Categoria: Fatti

  • Nu core, ‘na chitarra e la mafia: bufera sui neomelodici

    Nu core, ‘na chitarra e la mafia: bufera sui neomelodici

    La Calabria ha bisogno di buoni esempi. Lo sentiamo dire nelle scuole, nei dibattiti, nei convegni. In tanti, però, si sono interrogati in questi anni sul un fenomeno dei cantanti neomelodici che strizzano l’occhio nei loro brani alle mafie e che spopolano tra i giovani e nei territori ad alta densità mafiosa. La Calabria non ne è esente: i neomelodici riempiono le piazze dei paesi e scatenano, giocoforza, un mare di polemiche.

    Il caso Merante

    Lo scorso, ha avuto grande eco la querelle sul concerto della nota cantante folk Teresa Merante a Melissa. Lo organizzava una associazione e aveva il patrocinio del Comune guidato dall’ex segretario della Cgil del Crotonese Raffaele Falbo. Il concerto ha ricevuto il niet della Questura per motivi di ordine pubblico. Le polemiche (e gli imbarazzi, soprattutto del sindaco) non sono mancate.

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    La cantante calabrese Teresa Merante, al centro delle polemiche nei mesi scorsi per la sua canzone “U Latitanti”

    Canti di malavita 4.0?

    Tra i titoli delle canzoni della Merante c’è Il Capo dei capi. Protagonista è Totò Riina, a cui la cantante dedica versi come «Tante persone lui ha ammazzato, dei pentiti non si è scordato. Anche Buscetta tra questi c’era, uomo d’onore lui non lo era (…) Due giudici gli erano contro ed arrivò per loro il giorno. Li fece uccidere senza pietà (…) l’uomo di tanto rispetto e onore rimane chiuso a S. Vittore». Ma tra i brani del repertorio della Merante figurano anche Malandrini cunfinati, L’omu d’onori, Pentiti e ‘nfamità e U latitanti.
    La canzone Bon Capudannu fa gli auguri per San Silvestro «ai carcerati, segregati in galera. Speriamo torniate in libertà, nelle vostre case gioia e serenità».

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    Raffaele Falbo, l sindaco di Melissa

    Reazioni contrastanti

    Falbo a Melissa si trincerava nel silenzio. A Botricello, invece, l’allora consigliere comunale (oggi sindaco) Saverio Puccio – insieme al consigliere comunale di San Luca e sindacalista della Polizia di Stato, Giuseppe Brugnano – proponeva un esposto alla Procura guidata da Nicola Gratteri. Chiedeva si valutasse il reato di istigazione a delinquere.
    le polemiche sono riesplose nell’aprile di quest’anno, A Casali del Manco, dove il concerto della Merante, patrocinato dal Comune, è saltato causa pioggia. La vicenda ha mandato su tutte le furie Francesco Sapia, deputato di Alternativa.

    Francesco Sapia

    Il parlamentare dichiarò: «Trovo incredibile che il Comune di Casali del Manco rinneghi la propria storia politica e culturale e patrocini il concerto di Teresa Merante, nel cui repertorio figurano brani di promozione della cultura mafiosa e di odio nei confronti degli uomini della polizia, con versi che addirittura incitano all’assassinio degli stessi tutori della legge. Sulla vicenda vorrò verificare, anche in sede ministeriale, se il patrocinio comunale possa considerarsi in questo caso legittimo e intoccabile». Tranchant la risposta del sindaco Nuccio Martire: «Non conosco la Merante».

    Trapper e parentele

    Dal folk alla trap. Niko Pandetta vanta 150mila followers su Facebook e oltre 646mila su Instagram. È nipote del boss catanese Salvatore Cappello, sottoposto al  41 bis dal 1993.

    Al parente aveva pure dedicato una canzone. Cappello era braccio destro di Salvatore Pillera detto “Turi càchiti” («fattela addosso», la frase che diceva alle sue vittime prima di sparare).

    «Zio Turi io ti ringrazio ancora per tutto quello che fai per me, sei stato tu la scuola di vita che mi ha insegnato a vivere con onore, per colpa di questi pentiti sei chiuso là dentro al 41 bis», si struggeva Pandetta. Tempo dopo, stando alle cronache, si sarebbe pentito lui di quella canzone. Sui giudici Falcone e Borsellino, invece, cantava: «Hanno fatto queste scelte di vita, le sanno le conseguenze. Come ci piace il dolce ci deve piacere anche l’amaro».

    Nel mirino degli inquirenti

    A ottobre 2021 il quotidiano La Sicilia dava la notizia di una indagine, poi archiviata, a carico Pandetta per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2019 il Tribunale di Catania ha condannato il trapper in primo grado con rito abbreviato a sei anni e otto mesi e a 30mila euro di multa per detenzione e spaccio di stupefacenti a seguito dell’operazione “Double Track”. In appello, è arrivata una riduzione della pena.
    Il suo disco Bella vita si è classificato al 53esimo posto  tra gli album più venduti del primo semestre 2022. terzo album italiano di Warner Music dopo quelli di Irama e Capo Plaza.

    A inizio mese Pandetta avrebbe dovuto esibirsi a Fuscaldo, in provincia di Cosenza, in un bar sulla Statale 18. Ma il concerto non è andato in porto. «Tumulti, gravi disordini ed abituale ritrovo di persone pregiudicate e pericolose»: con queste motivazioni la Questura ha chiuso il locale.
    Ora, il prossimo 5 agosto, si esibirà allo stadio di Altomonte nel Cosentino. Ed è molto probabile che le polemiche non mancheranno.

    Anzi, ci sono già: il nome del trapper è emerso in alcune intercettazioni a carico del presunto boss catanese Domenico Mazzeo. Questi, in favore di trojan o di cimice, si era fatto scappare alcune frasi sui suoi rapporti con Paolo Nirta, figlio di Giuseppe, lo storico boss di San Luca. Una frase in particolare riguarda Pandetta, che si è esibito al diciottesimo compleanno del fratello minore di Paolo Nirta.

    De Martino, il neomelodico più richiesto in Calabria

    Classe ’95 e fiumi di followers su tutti i social. Idolo delle ragazzine e non solo. Daniele De Martino ha pubblicato una canzone contro i pentiti di mafia, definiti «infami» e «la vergogna della gente». De Martino questa estate impazza in Calabria tra eventi privati ed altri pubblici patrocinati dalle amministrazioni locali.
    Il 14 giugno è stato in piazza a Cessaniti (Vv), il 25 alla festa della birra di San Benedetto Ullano (Cs), il 28 a San Pietro in Guarano (Cs), il 17 luglio a Spezzano Albanese (Cs); il 22 luglio in un bar di Paola (Cs), mentre il 27 sarà in piazza a Seminara (Rc) e il 20 agosto alla Festa di San Rocco di Bocchigliero (Cs).

    Daniele De Martino in concerto

    Hanno fatto discutere, soprattutto, gli eventi nel Crotonese. Il 5 agosto De Martino si esibirà in piazza a Verzino. La manifestazione è patrocinata dal Comune, che tuttavia è guidato da Pino Cozza, vittima di una intimidazione mafiosa che lui stesso ha denunciato lo scorso aprile.
    Il 18 agosto De Martino andrà in scena a Rocca Di Neto, nella kermesse Rocca estate 2022 voluta dall’Amministrazione guidata da Alfonso Dattolo di Coraggio Italia.

    Molto scalpore ha destato anche il concerto a Cirò Marina dello scorso 17 luglio in occasione della festa di Sant’Antonio. Come riportato da Margherita Esposito su Gazzetta Del Sud, il parroco di Cirò Marina, Peppe Pane, ha preso le difese del giovane cantante. «Sono solo dicerie e non fatti reali. La voce su una sua presunta vicinanza a certi ambienti è tutta da dimostrare», ha detto don Pane.

