Categoria: Fatti

  • Daspo di 5 anni al tifoso del Vicenza per le frasi razziste rivolte contro i cosentini

    Daspo di 5 anni al tifoso del Vicenza per le frasi razziste rivolte contro i cosentini

    Daspo di 5 anni per il tifoso del Vicenza che ha pronunciato frasi razziste contro i supporter del Cosenza calcio.  È stato individuato dalla Digos di Vicenza e dalla Polizia Postale l’autore delle video registrato allo stadio Menti con gli insulti rivolti ai calabresi durante tra la formazione veneta e i Lupi. Si tratta di un 22enne vicentino senza precedenti penali. Non potrà avvicinarsi allo stadio Menti nel raggio di 500 metri. Sul fronte penale invece la Procura avvierà un indagine per il tenore delle espressioni pronunciate nel video poi rimosso dai social. Il giornale I Calabresi – attraverso il direttore Francesco Pellegrini –  ha già presentato stamane una formale denuncia contro il tifoso del Vicenza protagonista del video diventato virale.

  • Amici 2022: vince il calabrese Luigi Strangis

    Amici 2022: vince il calabrese Luigi Strangis

    Il calabrese Luigi Strangis vince l’edizione 2022 di Amici. Il talent targato Maria De Filippi incorona il giovane artista lametino che ha saputo dimostrare tutto il suo valore. Madre calabrese e padre napoletano, il ventenne ha frequentato il liceo musicale a Lamezia Terme. Grazie a Rudy Zerby, che lo ha portato nella sua classe, è riuscito a coronare il suo sogno: partecipare e vincere.

    Il cantante calabrese ha battuto in finale il ballerino Michele Esposito. Luigi Strangis porta a casa pure un premio in denaro del valore di 150mila euro. Serena è la terza classificata dell’edizione 21 di Amici.

  • Incidente sulla Statale 107: muore giovane coppia di San Giovanni in Fiore

    Incidente sulla Statale 107: muore giovane coppia di San Giovanni in Fiore

    Due persone sono morte oggi in un incidente avvenuto sulla strada statale 107 “Silana-Crotonese” a Spezzano della Sila. Secondo una prima ricostruzione, la moto si sarebbe scontrata con l’auto. Le due persone a bordo, un uomo ed una donna, sono cadute sull’asfalto. Sul posto sono intervenuti i medici del 118 ma per i due, una coppia di San Giovanni in Fiore, non c’era più niente da fare.

  • Lo stratega e il braccio armato: i destini incrociati dei superboss Mancuso

    Lo stratega e il braccio armato: i destini incrociati dei superboss Mancuso

    Alcune date vanno cerchiate in rosso. La prima è il 21 luglio 2012. Luigi Mancuso torna libero dopo 19 anni passati in carcere. La seconda: 19 dicembre 2019, scatta la maxioperazione “Rinascita Scott”. Lo «zio Luigi», il «Supremo», viene arrestato a Lamezia su un treno in arrivo da Milano. La terza: 6 novembre 2021, la sentenza in abbreviato porta 70 condanne e 19 assoluzioni. La quarta: 25 novembre 2021, Giuseppe Mancuso (“Peppe ‘mbrogghia”) torna in libertà dopo oltre 20 anni di carcere duro.

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    L’aula bunker di Lamezia dove si svolge il processo “Rinascita-Scott”

    Il nipote più anziano dello zio

    La sentenza rappresenta il primo step giudiziario della clamorosa inchiesta contro le cosche vibonesi voluta da Nicola Gratteri. Lo scorso 9 maggio sono state depositate le motivazioni scritte dal gup Carlo Paris e, benché Luigi Mancuso sia sotto processo con il rito ordinario e Peppe Mancuso non sia coinvolto, c’è un capitolo in cui si parla molto di loro due. Sono zio e nipote. Ma il secondo (classe 1949) è più anziano del primo (1954). Il padre di Peppe “‘Mbrogghia”, fratello di Luigi, era il primogenito della “generazione degli 11”, il nucleo originario di fratelli da cui sono generate le varie articolazioni della famiglia.

    Un capo carismatico

    L’indagine, scrive il giudice, ha svelato «i collaudati rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria deviata». Luigi è il «più carismatico capo di tutta la ’ndrangheta vibonese, probabilmente il più autorevole di tutte le restanti cosche calabresi agli occhi del Crimine di Polsi». Un collaboratore storico, Michele Iannello, che ha fatto parte del gruppo di Mileto fino al 1995, in un interrogatorio del 2018 ha detto che già all’epoca Luigi e Peppe erano considerati i vertici della ‘ndrangheta vibonese. Secondo Iannello, Peppe aveva la dote del Crimine, Luigi una ancora superiore.

