il dito, anche perché ciascuno ha i suoi peccati. Certo è che non può fare la morale a nessuno la presidente del Senato Elisabetta Casellati, che quando era sottosegretaria della Presidenza del Consiglio nominò sua consulente la figlia Ludovica.
Tantomeno può farla Salvini, che si trovò agli onori delle cronache a metà dello scorso decennio perché la sua compagna fu assunta dalla Regione Lombardia, allora egemonizzata dalla Lega.
Per tornare in Calabria
«Allora, uno non può lavorare se è figlio di qualcuno?», si chiese attonito davanti alla stampa Umberto De Rose, lo stampatore coinvolto nell’Ora Gate, a proposito di Andrea Gentile, figlio del senatore Tonino Gentile.
Umberto De Rose
Andrea era finito nel mirino degli inquirenti per alcune consulenze ricevute dall’Asp di Cosenza. A dirla tutta, nella parentopoli gentiliana era coinvolta anche Lory Gentile, la sorella di Andrea, che aveva lavorato per Fincalabra, diretta all’epoca dallo stesso De Rose, condannato per questo motivo dalla Corte dei Conti.
A questo punto è doverosa una precisazione: non abbiamo menzionato i figli dei politici che fanno politica perché i rampolli illustri hanno almeno l’onere formale di procacciarsi i voti. Vale per Katya Gentile, la figlia di Pino, e per il citato Andrea.
Parentopoli sanitaria
Anche fuori dalla politica c’è chi ha fatto qualcosa.
Ad esempio, l’ex commissaria straordinaria dell’Asp di Cosenza Daniela Saitta, finita nella bufera per aver dato una consulenza a sua figlia, Cristina Di Lazzaro.
Incarnato family: un apostrofo rosa
Si è parlato, a proposito dell’attuale amministrazione cosentina di Franz Caruso, di un curioso nepotismo alla rovescia, grazie al quale Luigi Incarnato è diventato capo di Gabinetto di Caruso dopo che sua figlia Pina è stata eletta consigliera (e poi nominata assessora) nell’attuale maggioranza.
Pina Incarnato
Il caso è borderline, sia perché Incarnato fa il capo di Gabinetto gratis sia perché è stato uno degli organizzatori della coalizione di centrosinistra.
Eppure la parentela non è più stretta per un soffio: Incarnato e Caruso, da sempre assieme nel Psi, sono stati a lungo consuoceri, perché Pina è la ex fidanzata del figlio del sindaco…
Chi trova un amico trova un tesoro. Ma chi ha un parente trova di più.
Questi gli aggiornamenti di oggi (16 aprile) sulla diffusione del Covid in Calabria. I contagi comunicati dalla Cittadella sono sostanzialmente identici rispetto a ieri. Sono, infatti, 1.873 i nuovi casi. Un risultato che arriva a fronte di 9.301 tamponi. Il tasso di positività risulta, di conseguenza, pari 20,14%. I guariti dal Coronavirus che il bollettino riporta sono 2320. I morti della giornata sono 5. Due in più il numero delle persone ricoverate in terapia intensiva.
A seguire, i dati delle singole province calabresi relativi alla pandemia comunicati dalle Asp di Catanzaro, Cosenza, Crotone, Reggio Calabria e Vibo Valentia alla Regione e riportati nel bollettino quotidiano della Cittadella.
Dall’inizio della pandemia ad oggi (16 aprile): i dati sul Covid in Calabria
Territorialmente, dall’inizio dell’epidemia, i casi positivi sono così distribuiti:
Catanzaro: CASI ATTIVI 7.261 (87 in reparto, 8 in terapia intensiva, 7.166 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 38.982 (38.713 guariti, 269 deceduti).
Cosenza: CASI ATTIVI 41.512 (100 in reparto, 5 in terapia intensiva, 41.407 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 40.927 (39.898 guariti, 1029 deceduti).
Crotone: CASI ATTIVI 4.510 (12 in reparto, 0 in terapia intensiva, 4.498 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 29.193 (28.981 guariti, 212 deceduti).