    Intanto De Martino la scorsa estate è stato “pizzicato” a Palmi alla festa di nozze della figlia di un presunto narcotrafficante, Filippo Iannì, condannato in primo grado a 18 anni di carcere per aver organizzato un traffico di hashish e cocaina fra Marsiglia e la Calabria.
    «Chi nasce libero non può morire prigioniero ci vuole solamente pazienza per affrontare tutto questo», cantava De Martino alla sposa. E ancora: «Se senti il vento sfiorare stasera è lui che con uno spiraglio esce dalla sua cella».

    L’avviso del questore

    Nel giugno 2021, il questore di Palermo Leopoldo Laricchia ha emesso un “avviso orale” nei confronti del cantante. Il motivo? «In tempi recenti, sfruttando la popolarità conseguente alla propria professione, in diverse occasioni ha manifestato vicinanza agli ambienti malavitosi». Di più: «La non estraneità del trentenne palermitano al mondo malavitoso è sottolineata anche da altri comportamenti resi espliciti dallo stesso che ha pubblicato alcuni selfie che lo immortalano in atteggiamenti confidenziali con persone pregiudicate esponenti di famiglie di Cosa Nostra. Il cantante con il suo comportamento ha messo in pericolo la sanità, la sicurezza e la tranquillità pubblica. Ciò in ragione del fatto che gli espliciti messaggi consegnati in più occasioni ai moderni mezzi di comunicazione contengono gravi espressioni visive e verbali che implicano una istigazione alla violenza, un’esaltazione delle gravi azioni antigiuridiche connesse alla criminalità organizzata, un’accettazione e condivisione di comportamenti e azioni contrari ai valori morali della società civile e lesive delle Istituzioni dello Stato».

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    Un primo piano di Daniele De Martino

    Lo scorso mese, riporta una nota stampa di Libera, “in occasione dell’inaugurazione del Presidio Legalità a Potenza il procuratore a capo della Dda di Potenza Francesco Curcio ha ricordato il concerto del dicembre 2019 patrocinato dal comune di Scanzano Jonico (amministrazione poi sciolta per infiltrazioni mafiose) in cui si esibì proprio De Martino”. «È sintomatico di una società che non è basata sulla cultura della legalità non solo la presenza del cantante in questione, ma il fatto che sotto quel palco ci fossero migliaia di persone», disse Curcio.

    Il selfie col boss finisce in Parlamento

    Le canzoni di Daniele De Martino sono finite anche in Parlamento. La deputata emiliana del M5S Stefania Ascari, lo scorso maggio, ha presentato una interrogazione al Ministero della Giustizia.
    «Si è appreso della notizia di un cantante neomelodico De Martino, apparso su Facebook con i boss Spadaro e che canta contro un pentito; queste canzoni, così come scritte e interpretate, inneggiando alla peggiore forma di delinquenza, rappresentano un “pugno allo stomaco” per chi, come gli appartenenti alle forze dell’ordine, lavora ogni giorno rischiando la vita per estirpare dal Paese il cancro della criminalità organizzata. In tali testi, ci sono, infatti, alcune frasi che appaiono superare il limite della decenza e della semplice libertà di opinione o di espressione. I commenti che appaiono sotto i video e i post di questi presunti artisti della canzone destano perplessità e rischiano di fomentare un clima di illegalità e di ingiustizia. I messaggi che vengono diffusi attraverso questi testi non possono essere ricondotti a mere ricostruzioni artistiche e canore, ma equivalgono a espressioni di odio nei confronti delle forze dell’ordine e della magistratura e di esaltazione della criminalità organizzata e dei suoi componenti». Così si legge nell’interrogazione.

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    Stefania Ascari

    C’è chi dice no

    Il consigliere regionale della Campania di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli, in riferimento alla canzone di De Martino contro i pentiti ha dichiarato: «Ennesima vergogna, nel testo tutti i codici camorristi che indicano come infami chi collabora con le forze dell’ordine e minacciano ritorsioni. Avanti con proposta di legge su apologia di mafia e camorra».
    Prima ancora, il sindaco di Bari Antonio De Caro, presidente dell’Anci, nel 2019, in riferimento al brano Samara di De Martino, il cui video, girato nel quartiere San Paolo di Bari, vedeva ragazzi che impugnavano pistole e kalashnikov, dichiarò: «Non mi piacciono le pistole impugnate da ragazzi» e «non mi piace che il messaggio sia di esaltazione approvazione della violenza criminale […] non piace che il signor De Martino abbia girato il video in un quartiere, il San Paolo, che da tempo sta lottando per affrancarsi da quegli stereotipi che gli hanno impedito di crescere».

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    Antonio De Caro

    Ma la Calabria tace

    E la politica calabrese? Silente. Nonostante Daniele De Martino svolga eventi patrocinati dalle amministrazioni comunali di tutta la regione e riempia le piazze veicolando messaggi come quelli contenuti nelle canzoni Comando io e Nu guaglione e quartier che inneggiano alla mafia, nessuno, ad oggi, ha preso alcuna posizione pubblica.

  • Cosenza a mano armata

    Cosenza a mano armata

    Il 1981 a Cosenza fu l’anno di due record particolari: gli omicidi (diciannove nel solo capoluogo) e, soprattutto, le rapine a mano armata.
    In particolare, gli assalti ai furgoni o ai vagoni portavalori. In quest’ultimo caso, il bersaglio preferito dei Vallanzasca ’i nuavutri era il treno Cosenza-Paola.
    Allora, in quella tratta, non esisteva la galleria. Perciò, il percorso sui binari della Crocetta era piuttosto lento e accidentato. Insomma, la zona ideale per i banditi.

    Record in punta di pistola

    Iniziamo con una cifra tonda: le rapine a mano armata del 1981 a Cosenza sono 136 in tutto.
    Questa cifra è l’apice di una escalation iniziata cinque anni prima. Al riguardo, la semplice lettura dei numeri dà un quadro impressionante.
    Nel 1976 le rapine sono solo dodici. Salgono a quarantacinque nell’anno successivo e arrivano a sessantacinque nel 1978.
    Nel 1979 si registra un leggero calo (sessantuno “colpi”) e nel 1980 risalgono di molto: novantasei.

    Ma cosa spinge la mala di Cosenza a emulare le gesta di quella del Brenta e, più in generale, delle “batterie” dei rapinatori a mano armata che in quegli anni terrorizzano l’Italia, almeno da Napoli in su?
    E soprattutto: possibile che le bande cosentine avessero sviluppato dal nulla (e praticamente da sole) questa “expertise”?

    La parola al pentito

    In uno dei consueti verbali-fiume, l’ex boss Franco Pino rilascia alcune dichiarazioni inequivocabili.
    La prima riguarda l’ascesa criminale dei gruppi cosentini, avvenuta proprio attraverso le rapine: «Eravamo cani sciolti, poi cominciammo a fare gruppo dando l’assalto ai vagoni portavalori sulla tratta ferroviaria Paola-Cosenza» (appunto…).
    Nella seconda dichiarazione, più generica, Pino fa un riferimento esplicito alla compartecipazione di forestieri, in particolare catanesi.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Questa affermazione, tra l’altro, è riscontrata da una retata del 19 gennaio 1981. In quell’occasione finiscono in manette trentuno persone, sei di questi sono pregiudicati di Catania.

    Come nasce una ’ndrangheta

    La storia è risaputa fino alla noia, ma occorre un richiamo per chiarire meglio il concetto: con la morte del vecchio boss Luigi Palermo detto ’u Zorru (1977), la mala cosentina cambia struttura.
    Perde l’aspetto popolare, col suo sottofondo di “bonomia”, e mira a diventare una mafia.
    Una cosa simile, per capirci, a quel che nello stesso periodo accade a Roma, in particolare con l’ascesa della Banda della Magliana.

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    La Banda della Magliana

    Le batterie criminali cosentine confluiscono nei due gruppi che si contendono a botte di morti il controllo del territorio: il clan Pino-Sena e quello Perna-Pranno.
    Le rapine portano soldi, pure tanti, che servono a finanziare le cosche che, come tutte le attività, hanno costi non indifferenti: le paghe ai picciotti o ai killer, l’acquisto delle armi e della droga, le spese legali e l’assistenza ai familiari dei carcerati.
    Ma, anche per questo, le rapine sono un criterio di selezione dei picciotti o aspiranti tali.