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    Il pentito Andrea Mantella

    Non vuole «cose eclatanti»

    Un altro pentito, l’ex boss emergente di Vibo Andrea Mantella, dice di aver conosciuto Luigi tramite suo cognato, il lametino Pasquale Giampà. È «quello che ragiona meglio». Ha «un livello altissimo di ‘ndrangheta». Ed «evita sempre le cose eclatanti tipo gli omicidi». Viene indicato come «il più giovane Capo Crimine» e già come tale lo dipingeva, nel 2001, il collaboratore Francesco Michienzi.

    I «tre punti della stella»e gli anni delle stragi

    Ancora più evocativo è Cosimo Virgiglio, uno che dice di sapere molto di presunti intrecci tra ‘ndrangheta e massoneria: «So che a Gioia Tauro quando si faceva riferimento al capo dei Mancuso si intendeva Luigi Mancuso. Era considerato uno dei “tre punti della stella”». Gli altri due sarebbero stati Pino Piromalli (a Gioia Tauro) e Nino Pesce (a Rosarno). Una volta tornato in libertà, Luigi avrebbe riattivato, tramite i suoi emissari, i contatti con altri clan calabresi. In particolare, oltre che con i Piromalli, con i De Stefano di Reggio, i Coluccio di Siderno e gli Alvaro di Sinopoli. Zio e nipote, ai tempi dello stragismo, avrebbero avuto un ruolo di primo piano anche nelle trattative tra ‘ndrine e Cosa nostra.

    Il new deal del Supremo

    Ma è la «politica interna» del Supremo a cambiare la storia dei clan vibonesi. Riappacifica i vari gruppi sul territorio. Riavvicina i rami degli stessi Mancuso dopo le profonde spaccature del passato. Segna, così, «una nuova epoca per la cosca di Limbadi». Il giudice, a «riprova della notorietà della sua strategia “pacifista” e del suo ruolo di “Supremo” negli ambienti della criminalità organizzata e della massoneria», richiama diverse intercettazioni. Spesso si fa riferimento «all’autorevolezza di Luigi Mancuso, apprezzato sin da giovane per l’atteggiamento non aggressivo e tendente alla mediazione».

    La gente paga spontaneamente il pizzo

    Una politica di «concordia» e «consenso» che ha avuto «effetti inimmaginabili». Come la «condivisione, da parte tutti i Mancuso e, in particolare, da parte di Giuseppe Mancuso (il nipote con cui in passato s’erano registrati contrasti), dei progetti criminali dettati dal boss». E come «l’assoggettamento “spontaneo” della popolazione che, perfino, di propria iniziativa andava a pagare le estorsioni direttamente a Luigi Mancuso».

    Il dialogo tra Giamborino e Pittelli

    Giovanni Giamborino, presunto fedelissimo del superboss, la spiegava così al penalista ed ex parlamentare Giancarlo Pittelli: «Ormai è finita la storia…non c’è niente per nessuno… perché se vi… come facevano loro… facevano un’estorsione… vanno da un imprenditore questi scappano dai Carabinieri…perché non hanno fiducia avete capito… perché oggi va uno, domani va un altro dopo domani va un altro… questi non sanno dove devono ripararsi e nel cerchio non vanno perché non c’è un garante…invece se va Luigi in un posto e che non va perché vanno loro a trovare lui… avete capito le devono avere sicurezza… hanno tutte cose».

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    Un incontro fotografato dai carabinieri del Ros tra Giancarlo Pittelli (a sinistra) e Luigi Mancuso (a destra, al centro Pasquale Gallone)

    Cinque anni di gelo tra i due boss

    I due (Giamborino e Pittelli, tra i principali imputati del rito ordinario) parlano anche dei rapporti controversi tra i due vertici della cosca. Il primo racconta dei dissidi tra zio e nipote, che non si sarebbero rivolti la parola per cinque o sei anni. Poi si sarebbero riavvicinati, mentre era in corso il processo “Tirreno” a Palmi, grazie all’intervento pacificatore di Nino Pesce.

