Categoria: Fatti

  • Meno di mille voti per eleggere un deputato

    Meno di mille voti per eleggere un deputato

    Si fa presto a criticare (magari non a torto) l’attuale sistema elettorale, che, grazie al taglio dei parlamentari, limiterà tantissimo la rappresentanza calabrese.
    Ma in passato era decisamente peggio, perché la democrazia era un affare di élite, riservato a borghesi, possidenti e “altolocati”.
    Fatta l’Italia, si prese subito atto che gli “italiani” (cioè i cittadini che avevano partecipato ai moti risorgimentali o erano comunque in grado di partecipare alla vita pubblica) erano pochini.
    E il sistema elettorale funzionava di conseguenza. Vediamo come.

    Le prime elezioni

    Le prime elezioni politiche della storia d’Italia si svolsero il 27 gennaio 1861.
    Il clima non era dei più facili: i resti dell’esercito duosiciliano ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta e di Messina, che si sarebbero arrese l’11 febbraio e il 13 marzo di quell’anno.

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    Francesco II di Borbone, l’ultimo re delle Due Sicilie

    Ancora: re Francesco II di Borbone avrebbe abdicato al trono e al titolo reale solo dieci anni dopo circa. La sua rivendicazione politica avrebbe ispirato a lungo le bande dei briganti, particolarmente diffuse nella Calabria Citra e in parte del Catanzarese.
    Ma questa è un’altra storia.

    Chi poteva votare

    L’Italia e la Calabria dell’epoca sono realtà rurali, con larghe sacche di analfabetismo e povertà diffusa.
    La legge utilizzata per eleggere il primo Parlamento italiano è quella del Regno di Sardegna, adattata a un territorio grande poco più del 70% di quello attuale: ancora mancano alla conta il Lazio e il Veneto.
    Per votare occorrono quattro requisiti: il sesso maschile, l’età superiore a venticinque anni, essere alfabetizzati e poter pagare almeno quaranta lire annue di tasse.
    Questa regola ha delle eccezioni. La prima, più vistosa, riguarda i sardi, ammessi al voto anche se analfabeti.
    La seconda, invece, è relativa ad alcune categorie, che possono votare anche a prescindere dalla capacità fiscale.
    Sono i “colti” e i professionisti. Cioè i membri delle accademie e degli ordini cavallereschi, i professori universitari, i laureati, i dipendenti dei tribunali e delle procure, i professionisti della Sanità e quelli legali, i funzionari pubblici, civili e militari, in servizio.

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    Camillo Benso conte di Cavour

    La legge elettorale

    Occorre ricordare che nel 1861 il Senato è nominato dal re e tale rimarrà fino alla caduta del fascismo.
    Dunque, si vota solo alla Camera, dove sono in palio 443 collegi uninominali, che diventeranno 493 con l’annessione del Veneto e 508 con quella del Lazio.
    Il meccanismo elettorale è un uninominale su due turni potenziali. Detto in pillole, se nessuno prende il 50% più uno, si va al ballottaggio. Se si libera qualche posto durante la legislatura, si va alle elezioni suppletive. Fin qui, il sistema politico italiano degli esordi è in linea con quelli europei, dove gli elettori effettivi sono di più solo perché è maggiore il benessere diffuso.

    Gli elettori

    Quanti sono gli italiani in grado di votare al momento dell’Unità? La risposta non è proprio consolante: l’1,9% dei cittadini residenti.
    Infatti, i singoli collegi elettorali sono costituiti da mille elettori al massimo.
    In Calabria, la situazione è peggiore. Al momento dell’Unità i calabresi al voto sono poco più dell’1% . Questa percentuale sale all’1,63% nel 1870 e tocca l’1,82% nel 1880. In pratica, votano circa diciannove persone ogni mille abitanti.
    La percentuale è sconfortante anche nel quadro complessivo del Paese.
    I privilegiati sono soprattutto i proprietari (60%), le “pagliette bianche” (cioè i professionisti: 10%), i funzionari civili e i sacerdoti (15%).
    In pratica, tutti i pochissimi benestanti di una società basata sul latifondo.

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    Contadini calabresi di fine ‘800

    Calabria in controtendenza

    Ma questi pochissimi votano di più rispetto alla media nazionale e a quella del Mezzogiorno.
    Le prime Politiche, infatti, sono caratterizzate da un forte astensionismo: a livello nazionale vota solo il 56,4% degli aventi diritto. Nel Sud la percentuale si alza di un po’ e arriva al 63,2%. La Calabria batte tutti col suo 65,7%.
    Di più: la regione è in controtendenza anche per le scelte politiche: mentre il Paese premia la Destra cavouriana, da noi vince la Sinistra storica, sebbene in un quadro di lotte e intrighi piuttosto complesso.

    I cosentini al Parlamento

    Particolarmente interessante risulta la pattuglia dei deputati cosentini, eletta dai dieci collegi della provincia.

    Vincenzo Sprovieri

    Il primo è Giuseppe Pace, esponente della Destra, eletto a Cassano con 301 voti su 774 aventi diritto e 551 votanti effettivi.
    Il collegio di Castrovillari, dove votano 973 aventi diritto, esprime l’indipendente Antonio La Terza, che prende 329 preferenze su 761 elettori effettivi.
    Corigliano, invece, esprime Vincenzo Sprovieri delle Sinistra storica, che prende 468 voti su 622 votanti effettivi (gli aventi diritto sono 801).
    A Cosenza la Destra si prende la sua rivincita: passa Donato Morelli, che ottiene 276 voti su 557 votanti effettivi in un collegio costituito da 909 aventi diritto.
    A Paola gli aventi diritto sono decisamente meno: 689. Il collegio esprime Giuseppe Valitutti della Sinistra storica, che prende 339 voti su 550 votanti.
    Ancora meno, 624, gli aventi diritto a Rogliano, dove vince Gaspare Marsico della Sinistra storica con soli 173 voti su 345 votanti.
    Rossano ha 625 aventi diritto. Gli elettori effettivi sono 466 e 285 di questi eleggono Pietro Compagna della Destra.
    A San Marco, che ha 606 aventi diritto, la spunta Giovanni Mosciaro della Sinistra storica con 288 voti su 519 votanti.
    Spezzano Grande elegge Gabriele Gallucci della Destra, con soli 164 voti. I votanti sono 278, gli aventi diritto 472.
    A Verbicaro vince Francesco Giunti della Sinistra storica, che prende 348 voti su 568 votanti. Gli aventi diritto del collegio sono 757.