    Da “grattisti” a “sgarristi”

    Un’altra frase di Franco Pino definisce con grande efficacia questo processo: «Eravamo grattisti e siamo diventati sgarristi».
    Tradotto in soldoni: i rapinatori più bravi, cioè capaci di tenere il sangue freddo e di non usare a sproposito le armi, entrano nelle cosche col grado di picciotto.
    Assieme a loro, agiscono i professionisti indipendenti: i catanesi menzionati da Pino (e quelli finiti in manette), ma anche romani.
    Il meccanismo è piuttosto semplice: il boss “benedice” e le batterie miste, di picciotti e indipendenti, eseguono. Quindi una quota del bottino finisce al capo e il resto viene diviso.
    Questo spiega perché i colpi diventano sempre più spettacolari e lucrosi. Ad esempio, il celebre assalto al furgone della Sicurtransport.

    Cosenza a mano armata: l’assalto alla diligenza

    L’episodio è uno dei più clamorosi nelle vicende criminali cosentine. Sia per il bottino, novecentotrenta milioni dell’epoca, sia per la dinamica, ricostruita anche dal collaboratore di giustizia Dario Notargiacomo nelle pieghe del processo Garden.
    È l’11 agosto 1981. Il portavalori viene seguito a distanza proprio da Notargiacomo, che fa da staffetta a bordo di una moto potente.
    Ed è sempre Notargiacomo a segnalare ai suoi l’arrivo del furgone, che finisce in una trappola micidiale.

    Un camioncino, messo di traverso sulla strada, blocca il portavalori. Contemporaneamente, un’altra auto, alle spalle del mezzo, impedisce la retromarcia.
    Quindi escono fuori i rapinatori: uno di loro spara contro il parabrezza, un altro infila un candelotto di dinamite nel tergicristalli.

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    Mario Pranno

    Sembra la scena di uno di quei poliziotteschi che all’epoca sbancavano ai botteghini.
    Invece è una storia vera, che prova la determinazione con cui i cosentini tentano di non essere secondi a nessuno. Che ci siano le cosche dietro quest’operazione, lo prova la successiva retata, in cui le forze dell’ordine recuperano parte del malloppo e fanno scattare le manette ai polsi di sei persone.
    Tra queste Mario Pranno e Francesco Vitelli.

    Un “milanese” in trasferta

    Nelle rapine cosentine c’è anche chi ci ha rimesso la carriera criminale.
    È il caso di Ugo Ciappina, uno dei più celebri rapinatori italiani.
    Classe 1928, di famiglia comunista originaria di Palmi, Ciappina partecipa alla Resistenza, dove suo fratello Giuseppe ha un ruolo forte: è contemporaneamente dirigente del Pci clandestino di Como e ispettore politico delle brigate Garibaldi.

    Ugo Ciappina in una immagine d’epoca e in una foto di pochi anni fa, ormai anziano

    Nel dopoguerra, Ciappina tenta vari mestieri. Poi mangia la foglia e assieme a varie persone, tra cui un ex fascista, fonda la Banda Dovunque, detta così perché agiva dappertutto. Grazie a questa batteria, il Nostro si fa un nome nella ligera, cioè la mala milanese.
    Tant’è che riprende alla grande l’attività una volta uscito di galera da dove entra ed esce di continuo.

    La rapina di via Osoppo a Milano

    Nel 1958 partecipa a uno dei colpi più sensazionali dell’epoca: la rapina a un portavalori a via Osoppo, nel cuore di Milano.
    Il bottino è lautissimo: 114 milioni di lire di allora, ancora non toccati dall’inflazione. Preso e condannato, esce di carcere nel 1974.
    Eppure proprio a Cosenza, Ciappina prende uno scivolone: lo arrestano sempre nel maledetto 1981 per un tentativo di rapina alla Banca nazionale del lavoro. Ma evita la condanna.
    Alla faccia della città “babba”…

  • Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Marco Forgione e gli altri rapiti del terribile ’79

    Non ebbe, forse, il clamore esplosivo della vicenda di Paul Getty III né creo catene di solidarietà in tutto il Paese, come il caso di Cesare Casella.
    Tuttavia, il sequestro di Marco Forgione, dieci anni compiuti l’antivigilia del Natale 1979, scosse Cosenza e divenne un caso nazionale.

    La città “babba”

    Cosenza ha solo la fama di zona civile e tranquilla. In realtà, in quell’ultimo scorcio di anni ’70 si spara e ammazza alla grande.
    L’escalation inizia il 14 dicembre 1977, con l’omicidio di Luigi Palermo detto ’u Zorru, lo storico capo della vecchia malavita bruzia.

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    John Paul Getty III

    Sotto la patina di un’apparente tranquillità i cosentini vivono quasi sotto coprifuoco.
    In questo contesto, il sequestro del piccolo Forgione è il primo punto di rottura. È il primo segnale all’opinione pubblica nazionale che anche il nord della Calabria è come tutto il resto del Sud infestato dalla mafia. Già: i sequestri di persona, negli anni’70, significano soprattutto ’ndrangheta.
    Certo, ci sono stati i sardi, in testa Grazianeddu Mesina, e poi ci sono state le spacconate di Vallanzasca. Ma i calabresi sono un’altra cosa: con loro non si può assolutamente scherzare.

    Il sequestro

    È la sera del 9 novembre 1979. Una Fiat 500 imbocca lo svincolo per Pianette di Rovito, una manciata di chilometri dal capoluogo.
    La guida Davide Forgione, un ragazzo di 19 anni, rampollo di una celebre famiglia di commercianti di calzature. A bordo con lui c’è Marco, il fratello minore.

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    La 500 su cui viaggiava Marco Forgione

    All’improvviso, due auto bloccano la 500. Ne escono otto uomini armati, che bloccano Davide per circa mezzora e rapiscono Marco.
    È l’inizio di un calvario, per il piccolo e la sua famiglia, che durerà cinquantasette giorni.

    Silenzio, parla il Papa

    Il 16 dicembre 1979 Karol Wojtyla è Papa da poco più di un anno. Più deciso e carismatico dei suoi due predecessori immediati (Paolo VI e Giovanni Paolo I), inizia a prendere posizione nei confronti delle mafie, sulle quali la Chiesa aveva tenuto fino ad allora atteggiamenti altalenanti.
    Quel 16 dicembre è domenica e Giovanni Paolo II dedica la sua omelia proprio a Marco.
    «Ho presente in questo momento il piccolo Marco Forgione, rapito a Cosenza nel mese scorso e che l’antivigilia di Natale compirà il decimo anno di età», dice il Papa alla folla che riempie piazza San Pietro.

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    Il ritaglio di Gazzetta del Sud con la notizia del rapimento

    E continua: «La sua voce e quella di altre persone che versano nella stessa dolorosa condizione, giunge al mio cuore, insieme a quella dei familiari, carica di ansia e di angoscia».
    Infine l’appello: «È questo dolore profondo di anime innocenti e di famiglie colpite nei più intimi affetti che mi induce a rivolgere un accorato appello ai rapitori: la grazia del Natale tocchi i loro cuori, li distolga dai loro propositi e li induca a restituire alle famiglie i loro cari».
    Non è ancora il Pontefice che, tredici anni dopo, lancerà la scomunica ai mafiosi, ma la strada è quella.

    La parola ai comunisti

    Anche l’altra Chiesa italiana, cioè il Pci, prende posizione sul rapimento di Marco. Sulle colonne de L’Unità del 27 dicembre Filippo Veltri riporta una dichiarazione del papà del piccolo prigioniero: «Non fategli sapere che è Natale».
    I comunisti vivono l’era Berlinguer e tentano il dialogo con la “borghesia”, fino ad allora trattata con sospetto da molta sinistra. Disinteressata o meno, la linea legalitaria, sperimentata già con grande durezza nei confronti delle Br durante il sequestro Moro, assume definitivamente le vesti dell’antimafia.

