Categoria: Fatti

  • 2022, fuga da Reggio Calabria: uffici in Procura sempre più vuoti

    2022, fuga da Reggio Calabria: uffici in Procura sempre più vuoti

    Fuga dalla Procura di Reggio Calabria. Negli anni, l’ufficio requirente della città dello Stretto è stato l’avanguardia della lotta alla ‘ndrangheta. Gli anni iniziati, nel 2008, con l’avvento in città del “corso palermitano” targato Giuseppe Pignatone, ma anche Michele Prestipino e Ottavio Sferlazza, hanno segnato una svolta nella lotta al crimine organizzato.

    Procura di Reggio Calabria: arrivano i palermitani

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    Giuseppe Pignatone, ex capo della Procura di Reggio Calabria

    All’avvento dei palermitani, infatti, la lotta alla ‘ndrangheta nella provincia di Reggio Calabria era quasi all’anno zero, ferma agli anni del maxiprocesso “Olimpia”. In circa quattro anni di gestione, quel modello portò all’arresto di quasi tutti i boss di Reggio e provincia, che erano latitanti da decenni. Da Pasquale Condello, “il Supremo”, a Peppe De Stefano, l’elemento più carismatico del casato del rione Archi, fino a Giovanni Tegano, “l’uomo di pace”. E poi, ancora, le inchieste “Fehida”, che ricostruì la strage di Duisburg e la faida di San Luca. O ancora, spostandosi sulla Piana di Gioia Tauro, le operazioni “Cent’anni di storia” e “Maestro”, contro le cosche Piromalli e Molè. Oppure quelle “All inside” e “Vento del Nord”, sui clan Pesce e Bellocco. Un (iper)attivismo giudiziario culminato con l’operazione “Crimine”, scattata il 13 luglio 2010, che porterà alla fondamentale pronuncia dell’unitarietà della ‘ndrangheta.

    Con Gratteri l’attenzione si sposta su Catanzaro

    Una Procura d’avanguardia nella lotta alla ‘ndrangheta, insomma. A proseguire l’opera anche il successore di Pignatone, quel Federico Cafiero de Raho che, con metodi diversi, con una strategia comunicativa più “smart” ha portato l’ufficio del sesto piano del Cedir a fuoriuscire dalla dimensione provinciale ed essere ambito anche per la possibilità di far carriera. Gli stessi capi, Pignatone e De Raho, avevano, infatti, un curriculum importante nella lotta ad altre organizzazioni criminali, come Cosa nostra e camorra.

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    Nicola Gratteri durante il maxi processo Rinascita-Scott

    Se, quindi, per circa un decennio, è stata la Procura di Reggio Calabria a dettare la linea del contrasto repressivo alla ‘ndrangheta, l’avvento di Nicola Gratteri a capo della Procura di Catanzaro ha spostato nel capoluogo di regione l’attenzione (anche mediatica) sul fenomeno ‘ndranghetista. Tutto ciò corrisponde anche a uno svuotamento che la Procura reggina sta subendo. Non tanto e non solo in termini numerici, quanto in termini qualitativi.

    Il “decennio d’oro” della Procura di Reggio Calabria

    Se, infatti, dal 2008 al 2018, la Procura di Reggio Calabria è stata un ufficio di frontiera, dove poter misurare le proprie doti di investigatore con quella che, unanimemente, è riconosciuta come l’organizzazione mafiosa più ricca e potente, negli anni successivi si è ritornati a quella dimensione ristretta che, nella scelta della collocazione, attira, quasi esclusivamente, magistrati locali oppure di prima nomina. Negli anni, infatti, diversi sono stati i magistrati che, conoscendo e fiutando la verve di Gratteri, hanno scelto di spostarsi nel capoluogo. Qualche esempio? Antonio De Bernardo, che alla Dda di Reggio Calabria ha colpito duramente le cosche della Locride. Oppure Annamaria Frustaci, che oggi è alla Dda di Catanzaro. O, ancora, Giulia Pantano, per anni pm antimafia con competenza sulla Piana di Gioia Tauro e oggi procuratore aggiunto di Reggio Calabria.

    Vecchi e nuovi addii

    Ma negli anni la Procura di Reggio Calabria ha perso magistrati che sono andati a occupare incarichi di primissimo livello. Da Giovanni Musarò, cui si deve il merito, da pm a Roma, di aver riaperto il caso Cucchi. A Matteo Centini, il pm che, andando via da Reggio, ha scoperto la caserma degli orrori a Piacenza. E, ancor prima, Beatrice Ronchi, che in riva allo Stretto aveva indagato sui rapporti tra ‘ndrangheta e magistratura e che da pm antimafia di Bologna lega il proprio nome all’inchiesta “Aemilia”, la più importante sulle cosche in Emilia Romagna. Ha deciso di allontanarsi dal sesto piano del Cedir anche Roberto Di Palma, uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta, oggi procuratore per i minorenni.

    Il Cedir a Reggio Calabria

    Nei prossimi mesi si libereranno altri due posti in Dda: andranno via Francesco Ponzetta (pm con competenza sulla Piana di Gioia Tauro) e Antonella Crisafulli (che invece si occupa delle cosche della Locride). A fronte di perdite del genere, l’ufficio si è rimpolpato di un numero congruo di giovani magistrati, spesso di prima nomina. Fin qui, però, non sono riusciti a portare i risultati che un territorio come quello reggino necessiterebbe.

    La Procura di Reggio Calabria decapitata

    Tutto questo in un momento in cui anche l’immagine pubblica dell’Ufficio è stata scalfita dalla decisione del Consiglio di Stato che ha annullato (dopo quattro anni) la nomina di Giovanni Bombardieri a capo della Procura, definendola “illogica” nelle motivazioni. E sono tuttora vacanti due posti di procuratore aggiunto su tre. L’ultimo in ordine di tempo, il procuratore aggiunto Gaetano Paci che, dopo otto anni, ha ottenuto la nomina come procuratore di Reggio Emilia. È invece vacante da oltre otto mesi l’altro posto di procuratore aggiunto, quello lasciato libero da Gerardo Dominijanni, che si è insediato in Procura Generale il 15 ottobre 2021.

  • Reggio Calabria, il Comune la fa sfrattare ma interviene l’Onu

    Reggio Calabria, il Comune la fa sfrattare ma interviene l’Onu

    Rischiava di finire per strada, nel disinteresse del Comune di Reggio Calabria che avrebbe dovuto tutelarla, ma a garantirle ancora un tetto sotto cui dormire ha pensato l’Onu. E così, per la prima volta, in riva allo Stretto un provvedimento delle Nazioni Unite ha fermato l’esecuzione dello sfratto di una signora indigente. La donna non è l’unica ad aver corso questo rischio: sono 218 gli sfratti che il Tribunale cittadino ha deciso durante i due anni di pandemia, tutti in esecuzione nel 2022 dopo il blocco del biennio precedente.

