Categoria: Fatti

  • Junio Valerio Borghese: un golpista piccolo piccolo

    Junio Valerio Borghese: un golpista piccolo piccolo

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    Sporco fascista, golpista, pericolo per la democrazia: questo è Junio Valerio Borghese secondo una lettura molto diffusa, di sicuro maggioritaria.
    Invece, per altri Borghese è stato un grande eroe, coinvolto in giochi di potere pericolosi e spericolati per amor di patria o in seguito a richieste impossibili da rifiutare.
    Ma questa divisione, scontata in un dibattito storico che continua a dividersi tra destra e sinistra (quindi tra ammiratori e detrattori, entrambi a oltranza), non aiuta a rispondere a una domanda.
    Eccola: perché Borghese prese la guida di un golpe che forse lui stesso per primo sapeva impossibile?

    Antefatto: le bombe e le stragi

    Il tentato golpe dell’Immacolata, svoltosi appunto nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970, per alcuni è il primo tentativo di capitalizzare le tensioni sociali che scuotono l’Italia all’inizio di quel decennio.

    Junio Valerio Borghese a Salò

    Il suo antefatto più importante è la strage di piazza Fontana, avvenuta poco meno di un anno prima (12 dicembre 1969). Questa strage fu preceduta e accompagnata da attentati dinamitardi, con e senza vittime, e fu seguita da altri atti eclatanti. In particolare, dalla strage di Peteano, l’unica strage fascista rivolta contro carabinieri e militari, e dalla strage di piazza della Loggia (29 maggio 1974), dopo la quale lo stragismo di destra inizia a declinare.
    A questo punto, è lecita un’altra domanda: perché un golpe così piccolo, tentato con mezzi palesemente insufficienti, di fronte a stragi così crudeli?

    La X Mas tra crimini e ambiguità

    Memento audere semper: questo motto, nato prima del fascismo e prima che Borghese entrasse nel vivo della sua carriera militare, è costato un brutto incidente a Enrico Montesano.
    I guardiani della memoria, anziché storicizzare hanno preferito esasperare gli animi. Tant’è: la leggenda nera della X Mas resiste oltremisura, rafforzata dalla memoria dei feroci rastrellamenti e delle esecuzioni sommarie nel periodo di Salò.

    Questa leggenda impedisce la storicizzazione del principe nero, passato da eroe di guerra a criminale in men che non si dica. E dunque: criminale il Borghese fascista, che fucila partigiani a raffica. Criminale anche l’Oss (Office of Strategic Services, l’antenata della Cia) e il suo capo in Italia, James Jesus Angleton, che salvarono Borghese. Criminali, infine, quei settori deviati dei servizi, civili e militari, che protessero il principe e ne sponsorizzarono il tentativo di golpe.
    Possibile che sia tutto un crimine?

    James Jesus Angleton, capo dell’Oss in Italia e fondatore della Cia

    Tora Tora: Junio Valerio Borghese e Pansa

    La recentissima ristampa di Borghese mi ha detto (Rizzoli, Milano 2022), un vecchio libro intervista di Giampaolo Pansa, consente di aprire uno spiraglio sul golpe.
    Il giornalista piemontese aveva intervistato il principe il 4 dicembre 1970, cioè quattro giorni prima del tentato colpo di Stato. L’intervista uscì su La Stampa il 9 dicembre, cioè ventiquattro ore dopo l’operazione Tora Tora, di cui in quel momento il pubblico non sapeva niente.

    Pansa rimase affascinato dalla lucidità e dalla schiettezza di Borghese, che sembrava tutto tranne che un golpista. Infatti, la notizia del golpe sarebbe emersa il 17 marzo del ’71, grazie a uno scoop di Paese Sera.
    Riavvolgiamo il nastro: possibile che una cosa tanto grave, un pericolo per la democrazia, finisse tanto sottogamba?
    C’è da dire che parecchie avvisaglie di golpe erano già emerse sulla stampa, come ha riscostruito con grande efficacia Fulvio Mazza nel suo Il Golpe Borghese (Pellegrini, Cosenza 2021). E allora: perché Borghese ha potuto agire quasi indisturbato?

    Golpe Borghese: un Putch inconsistente

    Nel golpe Borghese c’era tutto il cattiverio. C’era Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale e il Fronte Nazionale (il partito personale del principe).
    Poi c’erano i Servizi e la P2. Insomma, non mancava nulla per creare il colpevole quasi perfetto: un militare fascista, potenzialmente stragista, i Servizi, per definizione deviati, e ambienti inconfessabili. E non dimentichiamo le mafie.
    Peccato che tutta questa attrezzatura abbia sostenuto un golpe gestito solo da paramilitari di destra, un pugno di poliziotti, nemmeno cinquecento carabinieri più il vecchio Corpo forestale dello Stato.

    C’è una cosa corretta sul golpe Borghese: non fu un conato neofascista ma un tentativo di destabilizzazione atlantista, a cui Borghese si prestò. Ergo: al principe andava bene roba sul modello portoghese, cileno o greco. Nulla di più.
    Il principe non era un rivoluzionario nero ma un uomo d’ordine e un anticomunista sfegatato. E questo spiega sia la gestione di un golpe rientrato alle battute iniziali sia i legami più o meno inconfessabili, per i fascisti e per gli antifascisti.

    Borghese e Licio Gelli: una relazione pericolosa

    Iniziamo dalla cosa più pornografica per una certa mentalità politicamente corretta: i rapporti tra il principe e il venerabile della P2.
    È noto che Gelli riuscì ad accreditarsi come campione dell’atlantismo. Più complicato il discorso per Junio Valerio Borghese. Tuttavia, sulla base dei documenti disponibili, ci sono alcune certezze.
    Le espongono Jack Greene e Alessandro Massignano ne Il principe nero (Mondadori, Milano 2008): Borghese non fu un piduista ma era vicino a Gelli, che lo aveva favorito in momenti di crisi finanziaria. Ancora: sia gli ambienti dei Servizi sia gli extraparlamentari di destra erano infiltrati o condizionati dalla P2.

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    Licio Gelli

    Il tutto ha un corollario: di Gelli si può mettere in discussione ogni cosa, tranne l’atlantismo. Quanto bastava a creare una comunione d’interessi col principe.

    Borghese e la resistenza

    Col principe nessuno era al sicuro: neppure i partigiani.
    C’è una differenza fondamentale tra la Decima di Borghese e le milizie di Salò: la prima era un corpo autonomo, con uno statuto simile alla Legione Straniera; le altre un tentativo di creare un esercito regolare.
    Questa differenza fu riconosciuta dalle corti militari del dopoguerra, che trattarono meglio i militi della X Mas rispetto agli altri repubblichini. Ma la apprezzarono anche i comandi e l’intelligence alleati, che negoziavano sottobanco più con Borghese che col resto della Rsi. Inoltre, la apprezzarono i vertici delle brigate partigiane Osoppo, cioè i partigiani bianchi, che temevano e detestavano i “garibaldini”, cioè i partigiani comunisti.