    L’articolo dedicato da L’Unità al sequestro Forgione

    Proprio a fine ’79, il Partito comunista organizza due dibattiti sulla criminalità mafiosa: uno a Paola e l’altro a Sibari. E di questa criminalità i sequestri di persona sono un segno tangibile.
    O meglio, «un segno ulteriore di come la piovra mafiosa si sia ormai propagata in tutta la regione, non risparmiando oasi un tempo ritenute felici ed immuni dalla criminalità organizzata».

    La liberazione

    Più che le parole del Papa e le polemiche dei comunisti, per Marco è stato decisivo il riscatto: circa quattrocento milioni di lire dell’epoca.
    Il piccolo ritrova la libertà il 5 gennaio del 1980, quando i suoi carcerieri lo rilasciano nella periferia di Sant’Onofrio, il paese del Vibonese noto per il rito religioso dell’Affruntata.
    Le indagini, coordinate dal procuratore capo Saverio Cavalcanti e dai suoi sostituti Oreste Nicastro e Alfredo Serafini, approdano a poco, tanta è l’omertà. Che, tuttavia, non riguarda solo l’affaire Forgione.

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    Marco Forgione assieme al sostituto procuratore Oreste Nicastro

    Alfredo: l’altro bambino rapito

    Marco è il più piccolo tra i sequestrati di quell’anno.
    Poco più grande di lui, Alfredo Battaglia in quel terribile ’79 ha compiuto tredici anni. Alfredo, figlio di un gioielliere di Bovalino, viene sequestrato il 30 ottobre ed è rilasciato il 23 febbraio del 1980, dopo centoquindici giorni di prigionia vissuti in piena sindrome di Stoccolma.
    Intervistato dalla neonata Rai 3 durante il sequestro, suo padre si dimostra duro: «Non si tratta solo dei mafiosi ma dei politici che li proteggono, che alle elezioni li abbracciano e li baciano sui palchi dei comizi».

    Enrico: lo studente universitario

    Piuttosto giovane è anche Enrico Zappino, che nel ’79 ha ventidue anni e studia all’Università di Pisa.
    Figlio di Pasquale, ufficiale medico di Mileto, nel Vibonese, e della professoressa Giuseppina Naccari Carlizzi, Enrico viene sequestrato il 22 dicembre e torna in libertà quattro mesi dopo. Il suo riscatto subisce varie negoziazioni: all’inizio i rapitori pretendono due miliardi, alla fine si “accontentano” di duecento milioni.
    Quando si dice chiedere cento per ottenere dieci…

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    Adolfo Cartisano, il fotografo morto in balia dei rapitori

    Zappino torna agli onori della cronaca nel ’93, quando si offre prigioniero al posto di un altro rapito di Bovalino: il fotografo Adolfo Cartisano, sequestrato a luglio di quell’anno e non ancora liberato, a dispetto dell’avvenuto pagamento del riscatto.
    Il gesto è nobile ma inutile: Cartisano, probabilmente, era già morto. I suoi familiari ne ritrovano il corpo solo nel 2005, in seguito alla cantata anonima di un pentito.

    Gli altri

    Antonio Rullo, imprenditore di Reggio Calabria, resta botte di mesi in mano ai suoi rapitori.
    I quali, tuttavia, gli consentono di inviare lettere e foto ai suoi familiari perché si affrettino a liberarlo.

    L’articolo de L’Unità sul sequestro Rullo

    L’ultimo della lista è Domenico Frascà, farmacista di Locri, anche lui imprigionato per mesi.
    Forse anche questa sequenza di rapimenti stimola il legislatore a far presto sulla normativa antimafia, all’epoca in elaborazione, che sarebbe stata varata solo nel 1982, sulla scia dell’impatto emotivo del delitto dalla Chiesa.
    Ma nel ’79 la consapevolezza del pericolo mafioso era comunque alle stelle. Scrive ancora, al riguardo, Veltri: «Attenti che si è giunti ad un punto limite». Col senno del poi, è impossibile dargli torto.

  • Amministrative a Bagnara, sospetti brogli. E il voto finisce al Tar

    Amministrative a Bagnara, sospetti brogli. E il voto finisce al Tar

    Mario Romeo, il candidato a sindaco sconfitto elle ultime Amministrative di Bagnara Calabra, ha presentato ricorso al Tar contro l’esito delle elezioni. Questo, in sé, non farebbe notizia. Più eclatanti risulterebbero, se confermati, i motivi dell’impugnazione del leader della lista civica La Bagnara che vogliamo, espressione del centrodestra.
    «Subito dopo il voto – spiega Romeo in una nota – ci sono state insistenti voci di corridoio su una gestione piuttosto “allegra” delle operazioni elettorali in molte sezioni. Perciò ci siamo affidati alla procedura di accesso agli atti per fugare ogni incertezza.
    Con grande rammarico, i dubbi sembrerebbero confermati. Infatti, dopo un’attenta lettura degli atti ed un riscontro dettagliato, abbiamo rilevato numerosissime anomalie che riteniamo gravi, al punto di inficiare il voto».

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    Mario Romeo

    Elezioni a Bagnara, Romeo accusa: avrebbero votato anche gli assenti

    Al riguardo, prosegue Romeo, «è bastata una veloce lettura per capire che molti iscritti nei registri sarebbero identificati con numeri non corrispondenti ai documenti di riconoscimento. Inoltre, nei registri delle operazioni elettorali di diverse sezioni non sarebbero indicate delle schede vidimate e non votate. Ancora, in diverse sezioni risulterebbe mancante il numero delle schede restituite. Ciò dimostrerebbe l’esistenza delle “schede ballerine” e una serie di vizi nei verbali delle sezioni elettorali redatti dai rispettivi presidenti durante il voto. Sembrerebbe, addirittura, che le schede votate siano maggiori rispetto agli elettori che si sono realmente presentati al seggio con la tessera elettorale.
    Questo proverebbe ancora che abbiano votato centinaia di persone in assenza di una loro annotazione sul registro degli aventi diritto. Quindi risulterebbe il voto di persone che vivono all’estero e non mettono piede a Bagnara da molti anni. Inoltre, nel registro dei votanti ci sarebbe qualcuno che avrebbe dichiarato di non essersi mai recato alle urne in quei giorni per problemi di salute».

  • Delitto Belsito: il gup infligge sessantotto anni di carcere

    Delitto Belsito: il gup infligge sessantotto anni di carcere

    il gup di Catanzaro ha condannato tre persone nel rito abbreviato del processo per l’omicidio di ‘ndrangheta di Domenico Belsito, avvenuto nel 2004 a Pizzo.
    Hanno ricevuto 30 anni di condanna Nicola Bonavota e Francesco Fortuna.
    Otto anni per il collaboratore di giustizia Andrea Mantella; assolto Pasquale Bonavota. Belsito fu ferito a colpi di arma da fuoco mentre si trovava in un bar di Pizzo e morì due settimane dopo nell’Ospedale di Vibo Valentia.

    Omicidio Belsito: esecutore e mandante

    Secondo l’accusa avrebbe sparato Francesco Scrugli, ucciso a Vibo nel 2012. L’omicidio, secondo la Dda di Catanzaro, sarebbe maturato per dinamiche interne ai clan, impegnati in una lotta interna alla famiglia di ’ndrangheta dei Bonavota di Sant’Onofrio per definire la spartizione dei territori di competenza.
    A processo con rito ordinario, invece, c’è Salvatore Mantella, ritenuto mandante dell’omicidio e cugino del collaboratore di giustizia che avrebbe partecipato materialmente al delitto.

  • Pizza al taglio, anche la Calabria ai vertici nazionali

    Pizza al taglio, anche la Calabria ai vertici nazionali

    Roma è la capitale della pizza al taglio in Italia, ma anche la Calabria si difende egregiamente. A sancirlo è 50 Top Pizza, la guida delle migliori pizzerie che vede ben piazzate in classifica due locali del Cosentino. Il primo posto se lo aggiudica il celebre – ormai ha anche il suo show in tv – Gabriele Bonci. Quella del suo locale romano, Pizzarium, si conferma per il terzo anno consecutivo la migliore “Pizza in Viaggio (da taglio e asporto)” del Paese.