    Il Comune e la Prefettura latitanti

    Gli enti dell’Osservatorio sul disagio abitativo, dopo aver lanciato l’allarme, avevano sollecitato il Comune e la Prefettura ad assumere delle misure operative per garantire il diritto alla casa alle famiglie sfrattate con reddito basso. ma, scrivono in un comunicato, «nessuna misura è stata adottata». Il Comune, infatti, «non ha neppure avviato le assegnazioni ordinarie per i casi di emergenza in graduatoria da dicembre 2020 e non ha fornito alcuna risposta alle istanze successive». Quanto alla Prefettura, «non ha costituito il tavolo sfratti richiesto dalla Ministra dell’Interno». Tant’è che la domanda di alloggio per sfratto che la signora ha inoltrato lo scorso dicembre attende ancora risposte.

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    Il Comune di Reggio Calabria

    Uno sfratto a Reggio sul tavolo dell’Onu

    A trovare una soluzione ha pensato Cesare Ottolini, membro della Segreteria nazionale Unione Inquilini e coordinatore dell’Alleanza Internazionale degli Abitanti. Ottolini ha presentato il 10 giugno scorso un ricorso al Comitato per i Diritti Economici, Sociali e Culturali dell’ONU. L’Italia, infatti, ha ratificato fin dal 2014 il Protocollo Opzionale del Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. E l’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu ha accettato il ricorso il 22 giugno scorso. Il suo provvedimento chiede allo Stato italiano «di prendere misure urgenti per la sospensione dello sfratto» della donna. O, in alternativa, di offrirle una sistemazione che rispetti le sue esigenze.

    Grazie al documento dell’Alto Commissario, l’avvocato della signora, Francesco Nucara, ha presentato ricorso al Tribunale di Reggio Calabria. E quest’ultimo lo ha accolto con provvedimento del 28 giugno 2022. Ad emetterlo, il GOT Anna Marraffa, che ha sospeso l’esecuzione dello sfratto del 29 giugno fissando l’udienza del procedimento per il 19 luglio prossimo.

    Onu e Tribunale concordi, che farà ora il Comune di Reggio?

    Esultano l’Osservatorio sul disagio abitativo, il CSOA Angelina Cartella e le associazioni “Un Mondo Di Mondi”, “Reggio Non Tace”, “Ancadic” e “Società dei Territorialisti/e Onlus”. «Per la prima volta nella nostra città – commentano in una nota – grazie all’intervento dell’Onu e la positiva risposta del Tribunale è stato affermato il principio di legge che l’esecuzione di uno sfratto è legale e quindi è possibile solo se viene garantito alla persona sfrattata a basso reddito il passaggio da casa a casa, mentre in caso contrario l’esecuzione è illegittima e deve essere fermata». Immancabile la stoccata finale al Comune: «Il Tribunale di Reggio Calabria con questo provvedimento ha dimostrato di rispettare il diritto alla casa sancito dai trattati internazionali mentre il Comune, purtroppo, continua a non farlo. Dopo l’intervento dell’Onu e la risposta del Tribunale, il sindaco f.f. Brunetti deciderà ancora di mettere il Comune fuori dalle norme del diritto internazionale?».

    Il sindaco facente funzioni Brunetti
  • Il Brasile salva Morabito: come mai salta l’estradizione del re della coca?

    Il Brasile salva Morabito: come mai salta l’estradizione del re della coca?

    In Brasile è già una celebrità. Il suo caso sta dividendo l’opinione pubblica e gli esperti. E, probabilmente, lo farà ancora per un po’ di tempo. Perché in Brasile, Rocco Morabito, rimarrà ancora. Secondo quanto rivelato dalla stampa locale, lo stato carioca avrebbe bloccato l’estradizione di quello che è considerato uno dei boss della ‘ndrangheta più importanti, nonché uno dei narcotrafficanti più influenti a livello globale.

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    Rocco Morabito scortato dalla polizia federale brasiliana

    Brasile: Morabito salvato dalla carceri italiane

    Morabito potrebbe essere (temporaneamente?) salvato dalle carceri italiane per via di alcuni cavilli giurisprudenziali brasiliani. Avrebbe infatti commesso reati per i quali la sua estradizione in Italia potrebbe essere posticipata fino alla conclusione di un eventuale nuovo processo. Un caso piuttosto insolito – emerge da fonti brasiliane de I Calabresi – dato che, assai recentemente, la Corte suprema del Brasile (una sorta di organo a metà tra la Cassazione e la Corte Costituzionale) aveva confermato l’estradizione del boss calabrese.

    Ma ora l’autorità brasiliana contesta a Morabito altri reati prima dell’ultima cattura. Avrebbe infatti commercializzato droga fino a poche settimane prima rispetto al suo arresto avvenuto nel 2021. Un business messo in atto con il cartello brasiliano Primo comando della capitale (Pcc), che a sua volta li avrebbe venduti a trafficanti brasiliani che li avrebbero distribuiti in località del litorale di San Paolo come Guarujà.

    Chi è Rocco Morabito

    «El rey de la cocaina en Milàn». Così il giornale El Observador definiva qualche tempo fa Morabito. Al momento della sua cattura era considerato il ricercato più pericoloso dopo Matteo Messina Denaro, la primula rossa di Cosa Nostra, irreperibile da decenni. Condannato in contumacia a 30 anni dalla giustizia italiana, comminata dopo che agenti sotto copertura lo avevano sorpreso a pagare 13 miliardi di lire per un carico di droga di quasi una tonnellata.

    Originario di Africo, in provincia di Reggio Calabria, feudo della cosca di Peppe, “u Tiradrittu”, la definizione data dal giornale El Observador non è casuale. Morabito a 25 anni ha lasciato l’Aspromonte per Milano dove era entrato nel giro dei giovani rampanti del centro per curare lo spaccio di cocaina. Stando alla sua storia giudiziaria e criminale, tra il 1988 e il 1994 avrebbe fatto parte di un gruppo del narcotraffico, nel quale organizzava il trasporto della droga in Italia e la distribuzione a Milano.

    “Tamunga” – questo il suo soprannome, dalla storpiatura dell’indistruttibile fuoristrada tedesco Dkw Munga. Restano nella “storia” del traffico internazionale di stupefacenti alcuni carichi di droga che Morabito avrebbe trattato. Nel 1993 di 32 kg di cocaina in Italia, operazione fallita a causa della cattura in Francia di un trafficante, e di 592 kg nel 1992 dal Brasile all’Italia, droga confiscata in quest’ultimo Paese. Da ultimo, un’operazione l’anno successivo con 630 kg di cocaina.

    Morabito è detenuto in Brasile da circa un anno, quando, cioè, un blitz interforze lo scovò a Joao Pessoa insieme a un altro latitante, Vincenzo Pasquino, ricercato almeno dal 2019. Da quel momento si è iniziato a lavorare per la sua estradizione nel più breve tempo possibile.