    Un cadavere nel terreno dello «Zio»

    Lo aveva raccontato anni prima anche il pentito Giuseppe Morano: «Peppe era più anziano di Luigi, però Luigi come persona era più carismatico lì nella zona, era la persona più intelligente, era diciamo il cervello della famiglia Mancuso, invece Peppe era più il braccio armato, era più criminale Peppe, era una persona, cioè se doveva ammazzare una persona l’ammazzava, non ci pensava; insomma, ragionava meno di Luigi. Luigi invece era uno più pacifico; allora dice che per questo avevano litigato un po’, perché Peppe aveva combinato un po’ di cose, addirittura, ho saputo che aveva ammazzato una persona e gliel’ha buttato vicino ad un terreno di Luigi, mi sembra che si diceva, per questo pure il litigio è scoppiato più forte, dice che ha ammazzato uno e lo ha lasciato lì vicino al terreno, che poi hanno inquisito a Luigi per questo fatto».

    La scelta del «portavoce» sancisce la pace

    A testimoniare la ritrovata unità tra i due boss sarebbe in seguito il fatto che Luigi avrebbe scelto come braccio destro, e «unico portavoce» durante il periodo di latitanza volontaria, Pasquale Gallone. Si tratta del fratello di uno «storico favoreggiatore della latitanza di Giuseppe Mancuso». Che ora per il suo ruolo di fedelissimo del superboss è stato condannato in abbreviato a 20 anni di reclusione.

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    Giovanni Giamborino

    Il «tetto del mondo»

    Parlando con Pittelli, Giamborino spiega che Luigi è «il tetto del mondo», il «più alto di tutti» e, rispondendo a una specifica domanda dell’avvocato, il «numero 1 in assoluto». Il concetto viene ribadito anche al cugino, Pietro Giamborino, già consigliere regionale. Che chiede: «È riconosciuto numero uno?». Giovanni assicura: «Si… si… si…». Ma «tutto… tutto … unanime…? Pure i suoi stessi?». Sì, «tutto… tutto… in tutta Italia!».

    I destini incrociati e le parole del pentito

    Ora le cose sono cambiate. Lo «zio», stratega raffinato e abile mediatore, è alla sbarra. Il nipote, più anziano e forse anche più temuto, è fuori. Condannato per aver ordinato un omicidio nel ‘91, oltre che per associazione mafiosa e narcotraffico, ha scontato il suo debito con la giustizia. «Ha un cimitero alle spalle», ha detto di lui il primo pentito dei Mancuso, Emanuele, in un’intervista esclusiva a I Calabresi. «Faceva tremare la gente già prima e oggi, dopo tutti quegli anni passati al carcere duro senza dire una parola, avrà in quel contesto una credibilità immensa».

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    Emanuele Mancuso (foto Facebook 2013)
  • Tifoso razzista del Vicenza: ultrà del Cosenza sono «scimmie calabresi»

    Tifoso razzista del Vicenza: ultrà del Cosenza sono «scimmie calabresi»

    «Scimmie, scimmie calabresi, lavatevi che puzzate di ‘nduja». Sono frasi inqualificabili pronunciate da un tifoso del Vicenza – durante lo spareggio con il Cosenza di giovedì scorso – in un video caricato su You Tube e pubblicato sul canale L’Ultrà dei poveri. Salvo poi scomparire sotto la dicitura: video non disponibile. Ma I Calabresi ne ha conservato la versione integrale. Una parte di questa ha deciso di mostrarla.

    Sul campo la compagine veneta si è imposta per 1-0.  L’ultrà del Vicenza si cimenta poi con l’immancabile «terroni di merda».  Non mancano i consueti stereotipi: «Cosa è la Calabria? ‘Nduja e mafia?». Continua la sua performance razzista gridando: «Ributtateli in Africa». Venerdì prossimo il ritorno dello spareggio-  per restare in serie B-  in uno stadio San Vito Marulla che si preannuncia infuocato.

  • Negli ultimi due giorni sbarcati 140 migranti a Crotone

    Negli ultimi due giorni sbarcati 140 migranti a Crotone

    Sono complessivamente 140 i migranti sbarcati in due giorni al porto di Crotone negli ultimi due giorni. Due le imbarcazioni che sono state intercettate al largo della costa crotonese dalle unità navali della Guardia di Finanza. Il primo sbarco si è registrato la notte scorsa quando sono approdate in porto 69 persone tra cui 51 uomini, 8 donne e 10 minori provenienti da Afghanistan, Iran, Iraq e Siria.

    Poche ore dopo, nelle prime ore di stamani c’è stato un secondo sbarco di 71 persone tra cui 11 donne e 11 minori. Sei persone sono state trattenute dalla Guardia di finanza in quanto ritenuti essere gli scafisti. Le operazioni di sbarco sono state coordinate dalla Prefettura di Crotone e gestite dalla Questura di Crotone. Al porto anche i sanitari del Suem 118. All’arrivo i migranti sono stati accolti dalla Croce Rossa Italiana che ha proceduto al loro trasferimento presso il centro di accoglienza di Sant’Anna.