    Due studiosi di vaglia, Giacomo Pacini e Giuseppe Parlato concordano su un punto: a partire dalla fine del ’44 ci furono abboccamenti tra la Decima e la Osoppo per concordare un’azione comune contro i partigiani di Tito. La proposta, avanzata dai partigiani fu fatta cadere. Non per l’antifascismo ma perché i seguaci di Borghese erano praticamente bolliti, dopo oltre un anno di guerra civile.
    Ancora: Pacini parla della vicinanza, nell’immediato dopoguerra tra vari reduci della Decima e gli ex partigiani bianchi. E allude alla possibile militanza di alcuni ex marò in Gladio, che era comunque una struttura di ex partigiani.

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    Partigiani della brigata Osoppo

    Borghese e Israele

    È il capitolo più piccante della vicenda.
    Tuttavia, ci sono dei dati certi sui rapporti tra Borghese e i gruppi da cui sarebbe sorto lo Stato di Israele. A dispetto di tutto quel che era capitato prima, leggi razziali incluse.
    Il partito di punta del movimento sionista era l’Irgun Zvai Leumi, un gruppo di estrema destra, che in Italia s’intese alla perfezione coi leader del nascente neofascismo (tra questi, Pino Romualdi) in nome dell’odio comune verso la Gran Bretagna.

    Borghese contribuì a modo suo: mise in contatto i rappresentanti dell’Irgun col suo braccio destro Nino Buttazzoni, che nel ’46 era latitante in Vaticano.
    Quest’ultimo, che non poteva esporsi, convinse i sionisti a ingaggiare due ex marò per addestrare gli incursori della futura Marina israeliana e impiegarli in funzione antibritannica. Dio stramaledica gli inglesi? Lo dicevano i fascisti, ma gli ebrei erano d’accordo. Non a caso, il corpo degli incursori della Marina israeliana si chiama XIII flottiglia. Manca solo Mas.

    Borghese e la Calabria

    Durante il maxiprocesso a Cosa Nostra, Luciano Liggio parlò dei suoi colloqui con Borghese in occasione dei preparativi del golpe. Le coppole siciliane, per bocca sua, declinarono l’invito.
    Molti picciotti calabresi, invece, l’accolsero. Almeno fu così per il clan De Stefano.
    Mafia o meno, occorre ricordare che Borghese era di casa in Calabria, grazie anche ai buoni uffici di Maria de Seta, la moglie di un altro principe nero: Valerio Pignatelli di Cerchiara, leader della resistenza fascista al Sud.
    I rapporti con la ’ndrangheta, di cui all’epoca non si percepiva la pericolosità, erano una conseguenza.

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    I funerali di Junio Valerio Borghese

    Per concludere

    I rapporti di Borghese con un certo estabilishment atlantista sono storicamente accertati.
    Il principe era stimato dai britannici, a cui aveva dato filo da torcere in guerra, era apprezzato dagli americani e dagli israeliani. E Gelli lo teneva in considerazione. Insomma, era l’ideale pedina anticomunista.
    C’è da dire che Borghese interpretò il ruolo alla grande. Anche nella curiosa ritirata finale. Cioè nel contrordine dato quando il golpe stava per entrare nel vivo.
    Al riguardo, in tanti evocano complotti. Ma forse la verità è più semplice, come racconta Miguel Gotor nel suo recentissimo Generazione Settanta (Einaudi, Torino 2022).
    Borghese aveva intuito che il golpe avrebbe potuto avere una sola riuscita: spaventare l’opinione pubblica e propiziare un governo autoritario di destra, che tuttavia, per prima cosa avrebbe represso proprio i “camerati”.

    Il dietrofront sarebbe dovuto essenzialmente a questa preoccupazione.
    Certo, se le cose stanno così, non serviva uno storico stellare come Gotor. Ma basta un regista geniale come Mario Monicelli, che nel suo Vogliamo i colonnelli (1973) racconta più o meno la stessa cosa.
    Già: non c’è nulla di meglio di una commedia, per raccontare il golpe da operetta di un ex eroe in declino…

     

     

     

  • Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

    Golpe Borghese: massoni, Servizi e ‘ndrangheta nella notte della Repubblica

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    Per qualcuno, una delle pagine più oscure della storia della Repubblica. Per altri, invece, un’adunanza di nostalgici, che mai avrebbe potuto prendere il potere. Si dibatte ancora, a distanza di 52 anni, sul tentato golpe Borghese. E tante sono, ancora oggi, le zone d’ombra su un’azione che aveva come proprio centro nevralgico la Calabria.

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    Il “Principe Nero” Junio Valerio Borghese molti anni prima del tentato golpe

    Il Golpe dell’Immacolata

    Un ex gerarca fascista, pezzi di destra eversiva, la P2 di Licio Gelli, pezzi di ‘ndrangheta. Una commistione di realtà e di interessi che, a metà tra storia e mito, rende il racconto ancor più inquietante. Quel progetto eversivo sarebbe dovuto scattare nella notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970. E si incastra in un momento di enorme cambiamento nelle dinamiche della ‘ndrangheta.

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    Ciccio Franco, uno dei protagonisti della Rivolta di Reggio

    Il primo triennio del 1970 è quindi decisivo, perché, con la rivolta di Reggio Calabria, nata, in maniera del tutto naturale, a causa della decisione politica di assegnare il capoluogo della regione a Catanzaro, le cosche riescono a entrare in contatto anche con diversi membri della Destra eversiva. Secondo molti collaboratori di giustizia, infatti, al fallito golpe, messo in atto da Junio Valerio Borghese, nel dicembre 1970, avrebbero preso parte anche centinaia di affiliati alle cosche.

    Un uomo da romanzo, il “principe nero”. Ex comandante della Decima Mas, fiero e carismatico avrebbe tentato di mettere in atto l’ultimo colpo d’ala di una vita avventurosa. Sfruttando, peraltro, il periodo che viveva la Calabria. Esattamente in quegli anni, infatti nasce la Santa, la ’ndrangheta lega il proprio destino alla massoneria. Un legame che è proseguito negli anni e che è ben stretto ancora oggi.

    Un sentiero che porta a Montalto, nel cuore dell’Aspromonte

    Il summit di Montalto

    Tutto affonda nel summit di Montalto del 26 ottobre 1969. In quell’incontro, nel cuore dell’Aspromonte, l’anziano patriarca Peppe Zappia ammonisce sulla necessità della ‘ndrangheta di organizzarsi, di essere unita. «Non c’è ’ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ’ndrangheta di ’Ntoni Macrì, non c’è ’ndrangheta di Peppe Nirta», dovrà tuonare nel corso della riunione. Si discute di strategie, si discute di equilibri, si discute dell’alleanza con la Destra eversiva. Quella di Junio Valerio Borghese. Ma anche di Stefano Delle Chiaie, uomo forte di Avanguardia Nazionale. Legami, quelli tra le cosche calabresi e la destra eversiva, che si protrarranno per anni, fino ai rapporti tra la cosca De Stefano e Franco Freda.