    Il business con le cosche della Piana

    La sua figura emerge con grande chiarezza nell’inchiesta “Magma”, condotta dalla Dda di Reggio Calabria contro le cosche Bellocco e Gallace, attive proprio nel traffico internazionale di stupefacenti con il Sud America.  Le investigazioni avrebbero di dimostrato come i Bellocco, uno dei casati storici della ‘ndrangheta della provincia di Reggio Calabria, avessero esportato anche oltreoceano le loro attività criminali, grazie alle relazioni con cosche come i Morabito e i Mollica di Africo.

    Così, nell’area platense, tra Buenos Aires e Montevideo, i calabresi dialogavano da pari a pari con i cartelli sudamericani, coordinando l’acquisto e la spedizione di quintali di cocaina verso l’Italia e l’Europa. L’area platense, quella che si trova vicina al Rio della Plata su cui si affacciano quasi dirimpettaie Buenos Aires e Montevideo, capitale dell’Uruguay è diventata da tempo una zona su cui si sono installati vari gruppi di ‘Ndrangheta in contatto con i narcos di Colombia, Bolivia e altri paesi Centroamericani.

    L’indagine prese avvio dopo il sequestro di 385 chili di cocaina rinvenuti in mare al largo di Gioia Tauro. Da quell’episodio la Guardia di finanza ha ricostruito la rete dei Bellocco che avevano da tempo ormai loro referenti in Sudamerica. Tra cui proprio Rocco Morabito, “Tamunga”.

    Il primo arresto

    Già nel 2017, infatti, era stato arrestato in un hotel di Montevideo dopo 23 anni di latitanza. In quell’occasione, “Tamunga” si celava dietro la falsa identità di un imprenditore brasiliano di 49 anni, di nome Francisco Cappeletto. Stratagemma, questo, che gli aveva consentito di ottenere una carta d’identità uruguayana.

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    Il documento falso ritrovato a Rocco Morabito

    La cattura era avvenuta in un hotel di Montevideo, insieme alla moglie, una 54enne angolana con passaporto portoghese. Morabito risiedeva da 13 anni nella vicina località balneare di Punta del Este. Si sospettava che fosse fuggito in Brasile ma le indagini in Uruguay erano scattate dopo che aveva iscritto una figlia a scuola sotto il suo vero nome. A Morabito furono confiscati una pistola, un coltello, due autovetture, 13 cellulari, 12 carte di credito e assegni in dollari.

    Specialista in evasioni

    La revoca dell’estradizione di Morabito sta facendo discutere il Brasile. Anche perché il narcotrafficante calabrese è esperto in evasioni dalle carceri sudamericane. Nel giugno 2019, la clamorosa evasione mentre anche in quel caso era in attesa dell’estradizione.

    Morabito sarebbe riuscito a fuggire insieme ad altri tre detenuti dalla terrazza del carcere ubicato nel pieno centro della capitale. Si sarebbe quindi introdotto in un appartamento confinante situato ai piani alti e, dopo aver derubato una donna, sarebbe scappato in taxi.

    Scene da film, latitanze dorate, possibili anche grazie alla sua fitta rete relazionale costruita in Sud America. Fin dai tempi della vita a Milano, infatti, Morabito spicca per la sua capacità di inserirsi molto bene nei salotti più importanti dell’alta società. Anche con lo scopo di penetrare le istituzioni.

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    Rocco Morabito, supernacotrafficante arrestato dopo oltre 20 anni di latitanza

    Brasile: Morabito è un caso che divide il Paese

    Ora una nuova tappa nell’incredibile vita di “Tamunga”. La sua estradizione, infatti, nonostante le pronunce della Corte suprema, doveva essere autorizzata dal presidente Jair Bolsonaro. Ma proprio nelle ultime ore, il ministero della Giustizia avrebbe bloccato tutto.

    L’ordinanza è firmata dal segretario nazionale alla Giustizia, Josè Vicente Santini, uno dei fedelissimi di Bolsonaro. Ma la vicenda, anche sotto il profilo legale, non è così chiara. La legge in vigore in Brasile impedirebbe l’estradizione se vi sono procedimenti pendenti o condanne definitive in Brasile. Tale procedura può essere completata solo su richiesta della persona che dovrebbe essere trasferita. Oppure su autorizzazione della giustizia brasiliana.

    Insomma, per qualcuno, Morabito potrebbe essere deportato in Italia solo quando il caso si fosse concluso. Ma altri giuristi sostengono che “Tamunga” potrebbe rientrare in Italia prima della conclusione di un eventuale nuovo processo. Ma per adesso il re del narcotraffico non tornerà in Italia, da dove manca (almeno ufficialmente) da oltre 30 anni.

  • Mai più da sole: nove anni di lotte del centro antiviolenza di Reggio Calabria

    Mai più da sole: nove anni di lotte del centro antiviolenza di Reggio Calabria

    Quella del Centro antiviolenza Angela Morabito è una storia di donne che aiutano le donne.
    Questa storia è partita da Reggio e ora ha esteso il suo raggio d’azione anche in provincia. A Polistena prima e ad Ardore poi, per una “guerra” in cui si recita sempre lo stesso copione: le donne nel ruolo di vittima e gli uomini in quello di carnefici.

    Violenze di genere: vittima una donna su tre 

    Le violenze di genere sono un dramma quotidiano che investe un terzo della popolazione femminile italiana.
    Una donna su tre, dicono le statistiche, ha subito almeno una volta un atto violento da un maschio: sberle, botte, abusi sessuali, ma anche delegittimazioni sociali e professionali, umiliazioni e privazioni economiche.
    Il Centro Morabito, costituito da donne calabresi preparate e risolute, prova a fermare questo campionario degli orrori. Lo fa con l’impegno sul campo e , adesso, con un fondo di oltre 200mila euro. La somma proviene da un gruppo di artiste ed è il frutto del maxi concerto al Campovolo di Reggio Emilia.

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    Francesca Mallamaci (a sinistra) e le sue colleghe del Centro antiviolenza

    Centri antiviolenza: tutto iniziò da Angela

    Il Centro antiviolenza (e la relativa casa rifugio in grado di ospitare fino a sei persone) nasce nel 2013, in collaborazione con “Piccola opera Papa Giovanni”. È intitolato alla memoria di Angela Morabito, la donna che solo durante le terapie contro la sua leucemia trovò il coraggio di accusare il padre orco che tante volte la aveva insidiata da ragazzina.
    Da allora, centinaia di donne si sono appoggiate ai loro servizi e sono riuscite a rompere il muro di silenzio, paura e vergogna che le imprigionava. Un muro spesso invalicabile, perché costruito all’interno di relazioni familiari tossiche.