    Giovanni Nicotera

    I trombati

    La maggior parte degli eletti proviene dal notabilato locale, che ha fatto le sue fortune sulle grandi proprietà, ottenute prima dell’Unità nazionale e non sempre in maniera cristallina.
    Tra i grandi trombati, invece, ci sono altri protagonisti del Risorgimento.
    Tra questi, alcune figure di prima grandezza della storia regionale e non solo: il patriota e intellettuale Domenico Mauro, il futuro ministro Luigi Miceli e Giovanni Nicotera, anche lui futuro protagonista dei governi della Sinistra storica.
    I tre, battuti in casa dai notabili, rientrano alla Camera grazie a candidature mirate in collegi fuori regione.
    La Calabria entra nella storia unitaria con il suo solito vizio: boccia i migliori e preferisce i notabili.

  • Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

    Alici, amore e caro gasolio: il mare dentro i pescatori di San Lucido

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    A San Lucido i pescatori under 30 hanno mangiato pastina e acqua salata da piccoli, hanno deciso che da grandi avrebbero fatto questo lavoro già alle prime uscite in mare con i nonni e con i papà. Oggi salgono sui pescherecci di notte come navigatori fenici. Non è un mestiere semplice. I rischi sono diversi. E adesso che il gasolio è aumentato, per una battuta di pesca bisogna fare i conti fino all’ultimo centesimo. Una notte in mare costa almeno 400 euro soltanto di carburante. Bisogna tornare con un bel carico per non perderci.

    Riposa in pace capitano Mazza, tra i primi morti per Covid

    Nel minuscolo porto della terrazza sul mare, così è chiamato il paese del basso Tirreno cosentino, per decenni il San Giovanni e la Nuova speranza sono usciti e rientrati con al timone il capitano Gianni Mazza. Era il più autorevole dei pescatori ed è stato una delle prime vittime di covid in Calabria, morto nel marzo del 2020 a 75 anni. Anche i colleghi del Nord Italia lo hanno ricordato tributandogli manifesti e saluti tra le onde.
    Le barche di famiglia sono accompagnate dal suo volto, formato poster, sulla plancia. Suo nipote ha 20 anni, porta orgogliosamente lo stesso nome, fa lo stesso mestiere. «La prima volta mio padre Andrea, che ha 45 anni, mi ha portato in mare con la pastina a tre anni e mezzo. Siamo una famiglia di pescatori. Io i miei due fratelli, uno di sedici anni e l’altro quasi quindici, mio padre, due zii e quattro cugini».

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    Gianni Mazza, pescatore esperto di San Lucido morto a 75 anni dopo aver contratto il Covid

    A un passo dalla laurea, poi ha scelto il mare

    È sabato mattina. Nel porto di San Lucido l’acqua brilla, una famiglia di papere scivola sul mare, mentre sui pescherecci si srotolano le reti per riparare il tremaglio. Un’arte che solo i pescatori conoscono, che apprendono senza bisogno di teoria, osservando i più anziani. Con gli occhi fissi sulle trame e le mani che si muovono veloci, è questo il momento della condivisione, dei racconti e degli aneddoti che viaggiano da una barca all’altra.
    Francesco Maria Tonnera, 27 anni, è qui da prima dell’alba. Lui e il suo equipaggio sarebbero dovuti uscire presto per la pesca, ma hanno rimandato a causa del vento. «Un giorno, avrò avuto otto anni – racconta, – ho detto a mia madre: io continuerò a studiare, però tu mi devi fare andare in mare. Trascorrevo la notte sul peschereccio, tornavo alle cinque del mattino, facevo una doccia, mi mettevo il grembiule e andavo a scuola».

    Quella di Francesco Tonnera (un destino già scritto nel cognome), è la terza generazione di una famiglia di pescatori. La promessa fatta a sua madre – purtroppo scomparsa due anni fa – l’ha mantenuta: con i buoni voti ha sempre meritato borse di studio, si è diplomato ed era a un passo dalla laurea in Giurisprudenza e da una vita completamente diversa da quella dei suoi. «Ero stato selezionato per un colloquio per un posto in banca a Milano, ma non me la sono sentita: una vita in giacca e cravatta non fa per me, ho scelto la libertà». La libertà è la pace e la poesia delle notti sulla barca sotto un cielo stellato. «Non so descriverla, è una sensazione unica».

    Francesco Tonnera (con il cappuccio) è un giovane pescatore di San Lucido

    Il pescatore 4.0 di San Lucido su Tik Tok

    Ne è passato di tempo da quando si buttavano le rizze a mare e poi si vendevano i pesci sul molo del porto facendo a gara a chi urlava più forte. Francesco non ha l’aspetto del lupo di mare, è piuttosto un pescatore 4.0: da una parte la tradizione, la sapienza e i riti che si tramandano; dall’altra le innovazioni, per esempio le telecamere a bordo per filmare il pescato e un uso efficace dei social. Basta digitare il suo nome e su Tik Tok è un trionfo di seppie e polipi e altri pesci ancora nella rete ma pronti ad arrivare sulle tavole dei clienti che possono ordinare on line.
    A San Lucido i giovani scelgono ancora di fare questo lavoro duro ma soprattutto usurante perché l’umidità e la fatica alla lunga compromettono la salute. A muovere tutto è la passione, ma le difficoltà sono tante.

    Peschereccio nel porticciolo di San Lucido

    Concorrenza sleale

    «Le leggi europee stanno ammazzando il nostro lavoro – dice Tonnera – viviamo con il terrore delle sanzioni, con la costante incognita dei controlli dei militari della Capitaneria che salgono a bordo a controllare il pescato, ma si fa troppo poco invece per arginare la concorrenza del pesce che arriva da altri paesi», il malepesce lo chiamano.
    «La nostra famiglia ha perso tre pescherecci, uno più bello dell’altro», interviene il padre Tullio, 57 anni, cinquanta anni di lavoro, due figli, entrambi pescatori. «La Michelangelo, 18 metri, è stata affondata nel porto di Vibo per pesca illegale del pesce spada. Un altro è finito bruciato. Là – indica la strada – è ferma la Mariella, 14 metri di peschereccio, sequestrata per disastro ambientale, poi ce l’hanno ridata ma a questo punto non è più utilizzabile».

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    Peschereccio rientrato dalla battuta di pesca a San Lucido

    Pesce azzurro e delfini che t’inseguono

    È tanta la voglia di mollare ma alla fine vince il richiamo del mare. Di notte, lontano dalle coste, si capisce quanto inquinamento di luci trasfigurino il cielo. Sul mare quelle delle stelle sono abbaglianti, dicono i giovani pescatori.
    Poi, con le reti in acqua, tutto può succedere. Perché laggiù è un turbinio di pesci che si muove sotto la barca. «È in quei momenti che capisci che dovrai agire col pugno fermo e i nervi saldi, perché ogni tua decisione avrà una conseguenza», dice Francesco Tonnera. E l’obiettivo è rientrare nel porto, quando il sole è già sorto, con un bottino ricco. «Con quello che costa il gasolio, se qualcosa va storto il danno sarà enorme».
    Il mare di San Lucido è uno scrigno di pesce azzurro: alici, sarde, sgombri soprattutto. E il Tirreno regala spettacoli improvvisi di delfini che inseguono il peschereccio o che giocano intorno alle barche ferme, di notte. «Ce ne sono tantissimi, noi pescatori sappiamo quanto possano essere addirittura “infestanti”, perché nel loro periodo di transito spesso danneggiano le reti e le imbarcazioni».

