Il miracolo di Natale quest’anno non arriva dalla 34° strada di New York ma da via degli Stadi a Cosenza. Niente Jingle Bells di sottofondo, però: solo silenzio. Né tantomeno regali, ché quelli costano. Eugenio Guarascio, presidente con la passione per il risparmio, è riuscito dove tutti gli altri hanno fallito, compiendo una vera e propria impresa: mettere d’accordo gli ultras della squadra che ha acquistato nell’ormai lontano 2011.
Separati in casa
La parte più calda della tifoseria rossoblu, infatti, si è divisa in due tronconi tra il 2014 e il 2015 e da allora ognuna delle due “fazioni” ha seguito le partite in casa da settori diversi dello stadio. E il divorzio, apparentemente pacifico, è perfino degenerato in scontro in occasione di alcune trasferte del recente passato. Emblematica in tal senso, la battaglia a Matera del 2017, con le due anime del tifo cosentino a darsele di santa ragione nel settore ospiti tra gli sguardi attoniti degli spettatori di casa e del telecronista.
Oggi gli animi sono più pacati e la convivenza in trasferta fila liscia. Di tifare davvero insieme dentro il San Vito-Marulla, però, non se ne parla proprio. La Curva Sud fa i suoi cori, la Nord altri.
Nel match di domenica 18 contro l’Ascoli, invece, si tornerà ai vecchi tempi. Tutti uniti, anche se a distanza. In silenzio, però, per protesta contro l’ultima mossa di Guarascio e del club.
Ultras: il miracolo di Guarascio
Nella mattinata, infatti, il gruppo Anni Ottanta, anima della Nord, ha rilasciato un comunicato per annunciare l’accoglienza che riserverà alla squadra all’ingresso in campo: 15 minuti di silenzio. Il motivo? «Adesso il presidentissimo Guarascio ha deciso anche di chiudere la bocca ai tifosi e agli ultras che lo contestano. Una multa – si legge nella nota degli ultras – è stata notificata ad uno dei nostri lanciacori per aver osato intonare un coro offensivo, accompagnata da minacce di Daspo».
Che l’imprenditore lametino non brilli per tolleranza di fronte a chi ne critica l’operato è cosa nota in città. Sono ancora gli Anni Ottanta a ricordarlo: «Già qualche anno fa aveva applicato il cosiddetto “daspo societario” ad un tifoso ultrasessantenne che aveva osato contestarlo nella tribuna centrale». La novità però, si diceva, è un’altra. E cioè che l’astio verso Guarascio – dopo l’ennesimo inizio di stagione fallimentare – è cresciuto al punto tale che alla protesta della Nord si unirà anche la Sud.
«Indipendentemente dal settore in cui vengono applicati, questi provvedimenti assurdi rappresentano una minaccia per chiunque occupi i gradoni del Marulla. È per questo che tutto il popolo rossoblù – si legge in un altro comunicato, stavolta degli inquilini della Bergamini – deve dare un segnale unito e compatto. Invitiamo tutti coloro i quali prendono posto in Curva Sud a restare in silenzio per i primi 15 minuti della partita».
Un silenzio assordante
Niente cori all’unisono neanche stavolta, quindi. Ma «un silenzio assordante» sì. Poi l’amore per il Cosenza tornerà a trionfare (con voci distinte), sperando che i giocatori facciano altrettanto.
Quel quarto d’ora muto per una squadra che di buono ha avuto finora quasi solo il supporto dei tifosi non è una bella notizia. Resta un dubbio nei più disillusi: dopo 11 anni di disinteresse sul tema, basteranno gli ultras temporaneamente muti per convincere Guarascio a «riflettere su quale sarebbe l’atmosfera nel nostro stadio senza la spinta e la passione del suo pubblico»?
Quante difficoltà devono affrontare i disabili e i loro familiari? E in Italia quanti diritti effettivi godono?
Forse proprio la Calabria ha iniziato una piccola rivoluzione che, a partire da alcune situazioni critiche, potrebbe dare il via a una nuova epoca. Certo, la situazione non è rosea, a partire dai progetti individuali. Da noi, infatti esistono ritardi nell’applicazione della legge 328 del 2000. Le previsioni di questa normativa ora sono incluse nei fondi del Pnrr.
La sede regionale del Tar
Tar e disabilità
La magistratura ha dovuto dare la classica “strigliata” al sistema.
Infatti, il Tar di Catanzaro ha dato una risposta a due famiglie annullando le note dei Comuni di Vibo Valentia e di Lamezia Terme.
Un record, in questa materia delicata, grazie al quale i nostri giudici amministrativi tallonano le decisioni pionieristiche di Aosta e Catania.
Nello specifico, parliamo dei genitori di due minori che nel 2019 avevano chiesto ai propri Comuni di adottare i progetti individuali per disabili. Questi progetti devono essere inoltrati dal Comune, in sinergia con l’Azienda sanitaria territoriale, per attingere ai fondi regionali.
Vibo e Lamezia: due realtà nel mirino
Vibo e Lamezia e le rispettive Asp avevano provato a sottrarsi. Ma il Tar di Catanzaro ha deciso altrimenti e ha ordinato a Comuni e Asp di concludere entro 90 giorni il procedimento.