Reggio Calabria: CASI ATTIVI 13.123 (98 in reparto, 1 in terapia intensiva, 13.024 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 115.744 (11.5011 guariti, 733 deceduti)
Vibo Valentia: CASI ATTIVI 18.087 (17 in reparto, 0 in terapia intensiva, 18.070 in isolamento domiciliare); CASI CHIUSI 18.514 (18.350 guariti, 164 deceduti).
L’ASP di Cosenza comunica 590 nuovi soggetti positivi di cui 14 fuori regione. Inoltre specifica che “Oggi si registrano 591 nuovi casi. Il numero complessivo dei casi è incrementato di 590 unità e non di 591 in quanto 1 paziente è stato trasferito dall’ AOCS al PO di Crotone”.
Tre scosse di terremoto sono state avvertite questa mattina ad Acri, in provincia di Cosenza. L’evento sismico si è verificato ai piedi della Sila greca nell’intervallo di tempo che va dalle ore 7:11 alle 7:16. Le tre scosse sono state rispettivamente di magnitudo 2.1 (17 chilometri di profondità), 2.6 (15 chilometri di profondità) e 2.3 (16 chilometri di profondità). È quanto si legge nei dati diramati dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Non si registrano danni a persone o cose.
«Dimezzata, monca, a metà». Rimbalzano tra le vinedde del paese vecchio i malumori per lo strano compromesso raggiunto in vista del Caracolo, la secolare processione del sabato di Pasqua. Dopo due anni di blocco causato dalla pandemia, avrebbe dovuto ripopolare l’antica Castelvetere. Invece si è ritrovata mutilata e al centro di una polemica che ha spaccato la piccola comunità cittadina.
Una delle due gambe su cui si regge la tradizione antica della processione a “zig zag” lungo la piazza principale di Caulonia si è infatti chiamata fuori. E si è rifiutata di fare sfilare le statue di propria competenza che completerebbero il corteo, mandando all’aria secoli di tradizione immutabile.
Le statue del Caracolo davanti alla chiesa dell’Immacolata, oggi a pochi metri da una frana
Il gran rifiuto
E così, dove anche le bombe degli Alleati fallirono, riuscì il dissesto idrogeologico. Dopo secoli di confortevoli ripetizioni andate in scena nonostante guerre, terremoti, invasioni e carestie infatti, quest’anno, il rito ereditato dalla dominazione spagnola – unico del genere a svolgersi in Italia – andrà “in scena” in forma ridotta. La causa è la clamorosa autoesclusione di una delle due confraternite che da secoli mandano avanti la tradizione del corteo funebre che prelude alla domenica di Pasqua.
La decisione si lega al disfacimento della porzione di rupe su cui poggia la chiesa dell’Immacolata – sede dell’arciconfraternita omonima e “casa” delle quattro statue che salteranno la processione – e ha finito col dividere il paese. Da un lato chi sostiene la protesta, dall’altro chi, anche se a denti stretti, fa finta di niente e si prepara a mandare avanti lo spettacolo nonostante tutto.
Caracolo: l’ok del vescovo e il diktat del Comune
Jusu e Susu, Carmine e Rosario. La secolare divisione del paese si manifesta nell’appartenenza alle due arciconfraternite. E si rinnova ogni anno, durante i riti della settimana Santa, con piccoli dispetti e malcelate smanie da grandeur. Avrebbe dovuto riprendersi la scena dopo il via libera arrivato dal vescovo alla fine di marzo, invece si è spiaggiata contro un’ordinanza comunale.