    La maledizione delle tartarughe

    E nonostante l’esperienza, lo stupore è sempre grande davanti alle tartarughe – «tante, enormi, meravigliose», dice Tonnera – che si incontrano lungo il cammino. «Specialmente di notte capita di avvistarle in acqua, stanche, affaticate. Quando possiamo le teniamo un po’ a bordo per farle riprendere e poi le rimettiamo in mare». Guai a far loro del male e non solo perché le sanzioni in caso di controlli della Capitaneria sarebbero altissime, ma soprattutto perché secondo una credenza popolare, «le tartarughe bestemmiano», quando sono in pericolo o vengono catturate emettono dei suoni cupi e quella è una maledizione che colpirà chi le uccide.

    Francesco Tonnera porta i segni del morso di uno squalo azzurro: 75 punti

     

    Azzannato dallo squalo azzurro

    Hai mai avuto paura? La domanda è rivolta a Francesco, ma risponde suo padre Tullio: «Paura unn’avi mai». Francesco ha il suo trofeo, mostra una enorme cicatrice sul polpaccio, è il morso di una verdesca, lo squalo azzurro. «Era finita nella rete e dovevamo smagliarla per poi farle riprendere il largo. Io e mio padre abbiamo dovuto tirarla a bordo, è un pesce molto mobile con una torsione rapidissima: uno scatto e mi ha azzannato alla gamba, il risultato è questo, hanno dovuto mettermi 75 punti di sutura».

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    La statua di Cilla a San Lucido, che perse marito e figli in mare

    La donna che perse marito e figli in mare

    Sulla gente marinara di San Lucido veglia Cilla, la moglie e madre ormai leggendaria che ha perso i suoi uomini in mare. È ritratta da una scultura di Salvatore Plastina che sembra una donna in carne e ossa affacciata sul belvedere. I sanlucidani raccontano che nelle notti di mare grosso la sentono lamentarsi.
    Ha pianto lo scorso venti agosto. Gianni Mazza, il giovane pescatore di razza, era al largo di Belmonte insieme con l’equipaggio della Nuova speranza e «all’improvviso ci siamo trovati davanti una tromba marina, con onde alte fino a tre metri. È stato un momento veramente difficile. Ma siamo riuscito a tornare nel porto. Mio nonno ci ha insegnato a capire il mare. Lui, diceva non vuole caputoste, non si può sempre sfidare, altrimenti soccombi».

    Il grande squalo bianco

    Gianni Mazza è stato il capitano di tante imprese. Nel lontano 1978 prese lo squalo bianco, la creatura più temuta dai bagnanti, che rare volte si è vista nei mari calabresi.
    Lui e la sua famiglia sono i protagonisti del documentario dell’antropologo Giovanni Sole “Pescatori d’argento. Alici e lampare in Calabria”.

    È anche nelle notti calme e silenziose che possono accadere cose starne. «Una volta eravamo a motore spento con le reti calate – racconta Francesco Tonnera – c’era una pace assoluta e soltanto la luce delle stelle. Ero a prua, quando all’improvviso ho visto sollevarsi l’acqua per una lunghezza di circa dieci metri, come se ci fosse un pesce in superficie. Ho seguito l’enorme sagoma che lentamente si muoveva di fianco alla barca a filo d’acqua. Sono certo che si trattasse di un enorme capodoglio».

  • Mastrolorenzo è il nuovo amministratore unico di Amaco

    Mastrolorenzo è il nuovo amministratore unico di Amaco

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    Michelangelo Mastrolorenzo è il nuovo Amministratore unico di Amaco S.p.a. Il commercialista è stato nominato dall’assemblea ordinaria dei soci. Mastrolerenzo prende il posto del dimissionario Paolo Posteraro. L’assemblea ha nominato anche il nuovo collegio sindacale alla cui presidenza è stato designato Carlo Cannataro. Del collegio sindacale sono stati chiamati a far parte anche Antonio Naso e Sandra Salemme, quali sindaci effettivi. Sindaci supplenti sono stati, inoltre, nominati il  Ivo Mazzotti e la dottoressa Antonella Rizzuto.

     

  • L’Italia che frana: pioggia, fango e condoni

    L’Italia che frana: pioggia, fango e condoni

    Ci sono due espressioni forti, per indicare i rischi del territorio in Italia, soprattutto al Sud.
    La prima è un classico: si dice Casamicciola, per rievocare il terribile terremoto del 1883, in cui rischiò la vita Giustino Fortunato e perse la famiglia Benedetto Croce.
    La seconda riguarda la Calabria ed è tratta da un’espressione dello stesso Fortunato: lo sfasciume pendulo sul mare.
    La recente alluvione che ha messo in ginocchio Ischia e, in particolare, Casamicciola Terme, ha riacceso i riflettori sui pericoli del nostro territorio, dovuti a tre fattori: la gracilità del suolo, il rischio sismico e l’intervento dell’uomo, molte volte incosciente.
    Di tutto questo si è discusso durante il dibattito svoltosi a Villa Rendano lo scorso 2 dicembre, significativamente intitolato: “Pioggia, fango, lutti e licenze edilizie: l’Italia crolla”.

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    L’architetto Daniela Francini

    Cinque studiosi a confronto

    Moderato dal giornalista Antonlivio Perfetti, il convegno di Villa Rendano è stato il quarto avvenimento organizzato dalla Fondazione Attilio ed Elena Giuliani su argomenti di stringente attualità.
    Il dibattito, pacato nelle forme ma forte nei contenuti, è stato animato da cinque addetti ai lavori: Paolo Veltri, professore Ordinario di Costruzioni Idrauliche dell’Unical, i due ricercatori del Cnr Carlo Tansi e Olga Petrucci, l’architetto e urbanista Daniela Francini e Flavio Stasi, il sindaco di Rossano-Corigliano, un territorio ad alto rischio idrogeologico, come ricorda l’esondazione del 2015.

    Il colpevole quasi perfetto è il Comune

    La requisitoria di Veltri, che ha aperto i lavori subito dopo i saluti della vicesindaca di Cosenza Maria Pia Funaro, è pesantissima.
    Per l’ex preside di Ingegneria, tragedie come quelle di Ischia non hanno un solo imputato, ma sono l’esito di una serie di responsabilità diffuse. Si va dalla pessima utilizzazione dei mezzi e del personale all’insufficienza della politica nazionale di difesa del suolo, in cui la Calabria ha il consueto ruolo della Cenerentola, perché priva di una classe politica forte, capace di pretendere dallo Stato.
    Al riguardo, si registra il pesante paradosso dei sorveglianti idraulici, che sono in cassaintegrazione proprio quando piove, cioè quando servirebbero di più.
    Gli indiziati più pesanti, tuttavia, restano la Regione, accusata di assenteismo nelle opere fluviali e gli enti locali. I Comuni, in particolare, sono il colpevole quasi perfetto, sia per quel che riguarda i controlli sia per la facilità con cui le amministrazioni chiudono un occhio sugli abusi edilizi o li condonano.