    Stefano Delle Chiaie in un’aula di tribunale durante uno dei tanti processi che lo hanno visto coinvolto

    Le divergenze tra i clan scaturiranno, invece, negli anni Settanta, nella prima guerra di mafia, in cui cadranno, tra gli altri, don ’Ntoni Macrì, e don Mico Tripodo (ucciso nel carcere di Poggioreale), oltre ai fratelli Giovanni e Giorgio De Stefano, che fanno parte, però, della “nuova mafia”. Del nuovo che avanza, appunto.

    La ‘ndrangheta e le mafie in generale sarebbero dovute essere l’esercito di Borghese. Di contatti fra elementi mafiosi ed emissari di Junio Valerio Borghese parla anche il boss siciliano Luciano Liggio nel corso di una udienza svoltasi il 21 aprile 1986 dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria. Liggio racconterà di una riunione che si era tenuta a Catania con la presenza di Salvatore Greco, Tommaso Buscetta e dello stesso Liggio per discutere in merito all’adesione al golpe.

    Il piano per il Golpe Borghese

    Proprio i De Stefano e i Piromalli – le due cosche che, più delle altre, sarebbero artefici dell’ingresso della ‘ndrangheta nella massoneria – sarebbero state le famiglie calabresi più impegnate a favore del progetto di Borghese. A un nucleo speciale coordinato da Gelli sarebbe stato affidato il compito di rapire il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.

    Il particolare emerge dalla sentenza-ordinanza emessa dal giudice di Milano, Guido Salvini. «Si trattava di un compito primario sul piano operativo e istituzionale nell’ambito del progetto di golpe e non è un caso che tale incarico fosse affidato ad un uomo del livello di Gelli, che godeva di molteplici, e allora ancora nascosti, contatti con i Servizi Segreti, l’Esercito, l’Arma dei Carabinieri e forse con Centrali internazionali» – si legge nel documento.

    La presa del potere

    «Italiani, l’auspicata svolta politica, il lungamente atteso colpo di stato ha avuto luogo. La formula politica che per un venticinquennio ci ha governato, e ha portato l’Italia sull’orlo dello sfacelo economico e morale ha cessato di esistere. Nelle prossime ore, con successivi bollettini, vi saranno indicati i provvedimenti più importanti ed idonei a fronteggiare gli attuali squilibri della Nazione. Le forze armate, le forze dell’ordine, gli uomini più competenti e rappresentativi della nazione sono con noi; mentre, d’altro canto, possiamo assicurarvi che gli avversari più pericolosi, quelli che per intendersi, volevano asservire la patria allo straniero, sono stati resi inoffensivi. Italiani, lo stato che creeremo sarà un’Italia senza aggettivi né colori politici. Essa avrà una sola bandiera. Il nostro glorioso tricolore! Soldati di terra, di mare e dell’aria, Forze dell’Ordine, a voi affidiamo la difesa della Patria e il ristabilimento dell’ordine interno. Non saranno promulgate leggi speciali né verranno istituiti tribunali speciali, vi chiediamo solo di far rispettare le leggi vigenti. Da questo momento nessuno potrà impunemente deridervi, offendervi, ferirvi nello spirito e nel corpo, uccidervi. Nel riconsegnare nelle vostre mani il glorioso tricolore, vi invitiamo a gridare il nostro prorompente inno all’amore: Italia, Italia, viva l’Italia!»

    Con queste parole, l’ex comandante della X Mas avrebbe dovuto salutare la presa del potere. Non un progetto fantasioso di arzilli nostalgici del Ventennio, ma un piano studiato nei minimi particolari in accordo con diversi vertici militari e membri dei Ministeri. Il golpe del Principe nero prevedeva l’occupazione del Ministero dell’Interno, del Ministero della Difesa, delle sedi Rai e dei mezzi di telecomunicazione (radio e telefoni) e la deportazione degli oppositori presenti nel Parlamento.

    Le dichiarazioni dei pentiti

    Tra i primi a riferire, nel 1992, dei legami tra ’ndrangheta e Destra eversiva per il tentato golpe Borghese è il collaboratore di giustizia Giacomo Lauro. Dichiara anche che nell’estate del 1970 avvenne un incontro a Reggio Calabria tra i capibastone dei De Stefano (Paolo e Giorgio) e il principe Borghese attraverso l’avvocato ed ex parlamentare Paolo Romeo (secondo il collaboratore, ’ndranghetista ed esponente di Avanguardia Nazionale) per discutere sul colpo di stato.

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    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985

    Le sue dichiarazioni sono contenute nella sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, sulle attività della Destra eversiva. Nello stesso procedimento figuravano, tra gli altri, proprio Stefano Delle Chiaie e Licio Gelli: «[…] Più volte alla ’ndrangheta fu richiesto di aiutare i disegni eversivi portati avanti da ambienti della Destra extraparlamentare fra cui Junio Valerio Borghese; il tramite di queste proposte era sempre l’avvocato Paolo Romeo. I De Stefano erano favorevoli a questo disegno e in particolare al programmato golpe Borghese».

    A parlarne è anche l’ex estremista nero, Vincenzo Vinciguerra: «La mobilitazione avvenne nella provincia di Reggio Calabria e si trattava di un gran numero di uomini armati. Anche in Calabria venne fatto riferimento, da persona che non intendo nominare, alla possibilità di mobilitare 4000 uomini sempre appartenenti alla ’ndrangheta ove la situazione politica lo richiedesse».

    Gli appartenenti alla ’ndrangheta, armati e mobilitati per l’occasione sull’Aspromonte, erano stati messi a disposizione dal vecchio boss Giuseppe Nirta, estimatore di Stefano Delle Chiaie il quale era in grado, secondo lui, di «ristabilire l’ordine nel Paese». Sul punto, anche il collaboratore Serpa ricorda come il summit di Montalto, dell’ottobre del 1969, dovesse servire per trovare un accordo tra i clan e il principe Borghese: «A Montalto doveva essere sancita l’alleanza tra l’organizzazione mafiosa calabrese e il gruppo eversivo di destra presente allo stesso summit e guidato dal principe Borghese».