    Nei giorni scorsi due persone hanno perso la vita nello sbarco avvenuto a Roccella Jonica. Dove oltre cento migranti di diversa nazionalità sono approdati nella cittadina della Locride.

  • Reggina, parla il legale di Gallo: «Un fondo estero interessato al club amaranto»

    Reggina, parla il legale di Gallo: «Un fondo estero interessato al club amaranto»

    «Gallo non ha nessuna intenzione di mettersi di traverso alla cessione della Reggina, già l’anno scorso c’erano state avanzate trattative per vendere la società». La notizia che tutta la Reggio sportiva aspettava arriva direttamente da Giosuè Bruno Naso, storico avvocato romano e legale del patron amaranto, finito giovedì scorso agli arresti domiciliari nella sua casa romana con l’accusa di autoriciclaggio ed evasione dell’Iva.

    L’interrogatorio

    Davanti al Gip Annalisa Marzano, l’imprenditore alla guida della società amaranto dal gennaio 2019, ha rilasciato una serie di dichiarazioni spontanee in cui ha provato a giustificare il suo operato rispetto alle pesanti accuse formalizzate dalla Procura di piazzale Clodio. Dichiarazioni in cui Gallo avrebbe ricordato i passaggi dell’acquisizione della società, sottolineando di aver compiuto tutti i passi alla luce del sole e rimarcando come quel rapporto insolito tra lui e il calcio fosse cambiato con il tempo e di quanto Reggio e la Reggina lo avessero coinvolto con il passare dei mesi.

    «Luca Gallo non vuole risolvere solo i suoi problemi – dice ancora a I Calabresi Giosuè Naso, difensore, tra gli altri, anche del “Cecato”, quel Massimo Carminati protagonista di tante pagine oscure dell’eversione “nera” dagli anni di piombo ai giorni nostri – ma anche quelli della Reggina. Non ha nessuna intenzione di affossare la squadra».

    Luca Gallo e la trattativa per la Reggina

    Il futuro della Reggina avrebbe potuto essere diverso rispetto a quello burrascoso (e dai tempi contingentatissimi) che si è andato disegnando in seguito all’arresto del presidente amaranto, accusato di avere trasformato la Reggina in una scatola cinese attraverso cui veicolare consistenti somme di denaro frutto del mancato pagamento delle spettanze Iva di tre società (la M&G Multiservizi, la M&G Service e la M&G Company) del suo impero commerciale. In seguito al sequestro preventivo che il tribunale di Roma dispose nei confronti di parte del patrimonio di Gallo (circa sette milioni di euro messi sotto sequestro nel gennaio del 2021) l’imprenditore avrebbe infatti messo in campo una serie di trattative per cedere le quote della società.

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    Luca Gallo nella sede di una delle sue società nel mirino della Procura

    Alla base della decisione di passare la mano – ipotesi sempre smentita, almeno ufficialmente, dalla società amaranto – ci sarebbe stata la possibilità, per Gallo, di “sbloccare” i soldi messi sotto sequestro dai magistrati romani. «Gallo si era appassionato a Reggio e alla Reggina, gli piaceva fare il presidente di una squadra di calcio – dice ancora l’avvocato – ma dopo il sequestro preventivo si erano create le basi per cedere la società ad un soggetto giuridico straniero. Ma poi non se ne fece nulla».

    Non un privato quindi, ma un fondo straniero che avrebbe formalizzato il proprio interesse per rilevare il 100% della società amaranto che, situazione debitoria a parte, rappresentava e continua a rappresentare un discreto investimento. La serie B è un capitale importante da cui partire. La storia, il blasone e l’amore incondizionato della tifoseria sono la ciliegina sulla torta, ma serve agire in fretta.

    I tifosi della Reggina al San Vito-Marulla di Cosenza
  • Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    Terme Luigiane, finora solo annunci. Continua il dramma dei lavoratori

    L’incubo lavorativo, che per i 250 dipendenti delle Terme Luigiane dura ormai da 6 anni, continua. Si sono avvicendati ben 4 presidenti di Regione e sono stati sottoscritti accordi alla Cittadella e in Prefettura. Ma gli stabilimenti si ritrovano ancora una volta chiusi. Eppure la stagione, «se solo si volesse, potrebbe ripartire domani mattina». Il “Comitato dei Lavoratori Terme Luigiane” ne è convinto ma è costretto a osservare come «centinaia di interrogazioni, denunce e istanze promosse da lavoratori, cittadini e da ogni parte politica» non abbiano risolto concretamente un problema «che sta diventando lo specchio di una Calabria che non funziona e che costringe i padri di famiglia, con immensa rassegnazione, a fare le valigie pensando a quanto il buon Dio abbia dato a questa terra e a come noi Calabresi siamo incapaci di mettere a frutto tali doni».