    La natura è benigna, l’uomo no

    Carlo Tansi e Olga Petrucci del Cnr intervengono nel focus organizzato dalla Fondazione Giuliani con due approcci diversi ma convergenti.
    Tansi va giù duro sugli abusi e rovescia il paradigma dei disastri ambientali. Le frane e le alluvioni? Secondo il geologo sono processi benigni, perché consentono il ripascimento delle spiagge, che altrimenti verrebbero spazzate vie dall’erosione costiera.
    I danni, invece, li fa l’uomo, quando usurpa con interventi edilizi dissennati gli spazi della natura. E la Calabria? Occorre fare attenzione al meteo: i guai inizieranno con le piogge.
    Già, prosegue il geologo: possiamo fregare la legge e lo facciamo spesso. Ma la natura è un tribunale che emette sentenze inappellabili.
    L’unica risposta è la prevenzione, che inizia dalla consapevolezza. In questo caso, dalla conoscenza dei luoghi su cui non si deve costruire.
    Al riguardo, è utilissima l’esperienza di Petrucci, che ha realizzato una serie di volumi (reperibili anche su Google Books) dedicati alle zone a rischio idrogeologico in Calabria e ha realizzato un data base sulle catastrofi nel bacino mediterraneo.

    Il colpevole? La burocrazia. Parola di sindaco

    Flavio Stasi, il sindaco di Rossano-Corigliano, punta il dito sulla lentezza delle procedure per l’erogazione di fondi e mezzi per la tutela del territorio.
    «Le situazioni mutano sempre, perché il territorio non è statico. I mezzi arrivano spesso quando non servono più». Il rimedio, secondo il primo cittadino dello Jonio, si riassume in una parola: semplificazione. Già: la tempestività degli interventi, molte volte, è più importante dei fondi stessi.
    Dura l’accusa sulla facilità con cui spesso sono concessi i condoni. Ma al riguardo, Stasi dichiara di avere la coscienza a posto: «Noi abbiamo ripreso a demolire».

    Prima la sicurezza, poi la giustizia

    L’architetta urbanista Daniela Francini si sofferma, invece, sulla pianificazione.
    A suo giudizio, la pianificazione inesistente o inadeguata è in cima alla lista dei rischi.
    In particolare, è difficile tuttora implementare i nuovi metodi di pianificazione, come dimostra il caso di Ischia.
    Prevenire i disastri significa soprattutto tutelare le vite umane: quando si scopre un abuso, sostiene Francini nell’incontro promosso dalla Fondazione Giuliani, occorre innanzitutto mettere in sicurezza i fabbricati sotto accusa, poi sanzionare. «Se si fosse agito così», commenta l’architetta, «forse non piangeremmo dei lutti».

    L’Italia crolla e la Calabria ancor di più? Forse sì. Ma prima di stracciarci le vesti sarebbe il caso di acquisire consapevolezza e approfondire.
    Prevenire è meglio che curare. Ma per prevenire occorre sapere.

  • Qualcuno volò sul nido di Scanderbeg

    Qualcuno volò sul nido di Scanderbeg

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    Prima una, poi due, e infine tre evasioni rocambolesche. L’ultima volta che è fuggito, il soggetto “socialmente pericoloso” ha ferito un infermiere ed un carabiniere, dopo aver danneggiato i locali che lo ospitavano. Poi ha rubato un’automobile e si è schiantato contro un lampione, uscendo illeso dall’incidente. Ma i 2.500 abitanti di Santa Sofia d’Epiro, in provincia di Cosenza, non si sono scomposti. Ormai hanno adottato la Rems ed i suoi ospiti. «È chiaro che umanamente ci dispiace tantissimo, però non esiste allarme sociale che ci possa indurre al panico. La nostra cultura è fatta di accoglienza, incontro, musica, letteratura. Rinnegheremmo noi stessi se ci lasciassimo abbattere dalla paura e dagli egoismi», spiega Carmine Guido, musicista del gruppo rock Spasulati Band.

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    Sbarre alle finestre e muri alti tre metri nella Rems di Santa Sofia d’Epiro

    Dagli Opg alle Rems

    I sofioti sono una delle tante popolazioni arbëreshe, discendenti dai profughi giunti nel sud Italia sette secoli fa, quando gli antenati del presidente turco Erdogan conquistarono i Balcani e li scacciarono dalle loro case. Gli Albanesi di Calabria hanno sviluppato un’attitudine all’insilienza, la capacità di attecchire in territori remoti, cioè una forma di resilienza in trasferta. Da centinaia di anni resistono ai traumi e si organizzano in modo solidale. Una decina di loro lavora all’interno della Residenza Esecuzione Misure Sicurezza “G. Granieri”, gestita dal Centro di solidarietà “Il Delfino”. Ed è qui che le ripetute e drammatiche fughe di uno degli ospiti hanno svelato alcune delle falle giuridiche della legge 81/14 che finalmente portò alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari ed alla loro sostituzione con le Rems.

    Stop all’ergastolo bianco

    Queste strutture hanno natura più prettamente medico-sanitaria. La logica che sta alla base è quella riabilitativa: gli operatori sono medici, non carcerieri. Il loro scopo è quello di aiutare il paziente, curarlo, al fine di reintrodurlo nella società. Assomigliano più a presidi sanitari che a prigioni. Hanno, inoltre, messo fine all’ergastolo bianco. Se negli Opg non era previsto un termine massimo di durata della misura, con le Rems la tempistica non può essere superiore al massimo edittale della pena prevista per il reato. Lo scoglio più grosso da affrontare resta però la visione che la società ha di queste persone.

    Pericolosi a prescindere da responsabilità

    Lo stigma è ancora molto presente, accresciuto anche da una paura mediatica che viene costantemente proposta ed ampliata. C’è un forte desiderio che il reo venga neutralizzato piuttosto che rieducato, riabilitato o risocializzato.

    «Tali strutture non sono deputate alla detenzione – spiega il responsabile dell’ente gestore, Gianfranco Tosti – bensì alla rieducazione e cura degli autori di reato, per prevenire nuove eventuali azioni criminose. Queste persone non devono scontare una pena. Nei loro confronti è stato emesso un giudizio di pericolosità, a prescindere dalle eventuali responsabilità. Per questo motivo tali provvedimenti si applicano anche nei confronti di soggetti che nel commettere azioni violente sono stati considerati non in grado di intendere e di volere».