A causa del deterioramento che mina la solidità di una parte del borgo antico, l’atto impedisce da circa due anni l’accesso alla chiesa dove sono custodite quattro delle otto statue. Ed è su questa ordinanza che si è arroccata l’arciconfraternita “barricadera”: «Se i fedeli non possono raggiungere la chiesa per le funzioni – filtra dalle stanze dell’associazione che fa capo alla chiesa dell’Immacolata – allora non possono nemmeno andare a prendere le statue. È irricevibile la proposta arrivata del Comune di mettere una passarella temporanea per fare passare il corteo del Caracolo. Poi la festa passa e la chiesa torna chiusa al culto».
foto Giovanni Cannizzaro
foto Giovanni Cannizzaro
Il rito dimezzato
Gli “incanti” delle statue del Rosario (una vera e propria asta con tanto di banditore in cui le famiglie si contendevano all’ultimo soldo le statue da portare in processione, ma proibiti dal vescovo alla fine dei ’90), i battibecchi sui ritardi, le leggendarie scazzottate a forza di paramenti sacri: il Caracolo, tipico esempio della cultura sacra che si mischia con quella profana, paradigma del paese in cui va in scena e vanto massimo della millenaria cultura cauloniese, quest’anno andrà in scena in forma ridotta. E con un tracciato che, per forza di cose, escluderà una parte del paese: quella cioè maggiormente minacciata dal disfacimento della porzione di rupe che guarda a sud.
Messaggi a metà tra ironia e sarcasmo diretti a una delle confraternite
Putin e il Caracolo
E se tutti concordano sulla gravità della situazione, la decisione di abdicare al Caracolo da parte di una delle due anime del paese (l’arciconfranternita del Rosario e quella dell’Immacolata contano, insieme, quasi 800 iscritti, la quasi totalità degli abitanti del borgo) ha lasciato profonde ferite. Tanto che sui muri del paesino sono anche spuntati manifesti che puntano il dito contro i vertici dell’associazione in “rivolta” e contro la decisione di abdicare dalla processione. Uno strano vortice che si smarca dal vincolo sacro/profano e mischia il “Cristo alla Colonna” con Vladimir Putin.
Cercasi Madonna
La decisione di trattenere ai box le quattro statue protagoniste del Caracolo – dall’arabo karahara, girare – verrà bypassata con un corteo “monco”. Il problema dell’assenza dei “protagonisti” (in questo caso la statua della Madonna) si ripropone, però, anche per la giornata di domenica. Ossia quando, da calendario, dovrebbe andare in scena la rappresentazione della Svelata che chiude i riti della settimana santa.
In questo caso la statua della Madonna – che nella tradizione popolare riceve la notizia della rinascita di Cristo da San Giovanni, spogliandosi del velo nero del lutto – non sarà quella consueta. L’arciconfraternita ribelle non la concederà, per cui toccherà prenderla in prestito da un’altra chiesa. «Tanto le Madonne a Caulonia non mancano – dice il Priore della confraternita del Rosario, che si presenterà all’appuntamento orfano degli amici rivali della chiesa dirimpettaia – e pazienza se i paramenti sono diversi. La processione è importante e si deve fare a tutti i costi. Anche senza tutte le statue».
Statua della Madonna portata in processione durante il Caracolo (foto Giovanni Cannizzaro)
Appena l’argomento, per qualche insondabile motivo, viene fuori in una discussione, la domanda scatta automatica: «Ma le Province non le avevano abolite?». A quel punto i più informati rispondono con il tono di chi la sa lunga: «Macché… hanno abolito solo le elezioni». Alla fine è così. Eppure delle Province si parla ancora. E se ne parla, con qualche ragione, molto male.
Non è questione rimandabile all’antropologia dei campanili e nemmeno all’ormai discendente parabola anticasta. È che, evidentemente, anche nei suoi anfratti meno appetibili e più discussi, il potere attira sempre e comunque l’attenzione. Per comprendere le ragioni della lunga agonia di questi enti, intermedi e dunque transitori quasi per definizione, bisogna però andare oltre le gaffe e le liti spicciole a cui ci ha abituati la politica nostrana.
Le Province dall’Italia preunitaria a oggi
Senza addentrarsi in discussioni per feticisti dell’ingegneria istituzionale, è utile ricordare che le Province trovano fondamento nell’art. 114 della Costituzione, ma in realtà sono più vecchie della stessa Italia unita: le creò, quando ancora c’era il Regno di Sardegna (1859), Urbano Rattazzi, ministro dell’Interno del governo La Marmora, mutuando il sistema francese dopo l’annessione di alcune parti della Lombardia.