    Un numero verde per chiedere aiuto sempre

    Psicoterapeute, avvocate, assistenti sociali e mediatrici culturali: queste professioniste aiutano le donne che si rivolgono allo sportello di ascolto o al numero verde 800 170 940 operativo a tutte le ore, sette giorni su sette. Loro sono, per le vittime, il punto di partenza di un percorso estremamente delicato e complesso.
    «Il nostro percorso – racconta a I Calabresi la responsabile del centro e della casa rifugio, Francesca Mallamaci – mira a elaborare le violenze subite e a ridefinire un nuovo progetto di vita per le donne che trovano il coraggio di contattarci.
    Noi offriamo, totalmente gratis, servizi che vanno dall’assistenza legale all’accoglienza residenziale e forniamo consulenze psicologiche e specialistiche in ambito sociale e di orientamento lavorativo».
    È un lavoro estremamente complicato. Anche perché, a fronte di una quotidianità sempre più drammatica, il Centro antiviolenza Angela Morabito è, nel Reggino, l’unica realtà specializzata sulla violenza di genere.

    L’ufficio del Centro antiviolenza di Reggio

    Centri antiviolenza Calabria: a Crotone zero totale

    Il “vuoto” è preoccupante, ma in Calabria c’è di peggio. Nel Crotonese, ad esempio, non esiste nessuno sportello sulle violenze di genere. E mancano posti letto per le donne che vogliono allontanarsi dai loro contesti.
    Dallo scorso marzo, i servizi dell’associazione sono disponibili anche sul versante jonico della provincia di Reggio.
    Grazie ad una collaborazione con il Comune di Ardore e con l’Auser, tre professioniste del posto – la psicologa Loredana Oppedisano, l’assistente sociale Daniela Andrianò e l’avvocata Vincenza Corasanti – hanno aperto uno sportello d’ascolto dell’associazione in una stanzetta del municipio messa a disposizione dal Comune.
    Lo sportello è aperto il martedì e il giovedì ma è possibile rivolgersi a tutte le ore al numero verde 800 177 507. Quest’esperienza dura da pochi mesi ma i riscontri sono già evidenti.

     

    Solo una donna ha chiesto aiuto a Polistena

    L’associazione finora ha preso in carico quattro donne vittime di violenza di genere.
    Il contesto è la provincia profonda, dove il “sommerso” pesa più che altrove. Perciò farsi avanti diventa ancora più complicato. E i risultati sono altalenanti.
    Ad Ardore i servizi dello sportello d’ascolto cominciano a fare breccia. A Polistena, dove l’associazione è presente dal luglio 2021, le cose vanno altrettanto bene: solo una donna ha chiesto aiuto.
    «Raggiungere le realtà periferiche è molto importante», sottolinea ancora Francesca Mallamace, «perché spesso a una donna può risultare difficile anche giustificare la propria assenza da casa per qualche ora. La nostra presenza sul territorio può rappresentare un notevole passo in avanti».

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    Lo staff dello sportello d’ascolto di Ardore

    La generosità dell’arte

    In aiuto all’associazione e ai suoi tentativi di radicamento nella Locride, a breve arriveranno gli oltre 200mila euro di cui si parlava prima. Li hanno donati sette cantanti italiane: Fiorella Mannoia, Gianna Nannini, Laura Pausini, Giorgia, Elisa, Emma e Alessandra Amoroso. Le artiste hanno raccolto lo scorso 11 giugno con lo spettacolo Una, nessuna, centomila, i fondi per sostenere sette diverse realtà su tutto il territorio nazionale.
    Tra queste, lo sportello di Ardore, che con quei soldi conta, tra l’altro, di organizzare una casa rifugio per accogliere le donne che ne faranno richiesta, su un territorio che ne è rimasto finora sprovvisto.
    Sulla bontà della scelta non ha dubbi Celeste Costantino, presidente dell’Osservatorio sulla parità di genere del ministero della Cultura, e “delegata” dalle artiste all’individuazione dei centri.
    «La selezione dei centri da finanziare ha richiesto un lavoro lungo e approfondito», spiega Costantino. «L’associazione Angela Morabito rispondeva a tutti i requisiti. Noi vogliamo intervenire nei contesti più difficili, proprio come Ardore. E per essere ancora più incisivi abbiamo scelto di aiutare singole realtà con contributi importanti e diretti».

  • Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

    Pagati male e tutelati peggio: l’odissea dei giornalisti calabresi

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    Una domanda banale per iniziare: a che servono i giornalisti in Italia?
    La risposta è scontata: a fare da ufficio stampa ad alcune Procure. O dall’altro lato della barricata, ad altrettanti studi legali.
    Poi servono nelle tornate elettorali: c’è sempre qualche inchiesta che azzoppa qualcuno o un virgolettato che fa comodo.
    Ma i giornalisti servono, soprattutto, quando costano poco e quando si prestano, in maniera più o meno disinteressata, a far da carne da cannone.
    Soprattutto, a livello giudiziario. Quanto tutto questo incida sulla libertà di stampa (e sulla correlata libertà di informazione, specie in Calabria) è facile da capire.

    Informazione: Italia tra le ultime, la Calabria è peggio

    Lo ha detto più volte l’Ocse: l’Italia è piuttosto giù nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa. E va sempre peggio, perché nel 2022 siamo scesi al 58esimo posto (su un totale di 180), come denuncia l’ultimo World Press Federation Index.
    Il rapporto indica soprattutto una causa di questa situazione non brillante per un Paese occidentale: l’autocensura.

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    La libertà di stampa in Italia secondo l’ultimo rapporto di Reporter Senza Frontiere

    Ci si autocensura perché si rischia tanto, a livello legale. Poi ci si autocensura perché si è pagati troppo poco per rischiare. Oppure perché gli editori, oltre che di spendere il meno possibile, si preoccupano di non dar fastidio ai padroni del vapore (sul quale sono a bordo o contano di salire).
    In tutto questo, com’è messa la Calabria? Malissimo, va da sé. E la situazione è quasi impossibile da quantificare perché mancano dati precisi.

    L’informazione in Calabria e le querele à gogo

    Qualche mese fa l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho aveva ribadito la necessità di tutelare i giornalisti dalle liti temerarie.
    Questa dichiarazione finì in un appello firmato da quasi tutte le testate calabresi, inclusa la nostra, e da singoli giornalisti.
    L’emergenza c’è. Anche se mancano i numeri per definirla. Qualcosa la si apprende dalla Polizia postale, che in seguito all’esplosione del giornalismo online, è diventata il terminal delle querele.

    Queste, in Calabria, si aggirano grosso modo attorno al centinaio l’anno. Tantissimo, se si considera il totale degli iscritti all’albo e lo si proietta sulla popolazione regionale.
    Altra domanda: che fine fanno queste querele? Una statistica giudiziaria è impossibile.
    Tuttavia, non ci si allontana dalla realtà se si ipotizza che circa il 60% finisce in niente. In pratica, non arriva neppure all’avviso di garanzia.
    Di quel che resta, una parte maggioritaria va a dibattimento. Più limitato il numero delle condanne (in pratica, il 15% del totale). Ma questi, ripetiamo, sono dati molto informali, da prendere con le pinze.