    Acque (e dignità) in mare

    Questo è esattamente ciò che sta accadendo alle Terme Luigiane: «Una realtà perfettamente funzionante da una parte e, dall’altra, qualcuno dotato delle giuste coperture, che ha scelto in maniera arbitraria di distruggere tutto nel tentativo di portare a compimento disegni a noi ignoti, sversando nel mare le preziose acque termali e la nostra dignità di lavoratori». Alla Sateca, «che ha da sempre gestito le Terme Luigiane, garantendoci – proseguono i lavoratori – occupazione stabile e correttamente remunerata, è stata tolta l’acqua termale contro ogni legge e contro ogni sentenza giudiziaria, preferendo il nulla a un qualcosa che funzionava e che ha dato la possibilità ad intere famiglie per intere generazioni di mantenere un livello di vita più che dignitoso e soddisfacente».

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    Una pozza d’acqua sulfurea nei pressi delle Terme Luigiane

    Terme Luigiane, l’aiuto di sindacato e chiesa

    Oggi i lavoratori si ritrovano «costretti a spezzare i sogni» dei loro figli e «nella condizione di non sapere cosa portare in tavola». Tra le istituzioni «che ci sono state sempre vicine (di fatto le uniche)», i dipendenti della struttura annoverano «la Cisl con Gerardo Calabria, che ha dall’inizio combattuto con noi questa battaglia e, nelle persone di Monsignor Leonardo Bonanno e di don Massimo Aloia, la Chiesa che ha provveduto a pagarci le bollette, a farci la spesa alimentare e, soprattutto, a manifestarci costantemente vicinanza e condivisione quotidiana delle nostre angosce».

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    Don Massimo Aloia, parrocco delle Terme Luigiane

    Finora solo buone intenzioni

    Il presidente della Regione Roberto Occhiuto il 15 dicembre 2021 ha ricevuto il sindacato Cisl e una delegazione di lavoratori «garantendo discontinuità con la precedente linea politica e assicurando che entro la fine dell’anno avrebbe risolto la situazione affinché si potesse iniziare a programmare la prossima stagione termale». Il 26 marzo 2022 lo stesso Occhiuto in un video messaggio ha comunicato l’intenzione della Regione di acquisire tramite Fincalabra le Terme Luigiane al fine di superare lo stallo e consentire la ripartenza dell’attività. «Cosa sia successo nel frattempo – afferma il Comitato – noi lavoratori non lo sappiamo e, tutto sommato, ci interessa poco. Quello che rileviamo con sconforto è che alla data di oggi nulla di fatto è cambiato e le prospettive di ripartire per la prossima stagione sono ormai estremamente ridotte».

    le Terme Luigiane e le riunioni che non risolvono

    Da quello che la Cisl comunica ai lavoratori e dalle informazioni che loro stessi riescono ad avere pare che continuino le interlocuzioni e le riunioni tecniche. Ma le soluzioni sembrano ancora lontane. «Ciò di cui né noi 250 lavoratori, né i 22.000 curandi, né le migliaia di assidui frequentatori delle Terme Luigiane riescono a capacitarsi – fanno notare ancora i dipendenti – è il motivo per cui le Terme Luigiane siano chiuse. Secondo la sentenza del Tar dell’8 novembre 2021, l’attività della Sateca sarebbe dovuta continuare senza soluzione di continuità e questo è stato impedito con la forza da parte delle due amministrazioni comunali di Guardia Piemontese e di Acquappesa e con la complicità della Regione Calabria che, in quanto proprietaria delle acque, avrebbe avuto l’obbligo, sia morale che istituzionale, di impedire un simile scempio e di assicurare il diritto a tutti i cittadini di curarsi».

    La politica «cieca» e il bene comune

    I dipendenti della struttura ribadiscono dunque come non sia accettabile «che in una terra assetata di lavoro come la nostra ci troviamo ancora una volta davanti a chi il lavoro potrebbe garantircelo immediatamente e questo viene impedito da una politica cieca ed egoista, incurante del bene comune e, soprattutto, indifferente a quanto sancito dalla magistratura».