    Golpe Borghese, salta tutto

    Il golpe sarà però annullato per motivi ancora oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, oscuri. Con l’avvio delle indagini Borghese fuggirà in Spagna, dove morirà nel 1974. I procedimenti imbastiti, tuttavia, finiranno con un nulla di fatto. Piuttosto accreditati, ma non provati, i coinvolgimenti sia dei Servizi segreti italiani, in particolare il Sid (Servizio Informazioni Difesa), sia della Cia americana. Un progetto che avrebbe visto un inquietante connubio tra destra eversiva, Servizi segreti, massoneria deviata (la P2 di Licio Gelli) e criminalità organizzata.

    Paolo De Stefano, boss della omonima famiglia prima di essere ucciso nel 1985
    Licio Gelli, è stato il capo della P2

    Da ultimo, sul punto, il racconto di Carmine Dominici, ex appartenente ad Avanguardia Nazionale e in quegli anni molto vicino proprio a Delle Chiaie. Quando decide di collaborare con la giustizia, Dominici parla del ruolo che l’organizzazione estremista avrebbe avuto in alcune delle vicende più oscure della storia d’Italia, tra cui la strage di piazza Fontana. Parla anche del golpe progettato da Junio Valerio Borghese. E racconta delle grandi manovre gestite, in quel periodo, dal marchese Fefè Genoese Zerbi, che era il referente di Avanguardia Nazionale sul territorio:

    «[…] Anche a Reggio Calabria eravamo in piedi tutti pronti per dare il nostro contributo. Zerbi disse che aveva ricevuto delle divise dei Carabinieri e che saremmo intervenuti in pattuglia con loro, anche in relazione alla necessità di arrestare avversari politici che facevano parte di certe liste che erano state preparate. Restammo mobilitati fin quasi alle due di notte, ma poi ci dissero di andare tutti a casa. Il contrordine a livello di Reggio Calabria venne da Zerbi».

  • Intercettazioni, la Riforma Nordio piace a Occhiuto

    Intercettazioni, la Riforma Nordio piace a Occhiuto

    «Questo è il primo governo di centrodestra dopo tanti anni, con un magistrato ministro della Giustizia. Giudico positivamente il fatto che Nordio abbia avuto il coraggio di proporre certi temi, forse partendo da una posizione che è più favorevole a fare le riforme, proprio perché è un magistrato che è stato in trincea». Sono parole espresse da Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria, intervenuto oggi a “Tg1 Mattina” su Rai 1.

    «Abuso delle intercettazioni»

    «Nordio, ad esempio – ha sottolineato Roberto Occhiuto – è ancora più credibile quando dice che a volte c’è stato un abuso delle intercettazioni. Le intercettazioni sono uno straordinario strumento d’indagine. Lo dico io che governo una Regione nella quale è importante non avere alcun cedimento nell’attività di contrasto ai poteri criminali, ma a volte le intercettazioni sono diventate uno strumento di lotta politica».

    Giudici e azione penale

    «La separazione delle carriere – ha affermato Occhiuto – è un altro punto che Forza Italia ha sempre evocato come necessario per riformare il sistema della giustizia. Così come l’obbligatorietà dell’azione penale: se i magistrati sono bravi hanno la possibilità di stabilire quali attività vadano perseguite e quali no. Probabilmente queste riforme non sono state ancora fatte perché da tanti anni non c’è un governo con una maggioranza coesa come quella attuale. Questo è un governo che ha una maggioranza politica che in Italia non vedevamo dal 2011. Quindi, probabilmente questo esecutivo è nella condizione di fare ciò che governi con coalizione più larghe, che paradossalmente nascevano per realizzare cose più coraggiose, non sono riusciti fare».

  • Muffa e sporcizia in un ristorante: sequestrati 700 kg di alimenti nel Reggino

    Muffa e sporcizia in un ristorante: sequestrati 700 kg di alimenti nel Reggino

    Sequestrati a Rosarno 700 chili di carne, salumi e preparati vari privi di tracciabilità e conservati in locali privi di qualsiasi requisito igienico sanitario.

    Nel comune di Rosarno, infatti, un ristorante è stato sottoposto ad ispezione da parte dei carabinieri del Nas, dalla quale sono emerse, secondo l’accusa, delle gravi criticità igienico sanitarie, quali muffa e sporcizia diffusi in depositi e laboratori per la preparazione di alimenti, risultati anche abusivi.

    Ciò ha reso necessario l’immediato intervento del personale dell’Asp-dipartimento di prevenzione, che ha disposto l’immediata sospensione dell’attività. Nel corso delle operazioni inoltre è stata accertata la presenza di un dipendente privo di regolare contratto lavorativo, la mancanza di sorveglianza sanitaria, l’omessa formazione dei lavoratori e mancati adempimenti per la sicurezza sui luoghi di lavoro. Sono state quindi contestate sanzioni per un importo complessivo di 33mila euro. Al termine degli accertamenti gli alimenti dovranno essere distrutti da una ditta specializzata.
    L’operazione è stata condotta dai carabinieri del Nas di Reggio Calabria insieme ai militari del Nucleo Ispettorato Lavoro del capoluogo reggino e in collaborazione con la Tenenza di Rosarno.

  • Calabrone è il nuovo segretario della Fiom Cgil Calabria

    Calabrone è il nuovo segretario della Fiom Cgil Calabria

    Umberto Calabrone è il nuovo segretario della Fiom Cgil della Calabria. Prende il posto di Massimo Covello. Calabrone sarà ufficialmente ancora segretario della Cgil di Cosenza fino al prossimo 20 dicembre.
    «Ho affrontato più volte giornate come quella di oggi, anche con molte più tensione, ma le forti emozioni che mi hanno trasmesso le compagne e i compagni della Fiom rimarranno per sempre nel mio cuore e nella mia testa». Sono parole espresse dal segretario Calabrone in un post sulla sua pagina Facebook.
    «Un grazie particolare a Massimo Covello – ha scritto Calabrone – per il grande lavoro svolto e per il sostegno che mi ha sempre dato».

  • L’Antitrust frena ancora Caronte: basta monopoli sullo Stretto

    L’Antitrust frena ancora Caronte: basta monopoli sullo Stretto

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    Già nella primavera scorsa l’Antitrust aveva comminato una sanzione da 3,7 milioni di euro alla compagnia Caronte & Tourist. Il motivo? La società di navigazione, in posizione di assoluta dominanza nel traghettamento passeggeri con auto al seguito sullo stretto di Messina, aveva sfruttato il suo potere di mercato per applicare prezzi ingiustificatamente alti e gravosi per i consumatori.

    Ora per la Caronte arriva un’altra tegola e sempre da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Tutto nasce da una richiesta di concessione demaniale marittima per la realizzazione di un nuovo sistema di approdo per il collegamento Reggio Calabria-Messina. L’Autorità di sistema portuale dello Stretto a luglio scorso aveva, infatti, formulato una richiesta di parere all’Antitrust, sul diniego, già opposto, alla richiesta della compagnia di navigazione. E ieri (5 dicembre) ha pubblicato le motivazioni alla base della decisione.