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    L’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho

    Quando le querele imbavagliano

    Se molte finiscono in niente, perché le querele imbavagliano? Innanzitutto, per i costi legali, che ci sono anche per i prosciolti.
    Poi, ovviamente, per motivi di serenità. Peggio ancora con le richieste di risarcimento danni, che obbligano comunque a difendersi e non offrono le garanzie del procedimento penale.

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    Una rotativa in funzione

    Qualche domanda a Cafiero

    Il problema è semplice: querelare è facile. Ed è facile non perché le normative che regolano l’editoria e la professione sono in buona parte obsolete.
    La facilità con cui si querela è dovuta alla giurisprudenza, che ha aumentato a dismisura le possibilità di far condannare i giornalisti.
    E allora: Cafiero sa che si querela molto perché una buona fetta dei suoi colleghi magistrati ha aumentato la “querelabilità” a botte di sentenze? Inoltre, lui o qualche altro big in toga hanno mai pensato di far dibattere al Csm questo problema?

    Redazioni a macchia di leopardo

    Gli editori (parliamo di editoria periodica) si dividono in tre categorie: quelli che pagano, quasi inesistente, quelli che pagano male, i più, quelli che non pagano affatto.
    Concentriamoci sulla seconda.
    Pagare male, in questo caso, significa pagare il minimo indispensabile. Ovvero, contrattualizzare decentemente solo i pochi redattori che servono per ottenere i finanziamenti pubblici e gli sgravi. Il resto, pazienza: si accontenterà di paghe da fame ottenute attraverso contratti borderline.

    D’altronde, quanti part time, verticali od orizzontali, o co.co.pro coprono prestazioni professionali da tempo pieno e indeterminato?
    Ciò comporta che più o meno tutte le redazioni siano a macchia di leopardo. Cioè che gli articoli uno condividano pc e scrivanie con part time che fanno il loro stesso lavoro.
    Gli esempi abbondano: tra questi la vecchia Provincia Cosentina (che chiuse i battenti nel 2008) e Calabria Ora/L’Ora della Calabria, che non esiste più dal 2014.

    La vera minaccia alla libertà

    La contrattualizzazione a macchia di leopardo non è solo colpa degli editori “taccagni. In buona parte, invece, è dovuta alla fragilità del mercato, che non consente l’editoria “pura”, che resiste, spesso male solo in alcune nicchie (inesistenti in Calabria).
    Gli editori calabresi sono sempre stati “impuri”, che non significa necessariamente cattivi. Sono imprenditori che hanno il core business altrove e usano i media per curare i propri interessi.

    In Calabria nel mondo dell’informazione questo principio vale quasi per tutti, con la palese eccezione de I Calabresi.
    Il resto, vuoi per mancanza di business, vuoi per prassi consolidate, segue le regole dell’aziendalistica, deformate sulle abitudini regionali: pagare poco e male, fino a ricorrere al nero.
    In fin dei conti, la minaccia per eccellenza alla libertà di stampa è questa: un cronista pagato male e tutelato peggio (quanti sono i giornalisti coperti da assicurazioni professionali?) è un cronista che lavora male.

    La bassa qualità dell’informazione in Calabria (e non solo)

    Ma la poca libertà di stampa non è solo un affare degli addetti ai lavori. Riguarda anche il pubblico, perché spesso si traduce in informazione di cattiva qualità.
    A questo punto, è scontata una domanda: perché una persona preparata e dotata delle qualità che fanno il buon giornalista dovrebbe imbarcarsi in un mestiere duro, a volte rischioso? E in cambio di cosa? Quattro spiccioli e la certezza di guai giudiziari, se va bene, o fisici, se va male?

    Il caporalato

    Altre testate sono sopravvissute attraverso due pratiche a rischio: la cooperativa di giornalisti (è il caso de Il Garantista) e l’affidamento a uno o più service (il Domani della Calabria e, più di recente, La Provincia di Cosenza).
    Le cooperative hanno una forte controindicazione: trasformano i giornalisti in imprenditori. In pratica, li costringono a fare un mestiere non loro. Questo quando funzionano. Ma, al riguardo, in Italia c’è solo il Manifesto che corrisponde ai criteri di una cooperativa vera. Per il resto, sono imprese mascherate, che scaricano sui dipendenti i rischi dell’imprenditore.

    I service, cioè le agenzie stampa che gestiscono testate intere o loro singole parti, possono essere peggio. In queste forme di gestione, infatti, si annida il caporalato, perché il titolare dell’agenzia gestisce un forfait e non è detto che lo faccia in maniera trasparente.
    Ad ogni buon conto le garanzie per i giornalisti rischiano di essere minime, visto che non sono infrequenti i casi in cui le eventuali querele sono a carico del service e non dell’editore…

    L’informazione in Calabria: chiusure e fallimenti

    Gli editori “impuri” sanno bene una cosa: che i giornali, comunque li si gestisca, sono aziende in perdita.
    Quando il costo supera gli utili “immateriali” (pubblicità alle proprie aziende, e possibili “attacchi” a concorrenti o politici ostili), di solito si chiude o si fallisce.
    È capitato alla Provincia Cosentina, ceduta dal gruppo Manna a un gruppo di giornalisti e fallita nel giro di tredici mesi. È capitato a Calabria Ora, fallito dopo vicende controverse. Più sfumata la storia del Garantista, che ha subito un cambio di gestione è poi è fallito.
    Queste tre chiusure hanno lasciato strascichi pesanti di vertenze e questioni giudiziarie irrisolte. Più una tragedia: il suicidio di Alessandro Bozzo, storica firma del giornalismo cosentino.

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    Alessandro Bozzo: la sua tragica morte fece riaccendere i riflettori sullo stato dell’informazione in Calabria

    Quanti peli ha la solidarietà?

    Di Alessandro si ricorda un funerale commovente, un processo per far chiarezza sulla morte, qualche evento pubblico e due libri dedicati a lui.
    Della chiusura di Calabria Ora/L’Ora della Calabria, invece, si ricordano le polemiche e gli scandali.
    Dei giornalisti, anche talentuosi, espulsi dalla professione non si ricorda nessuno, tolte le parole di circostanza.
    Del vecchio assetto dell’editoria periodica calabrese restano in piedi due testate: il Quotidiano del Sud (già della Calabria), e la Gazzetta del Sud, più una galassia di giornali online di diversa qualità e fattura.
    Il precariato è la norma, in questa situazione: vi si resiste solo passando da una testata all’altra, spesso in condizioni di estremo disagio.
    Che libertà e che qualità si possono assicurare per questa via? Il resto, le indignazioni passeggere e le finte solidarietà sono chiacchiere.