    La Rems “Granieri” vista dall’esterno

    Tuttavia, pur essendo di fatto delle residenze socio sanitarie rientranti nel Dipartimento Salute mentale, la responsabilità direzionale è affidata all’ASP di Cosenza tramite un medico psichiatra, con la funzione di Responsabile della Rems. In queste strutture non è prevista la gestione delle acuzie e di gravi scompensi psicomotori, per questo e per eventuali Tso – trattamenti sanitari obbligatori – le cure sono affidate al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, all’interno degli ospedali.

    Terapia, non pena

    «Essendo una struttura socio-sanitaria – prosegue Tosti – noi non possiamo trattare Tso. Ci occupiamo della parte riabilitativa e sanitaria. Per ogni singola persona l’equipe redige il Ptrr (piano terapeutico riabilitativo residenziale, ndr) che può indicare lo stato di miglioramento della persona e nel corso di questi anni abbiamo cercato di costruire un approccio molto umano che è quello che da sempre a caratterizzato tutte le attività del Delfino.

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    Una stanza della struttura di Santa Sofia d’Epiro

    Il problema si pone quando tra i soggetti che ci sono affidati, qualcuno risulta incompatibile sia col carcere che con una struttura riabilitativa. Non rientra infatti nelle competenze e responsabilità del nostro personale il contenimento di azioni violente. Gli operatori al nostro servizio sono infermieri, educatori, assistenti sociali, OOSS, psicologi, tecnici della riabilitazione psichiatrica, altri addetti. Come possono arginare una persona che improvvisamente aggredisce cose e persone, e tenta di fuggire?».

    Rems: sembra un carcere, ma non lo è

    In Calabria la Rems di Santa Sofia d’Epiro è l’unica sul territorio regionale. Attivata nell’ottobre 2016, con due anni di ritardo, è stata realizzata in un immobile di proprietà dell’Asp. In questi 6 anni vi sono state ricoverate 52 persone, di cui 34 dimesse. L’edificio presenta i segni della mescolanza col sistema carcerario: mura alte tre metri, sbarre verticali e porte in ferro. Un rafforzamento dei sistemi di controllo è stato di recente richiesto dal sindaco, Daniele Atanasio Sisca, al prefetto di Cosenza.

    Un esempio di tolleranza e civiltà

    Nonostante la situazione critica, rimane alto il livello di collaborazione tra comunità locale e soggetto gestore: «La legge 81/14 – spiega Tosti – è stata precisa per le questioni strutturali. Nel contempo, abbiamo sempre cercato di creare spazi accoglienti, idonei alla cura. Gli spiacevoli episodi accaduti negli ultimi mesi non sono però riusciti a destabilizzare la nostra impostazione. E questo lo dobbiamo alla popolazione locale e alle loro istituzioni, il sindaco e il comandante della locale stazione dei carabinieri, che oltre a starci vicino, hanno sempre reagito con una civiltà ed un livello di tolleranza che dovrebbero essere da esempio in tutto il continente europeo».

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  • Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

    Sant’Agata: la montagna dove la musica è cambiata

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    Sarà capitato anche a voi: si va, si torna da un posto dove si è stati in pace e improvvisamente torna a fuoco, magari in dormiveglia, una collina che andava esplorata, l’acqua di una fontana che andava bevuta, due parole buttate lì che valevano un discorso, e invece non c’è stato tempo. Come una nostalgia recente. E quindi verrebbe voglia di risalire subito verso Sant’Agata del Bianco, lasciandosi alle spalle le vertigini del mare aperto, le nuove coltivazioni di bergamotto, le vigne del Mantonico, alzando gli occhi verso la montagna da dove arriva la musica. Verso uno dei cento e cento paesi della Calabria interna, senza sapere quanto lo troverai deserto: ma Sant’Agata no, non è deserta come Ferruzzano che sta a portata di sguardo. Quantomeno, non lo è di pensieri, azione e idee.

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    Rocce e murales nel centro storico di Sant’Agata del Bianco

    Sant’Agata del Bianco: il paese di Saverio Strati

    E quindi, in attesa di tornarci, questa è la sua storia e la sua acqua: il paese dello scrittore Saverio Strati e dei diciotto murales, del centro rimesso a nuovo, di un contadino-scultore di nome Vincenzo Baldissarro, di un monolite scolpito tra agli ulivi, perché si sa che l’Aspromonte è anche il posto delle grandi pietre. Di Totò Scarfone che raccoglie gli oggetti del Museo delle Cose Perdute e vuole allargarsi, di musicanti e film. Il degno seguito di una visita alla Villa Romana di Casignana, che sta a 13 chilometri, sulla Jonica reggina.

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    L’interno della casa dello scrittore Saverio Strati

    «Questi artisti c’erano già tutti, ma prima erano soli», dice il sindaco Domenico Stranieri, insegnante di filosofia al Nord in aspettativa non retribuita (e per scelta, senza indennità di missione).
    «Abbiamo cominciato a dare un nome ai luoghi, si era persa l’identità del paese», aggiunge. «In certi punti, dobbiamo riconquistare il panorama: il cemento senza nessuna regola lo ha cancellato».

    La casa di Strati era chiusa, ristrutturata così così, dentro trovarono un materasso. Oggi è un murale a due piani. «Il Comune era messo male, i regolamenti risalivano agli anni ’90. Siamo partiti dalle rovine, abbiamo cercato di coprire i debiti prima di tutto. Poi ho pensato che il paese avesse bisogno di socialità, è nata una piccola scuola calcio. Un paese dove si potesse vivere anche a piedi, senza andare a cercare tutti i servizi nei posti vicini».

    Il campione di cricket venuto dalla Spagna

    Domenico Stranieri ha conosciuto Jaime Gonzalez Molina, uno spagnolo arrivato qui per amore. Ex campione di cricket, Jaime è entrato nella lista per le elezioni, poi è diventato assessore: la carta in più per Sant’Agata e altri paesi ai bandi Ue (dove la Calabria brilla spesso per non partecipazione), magari per dare una migliore illuminazione ai centri abitati. «E qualche volta la maggioranza fa festa con la paella invece che con la capra».

    Ma potete trovarlo a piantare i cartelli stradali insieme al sindaco (Sant’Agata sembrava irraggiungibile), a pulire il percorso dei palmenti scavati nella roccia: capita che i due si diano il cambio per andare a fare una doccia. Perché chi governa il paese (in Giunta c’è anche Gina Mesiano, vicesindaca, sempre in prima fila) non ha tempo da perdere: troverete loro a spostar le sedie, a montare i palchi, a recuperare la storia dei palazzi: come quello di “Don Michelino”, che nel romanzo di Strati Tibi e Tascia dà al ragazzo l’opportunità di studiare.

    E qui tocca rivedere la vita dello scrittore, che fa tutti i mestieri fino a 21 anni, poi grazie a un parente che si è fatto ricco in America riesce a diplomarsi, trasferirsi nel Fiorentino e scrivere come se fosse una malattia, fino a vincere il Premio Campiello: ora Rubbettino ha acquisito i diritti di tutti i suoi romanzi e li sta pubblicando.