    Pizza al taglio: tra le prime 15, due sono in Calabria

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    Antonio Oliva insieme a Gabriele Bonci

    Si resta nella capitale anche per gli altri due gradini del podio. Il secondo posto va all’Antico Forno Roscioli, storica insegna familiare nel centro storico, mentre al terzo si piazza Lievito Pizza, Pane del giovane Francesco Arnesano. Ma è scorrendo la classifica – senza lasciare la Top 15 però – che arriva la Calabria. Dopo indirizzi mitici per i buongustai come La Masardona (4°) a Napoli e altri, al nono posto un nome che ha ormai fatto la storia della pizza al taglio in Calabria: Oliva Pizzamore di Antonio Oliva. Poco più giù, al dodicesimo posto, troviamo Campana Pizza In Teglia, la pizzeria di Daniele Campana a Corigliano-Rossano.

    Daniele Campana

    La Top 20 d’Italia

    Nelle valutazioni si è tenuto conto di molti fattori: qualità delle materie prime, ambiente, pulizia e cura dei dettagli.
    Queste le prime 20 posizioni di Le 50 Migliori Pizze in Viaggio in Italia 2022:

    1. Pizzarium, Roma (Lazio)
    2. Antico Forno Roscioli, Roma (Lazio)
    3. Lievito Pizza, Pane… Roma (Lazio)
    4. La Masardona, Napoli (Campania)
    5. Saporè Pizza Bakery, San Martino Buon Albergo – VR (Veneto)
    6. Sancho, Fiumicino – RM (Lazio)
    7. La Pia Centenaria, La Spezia (Liguria)
    8. Tellia, Torino (Piemonte)
    9. Oliva Pizzamore, Acri – CS (Calabria)
    10. Granocielo, Avezzano – AQ (Abruzzo)
    11. PorzioNi di Pizza, Napoli (Campania)
    12. Campana Pizza In Teglia, Corigliano-Rossano – CS (Calabria)
    13. ‘O Fiore Mio Pizze di Strada, Bologna (Emilia-Romagna)
    14. Grotto Pizzeria Castello, Caggiano – SA (Campania)
    15. Gina Pizza, Ercolano – NA (Campania)
    16. Forno Brisa, Bologna (Emilia-Romagna)
    17. La Divina Pizza, Firenze (Toscana)
    18. Alimento, Brescia (Lombardia)
    19. Pane E Tempesta, Roma (Lazio)
    20. PezZ de Pane, Frosinone (Lazio)
  • Cocaina dalla Calabria a Messina, in arresto anche il boss Nirta

    Cocaina dalla Calabria a Messina, in arresto anche il boss Nirta

    I Carabinieri del Comando Provinciale di Messina hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 18 persone (per 13 è stato disposto il carcere, per 3 gli arresti domiciliari e per 2 l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), accusate a vario titolo di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare cocaina. Tra gli arrestati il boss ‘ndranghetista Paolo Nirta, in affari con i trafficanti messinesi.

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    Il procuratore Maurizio De Lucia

    L’inchiesta, coordinata dalla Dda guidata dal procuratore Maurizio de Lucia, nasce dagli accertamenti fatti dal Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Messina dal febbraio 2021, a seguito delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, che ha parlato di una strutturata associazione di trafficanti di droga che operava principalmente nella zona sud della città di Messina.

    Il ruolo della famiglia Nirta

    La banda aveva di fatto quasi interamente monopolizzato l’approvvigionamento in città della cocaina, che poi veniva spacciata al dettaglio a Messina, ma anche nel comune di Tortorici, dove c’era un’autonoma piazza di spaccio gestita da alcuni degli indagati. L’organizzazione si approvvigionava da un esponente di spicco della famiglia Nirta, ai vertici della ‘ndrangheta calabrese. In carcere oggi è infatti finito il figlio di Giuseppe Nirta, detenuto all’ergastolo per la faida di San Luca, e fratello di Sebastiano e Francesco Nirta, all’ergastolo per il loro coinvolgimento nella strage di Duisburg in cui vennero uccise sei persone.

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    Giovanni Strangio, la mente del commando che agì a Duisburg

    Doppi fondi e telefonini riservati

    Il fornitore si serviva di un’articolata rete di corrieri, alcuni dei quali incensurati e tutti residenti nella provincia di Vibo Valentia, che si occupavano della consegna della droga “a domicilio” fino a Messina. Particolarmente ingegnose erano le modalità di trasporto della cocaina dalla Calabria a Messina. Per sfuggire a eventuali controlli, in particolare nell’area degli imbarcaderi dei traghetti, gli indagati utilizzavano auto modificate in alcune parti della carrozzeria con doppi fondi in cui nascondere la droga. I calabresi, inoltre, avevano dato ai complici messinesi telefoni riservati.

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    Imbarcaderi a Messina

    Tre kg di cocaina dalla Calabria a Messina

    Nel corso delle indagini sono state documentate varie forniture di sostanze stupefacenti dalla Calabria alla Sicilia, che hanno portato al sequestro di 3 chili di cocaina. Oltre alla città di Messina, i vertici dell’associazione erano in grado di rifornire di stupefacente pusher che operavano nella cittadina di Tortorici con i quali avevano creato un canale privilegiato di fornitura. A Tortorici quattro ragazzi avevano avviato un commercio di stupefacenti e quasi settimanalmente acquistavano la droga a Messina. L’operazione di oggi, condotta dai carabinieri, ha impegnato oltre 120 militari del Comando Provinciale di Messina, impiegati anche nelle provincie di Reggio Calabria e Vibo Valentia. (ANSA)

  • Scilla: il paradiso perduto a colpi di decibel, spada e nero di seppia

    Scilla: il paradiso perduto a colpi di decibel, spada e nero di seppia

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    Dalla terrazza di piazza San Rocco si gode un panorama meraviglioso, la Sicilia, lo Stretto, il castello dei Ruffo, la Marina Grande e Chianalea, le due zone di Scilla più affollate di vacanzieri. Ho scoperto che dall’anno scorso è in funzione un ascensore che dalla piazza porta giù sul lungomare, in pochi secondi. Al costo di un euro. Provvidenziale specie se dal lungomare si vuole andare su, perché con l’afa di questi giorni affrontare le gradinate non sarebbe piacevole. L’ascensore decolla in uno slargo, accanto alla chiesa dello Spirito Santo. Proprio il nome giusto per questa ascensione al centro storico, e a qualche momento di tranquillità, rispetto al trambusto di sotto.

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    L’inaugurazione dell’ascensore di Scilla con l’allora presidente f.f. della Regione, Nino Spirlì

    Intorno a piazza San Rocco le strade in salita sono tranquille, solitarie. Pochissimi locali, poco traffico, tranne sul  viale che porta giù, dove si incanala una fila ininterrotta di auto e moto. Che ci vai a fare a Scilla se non ti godi il traffico sulla statale 18 e sul lungomare? L’ascensore va bene per i pavidi come me. Quelli che una volta posteggiata la macchina non si azzardano a sfidare la sorte, incrociando in curva il gigantesco camion della raccolta rifiuti, con un autista mitico come gli antichi marinai di questo bellissimo borgo.

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    Il belvedere di piazza San Rocco a Scilla

    Dall’Odissea a Horcynus Orca

    Un luogo immerso nel mito, anzi nei miti, li riassume e li evoca quasi tutti. Anche ora che la navigazione non rappresenta più un’avventura come ai tempi di Ulisse e le navi gigantesche che passano in lontananza non temono certo i gorghi e le insidie di Scilla e Cariddi. Questo mare, cantato dai versi di Omero, in epoca più recente ha ispirato Horcynus Orca, il romanzo di Stefano D’Arrigo, del 1975.

    Un parco letterario lo ricorda, anche se ha sede in Sicilia. A Palmi un museo è dedicato a Leonida Repaci, i turbamenti del Previtocciolo di don Luca Asprea hanno avuto come sfondo Oppido Mamertina e altri luoghi di questo territorio così ricco di scrittori.