Un ritratto di Urbano Rattazzi: fu lui a istituire le Province in Italia
Da 95 sono poi arrivate a essere 110. Oggi nelle regioni ordinarie sono 76, più 14 città metropolitane. A cui si devono aggiungere 6 liberi consorzi (le ex province della Sicilia non trasformate in Città metropolitane), 4 province sarde, le 2 province autonome di Trento e Bolzano, 4 del Friuli Venezia Giulia che servono però solo alla geografia e alla statistica non essendo enti politici autonomi.
In Calabria erano 3 fino al 1992. Poi in quell’infornata – che comprendeva Biella, Lecco, Lodi, Rimini, Prato e Verbano-Cusio-Ossola – rientrarono anche Crotone e Vibo Valentia. Poco prima dello scorso Natale è arrivato il rinnovo dei loro consigli provinciali, come pure di quelli di Catanzaro e Cosenza. In quest’ultima, come a dicembre anche a Crotone, ora è cambiato anche il presidente. A breve ce ne sarà uno nuovo pure a Catanzaro.
Il consiglio ogni due anni, il presidente ogni quattro
A proposito di elezioni, dal 2014 in poi (riforma Delrio) sono arrivate un po’ di novità. Tra queste il fatto che i consigli provinciali si rinnovano ogni due anni mentre il presidente ogni quattro. La giunta provinciale non esiste più. E a eleggere sia i consiglieri che il presidente sono sindaci e consiglieri comunali del territorio, il cui voto “pesa” in base alla popolazione del Comune di appartenenza. È un aspetto che sembra bizzarro, ma non è certo quello più paradossale delle “nuove” Province, enti in cui spesso il fattore politico va oltre la classica dialettica maggioranza/opposizione.
Centrodestra alla riscossa
I risultati di queste ultime votazioni, in Calabria, pendono molto verso il centrodestra. A Cosenza c’era stato un sostanziale pareggio tra i consiglieri. Poi la Presidenza è andata alla sindaca di San Giovanni in Fiore (area Forza Italia) Rosaria Succurro. Divisioni e disastri targati centrosinistra hanno chiuso la partita già prima del voto anche a Crotone, dove ha vinto il sindaco di centrodestra di Cirò Marina, Sergio Ferrari. A Catanzaro, nonostante le divisioni già striscianti e ora esplose in vista delle Comunali, i consiglieri restano in maggioranza di destra. Nei prossimi mesi si dovrà scegliere il successore di Sergio Abramo. A Vibo ha trovato conferma il peso forzista, ma ne ha acquistato parecchio anche Coraggio Italia.
Rosaria Succurro, fresca di elezione a presidente della Provincia di Cosenza
Reggio in attesa di funzioni
Poi c’è Reggio, dove la Provincia ha ceduto il posto alla Città metropolitana. Da novembre, cioè dalla condanna di Giuseppe Falcomatà per il “caso Miramare”, la regge il facente funzione Carmelo Versace, che è un dirigente di Azione di Carlo Calenda. In teoria le Città metropolitane avrebbero anche più funzioni delle Province. Quella di Reggio è però l’unica in Italia a cui la Regione non le ha ancora attribuite, nonostante debba farlo per legge.
Vibo e i conti che non tornano
La Provincia di Vibo è famigerata per il disastro finanziario in cui è stata cacciata. Sta ancora cercando di uscire dal dissesto dichiarato nel 2013. Uno spiraglio di luce si era visto a novembre, quando la Commissione liquidatrice ha approvato il Piano di estinzione dei debiti: default chiuso con una massa passiva quantificata in 14,8 milioni di euro distribuiti a circa 1.200 creditori. A fine marzo però è venuto fuori che serve un nuovo Piano. Ci si è accorti che i prospetti contabili andavano aggiornati e che la massa passiva totale era in realtà di 25 milioni di euro. Dunque ne ce sono ancora altri 11 da liquidare.