    Sant’Agata del Bianco, il paese dei poeti contadini

    Ma ogni casa ha una storia nel paese, lo scrittore santagatese Giuseppe Melina ha sempre sostenuto che qui c’è un gene che emerge «dal fondo greco della nostra cultura». Stranieri mostra la copertina di Vie Nuove, rivista-rotocalco del Pci: nel 1953 dedicò una copertina ai poeti contadini di Sant’Agata (ecco il gene) che recitavano a memoria la Divina Commedia.

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    Murales che rievoca i poeti contadini (foto pagina fb Insieme per Sant’Agata)

    La sua squadra, che ha molti giovani, è riuscita così a fermare il tempo prima che tutto questo andasse perduto: «E ora non ci si vergogna di recitare poesie». Prima che Sant’Agata si trasformasse in un non-paese, con le case sbarrate e indivise, che non interessano più ai figli dei figli che sono partiti, il silenzio. Invece qui si torna, anche con il cuore: mesi fa il sindaco ha ricevuto una grande busta piena di cd e di ritagli stampa. Gliel’ha spedita Salvatore Barbagallo, in arte Mauro Giordani, che è stato autore per Celentano e cantante. Partì a tredici anni con la famiglia per Milano, è stato contento di rivedere Sant’Agata (600 abitanti) sui giornali, e vuole far parte dell’orchestra.

    Da Voltarelli allo Stato Sociale

    Come se questo paese avesse una sua colonna sonora. Da qui passano e tornano i migliori interpreti del folk e della canzone d’autore, Mimmo Cavallaro, Ettore Castagna, Peppe Voltarelli. Qui hanno amici e legami star come Calcutta, qui ogni estate torna Lo Stato Sociale per il Festival Stratificazioni (direttore artistico Fabio Nirta).

    L’edizione 2020 del festival Stratificazioni

    Ma qui bisogna fermarsi e tornare purtroppo a parlare di politica. Perché la Regione – per la precisione il Dipartimento al Turismo – ha scritto che sosterrà i paesi al di sotto dei 5.000 abitanti che possono offrire almeno 500 posti letto. Neppure consorziandosi con altri, Sant’Agata ce la farebbe. Stranieri ha scritto una lettera molto dura al presidente della Regione Roberto Occhiuto, e aspetta una risposta.

    Stratificazioni si farà lo stesso, gli artisti verranno anche gratis, anche per ammirare la strepitosa location: le rocce di Campolico, con vista sull’immenso letto della fiumara La Verde e sul mare, ospitano ogni estate concerti, presentazioni, happening teatrali e film. C’è solo una musica non gradita qui, quella dei neomelodici: «Ma io – dice il sindaco – sono come un buon padre di famiglia, e mai spenderò soldi pubblici per cantanti che inneggiano alla mafia». Il paesaggio è quello ritratto da Edward Lear, l’intenzione è quella di recuperare il Belvedere di Contrada Cola, dove Strati si rifugiava a scrivere.

    Aspettando le foto di Steve McCurry

    Questa è dunque la storia di Sant’Agata, che rinasce dalle case diroccate per diventare un paese moderno, dove si parlano le lingue e la tradizione non è una catena, c’è il wi-fi comunale e un punto di incontro che si chiama Il giardino del pensiero, dove arrivano scuole da Calabria e Sicilia, con il passaparola. Dove le finestre sono narranti, e le sculture nella roccia vanno viste al tramonto.

    Un paese che rischiava di essere cancellato dalla nostra memoria e invece sta su YouTube e in tante kermesse, e prossimamente nelle foto scattate da Steve McCurry. Dove passano artisti e poeti, superando chilometri, stereotipi e mancanza di cachet. E qualche volta c’è una visita più speciale di altre: a Sant’Agata è arrivata anche quella che è stata la prof d’italiano di Domenico Stranieri al liceo di Locri. Rita Incorpora, figlia di uno storico dell’Arte, ha voluto fare i complimenti al sindaco. Li merita anche lei, chi siamo noi se non il frutto dei nostri maestri?

  • I Calabresi di nuovo online: ricominciamo!

    I Calabresi di nuovo online: ricominciamo!

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    Rieccoci online, con lo sguardo curioso e disincantato. Ancora qui a raccontare le dinamiche sociali, i fatti, i luoghi e i protagonisti, anche quelli dimenticati, forse soprattutto quelli.
    I Calabresi torna dopo una pausa, lunga ma necessaria. Il giornale – fondato a luglio 2021 e diretto nel primo anno di vita da Franco Pellegrini con risultati lusinghieri – ha avuto uno stop a causa della messa in liquidazione di Calavrìa Srl, società che lo editava.

    La redazione ha acquistato I Calabresi

    Oggi, invece, a editare I Calabresi è una nuova società composta dai giornalisti che ne costituivano la redazione originaria e che ne hanno rilevato la proprietà, riportando in vita la testata grazie a un contributo economico della Fondazione Giuliani a supporto della fase di start up.
    Tuttavia, i veri padroni del giornale saranno sempre e solo quelli che ci leggono. È a loro che, come e più di prima, dovremo rispondere del nostro operato.

    Il direttore de I Calabresi è Michele Giacomantonio, in questa squadra sin dall’inizio. Ma, per una consolidata e diffusa disabitudine alle gerarchie, la redazione da subito ha assunto l’aspetto di un vociante collettivo, all’interno del quale si confrontano le diverse esperienze.

    Fedeli alla linea

    La nuova edizione de I Calabresi non sarà differente dall’originaria. Uguale sarà il sentiero che intendiamo seguire: una certa allergia all’urgenza della cronaca e l’interesse, invece, per l’approfondimento. Il digitale e il web sono sinonimi di velocità. invece noi riprenderemo ad andare controcorrente. Quelli bravi lo chiamerebbero slow journalism, noi pensiamo al passo lento dell’analisi, allo sguardo ampio dell’inchiesta, al respiro lungo del racconto che mette al centro le persone, i posti, le promesse. Quelle mantenute e quelle tradite, che sono di più.

    Parleremo di cultura, imprese, territori, beni comuni, giustizia, ambiente. E parleremo della politica, che da noi resta la sola forma di economia che non conosce crisi. La lentezza con la quale guarderemo questi universi non è una scusa, ma un metodo per trovare risposte senza farci distrarre dalla fretta, formulare domande senza farle precedere dalle risposte e dai pregiudizi.

    Una buona notizia

    Attorno alla redazione ci saranno molti degli autori, giornalisti e non, che hanno rappresentato l’ossatura della passata edizione e che proseguiranno a dare fiato al nuovo corso. Altri si sono aggiunti e altri ancora speriamo si aggiungano presto. A tutti loro va il nostro ringraziamento e ai lettori la nostra promessa di impegnarci al massimo, con la convinzione che non sempre la sola notizia meritevole di attenzione sia quella cattiva. Certe volte anche quella buona è una notizia. E che I Calabresi torni ai suoi lettori è una bella notizia.