    Aumenta il volume e pure la temperatura

    La mattinata trascorsa in uno dei lidi di Marina Grande mi ha confermato che Scilla ormai ha consolidato il suo successo, si incrociano tutti i dialetti italiani e molte lingue straniere, sovrastate sempre più dalla musica che aumenta di intensità, con l’aumentare della temperatura.

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    In bicicletta a picco sul mare di Scilla (foto Gianfranco Donadio)

    Gli animatori dei lidi guidano la battaglia a colpi di decibel, riuniscono le truppe e le conducono allo scontro finale. I bambini più piccoli in questo marasma appaiono smarriti, percepiscono di non essere al centro dell’attenzione. Si sentono trascurati e piangono, i più fortunati riescono ad addormentarsi. Mi tornano alla memoria le vacanze degli anni Sessanta del secolo scorso, quando le marine erano silenziose, ma i neonati venivano portati in spiaggia all’alba e al tramonto, per proteggerli dal sole, e poi condotti a casa. Adesso pure le nonne stanno in bikini a tracannare birra, sotto la canicola.

    Pesce spada e nero di seppia

    Si pranza al lido, dato che nessuno torna a casa a cucinare, a proposito delle abitudini di un tempo. Vanno per la maggiore i panini al nero di seppia e gli arancini dello stesso colore, ripieni di parmigiana di melanzane e pesce spada. Hanno l’aspetto di palle di cannone, sono buoni, ma dove troveranno tutte queste seppie e pesci spada? Nei documentari in bianco e nero di Vittorio De Seta, girati da queste parti, le spadare spinte a forza di remi solcavano lo Stretto in cerca della preda. Ore di fatica per individuare un pesce spada, magari due se si riusciva a catturare prima la femmina, il maschio in questo caso si suicidava consegnandosi spontaneamente. Costumi cavallereschi di altre epoche. Ora le grandi navi per la pesca in mare aperto risucchiano tutte le creature marine. Neanche le sirene avrebbero scampo, se ci fossero. Non c’è nulla di romantico da raccontare.

    Il pranzo segna il momento parossistico nella vita del lido, lo scatenamento degli istinti e della volontà di sopraffazione. Le donne competono a colpi di bikini, gli uomini ostentano virilmente la pancia.
    Tutti insieme gli occupanti degli ombrelloni si sfidano a colpi di ordinazioni. Quattro ragazzi di Luzzi ordinano una bottiglia di spumante, poi un’altra, che gli vengono portate sotto l’ombrellone col secchiello regolamentare. Un trionfo, foto e video in tutte le pose. Come posso competere con la mia bottiglia di minerale naturale? Ci sarà una Coppa del nonno in edizione special, numerata?

    Scilla e il cardinale Ruffo

    Intanto gli animatori continuano ad incitare il loro pubblico, ad alzare ancora il volume della musica. Non reggo, me ne torno in albergo, pochi passi e sono in salvo.  Da queste parti nel 1799 il cardinale Fabrizio Ruffo organizzò il suo esercito di contadini, per muovere contro i giacobini della Repubblica Partenopea. Scilla e Bagnara erano feudi della sua famiglia, i contadini accorsero a migliaia convinti di combattere in difesa della fede. In pochi mesi marciarono su Napoli e massacrarono i rivoluzionari meridionali.
    Nel dormiveglia pomeridiano mi appare il cardinale Ruffo, sulle mura del castello di famiglia. Guarda corrucciato le folle urlanti sulla spiaggia. Ma non li aveva eliminati tutti quei dissoluti nemici della fede? Fa puntare i cannoni con strani proiettili, sembrano i panini al nero di seppia. Ordina lo sterminio dei bagnanti. Alla prima cannonata mi sveglio, illeso.

    Turisti a mollo sulla spiaggia ai piedi del Castello Ruffo di Scilla

    Come cercare un altro modo di vivere le vacanze? Senza pensare necessariamente a rievocazioni storiche, forse questo patrimonio così ricco di miti e storie potrebbe essere valorizzato in qualche modo. Un percorso, una serata di lettura di testi, un museo virtuale. In un paese una libreria, a quanto pare, non può reggersi, ma tutti i libri ispirati da questi luoghi non meriterebbero visibilità? Non credo che esista un solo modello di sviluppo turistico, quello della riviera adriatica, di Rimini e dintorni. Ricordo Scilla affollata già tanti anni fa, le persone a passeggio tra le case dei pescatori.

    Un pescatore a Chianalea

    Scilla, un borgo per turisti

    La trasformazione dei borghi come Scilla, ma anche delle città d’arte, in una serie ininterrotta di locali e case per turisti sta mostrando i suoi limiti. Se si esagera vengono meno le ragioni per cui vale la pena andare in un certo luogo, perché finiscono per essere tutti uguali. A Chianalea ora si cammina a fatica tra un ristorante e un pub, tra un negozio di souvenir e un’agenzia, quante saranno le famiglie residenti ancora presenti? Intanto al centro storico non ci sono segni di attività, nonostante l’ascensore e la posizione panoramica. Forse questi fenomeni positivi di sviluppo andrebbero governati e indirizzati.

    Barche ormeggiate a Scilla

    Dopo due giorni a Marina Grande percorro la statale 18 verso Bagnara Calabra, costeggiando antichi mulini. I paesi distrutti dal terremoto del 1908 si riconoscono per la pianta urbana regolare della ricostruzione, strade parallele, edifici bassi e modesti. A Bagnara la spiaggia è molto lunga, ci sono i lidi e ampi tratti di spiaggia libera, la situazione mi pare tranquilla. I prezzi sembrano contenuti. Sul mare passa una spadara, come nel documentario di De Seta. Ci sistemiamo in un lido, con gesti furtivi da cospiratore scorro le proposte gastronomiche del giorno. Ritrovo i panini al nero di seppia, e tanti nomi esotici che evocano la Florida e i Caraibi. Non importa, meglio che Omero e Ulisse non diventino nomi di piadine e pizzette. Al momento l’animazione tace. Speriamo che non si accorgano della nostra presenza.

  • Cinque Stelle, due morali: niente termovalorizzatore a Roma,  ma va bene in Calabria

    Cinque Stelle, due morali: niente termovalorizzatore a Roma, ma va bene in Calabria

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    Tutte le testate nazionali lo confermano: il casus belli che ha portato il Movimento 5 Stelle a non votare la fiducia (uscendo dall’aula del Senato) al Governo Draghi è una norma del Decreto Legge “Aiuti”. Quella, cioè, che concede poteri straordinari al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, per la gestione in autonomia del ciclo dei rifiuti capitolini. E, a seguire, per la realizzazione del termovalorizzatore annunciato lo scorso aprile. Quei poteri aggiuntivi, difatti, consentiranno al primo cittadino romano di derogare al piano rifiuti regionale. Che il termovalorizzatore, invece, non lo prevede.

    Termovalorizzatore, il braccio di ferro nazionale

    Giusto due mesi fa il presidente del M5S, Giuseppe Conte, stigmatizzò tale ipotesi con un secco “no”. «Termovalorizzatore vuole dire fumi inquinanti, vuol dire scorie leggere e pesanti» disse in diretta su Twitter. Il fondatore e garante Beppe Grillo, a sua volta, parlò di «scelta insensata». Il motivo? «Bruciare i rifiuti è la negazione dell’economia circolare, a maggior ragione se si pensa che quest’impianto avrà bisogno comunque di una discarica al suo servizio per smaltire le ceneri prodotte dalla combustione, equivalenti a un terzo dei rifiuti che entrano nel forno».

    Conte e Grillo

    Certo, quando si è arrivati a dover trovare una mediazione in extremis, lo stesso Grillo dichiarò: «Non esco dal governo per un c… di inceneritore». Ora, però, è arrivata la decisione di non votare la fiducia al Dl “Aiuti” in Senato, con la capogruppo pentastellata Mariolina Castellone che ha bollato l’inserimento della controversa norma come «una follia»). La contromossa di Mario Draghi? Convocare il Consiglio dei ministri e poi salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni (poi respinte). Il nodo è ancor più venuto al pettine.