    Stretto di Messina, un nuovo caso Caronte per l’Antitrust

    L’Agcm, in pratica, consiglia di fare bandi di gara ad evidenza pubblica per le concessioni e la scelta dell’affidatario, invece di decidere solo sulla base delle richieste del soggetto interessato, in questo caso Caronte. L’Autorità ritiene, infatti, che solo l’utilizzo di adeguate procedure di confronto competitivo, attivate su impulso delle stesse autorità portuali, siano in grado di offrire due garanzie. La prima è la necessaria coerenza del contenuto della concessione con la pianificazione strategica effettuata a livello nazionale o di singole Autorità portuali. La seconda, l’affidamento della stessa concessione al soggetto che sia maggiormente in grado di utilizzarla nel rispetto dell’interesse pubblico.

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    Si legge chiaramente nel parere dell’Antitrust: «Al fine di ridurre al minimo la discrezionalità delle autorità portuali, massimizzando invece il grado di trasparenza e di equità della decisione, il processo di selezione dei concessionari non dovrebbe prendere le mosse esclusivamente dall’istanza del soggetto interessato, come avvenuto invece nella presente circostanza, ma con un bando e in una procedura ad evidenza pubblica. In tale prospettiva sarebbe opportuno evitare di rilasciare la concessione a soggetti verticalmente integrati nella fase di erogazione dei servizi di trasporto passeggeri o merci, in modo da consentire una fruibilità il più possibile ampia delle infrastrutture realizzate da parte di tutti i soggetti interessati».

    Più trasparenza, meno monopoli

    L’Agcm consiglia anche di inserire clausole nei bandi di gara per garantire che nella gestione del nuovo molo di attracco di Reggio Calabria tutti i servizi per le attività di traghettamento vengano erogati dal concessionario. Sia in autoproduzione, sia in favore di altri operatori che dovessero richiederle (la cosiddetta “clausola multivettore”). Trasparenza massima, equità e pluralità per coinvolgere più ditte ed evitare monopoli, quindi. Più in generale, infatti, la compagnia Caronte, sempre secondo l’Antitrust, gode già di un’assoluta leadership sullo Stretto. Trasporta il 75-80% circa di passeggeri, il 90-95% di automobili e il 60-65% di mezzi pesanti.

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    Mezzi in coda per imbarcarsi a Messina

    Infine, il parere sulla richiesta delle nuova concessione prescinde, ovviamente, dall’eventuale sussistenza di ulteriori e diversi motivi ostativi al rilascio della concessione stessa, che dovessero derivare da ordini di considerazioni di natura non concorrenziale, quali ad esempio l’incompatibilità delle istanze presentate con i vincoli ambientali e urbanistici esistenti o altro.
    «L’Autorità – conclude la delibera dell’Agcm – auspica che le osservazioni sopra svolte possano essere tenute in adeguata considerazione da parte dell’Amministrazione richiedente».
    Solo nelle prossime settimane si potrà comprendere come proseguirà la vicenda.

  • Cosa succede all’interno delle carceri reggine?

    Cosa succede all’interno delle carceri reggine?

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    «La vita carceraria fa vedere le persone e le cose come sono in realtà. Per questo ci si trasforma in pietra», scriveva Oscar Wilde. Vale per i detenuti, certamente. Ma vale anche per chi, a vario titolo, svolge un ruolo nell’amministrazione penitenziaria. E ciò che, negli ultimi mesi, è emerso e sta emergendo sugli istituti penitenziari di Reggio Calabria è a dir poco inquietante.

    La ‘ndrangheta dietro le sbarre del carcere di Reggio

    Due le strutture del capoluogo dello Stretto. La prima è lo storico edificio di San Pietro, che oggi ospita i detenuti di alta sicurezza e coloro i quali stanno scontando la propria pena definitiva. Negli anni, quel carcere che costeggia il torrente Calopinace ha ospitato i boss più importanti della ‘ndrangheta.

    Lì viene anche ucciso Pasquale Libri, figlio naturale del superboss don Mico Libri. È il 19 settembre del 1988, quando viene freddato con un colpo di fucile di precisione all’interno del carcere di Reggio Calabria.
    I sicari si appostano sul terrazzo di uno stabile in costruzione, sito tra via Carcere Nuovo e vico Furnari, in un luogo che si affaccia sul cortile della sezione “Cellulare” dell’istituto penitenziario di San Pietro. La vittima viene raggiunta in pieno viso, esattamente all’altezza della narice sinistra, da un proiettile, non appena discesi i gradini d’ingresso al cortile esterno.

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    Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri

    Le indagini riconducono immediatamente la causale dell’omicidio alla guerra di mafia all’epoca in corso tra le cosche reggine. Autore del delitto, su ordine di Pasquale Condello, il “Supremo”, sarebbe stato Giuseppe Lombardo (poi divenuto collaboratore di giustizia), detto “Cavallino” per l’attitudine sinistra di inseguire e finire le proprie vittime.

    Il caso Saladino: morire in infermeria a 29 anni

    Di più recente costruzione la casa circondariale di Arghillà, che sorge nel quartiere degradato a nord della città. Ospita una popolazione molto più ampia di detenuti, essendo destinata a quelli di media sicurezza. E lì, in quelle celle – forni in estate e freezer in inverno – che muore il giovane Antonio Saladino, ristretto in custodia cautelare. È il 18 marzo 2018.

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    Antonio Saladino, morto a 29 anni nel carcere di Reggio Calabria

    Un decesso, ancora oggi, avvolto nel mistero. Saladino, stando alle testimonianze rese dai compagni di cella, accusava già da parecchi giorni malessere e disturbi fisici culminati in un tragico epilogo: la morte del detenuto, a soli 29 anni, nell’infermeria del carcere.

    A distanza di quasi quattro anni da quella vicenda, l’inchiesta non ha ancora chiarito alcunché. L’ultimo passaggio, a settembre scorso, quando il Gip ha rigettato la seconda richiesta di archiviazione da parte della Procura della Repubblica, disponendo ulteriori accertamenti.

    L’ex direttrice e i presunti favori ai detenuti

    È invece attualmente a processo l’ex direttrice delle due carceri, Maria Carmela Longo, coinvolta in un’inchiesta per presunti favori ai detenuti. L’arresto per lei è a arrivato nell’estate 2020 con l’accusa di concorso esterno con la ‘ndrangheta. Questo perché l’allora direttrice avrebbe favorito anche esponenti di spicco delle cosche reggine. In questo modo «concorreva – è scritto nel capo di imputazione – al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico».
    Per i pm, all’interno del carcere di Reggio Calabria c’era «una sistematica violazione delle norme dell’ordinamento penitenziario e delle circolari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria».