    L’ennesimo appello a Occhiuto per riaprire le Terme Luigiane

    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Il Comitato lancia dunque un ennesimo appello a Occhiuto: «Ripristini immediatamente una situazione di legalità, nella quale si dia immediata esecuzione alla sentenza del Tar, nella quale chi ha distrutto le Terme Luigiane venga punito e chi ci ha garantito da sempre giusti diritti abbia la possibilità di continuare a farlo. Presidente, faccia riaprire l’acqua, come è giusto che sia, e ci ridia la dignità e il futuro che meritiamo. La Sua sensibilità, la Sua cultura e formazione politica e il Suo ruolo Le consentono di trovare una “soluzione ponte” immediata che dia finalmente respiro a noi lavoratori e alle migliaia di curandi che aspettano con ansia una data di riapertura».

  • L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

    L’elogio della bruttezza: il grand tour fra Lamezia, Vibo e Soverato

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    Diciamolo una volta per tutte e senza timore: di verdeggianti paesaggi e panorami mozzafiato non se ne può più. Abbattiamo, assieme a pregiudizi e stereotipi, anche la retorica visiva sulle bellezze della Calabria. Basta bergamotti in ogni dove, basta celebrazioni sui Bronzi, basta foto di mari e monti. Soprattutto basta borghi.

    Se la Regione è un po’ confusa, ma diciamo anche indecisa, tra il puntare sulla «valorizzazione delle aree industriali» di cui ha parlato Roberto Occhiuto a Expo Dubai, oppure sui «marcatori identitari distintivi» riproposti nelle scorse settimane alla Bit di Milano, rilanciamo la nostra controproposta per dare una scossa alla narrazione turistica della Calabria: gli horror tour.

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    Il lungomare Ginepri “interrotto” a Lamezia

    Piuttosto che continuare a nascondere la polvere sotto il tappeto, o ad accusare chi la polvere la solleva provando a spazzarla via, potremmo per una volta a volgere a nostro vantaggio il «carattere di mitomani» che Corrado Alvaro riconosceva ai meridionali come inesorabile eredità dei Greci.

    Ci sono sui territori tracce visibilissime, ma davvero poco sfruttate, che si possono unire fino a farne degli itinerari che rendono piccola piccola, quale effettivamente è, la retorica della riserva indiana cui siamo puntualmente sottoposti dagli osservatori esterni. Sempre tanto compiaciuti delle nostre quotidiane miserie quanto pronti a insegnarci come uscirne.

    Abbiamo già focalizzato alcune di queste brutture nella Locride. Ora, risalendo sulla statale 106 jonica e poi passando sull’altra costa, proviamo a indicarne delle altre. Nella consapevolezza che si tratti di un itinerario parziale e incompleto, ma pur sempre di un punto di partenza.

    Soverato: perla jonica e cementificata

    La cementificazione intensiva di Soverato, per dire, è un elemento che finora nessuno ha pensato di tramutare in motivo di attrazione. Se la chiamano «perla» come non più di altre tre o quattro località costiere della regione, e se per una settimana di agosto si chiedono affitti (in nero) a livello Elon Musk, allora facciamone altri di appartamenti. Coliamo più cemento e alziamo nuovi pilastri fino a nasconderlo del tutto, questo sopravvalutato orizzonte jonico, ché un po’ ha stancato.

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    L’urbanizzazione spinta di Soverato vista dalla Statale 106

    Gli esperimenti di architettura ultramoderna già realizzati sulle colline attorno a Squillace dimostrano che fare peggio di com’è oggi è difficile, ma ce la possiamo fare e magari ne avremo anche un profitto. Per esempio puntando sulle aree interne, come quelle che si trovano muovendo verso l’altra costa per una strada poco battuta, una sorta di “Due Mari” dei poveri.

    Cemento à gogo sulla collina che sovrasta il mare a Squillace

    La Calabria delle rotonde e delle pale eoliche

    Andando per provinciali e colline ben curate si passa in mezzo ad Amaroni, Girifalco, Cortale e Jacurso. E si contano decine di rotonde – che disciplinano un traffico inesistente – e centinaia di pale eoliche – che ancora non risolvono il caro bolletta. Così si attraversa senza annoiarsi l’istmo di Marcellinara, il famoso punto più stretto d’Italia. Poi si spunta a Maida, dove sorge uno dei centri commerciali più larghi della Calabria.

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    L’immancabile eolico tra lo Jonio e il Tirreno

    Lamezia tra zucchero e il porto d’Arabia

    Avvicinandoci alla principale porta d’ingresso della Calabria– che vabbè, è anche quella d’uscita per tanti nostri cervelli – si può osservare cosa abbiano lasciato certi sogni industriali degli anni belli. Come l’ex zuccherificio a ridosso della stazione di Lamezia, con annesso murales neorealista. O il famigerato pontile dove le navi che dovevano rifornire la mai realizzata Sir non sono evidentemente attraccate neanche una volta.