    Mattarella e Draghi

    «È veramente una follia interrompere il Governo. Mandiamo in crisi un governo per un termovalorizzatore a Roma? Ma chi ci rimette? La povera gente», ha dichiarato il sindaco di Milano, Beppe Sala. «Non si fa una crisi per un termovalorizzatore. Il premier non può essere sottoposto a ricatti», gli ha fatto eco il parlamentare e dirigente nazionale del Pd, Enrico Borghi.
    Si attende la cosiddetta “parlamentarizzazione della crisi” di mercoledì prossimo, con Mario Draghi che si presenterà alle Camere. Intanto il dibattito sul termovalorizzatore romano come miccia scatenante della crisi stessa tiene banco e a pieno.

    L’imbarazzo tra i grillini calabresi per il loro capogruppo

    I pentastellati a livello nazionale hanno “inventato” il ministero della Transizione ecologica con a capo il fisico Roberto Cingolani. In altre Regioni, si pensi al Lazio, esprimono l’assessora alla Transizione ecologica, Roberta Lombardi. M5S, insomma, fa dell’ecologia, dell’economia green e della lotta agli inceneritori una assoluta priorità. Al punto d’arrivare a far saltare sia il Governo di Unità nazionale guidato da Mario Draghi sia il tentennante (e arrancante) “campo largo” con il Partito Democratico.

    Tavernise stringe la mano a Occhiuto

    In Calabria, invece, i due grillini in Consiglio regionale sono sotto il tiro sia del Pd che dal gruppo facente capo a Luigi De Magistris. Li accusano di portare avanti una opposizione “supina” o, financo, “inclinata” al Governo guidato da Roberto Occhiuto. Il capogruppo del M5S a Palazzo Campanella, Davide Tavernise, ha esternato posizioni in netto contrasto con quelle dei colleghi di partito romani. E ha suscitato non pochi imbarazzi, in primis tra i parlamentari calabresi che a Roma poi devono render conto, soprattutto in previsione delle elezioni politiche.

    Termovalorizzatore a Gioia Tauro? Va bene anche a Cosenza

    Tre mesi fa, seduta di Palazzo Campanella del 19 aprile. Proprio due giorni prima che il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, annunciasse il termovalorizzatore che avrebbe poi portato alla crisi di Governo, a Reggio Calabria si discuteva della “Multiutility”.
    In quella occasione Tavernise ha preso la parola aderendo espressamente al “Partito dell’inceneritore”.

    Catanzaro abbaia e Reggio morde: il consiglio regionale resta sullo Stretto
    L’aula del Consiglio regionale della Calabria

    «Voglio, invece, prendere posizione – le sue parole – su una questione che è associata a questa Multiutility, presidente Occhiuto. Ho letto proprio stamattina in un articolo, su un quotidiano, le dichiarazioni del Sindaco di Gioia Tauro, che io reputo, veramente, vergognose…».«Sentire e leggere – continuava il capogruppo M5S – che se si raddoppia il termovalorizzatore di Gioia Tauro è giusto raddoppiare i posti letto in ospedale, penso sia un atteggiamento un po’ superficiale da parte di chi fa il sindaco. Le faccio una provocazione: io non sono favorevole a priori al raddoppio, sono sicuramente a favore per l’adeguamento dell’inceneritore di Gioia Tauro, perché oggi quell’inceneritore sta ammazzando la gente, non lo dico io, ma lo dicono i fatti. Se non si è d’accordo, presidente Occhiuto, le faccio un invito: al posto del raddoppio di quell’inceneritore e dell’adeguamento, io direi di chiuderlo proprio. Iniziamo a pensare di farlo da un’altra parte».

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    Amager Bakke, il termovalorizzatore di Copenhagen celebre per ospitare una pista da sci

    «…Siccome, a differenza di quello che qualcuno ha detto, io ho coraggio, non è vero che me ne lavo le mani come Don Abbondio, la invito ad iniziare ad individuare anche un altro sito per un termovalorizzatore, magari nella provincia di Cosenza, visto che il sindaco di Gioia Tauro dice che dobbiamo farlo da un’altra parte… È facile dire che siamo contro i termovalorizzatori e contro gli inceneritori, però voi sapete che la migliore Regione, il Veneto, ha raggiunto il 75% di raccolta differenziata. Mia padre che ha la terza elementare mi ha detto che il restante 25 percento o si conferisce in discarica o si brucia. Cerchiamo di bruciarlo seguendo esempi come il termovalorizzatore di Copenaghen o anche quello di Brescia, che sono dei termovalorizzatori moderni» concluse Tavernise annunciando voto di astensione sulla Multiutility voluta da Occhiuto, tra lo stupore e i mugugni dei colleghi di minoranza.

    Sindaci in rivolta

    «La giunta regionale sta lavorando per il privato. L’azione che ci rimane da fare è la protesta, dobbiamo diventare una spina al fianco della giunta regionale» ha dichiarato il sindaco di Gioia Tauro, Aldo Alessio, oggetto degli strali di Tavernise.
    Contattato direttamente da I Calabresi, Alessio ha dichiarato: «Inutile che si parli di adeguamento, è un raddoppio del termovalorizzatore. La salute dei cittadini viene scambiata con l’interesse economico del privato. All’interno del M5S ci sono delle contraddizioni, non hanno una posizione univoca. Nel nostro territorio c’è il senatore Giuseppe Auddino che è al nostro fianco da sempre. Tavernise è penoso, dovrebbe venire a spiegare ai cittadini gioiesi perché secondo lui deve essere raddoppiato il termovalorizzatore».

    Aldo Alessio, sindaco di Gioia Tauro

    Alessio ha richiesto l’accesso agli atti per valutare l’impugnativa della delibera di Giunta regionale dello scorso 21 marzo che approvava il documento tecnico di indirizzo per l’aggiornamento del Piano regionale di gestione rifiuti del 2016. Il sindaco della città Metropolitana di Reggio Calabria, Carmelo Versace, aveva annunciato la possibilità di impugnare proprio la legge regionale 10, quella sulla Multiutility.

    Carmelo Versace, sindaco della Città metropolitana di Reggio Calabria

    «Sin dal primo momento siamo stati contrari all’ipotesi di raddoppio di questo impianto che, ribadiamo, non è un termovalorizzatore, ma un inceneritore» ha dichiarato pubblicamente, invece, il sindaco di Reggio Calabria, Paolo Brunetti. È chiaro, quindi, che i sindaci sono sul piede di guerra.

    Termovalorizzatore, l’ultima proroga

    Intanto l’avviso pubblico esplorativo per “la ricerca di operatori economici interessati alla presentazione di proposte di project financing finalizzate all’individuazione del promotore ex art. 183, Dlgs 50/2016, per l’affidamento della concessione relativa alla progettazione e realizzazione dell’adeguamento e completamento del termovalorizzatore di Gioia Tauro comprensiva della gestione” che scadeva a maggio, è stato prorogato al prossimo 29 luglio.

    Sulla manifestazione di interesse si legge che “in Calabria la gestione dei rifiuti urbani è fortemente condizionata e dipendente dallo smaltimento in discarica; in discarica vengono conferiti i rifiuti prodotti dal trattamento dei rifiuti urbani per cui la chiusura del ciclo di gestione dipende dalla disponibilità di volumi di abbanco, registrando una grave criticità dovuta alla carenza strutturale di discariche pubbliche e private sul territorio regionale nonché determinando un aggravio dei costi per i cittadini calabresi per il necessario ricorso a discariche o a impianti di incenerimento extra-regionali”.

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    Il termovalorizzatore di Gioia Tauro

    Il documento riporta anche che “la Regione Calabria, ricorrendo alla normativa vigente e alle nuove disposizioni di ARERA, intende dotarsi di un mix impiantistico in grado di assicurare il recupero e il riciclaggio di materia dalle frazioni merceologiche che compongono i rifiuti urbani e, a valle, chiudere il ciclo attraverso il recupero energetico dai rifiuti secondari (derivanti dal trattamento delle frazioni merceologiche del rifiuto urbano) nell’impianto di termovalorizzazione di Gioia Tauro”.