Salvatore Solano stringe la mano a Papa Francesco
La necessità di un aggiornamento l’ha segnalata alla Commissione lo stesso presidente della Provincia di Vibo, Salvatore Solano, finito nel processo “Petrolmafie”. Lui ha sempre dichiarato fiducia nella giustizi,a ma anche la sua totale estraneità alle accuse che gli vengono contestate. Forza Italia però, che pure lo aveva scelto nell’ottobre del 2018, lo ha scaricato politicamente.
Catanzaro, da ente modello al rischio dissesto
Problemi di natura diversa li ha invece Abramo, che si accinge a chiudere tra ben poche glorie il suo ciclo da sindaco e da presidente della Provincia di Catanzaro. L’ente che visse un’epoca descritta come d’oro con Michele Traversa e poi con Wanda Ferro era considerato infatti un modello di buona amministrazione. Fin quando, proprio con Abramo, è scoppiata la bolla dei derivati, operazioni di swap contratte nel 2007 (con Traversa) per oltre 216 milioni di euro e ora annullate in autotutela da Abramo. Che si ritrova con la grana dei ricorsi presentati al Tar dalle banche, e con il rischio del dissesto e di non riuscire a pagare nemmeno gli stipendi dei dipendenti.
Partiamo dai tagli, iniziati già dal 2010 e dunque ancora prima della Delrio. Secondo uno studio della fondazione Openpolis ammontano a ben 5 miliardi di euro i trasferimenti statali decurtati negli anni. Con una conseguenza prevedibile: «Ciò ha portato ad una riduzione dei servizi e soprattutto negli investimenti (ad esempio infrastrutture di trasporto -65%)».
La sede dell’ex Provincia, oggi Città metropolitana, di Reggio Calabria
La Calabria si contraddistingue per un forte accentramento verso la Regione delle funzioni che erano prima delle “vecchie” Province. Unica eccezione la Città metropolitana, che ne ha invece mantenute molte. Per farsi un’idea dell’importanza che invece hanno le poche funzioni rimaste oggi in capo alle “nuove” Province è sufficiente menzionare due settori chiave.
Due settori chiave
Innanzitutto la manutenzione dell’edilizia scolastica: si parla a livello nazionale di 5.179 edifici (che ospitano di 2,6 milioni di studenti), il 41,2% dei quali si trova in zona a rischio sismico. Nella nostra regione il 10,4% risulta vetusto, il 3,8% è in zona sottoposta a vincolo idrogeologico. E poi le strade provinciali, una di quelle cose che attirano su questi enti maledizioni e improperi perfino dai cittadini più morigerati. In Calabria le Province gestiscono 7.713 km di strade, molte delle quali in zone di montagna e disagiate: il 44,75% dei 2.578 km di strade della Provincia di Cosenza è sopra i 600 metri sul livello del mare, così come il 47,34% (su 1.690 km totali) di quella di Catanzaro, il 30,5% (su 818 km) di quella di Crotone, il 25% (su 875 km) di quella di Vibo e il 16,95% (su 1752 km) di quella di Reggio.
Il paradosso delle nuove Province
Dare risposte alle giuste rivendicazioni degli utenti, in queste condizioni e con pochi fondi a disposizione – le tasse principali che vanno alle Province sono quelle per Rc e trasferimento dei veicoli – diventa dunque complicato. E il problema del passaggio delle funzioni – e dei beni ad esse collegati – resta completamente irrisolto. La Delrio nasceva come norma transitoria verso il (poi fallito) referendum renziano del 2016 che avrebbe dovuto eliminare le Province dalla Costituzione. Invece quella legge, che doveva essere provvisoria, disciplina ancora oggi il funzionamento di questi enti.
Nel frattempo la retorica dei tagli ha prodotto un altro paradosso: sono nati moltissimi nuovi enti (circa un migliaio tra unioni di Comuni, autorità di bacino, consorzi e quant’altro) proprio per aiutare i Comuni nella cogestione dei servizi. Un decennio di propaganda e di sperimentazioni normative sulle Province ha dunque generato un evitabile caos istituzionale. E un vuoto riempito solo dall’inettitudine delle classi dirigenti nazionali e locali.
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