    Michele Giacomantonio
    Alfonso Bombini
    Camillo Giuliani
    Saverio Paletta

  • Bergamini, anche per la Cassazione «ombre» sulla morte di Denis

    Bergamini, anche per la Cassazione «ombre» sulla morte di Denis

    Anche la Cassazione vuole vederci chiaro sulla morte di Donato “Denis” Bergamini. Ad avvolgere «la tragica fine» nel 1989 dell’ex calciatore del Cosenza nei pressi di Roseto Capo Spulico ci sono ancora «numerose ombre», sostengono infatti gli ermellini, riporta Ansa Calabria. Le parole dei giudici della Suprema corte sul decesso del giocatore ferrarese sono arrivate al termine di un processo che vedeva imputato un cronista, alla sbarra per una diffamazione ai danni del magistrato Franco Giacomantonio.

    Quest’ultimo, da capo della Procura di Castrovillari, secondo il giornalista, si sarebbe mostrato fin troppo «pavido» nell’indagare sul caso Bergamini. Così facendo – sostenevano gli articoli su di lui – avrebbe favorito Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore sulla quale gravano da anni i sospetti dei tanti, cosentini e non, che respingono l’ipotesi del suicidio del centrocampista.

    Nessun insabbiamento, critiche eccessive

    Per la Cassazione, invece, c’è poco da imputare a Giacomantonio nella gestione della vicenda Bergamini. Il procuratore, infatti, è colui che nel 2011 chiese al Gip la riapertura delle indagini. Nonché lo stesso magistrato che si impegnò «a svolgere, successivamente, una diffusa ed articolata istruttoria, servendosi di numerosi consulenti tecnici e svolgendo molte audizioni di persone informate dei fatti, in vista di un evidente obiettivo di fare luce sul controverso “caso giudiziario”».

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    La Corte di Cassazione

    Nulla da eccepirgli nemmeno per quanto riguarda la successiva archiviazione dello stesso caso. Per i supremi giudici «è formulata con ampie ragioni (che si snodano lungo 73 pagine di provvedimento), dando conto di tutte quante le indagini effettuate: dunque non una decisione superficiale, o peggio, deviata da una qualche parzialità». Senza contare, scrivono ancora, che Giacomantonio a Castrovillari è arrivato decenni dopo la morte di Bergamini e le relative indagini iniziali. Nessun insabbiamento da parte sua, quindi, per i giudici sebbene il legale della famiglia di Donato avesse fatto notare, all’epoca dei fatti, una certa titubanza del magistrato inquirente a far eseguire ulteriori esami sul cadavere. «Non bisogna aver paura della verità», le sue parole.

    Bergamini e le ombre: le parole della Cassazione

    Ma i dubbi su quella tragica notte di pioggia del 1989 e le successive indagini restano. Anche tra gli ermellini. Che, infatti, chiariscono che al momento la Cassazione «non è la sede per diradare alcuna delle numerose ombre che avvolgono la tragica fine di Denis Bergamini», ricordando al contempo che la stessa Internò è oggi imputata a Cosenza per il presunto omicidio del suo compagno di allora. Il caso, anni dopo l’archiviazione targata Giacomantonio, è infatti «riaperto a seguito della richiesta di riesumazione della salma del calciatore, avanzata dai familiari di Bergamini tramite l’avvocato Fabio Anselmo, con nuovi esami che hanno accertato il decesso per soffocamento».

    La lapide in ricordo di Donato Bergamini ai bordi della strada dove perse la vita
  • I Calabresi: pubblicazione sospesa, ma la soluzione c’è

    I Calabresi: pubblicazione sospesa, ma la soluzione c’è

    Si comunica che la Calavria Editrice Unipersonale S.r.l. è stata posta in liquidazione ai sensi dell‘art. 2484 c.c., comma 1, n. 4.
    Pertanto, la pubblicazione del giornale online I Calabresi è sospesa in attesa delle determinazioni del liquidatore.
    I redattori hanno avanzato la proposta di rilevare la testata ed è in corso una interlocuzione con la Calavria Editrice Unipersonale S.r.l. in liquidazione affinché le pubblicazioni possano riprendere appena possibile.

    Calavria Editrice Unipersonale S.r.l. in liquidazione
    Il liquidatore

  • Emigrazione e disastri: le origini dei nostri paesi fantasma

    Emigrazione e disastri: le origini dei nostri paesi fantasma

    Con sessanta milioni e duecentomila abitanti censiti, l’Italia è la venticinquesima nazione della Terra per popolazione.
    È ciò che emerge dall’analisi condotta a giugno 2022 da Worldometers.info, sito web dedicato alle statistiche sui più svariati argomenti. Il dato è ricavato dall’esame di duecentoquarantasette Stati del pianeta terracqueo.
    Il Bel Paese però scende in settantaduesima posizione (dati 2018) se si considera esclusivamente la densità, vale a dire la popolazione per chilometri quadrati. Infatti, l’Italia conta circa duecento abitanti ogni chilometro quadrato di territorio.

    Una nazione fatta di paesi

    In questa particolare graduatoria, siamo circondati da Paesi esotici quali Gambia, Saint Kitts e Nevis e Isole Vergini Britanniche (rispettivamente alle posizioni settanta, settantuno e settantatré), assai meno estesi, popolati e conosciuti del nostro.
    Dal dato sulla densità emerge una realtà che spesso tendiamo a dimenticare: l’Italia non è una nazione fatta di città ma una unità politica e territoriale composta, prima di tutto, da una moltitudine di medi, piccoli e piccolissimi centri di provincia.

    Poche le grandi città

    Paesi dalle dimensioni contenute se non modeste, scarsamente abitati. È un nitido riflesso del contesto nazionale in cui solo sei città superano i cinquecentomila abitanti. Cioè, in ordine decrescente: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, stando ai dati Istat 2022.

    Il sogno del progresso nell’Italia degli anni ’60

    Tutto il resto, sono piccoli paesi, con le loro culture, i loro costumi, le loro lingue regionali scorporate in migliaia di dialetti inintelligibili l’uno con l’altro. È un patrimonio straordinario messo però in crisi dal processo di unità linguistica iniziato, sulla carta, con la nascita dello Stato italiano del 1861 realizzato davvero un secolo dopo con la diffusione poderosa e capillare della televisione in tutto il territorio nazionale.

    Dialetti e borghi fantasma

    Come i dialetti – la cui dissoluzione in favore dell’omologazione verbale e culturale del Paese ha compromesso irrimediabilmente i particolarismi linguistici -, anche i paesi hanno preso piano piano a scomparire, a perdere le tipicità, in quei rivoluzionari primi decenni del secondo dopoguerra.
    Fu l’esito di una serie di processi: innanzitutto le rinnovate ondate di emigrazione, sia all’estero sia verso il Settentrione. Ma non si devono sottovalutare i massicci spostamenti interni verso altri centri e nuovi paesi omonimi in costruzione.