    Insomma, in Calabria il termovalorizzatore s’ha da fare. Anche grazie al supporto politico del Movimento 5 Stelle. Ma tra il Pollino e lo Stretto, evidentemente, manca un Draghi da mandare a casa.

  • Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

    Calabria “ammore” mio: Cutolo e la ‘ndrangheta

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    Iniziamo con una data: 28 giugno 1982. L’avvocato Silvio Sesti, penalista cosentino di grande livello e specchiata onestà, cade sotto il fuoco di due sicari, che lo freddano nel suo studio.
    Di questo cold case della storia criminale calabrese rimane un dettaglio vistoso. Gli assassini non sono calabresi, ma due napoletani: Alfonso Pinelli e Sergio Bianchi, detto ’o Pazzo.
    «Sparava come un dio e non gliene fotteva niente di nessuno», ha detto di lui Pasquale Barra, detto ’o Animale che, prima di pentirsi, faceva il killer delle carceri per conto della Nuova camorra organizzata. Suo l’assassinio truce di Francis Turatello, nel carcere di Badu ’e Carros.
    Ma in quanto a sangue versato, Bianchi lo fregava: portava sulla coscienza (posto che ne avesse una) trecento morti ammazzati. A questo punto, la domanda vera è una: cosa ci facevano due killer campani a Cosenza? Un altro dettaglio può aiutare: anche ’o Pazzo faceva parte della Nco. E la Nco significa solo un nome: Raffaele Cutolo.

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    Il funerale di Silvio Sesti

    Cosentini in trasferta

    Facciamo un passo indietro e cambiamo zona: il 3 settembre 1981 i carabinieri arrestano a Napoli Franco Pino, boss rampante della malavita cosentina, l’ultima che si era costituita in ’ndrangheta.
    Assieme al giovane boss (29 anni all’epoca), finiscono in manette i cosentini Giuseppe Irillo, detto ’a Vecchiarella, e Antonio De Rose, che qualche anno dopo sarebbe diventato il primo pentito di Cosenza. Più il paolano Osvaldo Bonanata, detto ’u Macellaiu. Più vistosi i nomi dei napoletani arrestati assieme ai compari calabresi: Francesco Paolo Alfieri e suo padre Salvatore, entrambi uomini di spicco della Nco. Di nuovo Cutolo. La domanda, stavolta, è invertita: che ci facevano i quattro cosentini a Napoli?

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    L’alleanza d’acciaio

    Per Franco Pino è facile rispondere: il boss dagli occhi di ghiaccio aveva l’obbligo di dimora fuori regione e risiedeva all’Hotel Vittoria di Sapri.
    Ma anche a Napoli Pino si era fatto notare, almeno dalle forze dell’ordine che lo sospettavano di alcune rapine.
    In realtà, il rapporto tra il clan Pino-Sena e la Nco faceva parte di una strategia più complessa e sofisticata, messa a punto da don Raffaele, all’epoca latitante nel suo castello di Ottaviano.

    Lo strano battesimo

    Tutto comincia in carcere, quando (erano gli anni ’70) Egidio Muraca, storico boss di Lamezia, inizia Raffaele Cutolo alla ’ndrangheta.
    Altra domanda: perché Cutolo aveva bisogno di farsi iniziare in un’altra struttura criminale, tra l’altro più giovane della Camorra? E ancora: perché la ’ndrangheta, struttura notoriamente “chiusa” e familistica, accettava tra le sue file un napoletano?
    La risposta è articolata. Iniziamo dal punto di vista napoletano: la Camorra, a differenza delle sorelle calabrese e siciliana, non ha mai avuto una struttura compatta e verticistica e, tranne qualche ritualità, non ha mai fatto davvero il salto di qualità verso la mafiosità “vera”. Detto altrimenti, Cutolo aveva bisogno di farsi riconoscere per ritagliarsi un ruolo.
    Viceversa, per i calabresi trovare contatti di rilievo era vitale per mettere un piede a Napoli, fino ad allora “colonizzata” dai siciliani. Insomma, un matrimonio d’interesse in piena regola, che diede i suoi frutti.

    …E se n’è gghiuto puro ’o calabrese

    Qualcuno ricorderà la scena del delitto in carcere de Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, un classicone dei mafia movie.
    Bene: la sequenza richiama l’omicidio di don Mico Tripodo, lo storico boss di Sambatello, nemico giurato del reggino Paolo De Stefano, con cui Cutolo aveva stretto un’alleanza di ferro.
    Tripodo fu ammazzato da due giovani cutoliani: Luigi Esposito e Agrippino Effige, neppure cinquant’anni in due.

     

    L’alleanza tra Cutolo e gli emergenti della ’ndrangheta prevedeva lo scambio di killer: i calabresi in Campania e, viceversa, i campani in Calabria.
    Questa gestione non era una novità per i reggini. A Cosenza, invece, era quasi inedita.
    Franco Pino, infatti, non era solo un boss che sgomitava per emergere: tentava di trasformare la mala cosentina in ’ndrangheta vera e propria. E questo spiega perché la Calabria Citra, a un certo punto, si riempì di camorristi.

    Sul Tirreno

    Un uomo chiave di questa trasformazione è il sanlucidano Nelso Basile. Anche Basile aveva un legame d’acciaio coi cutoliani: il suo compare d’anello era Antonio Russo di Afragola. Russo, a sua volta, agiva in Calabria assieme a Bianchi e a Nicola Flagiello di Sant’Antimo.

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    Un ritaglio d’epoca sull’arresto di Pino a Napoli

    Quest’ultimo aveva un ruolo fortissimo nella Nco, perché cognato di Antonio Puca, detto ’o Giappone, luogotenente di Cutolo. I cutoliani venivano in Calabria non solo ad ammazzare, ma anche a svernare, cioè a sottrarsi ai killer della Nuova Famiglia, contro la quale ’o Professore aveva ingaggiato una guerra senza quartiere.
    Secondo varie testimonianze i napoletani si rifugiavano nelle montagne di Falconara Albanese, dove non davano nell’occhio.
    Ma al riguardo è meglio non andare oltre. Soprattutto, è importante evitare paralleli strani con la tragedia tuttora irrisolta di Roberta Lanzino, che morì proprio in quei luoghi.

    Sulla Sibaritide

    Il primo grande boss della Sibaritide, Giuseppe Cirillo, non era calabrese. Neppure napoletano: era di Salerno.
    Anche lui aveva un legame forte con Cutolo, che passava attraverso suo cognato Mario Mirabile, capoparanza della Nco a Salerno. Come se non bastasse, Cirillo era vicino anche a Vincenzo Casillo, detto ’o Nirone, altro uomo di fiducia di don Raffaele.

    La parabola criminale

    Questo intrico termina col declino di Cutolo, che a partire dalla seconda metà degli anni ’80, viene emarginato dalla scena criminale e non solo.
    Forse il suo progetto di una Supercamorra organizzata in maniera militare era un po’ troppo, sebbene avesse sedotto tantissimi soggetti borderline: si contano, al riguardo, cinquemila tra affiliati e fiancheggiatori negli anni d’oro della Nco.

    Raffaele Cutolo alla sbarra

    Ma i calabresi e i cosentini, cosa facevano per Cutolo? Franco Pino, in uno dei suoi verbali fiume, fa un nome: Francesco Pagano, che a suo dire agiva coi campani e, quando era necessario, andava a sparare in trasferta.
    Un’altra “cantata” di Pino getta luce sul delitto Sesti: secondo il superpentito, lo avrebbe commissionato Basile. Ma quest’ultimo non può confermare né smentire: è stato ucciso nell’83.
    Stesso discorso per Bianchi ’o Pazzo, morto com’è vissuto: ammazzato per strada a Napoli nella seconda metà degli anni’80.