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    Maria Carmela Longo, la direttrice dei penitenziari reggini sotto accusa

    Tra i detenuti che sarebbero stati favoriti dall’ex direttrice del carcere anche l’avvocato Paolo Romeo, ex parlamentare condannato poi nel processo “Gotha”. Ma anche affiliati alle famiglie mafiose reggine e della provincia come Cosimo Alvaro, Maurizio Cortese, Michele Crudo, Domenico Bellocco, Giovanni Battista Cacciola e altri.
    Nel blitz, furono coinvolti anche alcuni agenti penitenziari, poi scagionati successivamente. Nel processo, insieme all’ex direttrice, solo il medico del carcere di San Pietro.

    I pestaggi in carcere a Reggio

    Ma il vero bubbone, circa le condotte che si sarebbero perpetrate dietro le mura carcerarie, è scoppiato appena pochi giorni fa, con l’arresto di alcune guardie penitenziarie, tra cui il comandante del Corpo presso la casa circondariale, per il presunto pestaggio di un detenuto napoletano, avvenuto proprio nel giorno della visita in città dell’allora ministro della Giustizia, Marta Cartabia.

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    L’ex ministro Marta Cartabia

    Gli agenti coinvolti rispondono, a vario titolo, di tortura e lesioni personali aggravate, ma anche di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, omissione d’atti d’ufficio, calunnia e tentata concussione. Arresti arrivati a quasi un anno dall’accaduto. I fatti risalgono infatti al 22 gennaio 2022, quando gli agenti avrebbero sedato con immane violenza la protesta del detenuto che non voleva far rientro nella propria cella.

    E così, senza alcuna determinazione del direttore del carcere, avrebbero condotto l’uomo in una cella di isolamento, dove sarebbe scattato il pestaggio, unito a violenze psicologiche di vario tipo. L’uomo sarebbe stato colpito con i manganelli in dotazione di reparto, ma anche con dei pugni, facendolo spogliare e lasciandolo semi nudo per oltre due ore nella cella ove era stato condotto.

    Il sistema di omertà

    Luogo chiuso ermeticamente, il carcere. Come ovvio, verrebbe da dire. Ma la chiusura, in taluni casi, rischia di sfiorare e superare il livello dell’omertà. Impalpabile, fin qui, il contributo fornito dalla politica, anche quella maggiormente attenta alle dinamiche carcerarie, come l’ala radicale. Inconsistente l’apporto dei vari garanti, regionale e locale. Difficile, quasi impossibile, ottenere informazioni il più possibile vicine alla realtà su quello che accade in quei luoghi, che si reggono su sottili equilibri.

    Equilibri tra detenuti, evidentemente. Ma anche tra personale sanitario e, ovviamente, polizia penitenziaria. Un turbine incontrollato e incontrollabile di notizie e di rumors, in cui la fuoriuscita o meno di qualche notizia somiglia assai spesso a un tentativo di colpire la “banda” rivale. Per coprire il presunto pestaggio, ed evitare conseguenze per una eventuale denuncia da parte del detenuto, il Comandante del Reparto, avrebbe poi redatto una serie di atti (relazione di servizio, comunicazione di notizie di reato ed informative al Direttore del carcere).

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    Nessuno ha invece scalfito minimamente il muro del silenzio. Solo le denunce dei familiari del detenuto, infatti, unite all’osservazione delle telecamere, hanno potuto aprire uno squarcio di luce (ancora tutto da dipanare totalmente) su quanto accade in quei luoghi. Gli stessi che, stando a quanto ci insegna la Costituzione, dovrebbero essere deputati alla rieducazione dei detenuti. Dove, invece tutto si mostra come è in realtà. E come scriveva Oscar Wilde, si diventa pietra.

  • Nassim Mendil: hybris, dribbling e il gran rifiuto

    Nassim Mendil: hybris, dribbling e il gran rifiuto

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    I fantasmi del 1428 sono i figli di quelli del 2022: ora la peste, ora la guerra, ora le religioni usate per togliere libertà agli altri. Magica Corsica, mina del Mediterraneo, durezza ispida e fierezza gravida. I pescatori di Bastia guardano all’Italia, quelli di Ajaccio alla Francia. Mari pescosi. E in quel 1428 due marinai dappoco trovarono un prodigio grande: un crocifisso nero, poco oltre la costa. Segno che gli isolani del mare nostrum si conoscono tutti: i mori e i biondi, i musulmani che leggono Gesù nel Corano, gli ebrei convertiti al Dio Trinitario, gli slavi esperti di corde e chiodi, i bestemmiatori che fedeli alla legge del mare salvano ancora anime di tutti i credi, compreso il più arduo di tutti che è quello per l’uomo.

    Nassim Mendil dalla Corsica all’Irpinia

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    Nassim Mendil ai tempi di Avellino

    A fine anni Novanta, esordisce lì a Bastia uno smilzo e tonico franco-algerino di provincia, provenzale di nascita e maghrebino di cultura. Si muove, sbotta, dribbla; nei periodi di forma è appuntito, in quelli di stanca, tra giovanili e tanta panchina e tribuna, appare gracile. Diagnosi da osteopata: deve farsi le ossa. E Nassim Mendil approda ad Avellino a inizio millennio, una big della C che all’epoca tutti pensano possa svezzare il ragazzo molto più di ogni cadetteria francese.

    Fa anche il suo, seppure ancora pochino: più continuità fisico-atletica, i primi goal, l’abbozzo della ricerca in un ruolo più preciso sul campo. Fine stagione, rotta Lecco: la provincia disabituata al calcio dopo una piazza tipicamente meridionale, quanto a pressioni, attaccamento, agonismo, sembrerebbe la pietra tombale. Non uno slancio, ma una definitiva dispersione. In otto gare, Mendil dimostra che tutto sommato c’è, che non ha senso languire ancora nel calcio di terza serie, che un biglietto di sola andata per un salto di categoria sa e può meritarlo.

    Cosenza sulle montagne russe

    E allora eccolo lì: 2001/2002, Cosenza Calcio. Squadra bella e strana il Cosenza di fine Novanta, inizio anni Zero, squadra di quando s’era più giovani. Squadra per sempre. Dal ritorno in serie B, a un anno appena dalle lacrime di Padova e con Marulla che sembrava una volta di più il Dioscuro degli spareggi salvezza, fino al fallimento, al Crati si faranno cinque stagioni sulle montagne russe. Una farsa l’ultima, un travaglio la prima (ingresso sprint, che dalla trasferta al Delle Alpi in poi si avvita in una salvezza stentata), tre onorevolissimi campionati in mezzo. Per larghe fatte di campionato tra le prime, poi pareggi, pareggi, pareggi e piazzamenti e prestazioni che però si rimpiangono soprattutto oggi, quando la salvezza low cost anno per anno è il piatto in tavola. Si mangia, sì, senza troppo piacere né appetito.