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    Un vicolo deserto di Apice Vecchia

    È il fenomeno dei paesi doppi, sosia degli originali abbandonati e destinati a trasformarsi in paesi-presepe. I nuovi centri erano più prossimi al mare e alle moderne infrastrutture: più fertili e salubri, meno soggetti alle catastrofi naturali – eruzioni, smottamenti, alluvioni, terremoti – che per secoli avevano segnato le esistenze di tante comunità.
    Questa emorragia demografica, da cui non ci siamo più ripresi, ha generato i cosiddetti paesi fantasma, cioè, per usare l’espressione dell’antropologo Vito Teti, «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi».

    I “nonluoghi” d’Italia

    In tutto il Paese, ci sono tanti posti dimenticati, a seguito, come detto, della volontà di costruire un futuro migliore altrove – che spesso si traduceva in corse vere e proprie al cieco riscatto sociale e all’emulazione, anticamera dell’incultura – oppure cancellati dalla furia della natura, desiderosa di riprendersi i suoi spazi.
    Non luogo, non più luogo o non ancora luogo: ecco cos’è oggi Rovaiolo Vecchio, borgo dell’Oltrepò Pavese, abbandonato negli anni sessanta.

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    Consonno: le rovine del “Paese dei balocchi”

    I suoi abitanti traversarono l’Avagnone per andare verso quello che credevano il lato giusto della Valle. Stesso discorso per Consonno, l’iperbolico villaggio dei balocchi brianzolo, messo in piedi, sempre nei “miracolosi” anni sessanta, dall’imprenditore Mario Bagno per sostenere l’ideale della società dei consumi dentro cui, allora, gli italiani si lanciavano spensierati e leggiadri come il Tuffatore di Paestum.
    Un sogno rapidamente svanito per trasformarsi in un rudere alla mercé dei graffitari. Così è Apice, nel Sannio, il più grande paese fantasma della Penisola, conosciuto anche come la Pompei del ’900. Idem per la sarda Santa Chiara del Tirso, nata con la sua diga negli anni venti del secolo scorso e arresasi nel giro di qualche decennio al tempo e alla vegetazione.

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    I ruderi di Rovaiolo Vecchio

    Paesi fantasma in Calabria

    Sono luoghi in disfacimento, dimenticati e inghiottiti dalla natura in rivolta. Sono espressione di un’Italia profonda, trapassata o in divenire.
    Come, in Calabria, Cavallerizzo di Cerzeto e Roghudi Vecchio, paesi flagellati dalle frane e inseriti tra i venti borghi abbandonati protagonisti di Atlante dei paesi fantasma, il saggio di Riccardo Finelli uscito di recente dai tipi di Sonzogno.

    Riccardo Finelli, giornalista viaggiatore

    Arricchito delle eleganti illustrazioni di Alessandra Scandella, il volume di Finelli (giornalista e viaggiatore, già autore di altri saggi sulle tracce dell’Italia sconosciuta) ripercorre strade antiche, dimenticate, cancellate dalle cartine e dalla memoria.
    Scivola per gli Appennini e giunge nella Calabria interna, a Roghudi, paese di lingua grecanica della provincia di Reggio.

    Roghudi e l’alluvione killer

    Roghudi è stato angustiato da continue calamità naturali. Quella definitiva è del gennaio 1973: un’alluvione che costrinse i roghudesi a lasciare per sempre il grappolo di case abbarbicate sull’irto ciglione che dà sulla fiumara Amendolea. È uno dei paesi fantasma in Calabria. Qui si mescolano memoria storica e leggenda: le urla dei bambini che nei secoli sono precipitati dallo strapiombo, i canti delle Anarade, maliarde dagli zoccoli di mulo sempre pronte a condurre qualche uomo alla perdizione. Anche le rocce, qui, hanno assunto una conformazione mitica grazie al lavorio delle intemperie: la Rocca tu Draku (Roccia del drago) e le Vastarùcia (Caldaie del latte).

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    La Rocca tu Draku a Roghudi

    La frana di Cavallerizzo

    Più recente l’apocalisse di Cavallerizzo di Cerzeto, centro arbëreshë in provincia di Cosenza. Questa Ghost town è diversa da Roghudi: qui l’abbandono è iniziato soltanto in seguito all’impressionante smottamento del 7 marzo 2005 quando una piccola porzione del centro, costituita per giunta da abitazioni di fresca costruzione, scivolò in un dirupo. L’evento era prevedibile, date le caratteristiche morfologiche del terreno in cui si permise di edificare.
    «La bestia aveva vinto» scrive Finelli con allusione a Madre Natura. Ma la “bestia” aveva anche il volto sia di una classe politica che per anni ha intascato i fondi destinati a fronteggiare il dissesto idrogeologico, sia di chi ha disboscato ad libitum la vegetazione attorno a Cavallerizzo. Adesso è uno dei paesi fantasma in Calabria.

    E se fosse un suicidio?

    Ma qual è il futuro di tali «nonluoghi, non ancora luoghi o non più luoghi? Soprattutto, sta a noi deciderlo? E se invece i luoghi avessero “deciso” di non farcela, di restare nella condizione di sentinelle solitarie di una Italia impresidiata?
    Forse il male minore e accettabile, è essere presi “d’assalto” dagli expat o spatriati, gli emigrati o figli e nipoti di emigrati che ritornano al paese una o due settimane per le feste patronali, in moltissimi casi aggiornate e fatte coincidere con le ferie d’agosto di chi quei paesi ha dovuto o voluto lasciare. Paesi che compaiono e scompaiono, come dietro un verecondo velario.

    Come sopravvivono i deserti

    Ma il paese c’è e non si riduce a quei tre giorni segnati dalla processione per le vie pietrose col santo di cartapesta in spalla, e dalla sagra del peperoncino o del caciocavallo.

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    Santo in processione in una festa patronale

    Il paese c’è e vive, seppur immobile alla percezione umana. «Anche quando non ci sei resta ad aspettarti», diceva Cesare Pavese: vive per i rovi e le piante che abbracciano le dimore e sfondano pavimenti, solai e tetti. Ed esiste per gli animali che danno un senso a quelle pietre, a quelle mura, a quei terreni incolti, a quelle insegne rugginose.
    Il paese chiede di essere vissuto, ma non deturpato e snaturato con musei all’aperto, residenze diffuse per anziani (il nome politicamente corretto degli ospizi), parchi letterari, tali solo sul progetto vergato per mettere le mani sui fondi, e chi più ne ha, ne metta. Il paese non vuole essere prostituito, a fini cinematografici o pubblicitari a questo o quell’altro regista.
    Forse dovremmo chiederci: cosa vuole da noi il paese? E, soprattutto, dopo le nefandezze perpetrategli negli ultimi secoli, siamo sicuri che la domanda sia rivolta proprio a noi?