  • Omicidio Vincenzo Cordì, ergastolo alla compagna e al suo amante

    Omicidio Vincenzo Cordì, ergastolo alla compagna e al suo amante

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    Quando i giudici della corte d’assise di Locri fanno il loro ingresso in aula per la lettura della sentenza, lo stanzone al primo piano di piazza Fortugno è affollato dei parenti di Vincenzo Cordì, morto ammazzato nel novembre di 3 anni fa. Seduti ordinatamente sugli scaloni per il pubblico, indossano, tutti, una maglietta con il faccione sorridente del ragazzo. Tanti tra loro, la madre di Cordì e gli altri parenti che hanno presenziato all’udienza, piangono mentre la presidente Monteleone legge le condanne: fine pena mai per Susanna Brescia e per il suo amante Giuseppe Menniti, 23 anni per il figlio di lei Francesco Sfara. Sono loro 3, hanno deciso i giudici, ad avere organizzato e messo in piedi l’omicidio.

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    La sorella e la madre di Vincenzo Cordì all’esterno del Tribunale di Locri dopo la lettura della sentenza

    Omicidio Cordì: cadavere ritrovato dai cacciatori

    Cameriere in tanti ristoranti della riviera, Vincenzo Cordì era un ragazzo normale. Animo gentile e padre di una coppia di gemelli, Cordì è finito stritolato da un rapporto tossico: ammazzato – hanno stabilito in primo grado i giudici del tribunale di Locri – dalla compagna con l’aiuto del suo amante e di uno dei figli di primo letto della donna. Una storia tremenda, costruita su odio, gelosia e rancore, che è finita col costare la vita a quel ragazzone sempre allegro, stordito con una botta in testa e lasciato bruciare all’interno della sua auto quando era ancora in vita. A ritrovare il cadavere carbonizzato di Cordì, nel novembre del 2019, era stato un gruppo di cacciatori in battuta nei dintorni della “Scialata”, una delle zone più gettonate della zona per le scampagnate fuori porta, due giorni dopo la denuncia di scomparsa presentata dalla compagna Susanna Brescia.

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    Vincenzo Cordì e Susanna Brescia

    Una questione privata

    Archiviata quasi immediatamente dai carabinieri la pista del crimine organizzato – la vittima non era collegata agli ambienti della ‘ndrangheta – le indagini si erano spostate quasi immediatamente sul versante della sua vita privata. E quasi immediatamente era venuto fuori il rapporto burrascoso che si era ormai creato tra Cordì e la sua compagna. Un rapporto così controverso che avrebbe portato la Brescia, nel 2016, a drogare con della benzodiazepina il suo partner provocandone un incidente in auto che solo per un caso non ebbe conseguenze mortali.

    I cellulari inchiodano i colpevoli

    A inchiodare i presunti colpevoli di questo omicidio crudele, le tante tracce informatiche lasciate alle loro spalle. A cominciare dai loro cellulari, che si agganciano alle celle telefoniche nel luogo dell’omicidio, all’ora dell’omicidio e che, nonostante i tentativi di ripulitura, mostrano contatti frenetici nei minuti precedenti e successivi alla morte di Cordì.

    E poi le telecamere a circuito chiuso che i carabinieri hanno spulciato una ad una, ricostruendo il percorso di vittima e carnefici, dal cancello di casa fino alle campagne che si inerpicano sulla Limina, passando per il distributore di benzina di Marina dove Menniti si sarebbe fermato per riempire la tanica di benzina necessaria al rogo. E poi gli screenshot del cellulare che gli indagati non avevano cancellato dai loro telefonini e che hanno aiutato gli inquirenti a ricostruire il giro di bugie e sotterfugi che gli indagati avevano messo in atto nel tentativo di indirizzare le indagini verso l’ipotesi del suicidio. Fino al dna della Brescia trovato sull’accendino antivento usato per bruciare il corpo del suo compagno.

  • In fiamme auto del capogruppo del Pd a San Giovanni in Fiore

    In fiamme auto del capogruppo del Pd a San Giovanni in Fiore

    Un incendio sulle cui cause sono in corso accertamenti ha distrutto, nella notte, a San Giovanni in Fiore, in provincia di Cosenza, l’auto di un avvocato, Domenico Lacava, di 53 anni, già candidato sindaco e attualmente capogruppo del Pd nel Consiglio comunale del centro silano. L’auto era parcheggiata in via Panoramica, in una zona centrale della cittadina. Le fiamme si sono propagate anche ad un’altra autovettura posteggiata nelle vicinanze che è stata seriamente danneggiata. Sono in corso le indagini dei carabinieri intervenuti sul posto e le verifiche dei vigili del fuoco per stabilire le cause che hanno scatenato l’incendio. Al momento non si esclude alcuna ipotesi sulle cause del rogo.

  • Traffico internazionale di droga tra Sudamerica e Reggio Calabria: 19 arresti

    Traffico internazionale di droga tra Sudamerica e Reggio Calabria: 19 arresti

    È scattata all’alba l’operazione antidroga “Hermano” con l’arresto di 19 persone. I carabinieri hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta della Direzione distrettuale antimafia. Al centro dell’inchiesta ci sono diversi soggetti residenti a Taurianova, nella Piana di Gioia Tauro. Il blitz ha interessato anche le province di Milano, Parma, Verona e Vicenza. Gli indagati sono accusati di aver fatto parte di un’articolata organizzazione criminale, capace di gestire un fiorente traffico di sostanze stupefacenti. Stando alle risultanze investigative dei carabinieri, coordinati dal procuratore Giovanni Bombardieri, la droga veniva acquistata in Sudamerica e, passando attraverso il canale spagnolo, arrivava poi in Italia dove veniva rivenduta in diverse città settentrionali.

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    Il procuratore di Reggio Giovanni Bombardieri

    Erano in contatto con narcos peruviani le 19 persone arrestate, sette in carcere e 12 ai domiciliari, nell’ambito dell’operazione “Hermano”. Tra i destinatari del provvedimento di arresto emesso dal Gip Giovanna Sergi, c’è Carmelo Bonfiglio, di 42 anni, ritenuto uno dei promotori e organizzatori dell’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Stando all’indagine Bonfiglio teneva i contatti con i fornitori spagnoli e albanesi. Ma soprattutto con i peruviani. Con questi ultimi produttori di cocaina, infatti, secondo la Dda, gli arrestati avrebbero goduto di rapporti privilegiati grazie ai quali erano in grado di acquistare partite di droga a prezzi concorrenziali: 32mila euro al chilo a fronte di un prezzo di mercato che va dai 35 ai 40mila euro.

    Carcere anche per Rocco Camillò di 44 anni, Diego Giovinazzo (46 anni), Palmiro Cannatà (62 anni), Salvatore Sanò (60 anni), Damiano Veneziano (33 anni) e Antonio Pedullà (36 anni). Il gip ha disposto i domiciliari per Antonio De Luca di 71 anni, Antonio Ranieli (71 anni), Francesco Macrillò (64 anni), Francesco La Cognata (44 anni), Maurizio Scicchitani (55 anni), Antonio Zangari (53 anni), Gino Carlo Melziade (50 anni), il peruviano Oscar Bruno Bagigalupo Lobaton (47 anni), Donato Melziade (63 anni), Endri Dalipaj (33 anni), Gioacchino Marco Molé (30 anni) e Riccardo Ierace (34 anni). Sono 56 gli indagati dell’inchiesta partita nel dicembre 2017 dopo un arresto per durante un controllo di polizia.