    Nassim Mendil idolo all’improvviso

    A Cosenza, in ogni caso, c’è il miglior Mendil di una carriera di circa quindici anni: dieci reti, falcate, pallonetti, diagonali, tocchi sotto misura da due passi, persino qualche veronica e stacchi di testa. Normale che il ragazzo, dopo una lunga incubazione, si senta pronto per il gran salto, se si concede di dribblare un portiere prima di insaccare o se indifferentemente muove novanta minuti dalla fascia al centro e viceversa.

    Gli arriva persino la chiamata dalla nazionale maggiore algerina, all’epoca allenata dal vecchio fantasista di casa, Madjer, tra i migliori giocatori africani di sempre. In grado col Porto, dalla metà degli anni Ottanta ai primi Novanta, di vincere tutto: Coppa dei Campioni, Intercontinentale, campionati. Altro bello spirito libero, col carniere pieno di goal di tacco, calci di punizione, e coppa d’Africa levata al cielo, proprio ad Algeri, nel 1990. Baggio, Vialli, Berti, Mancini, Giannini e gli altri piedi buoni azzurri degli anni Novanta mancarono omologa impresa a Roma, ai Mondiali, pochi mesi dopo; beffati da un serafico Goicoechea e da un invecchiato quanto ribaldo Maradona, nel catino del San Paolo.

    Il gran rifiuto

    Mendil rifiuta: il ragazzo vorrebbe le giovanili francesi e poi giocarsi un posto tra i Blues, freschi campioni del mondo e d’Europa, prima di essere accappottati nel mondiale nippocoreano del 2002. È l’inizio della fine? Forse che si, forse che no: D’Annunzio docet. E il nostro riparte con una girandola bella a metà: Reggina, Catania, Spezia, Ascoli, Salernitana. Altro che Coupe du Monde!

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    1998, Zinedine Zidane alza la coppa Rimet, la Francia ha appena vinto il Mondiale in casa

    Intanto, però, prima dei titoli di coda rivediamo ancora il bel Mendil di Cosenza in qualche spiraglio anconetano, nella patria del Collettivo e della Curva Nord. Una promozione dalla C2, una sofferta quanto meritata salvezza l’anno dopo. Infine, dilettantismo ancora, ormai più (ri)partenze che false partenze. Peccato. Ci piace pensarlo intorno allo stagno di Rognac, dove ci fu una colonia ligure e il mare alto sferza calette e rilevato ferroviario. Che si rimangia quel rifiuto o coccola di nuovo l’esplosione del tifo cosentino nella gabbia dello Scida dopo un due a zero nel recupero, o il profetico tiraggir in riva allo Stretto di Messina. Che tempi!

     

    Domenico Bilotti

  • Cosenza è già la palla al piede della città unica

    Cosenza è già la palla al piede della città unica

    L’anello debole della città unica Cosenza-Rende è proprio il capoluogo bruzio. Perde abitanti e servizi. E con i conti in rosso che si ritrova sarebbe una palla al piede per gli altri. Compresi Montalto Uffugo e Castrolibero, due feudi non proprio desiderosi di farsi inglobare da sorelle maggiori così ingombranti.
    Nessuno si chiede: i cittadini-contribuenti sono disposti a pagare i debiti dei vicini? E parlare di aria vasta per indorare la pillola non migliora né la situazione, né la percezione del problema. Il sindaco di Mendicino, Antonio Palermo, pensa a giocare la carta Pandosia, intanto, emulando il percorso di Casali del Manco.

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    Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso (foto Alfonso Bombini)

    E se i conti migliorano pure a Rende?

    Lo ha annunciato assessore al Bilancio del Comune di Rende, Fabrizio Totera. E così in «meno di otto anni» arriverà – a suo dire – entro dicembre 2022 l’uscita dal pre-dissesto.

    Una boccata d’ossigeno proprio nel momento di peggiore crisi della maggioranza consiliare oltre Campagnano dopo due inchieste giudiziarie che hanno innescato inevitabilmente, se non un terremoto, almeno uno smottamento politico. Resta il divieto di dimora per il sindaco Marcello Manna (ma è caduta l’accusa di presunta corruzione), mentre continua l’interdizione del vicesindaco Anna Maria Artese.

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    Il sindaco di Rende, Marcello Manna (foto Alfonso Bombini)

    Dopo l’annuncio trionfale di Totera, il movimento RendeSì ha messo in guardia dai facili entusiasmi del momento: «Solo la Corte dei Conti può certificare l’uscita dal pre-dissesto».
    Intanto Forza Italia si dichiara «autonoma» rispetto all’intero consiglio comunale per bocca del commissario cittadino, Eugenio Aceto. E dice di «non condividere diverse scelte della maggioranza». Non è ancora un divorzio, tuttavia ha il sapore di un appoggio esterno.

    Un debito che fa paura ai vicini

    La storia delle finanze in crisi del Comune di Cosenza affonda le radici nel 1876 quando divenne primo cittadino un certo Francesco Martire. Ma il primo dissesto vero e proprio arriva nel 2019. Sindaco era Mario Occhiuto, attuale senatore di Forza Italia. Una situazione contabile precaria ereditata inevitabilmente da Franz Caruso, subentrato alla guida della città dopo l’architetto. La leva del debito facile è stata azionata per primo in maniera massiva da Giacomo Mancini. Erano altri tempi e Roma ci metteva sempre una pezza sopra.

    L’incontro sulla città unica organizzato dalla parlamentare della Lega, Simona Loizzo

    Città unica Cosenza-Rende? Un salotto bipartisan in casa Loizzo

    L’incontro sulla città unica organizzato dalla parlamentare della Lega, Simona Loizzo, non ha ceduto alle solita noia del politicamente corretto. Per il senatore Mario Occhiuto «la città unica esiste nei fatti». In concreto «non l’hanno voluta né Principe, né Manna».
    Sandro Principe ha risposto per le rime: «Lo sguardo di Occhiuto non andava oltre le cinte murarie di Cosenza»

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    Il senatore di Forza Italia, Mario Occhiuto (foto Alfonso Bombini 2022)

    Picconate e analisi dell’ex sottosegretario socialista con un occhio all’esperienza recente di Corigliano-Rossano: «Territori in crisi profonda». Perché «i matrimoni riusciti hanno bisogno di lunghi fidanzamenti».

    Principe non crede nella fusione a freddo. Preferisce partire con servizi condivisi e piccoli passi. Una posizione non dissimile è quella del coordinatore di Forza Italia a Rende, il già citato Eugenio Aceto. A margine del confronto, ha commentato: «Io sono per la città unica, ma le condizioni sono confronto sui Bilanci e unificazioni dei servizi». In questo senso, la bruzia Amaco sull’orlo del fallimento non aiuta.