    L’ex zuccherificio di Lamezia

    Ora, invece che portarci le comitive ad ammirare tanta identitaria decadenza, vorrebbero fare da quelle parti un porto turistico intitolandolo a uno sceicco arabo. E tutti hanno ovviamente paura che la cosa finisca peggio di com’è andata con i pezzi di lungomare lametino che oggi, in un capolavoro di esistenzialismo non colto dai tour operator, collegano un nulla all’altro di questo tratto di costa.

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    Il pontile ex Sir a Lamezia Terme

     

    Il cemento da patrimonio Unesco a Vibo

    Lo stesso vuoto alberga in una struttura ammirabile all’ingresso di Pizzo. Sta subito sotto l’autostrada e non c’è, tra agrumeti e fichi d’india, nemmeno una via d’accesso per arrivarci e visitarne le cavità antropologiche. La medesima poco valorizzata bruttezza caratterizza un edificio che forse doveva ricordare una nave e che incombe sulla suggestiva insenatura della Seggiola. Invece poco più a Sud, a Vibo Marina, non si sono fatti intimidire e col cemento sono andati fino in fondo. C’è un quartiere, il Pennello, in cui l’abusivismo ha toccato vette di audacia così alte che meriterebbe di essere almeno proposto a patrimonio Unesco.

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    Il mega-albergo vuoto di Pizzo

    Salendo verso il capoluogo vibonese, poi, si può notare, senza che incredibilmente nessuna guida ne faccia vanto di fronte a manipoli di turisti dell’orrido, come a svettare sulla città non sia il castello Normanno-Svevo, nella zona dove probabilmente si trovava anche l’Acropoli di Hipponion, ma le quasi gotiche antenne radiotelevisive che qualche anno fa, invece di proporre un tour congiunto museo-tralicci, qualcuno si è spinto a sequestrare per fosche ipotesi di elettrosmog.

    Panorama con antenne a Vibo Valentia

    È inutile: non sappiamo proprio valorizzarci. Altrimenti non si spiega perché un cartello mancante in pieno centro a Vibo, che dovrebbe indicare l’itinerario di un parco archeologico in larga parte inaccessibile e infestato da erbacce e spazzatura, non diventa una Mecca del situazionismo o un luogo feticcio degli amanti del teatro beckettiano.

    Cemento “selvatico” lungo la Statale 18

    Il cemento anarchico della Statale 18

    La teoria delle potenzialità inespresse della Calabria continua procedendo lungo l’altra mitologica statale, la 18. Se avessimo avuto anche noi un Guccini sarebbe stata leggenda come la 17, la via Emilia e pure il West messi insieme. Ai lati di questa strada il cemento spunta dalla vegetazione come fosse selvatico. Genuino e autoctono, niente lo trattiene: è potente, anarchico e futurista al tempo stesso. C’è dentro tutto il Novecento e se ne possono ammirare diversi avanguardistici esempi andando in auto dal Vibonese verso la Piana. Ma purtroppo nessuno ha pensato a dei tour organizzati con accompagnatori che indichino a quali cosche di ‘ndrangheta sia assegnato ogni singolo chilometro.

    Soffrono di un imperdonabile abbandono turistico anche cattedrali mancate come la stazione ferroviaria di Mileto, un ibrido metallico tra post barocco e brutalismo, e la Fornace Tranquilla, una fabbrica abbandonata dove un ragazzo africano è stato ammazzato per una lamiera. Da anni, e ancora oggi, alla Tranquilla sono interrate tonnellate di rifiuti tossici. Altrove sarebbe meta di pellegrinaggi di dark tourism, noi invece l’abbiamo dimenticata.

    Come la ex statale 110, una strada che fin dai tempi dei Borbone univa le due coste alle montagne delle Serre e che a causa di alcune frane è chiusa da qualche anno. Un ignoto esteta ne ha decorato i margini con copertoni e bombole di gas. Incompreso, come le tante monumentali bruttezze che in Calabria abbiamo sotto la finestra e che facciamo finta di non vedere.