    All’epoca, infatti, all’interno di un auto, i carabinieri trovarono 3 chili e 400 grammi di infiorescenze di cannabis indica essiccata. Da quel sequestro, si è risaliti prima a Palmiro Cannatà e poi a Carmelo Bonfiglio riuscendo così a ricostruire la filiera della droga, ma anche a delineare la struttura della consorteria criminale capace di gestire i traffici di marijuana, hashish e cocaina. È emerso che gli arrestati riuscivano a importare in Italia ingenti partite di droga. I carichi venivano nascosti in “scomparti segreti” all’interno dei veicoli utilizzati per il trasporto nelle principali città italiane, tra cui Milano e Roma. Lì lo stupefacente veniva suddiviso in dosi e smerciato.

    Libri di cocaina

    Per sviare i controlli delle forze dell’ordine e quelli in aeroporto, la cocaina smerciata dal gruppo criminale smantellato nell’ambito dell’operazione “Hermano” condotta dai carabinieri e coordinata dalla Dda di Reggio Calabria veniva trasportato in forma liquida, chimicamente intrisa nelle fibre di valigie o addirittura saturandola nei libri per poi estrarla attraverso processi chimici di reazione molecolare che ne consentono il recupero. Un metodo emerso in fase di indagini quando a Biella i carabinieri sequestrarono 250 grammi di cocaina trasportata in un trolley insieme a due bidoni di solvente che, secondo gli investigatori, sarebbe servito al processo inverso di estrazione della sostanza. Ai 19 indagati, sette in carcere e 12 ai domiciliari, viene contestata anche l’aggravante della natura transnazionale del traffico di stupefacenti.

    I carabinieri, indagando, sono riusciti a scoprire che il coordinamento delle attività veniva gestito anche dall’interno del carcere di Ivrea. Per il gip Sergi, l’episodio è «degno di un best set cinematografico hollywoodiano». In sostanza, «una banda di detenuti, per la maggior parte sudamericani – è scritto nell’ordinanza – divulgava disposizioni all’esterno su dove, come e quando commercializzare cocaina, oppure ordinava dosi della medesima sostanza stupefacente da introdurre nel carcere e, per finire, dava indicazioni sul traffico della droga da e per l’Ecuador. Il tutto mediante l’uso illegale di un telefono cellulare munito di regolare sim card».

    L’ombra della ‘ndrangheta

    Alcuni indagati sono ritenuti affiliati alla ‘ndrangheta. Altri, invece, stando all’inchiesta, erano in contatto con personaggi legati alle cosche mafiose calabresi come i Papalia operanti a Milano o affiliati alle famiglie Molé di Gioia Tauro, Cacciola-Grasso di Rosarno, Ierace di Cinquefrondi, Manno-Maiolo di Caulonia e Facchineri di Cittanova. Tra gli indagati, infatti, c’è Luigi Facchineri per il quale il gip ha rigettato l’arresto. Agli atti dell’indagine, coordinata dal procuratore Giovanni Bombardieri, c’è pure la famiglia De Stefano di Reggio Calabria. Secondo i pm, infatti, con un esponente rimasto ignoto del clan di Archi, Carmelo Bonfiglio avrebbe anticipato 25mila euro per l’acquisto in Spagna e il trasporto in Italia di un carico di marijuana.

  • Venti quintali di tonno rosso sequestrati a Reggio Calabria

    Venti quintali di tonno rosso sequestrati a Reggio Calabria

    Circa 20 quintali di tonno rosso, trasportati come tonno alalunga e privi della necessaria documentazione, sono stati sequestrati dai militari della Capitaneria di porto di Reggio Calabria a bordo di un automezzo proveniente dalla Sicilia a seguito di una richiesta di intervento della Polizia stradale.

    I poliziotti della sottosezione di Reggio Nord, durante un servizio di vigilanza su strada, hanno fermato un furgone isotermico per effettuare un controllo notando all’interno del mezzo la presenza di un notevole quantitativo di prodotto ittico e richiedendo l’ausilio dei militari della Guardia costiera. Grazie all’ausilio del personale veterinario si è poi potuto accertare che il prodotto trasportato, destinato ai mercati calabresi, non corrispondeva per caratteristiche a quello riportato nella documentazione di accompagnamento.

    Difatti, i 13 esemplari, trasportati come tonno alalunga, risultavano essere della specie tonno rosso per i quali la normativa europea e nazionale detta regole stringenti per la cattura, il trasporto, e la commercializzazione. La violazione ha comportato l’elevazione di sanzioni amministrative per oltre 4 mila euro. Giudicato idoneo al consumo umano, il prodotto ittico è stato devoluto in beneficienza ad enti caritatevoli della città.

  • Catanzaro: dopo la batosta, il centrodestra prepara la faida

    Catanzaro: dopo la batosta, il centrodestra prepara la faida

    Nei ballottaggi il centrosinistra imperversa un po’ ovunque. A Monza, a dispetto dell’impegno di Berlusconi per il sindaco uscente Dario Allevi (sostenuto anche da Lega e Fdi). E peggio che andar d notte a Verona, dove Damiano Tommasi ha approfittato delle frizioni interne al centrodestra e si è imposto sull’ex sindaco Federico Sboarina.
    A conferma che non c’è due senza tre, le stesse frizioni si sono ripetute a Catanzaro, con un esito altrettanto devastante. Al riguardo, è stato profetico Roberto Calderoli, quando si è lasciato scappare un’espressione piccante: «Comunque vincerà uno del Pd…».

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    Salvini arringa i catanzaresi

    Eppure nel capoluogo regionale Matteo Salvini si era speso assai, anche mediaticamente, per Valerio Donato. E aveva mandato giù un boccone amarissimo. Cioè quel: «Mai sul palco con Salvini» pronunciato proprio dal “suo” candidato.

    La resa dei conti

    Da oggi, però, inizia la resa dei conti nel centrodestra nazionale, in cui la batosta di Catanzaro ha il suo peso.
    Inequivocabile sul punto Flavio Tosi, big veronese passato in Forza Italia: «Se si sono rotti i tavoli a Catanzaro a Parma e anche altrove la causa è Verona. Ovverio: Fratelli d’Italia ha fatto saltare il banco ovunque perché a Verona non c’è stato l’apparentamento su Sboarina».
    Stando a questo ragionamento, la colpa della “botta” di Catanzaro sarebbe delle scelte politiche della commissaria regionale.
    Wanda Ferro, infatti, ha fatto saltare i tavoli di coalizione, ha bruciato nomi come fiammiferi, infine ha ispirato la candidatura di Valerio Donato. Il quale, tra l’altro, è una vecchia conoscenza della deputata meloniana (è stato suo avvocato nel ricorso contro la legge elettorale regionale nel 2014).