    Guccione c’è, Franz Caruso declina l’invito

    In realtà Principe, da politico navigato, sa bene e ha il timore che gli incentivi dello Stato per una futura città unica Cosenza-Rende potrebbero essere pochi e, forse inutili, rispetto al debito consistente dei cugini spendaccioni di Palazzo dei Bruzi.

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    Da sinistra Sandro Principe (di spalle); Carlo Guccione; Mario Campanella; Mario Occhiuto (foto Alfonso Bombini 2022)

    Il sindaco di Cosenza, Franz Caruso ha declinato l’invito a partecipare all’incontro. Gli attacchi dei compagni di partito non hanno fermato, invece, Carlo Guccione, responsabile Sanità per il Pd nel Sud, presente al focus in casa del Carroccio. «Non c’è un progetto di area urbana di centrodestra e di centrosinistra, ma una necessità unica» – ha evidenziato. Del resto l’ex consigliere regionale è uno dei sostenitori più radicali e convinti della “Grande Cosenza”.

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    La parlamentare della Lega, Simona Loizzo (foto Alfonso Bombini 2022)

    Città unica nel metaverso

    Simona Loizzo aveva presentato una proposta di legge regionale per la città unica Cosenza-Rende da consigliere regionale. E ha promesso di continuare a lavorarci anche da parlamentare. «I confini territoriali sono dentro di noi» – ha commentato la deputata del Carroccio. Nella costruzione di «un ospedale che sarà azienda sanitaria universitaria, nell’area urbana della cultura e della digitalizzazione» vede tre strade da seguire. E non è un caso se Fabio Gallo, a capo del Movimento Noi che punta molto sulle leve del digitale, era nelle prime file ad ascoltare con attenzione. Perché la città unica nel metaverso forse è possibile, quella reale sembra ancora in balia di un dialogo tra sordi.

  • Amianto e tumori, stangata per Ferrovie della Calabria

    Amianto e tumori, stangata per Ferrovie della Calabria

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    Sono passati più di trent’anni da quando, il 27 marzo 1992, è stata approvata la legge che ha vietato l’utilizzo e la produzione di manufatti contenenti amianto. Nel frattempo, però, chi ha lavorato per decenni a stretto contatto con l’eternit spesso ha sviluppato malattie di tipo tumorale. E la bonifica e lo smaltimento del pericoloso materiale in Calabria sono ancora in grave ritardo.

    Una sentenza importante per un’intera categoria

    A volte, come nel caso che stiamo per raccontare, si è rimosso l’amianto senza le dovute protezioni. Ogni sentenza racconta sempre una storia, questa va oltre il singolo caso perché riguarda una intera categoria di lavoratori.
    Per 28 anni di fila, infatti, un uomo aveva lavorato in Ferrovie della Calabria, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì e dalle 7 della mattina fino alle 5 del pomeriggio. Poi nel 2008 si era dovuto dimettere perché il mesotelioma pleurico che lo affliggeva non gli consentiva più di fare sforzi. La neoplasia, purtroppo, circa 7 anni dopo non gli concedeva più altro tempo. E l’ex operaio delle Ferrovie della Calabria veniva a mancare, dopo molti ricoveri e cure, nonché un delicato intervento chirurgico presso il Mariano Santo di Cosenza.

    Amianto e tumori: la denuncia dei familiari dopo la morte

    L’uomo aveva già ricevuto in vita dall’Inail l’indennizzo per malattia professionale dovuta all’esposizione all’amianto. Gli eredi, la moglie e i 3 figli, un paio d’anni dopo la sua morte hanno poi deciso insieme agli avvocati Runco e Coschignano di fare causa a Ferrovie della Calabria per il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali. Ritenevano, infatti, che la causa del tumore fosse la lunga e continuata esposizione all’amianto sul luogo di lavoro.

    Il giudice: Ferrovie della Calabria deve pagare

    Silvana Domenica Ferrentino, giudice del Tribunale di Cosenza, il 2 dicembre scorso ha depositato le motivazioni della sentenza. E, accogliendo il loro ricorso, ha quantificato in 170mila euro i soldi che Ferrovie della Calabria dovrà pagare a tutti e 4 gli eredi per il danno biologico, più 163mila euro ciascuno per danno da perdita parentale. In totale sono circa 820mila euro, più interessi e spese legali. Il nesso causale emerso in aula tra la presenza di amianto sul luogo di lavoro e il tumore ai polmoni ha sancito la responsabilità (al 55%) di Ferrovie della Calabria nel decesso dell’ex operaio cosentino

    L’ingresso del tribunale di Cosenza

    Nelle varie udienze del procedimento civile sono stati acquisiti numerosi documenti e sentiti alcuni testimoni. Ma, soprattutto, è stata disposta una perizia medica che è servita a stabilire il nesso diretto tra la presenza d’amianto sul luogo di lavoro dell’ex operaio e il tumore ai polmoni che lo ha poi ucciso.

    Nessuna protezione né visite specialistiche

    Queste, ad esempio, le parole di uno dei testimoni in aula che la sentenza riporta: «Noi operai lavoravamo solo con la tuta da lavoro ma non abbiamo mai usato mascherine e guantiPreciso che non avevamo dispositivi di protezione e non eravamo informati sui rischi». Non risulterebbero poi visite mediche specialistiche effettuate dall’azienda sui propri lavoratori al fine di verificarne lo stato di salute. Eppure l’operaio morto riceveva spesso l’incarico di tagliare lastre di amianto, come la stessa sentenza dimostra.

    Quindi: presenza di amianto, solo visite generiche, nessun dispositivo di sicurezza. Infine, le dichiarazioni del medico incaricato dal Tribunale: «Ove il soggetto fosse stato effettivamente esposto all’amianto, può certamente riconoscersi un nesso di causa tra l’insorgenza del mesotelioma e le mansioni svolte dal lavoratore».

    Amianto e tumori: una decisione storica

    Gli elementi per condannare Ferrovie della Calabria, dunque, c’erano tutti, stando alla sentenza di primo grado. A differenza del processo penale che deve provare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, in quello civile vige la regola detta del “più probabile che non”: ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa, sicché, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra.

    In questo caso Ferrovie della Calabria (e i suoi comportamenti legati alla presenza di amianto in alcuni luoghi lavorativi) è stata riconosciuta colpevole al 55%, altrimenti la somma liquidata in condanna sarebbe stata più alta. Il giudice, infine, decurtando quello che l’Inail aveva già versato al defunto, ha stabilito le altre somme che hanno formato il risarcimento totale per tutti i danni subiti e da liquidare in favore degli eredi.
    Queste le decisioni nel primo grado di giudizio, che comunque sono esecutive, in uno dei primi processi a Cosenza arrivati a sentenza per risarcimento danni da amianto e legati a Ferrovie della Calabria.