  • Carzo e Alvaro: le ‘ndrine a Roma da via Veneto a Tor Pignattara

    Carzo e Alvaro: le ‘ndrine a Roma da via Veneto a Tor Pignattara

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    Dai locali del centro a quelli della periferia, dai tram di piazza Risorgimento al traffico infernale della Prenestina, con il sogno nel cassetto di riprendersi i “gioielli di famiglia” che i magistrati del tribunale di Roma gli avevano portato via qualche anno fa. Quello degli Alvaro per la Capitale è un amore antico: è qui che all’inizio del millennio le coppole storte di Sinopoli e Cosoleto sono sbarcate per reinvestire il denaro del narcotraffico ed è a Roma che hanno continuato ad operare indisturbate e fameliche nonostante la pioggia di condanne subite, infiltrandosi nell’economia barcollante della Capitale con montagne di denaro contante.

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    Vincenzo Alvaro

    Ed è sempre a Roma che, per la prima volta nella storia delle “colonizzazioni” ‘ndranghetistiche, Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro avrebbero varato e gestito la prima locale romana di mafia in qualche modo indipendente dalla casa madre.

    La ‘ndrangheta a Roma: c’è posto per tutti

    Fu la direzione nazionale antimafia a mettere nero su bianco lo status particolare della città eterna rispetto all’infiltrazione delle cosche del crimine organizzato, non solo di origine calabrese: «A Roma c’è posto per tutti». La Dna si riferiva alla capacità economica sconfinata delle mafie e al fatto che un mercato come quello della Capitale fosse in grado di soddisfare la “domanda” di investimento reclamata dai clan che avrebbero potuto guadagnare senza necessariamente pestarsi i calli a vicenda.

    Una carovana per fare la guerra

    Uno “status” confermato anche da diversi collaboratori di giustizia che in più occasioni avevano raccontato di come «Roma e Milano non erano state oggetto di colonizzazione, esistevano dei piccoli insediamenti ma fuori dalle grandi città. Serviva per attirare meno attenzione». Uno status che era rimasto granitico nel tempo e che ora, sostengono i magistrati della distrettuale antimafia di piazzale Clodio, sarebbe stato modificato grazie all’intervento diretto della potente famiglia Alvaro che da Cosoleto e Sinopoli avrebbe consentito a Carzo (e alla sua interfaccia economica e finanziaria Vincenzo Alvaro) di inaugurare una nuova cellula autonoma all’interno del raccordo. Anche perché i numeri, c’erano. «Siamo cento di noi – racconterà intercettato dalla Dia nella sua abitazione romana il boss ad un sodale – e siamo una carovana per fare la guerra».

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    Murales al Quadraro

    Le mani sulle periferie

    Nel primo periodo di investimenti, gli uomini degli Alvaro si erano seduti al banchetto degli appalti mettendo i piedi direttamente sul tavolo, e rilevando in pochissimo tempo alcuni pezzi pregiati della storia della ristorazione capitolina – dall’Harris Bar al Cafè de Paris – per poi espandersi puntando comunque a rimanere dentro i confini del centro, alle spalle del Vaticano e tra i vicoletti di Trastevere.

    Ora, quella strategia così spregiudicata – e che era costata condanne pesanti ai rappresentanti della ‘ndrangheta a Roma – era cambiata. Gli uomini della montagna, che si erano sistemati in una villetta fuori mano, volevano inabissarsi per evitare di mettere inutilmente in allarme gli inquirenti: «dobbiamo starcene quieti quieti» racconta ancora Carzo ad un medico originario di Reggio ma da anni trasferito a Roma e che il boss rifornisce di cocaina per uso personale. E di strategie il boss venuto da Cosoleto ne aveva imparate tante: la sua scuola era stata il carcere e dietro le sbarre il suo “parco insegnanti” era stato il ghota della ‘ndrangheta calabrese: Antonio e Umberto Bellocco, Pasquale Libri, Domenico Gallico, Francesco Barbaro.

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    Operazione antidroga a Primavalle

    La ‘ndrangheta a Roma: Primavalle, Prenestino, Tor Pignattara, Quadraro

    Da loro, forse, Carzo mutua l’idea di spostare il mirino degli affari verso zone che danno meno nell’occhio. Il giro di società intestate alle solite teste di legno, vira così verso la prima periferia della città, quella densamente popolate dei quartieri popolari, dove le attività commerciali non si contano e se cambiano di gestione non sempre ci si fa caso. Primavalle, nel quadrante nord e poi il Prenestino, Tor Pignattara e il Quadraro a sud est, in un reticolo fuori controllo di società cartiere e “scontrinifici” che veniva buono per investire i soldi del clan. L’idea però è quella di rientrare anche nel salotto buono e l’occasione potrebbe venire dallo sblocco di tre ristoranti (due attorno alle mura del Vaticano, uno nel cuore di Trastevere) che erano stati sequestrati a Francesco Filippone e che «a giorni tornano liberi». Gli agenti della Dia sono arrivati prima.