    Ma siccome nulla a Catanzaro è lineare, Wanda si è candidata contro Donato, salvo sostenerlo (senza apparentamenti) al ballottaggio.

    Donato il candidato “scaricato”

    Docente della Magna Graecia di Catanzaro e presidente della Fondazione Umg, Valerio Donato ha rivendicato a spoglio ancora in corso la sua matrice di sinistra. In verità, lo ha fatto per tutta la campagna elettorale, nononstante le molteplici iniziative pubbliche con i big del centrodestra.
    Ed ecco che la “Rinascita” ha partorito un topolino.
    Difatti, la lista espressione della sua proposta politica («nettamente bocciata dagli elettori» ha ammesso a scrutinio quasi finito) si è fermata al 4,9% e ha eletto solo Gianni Parisi, l’ex presidente del Sant’Anna Hospital.
    E c’è di peggio: Donato ha avuto il 9,8% di voti in meno rispetto alla coalizione.
    Se non è questo un segnale di sfiducia…

    Fiorita sindaco: l’uomo della rimonta

    Destra e sinistra esibivano la carta “Valerio Donato” da quasi un ventennio alla vigilia di ogni Amministrativa. Forse oggi, alla luce della “remuntada” di Fiorita, si può dire che la carta è stata calata tardi e male.
    Al primo turno Fiorita era indietro di 5.800. Al secondo, ha ribaltato le urne e si è trovato avanti 5.045 schede.

    Nicola Fiorita brinda alla vittoria

    Segno che la proposta civica di Donato è stata soffocata dal notabilato locale di centrodestra. Ma ciononostante non ha sfondato.

    Big allo sbando

    Torniamo a Wanda Ferro: la big meloniana ha postato su Instagram il bacio di Giuda con l’hashtag #quanticenesono. Peccato che il “pasticcio politico” lo abbia imbastito lei.
    Il presidente del Consiglio regionale in quota Lega, Filippo Mancuso, che aveva avuto carta bianca per le Amministrative dai vertici del Carroccio, ha diramato una nota stampa in cui riconosce la sconfitta e fa gli auguri a Fiorita. E tutto lascia pensare che, sotto sotto, Domenico Furgiuele, l’altro boss della Lega, se la rida sotto i baffi.

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    il post di Wanda Ferro su Instagram dopo l’esito del ballottaggio

    Il cerino in mano

    Il coordinatore cittadino di Forza Italia Marco Polimeni, è in un cul de sac.
    È rimasto col cerino in mano dopo la dichiarazione pubblica resa al fianco di Donato e del coordinatore regionale Giuseppe Mangialavori: «Lo dico subito: noi non avremo nessuna intenzione il giorno dopo di venderci e di fare accordi innaturali, il giorno dopo rassegneremo immediatamente le dimissioni e non accetteremo nessun accordo trasversale».
    «Polimeni parla solo per sé stesso» ha dichiarato più di un eletto nella coalizione di Valerio Donato.
    Questa dichiarazione rischia di minare la credibilità politica dell’ex presidente del Consiglio, che secondo i beneinformati era prossimo a diventare portaborse di Michele Comito, il presidente della Commissione sanità del Consiglio regionale, su indicazione di Mangialavori.

    Niente anatre, solo volponi

    Durante il ballottaggio ha tenuto banco la questione “anatra zoppa”. Che, almeno sulla carta, c’è: Valerio Donato ha 18 Consiglieri, Fiorita ne ha 10.
    Ma la politica catanzarese è abituata alle giravolte. La sa lunga Sergio Costanzo, il più votato a Catanzaro. A un quarto d’ora dalla chiusura dei seggi, su Facebook, ha abbandonato il “donatismo” con un’affermazione inequivocabile: «chiunque vinca avrà l’arduo compito di risolvere gli atavici problemi che attanagliano la nostra città e ridare dignità al capoluogo. Vinca il migliore, in bocca al lupo Valerio e Nicola». Un chiaro segnale di consapevolezza del vento elettorale.
    Tra consiglieri che si congratulano e altri pronti a diventare “responsabili” per il “bene della città”, Fiorita dovrà barcamenarsi tra i volponi ritornati in un Consiglio che ha poche novità. Una bella sfida.

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    Il presidente dell’Ordine degli avvocati di Catanzaro, Antonello Talerico

    Talerico: l’ago della bilancia

    Antonello Talerico, presidente degli Avvocati di Catanzaro con un ricorso in ballo per subentrare a palazzo Campanella, è riuscito a diventare l’ago (pungente) della bilancia. Nonostante la faida personale con Mangialavori, che spesso lo ha distratto, ha tenuto testa ai due poli al primo turno e ricevuto il sostegno di Carlo Calenda, che ha rivendicato il risultato a doppia cifra di Catanzaro, e di Maurizio Lupi.
    Porta in dote, salvo riconteggi, tre consiglieri oltre lui, pronti a sostenere la maggioranza dopo aver dato una bastonata politica a un centrodestra ostile, con la sola eccezione di Roberto Occhiuto.

    Partitismo gregario

    Nicola Fiorita è risultato forte nella sua impronta civica. Le sue liste Mò e Cambiavento hanno trainato i consensi. Va ricordato che i grillini hanno fatto per primi il suo nome a sinistra, in particolare Paolo Parentela.
    il M5S festeggia il primo ingresso in Consiglio comunale (nonostante il 2,77%) con Danilo Sergi. Il Pd cresce di poco rispetto al 2017 (arriva al 5,8%) ma raddoppia la rappresentanza: Giusy Iemma, la presidente regionale, e il segretario cittadino Fabio Celia. Torna anche il Psi (2,7%) con Gregorio Buccolieri.
    Questo partitismo è risultato gregario. Toccherà al neo sindaco non divenirne prigioniero.

    I fantasmi della campagna elettorale

    Non si sono visti per l’intera campagna elettorale né hanno fornito candidati alla coalizione, nonostante le richieste. Sono spariti e ora ritornano.
    Parliamo del parlamentare del Pd Antonio Viscomi, già candidato nell’uninominale di Catanzaro. Viscomi il primo turno delle Amministrative pubblicò una foto con i risultati dei candidati del Pd di Pizzo.
    «Trovare candidati è difficile» disse ai dirigenti dem di Catanzaro quando gli chiesero di dare un apporto fattivo alla lista.
    Idem per la Consigliera regionale del gruppo misto Amalia Bruni. «Ci sto provando senza riuscirci» avrebbe detto, salvo poi spuntare con tanto di Spritz in mano per le photo opportunity.
    Zero tituli anche per la sardina Jasmine Cristallo, spuntata a favor di intervista tra baci e abbracci soltanto all’ultimo ma il cui apporto – nonostante il “campo largo” da sempre decantato – è stato, secondo fonti dem, assolutamente nullo