Queste due sentenze, tra le prime in Italia, sono finite in molti siti web specializzati in Sanità o di legali esperti in materia. I giudici hanno stabilito che i diritti dei disabili sono esigibili, quindi devono avere risposta immediata, pena la condanna.
La Calabria sarà pure indietro nella tutela dei disabili, ma forse la magistratura è avanti. E ha qualche potere particolare: ad esempio, quello di nominare commissari ad acta. Insomma, non si scherza più.
Barriera architettonica a Vibo
Io autentico: una onlus in lotta per i disabili
La onlus“Io autentico” di Vibo, in prima linea nella tutela degli autistici, ha fatto il punto sui progetti per disabili. «Abbiamo avviato da tempo un intenso lavoro di sollecitazione e di affiancamento con diversi enti locali e sanitari, oltre che con la Regione. Abbiamo partecipato attivamente alla stesura del piano sociale regionale 2020-2022 della Calabria, Ciò non è tuttavia bastato fino a che il Tar quest’anno non è intervenuto contro Vibo e poi quello di Lamezia».
Disabili: Vibo fila ma l’Asp arranca
Da allora, il Comune di Vibo Valentia, vanta un primato: «È stato il primo in Calabria ad avviare la predisposizione e la realizzazione dei progetti di vita in modo sistematico col coinvolgimento dell’Asp. Finora, nel Vibonese sono attivi sessantatré progetti per disabili».
E c’è di più: «l’Ambito territoriale sanitario di Vibo Valentia (16 Comuni) è quello più attivo. E non va male l’Ats di Spilinga, che comprende altri 17 Comuni. L’Asp di Vibo registra forti ritardi, difficoltà e inadempienze nei confronti del Comune, nonostante un protocollo operativo firmato proprio con l’ente comunale, nella gestione della progettazione, per carenza di professionisti».
L’Asp di Vibo Valentia
Bene Cosenza, male Reggio, peggio Crotone
Nel resto della Calabria, si segnala la provincia di Cosenza, dove sono in corso progetti nei Comuni di Rende, San Giovanni in Fiore, Praia a Mare e Scalea. A Catanzaro, invece, c’è da star certi che la recente sentenza del Tar contro Lamezia velocizzerà i procedimenti.
La situazione resta difficile a Reggio, dove “Io autentico” era intervenuta in audizione lo scorso luglio presso la Commissione pari opportunità del capoluogo per avviare una collaborazione per le numerose istanze pendenti che tuttora, però, restano tali.
Perciò «nei confronti del Comune di Reggio Calabria è pendente un ricorso al Tar contro il silenzio-inadempimento. La provincia di Crotone, purtroppo, non è pervenuta».
Cosa prevede la legge del 2000
La legge n. 328 del 2000 (legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali) prevede che, ai fini della piena integrazione scolastica, lavorativa, sociale e familiare, si predisponga un progetto individuale per ogni soggetto con disabilità psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva. Attraverso i progetti si creano percorsi personalizzati per massimizzare i benefici.
Al riguardo, si legge sul sito web dell’Anffas(Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale): «Nello specifico, il Comune deve predisporre, d’intesa con la Asl, un progetto individuale, indicando i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di necessita per la persona con disabilità, nonché le modalità di una loro interazione».
Un mezzo dell’Anffas
Un diritto blindato
Attraverso tale innovativo approccio si guarda al disabile non più come ad un semplice utente di singoli servizi. Ma lo si considera «una persona con le sue esigenze, i suoi interessi e le sue potenzialità da alimentare e promuovere». Il progetto individuale, infatti, «è un atto di pianificazione che si articola nel tempo e sulla cui base le Istituzioni, la persona, la famiglia e la stessa comunità territoriale possono/devono cercare di creare le condizioni affinché quegli interventi, quei servizi e quelle azioni positive si possano effettivamente compiere».
L’importanza e la centralità della redazione del progetto individuale è oggi ampiamente ribadita dal primo e dal secondo programma biennale d’azione sulla disabilità approvati dal Governo, che ne prevedono la piena attuazione, quale diritto soggettivo perfetto e quindi pienamente esigibile.
Assistenza ai disabili
Questo diritto è ancorato allo stesso percorso di certificazione ed accertamento delle disabilità ed è identificato quale strumento per l’esercizio del diritto alla vita indipendente ed all’inclusione nella comunità per tutte le persone con disabilità. Come previsto, in particolare, dalla convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità)».
La buona scuola
Oggi, la legge 112 del 2016 (disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive di sostegno familiare, nota come legge sul durante e dopo di noi) individua proprio nella redazione del progetto individuale il punto di partenza per l’attivazione dei percorsi previsti dalla stessa.
La redazione del progetto individuale per le persone con disabilità è ulteriormente ripresa anche dalla riforma della “buona scuola” del 2015.
Il progetto individualecomprende vari aspetti. Innanzitutto, il profilo di funzionamento. Poi le cure e la riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale. Inoltre, include il piano educativoindividualizzato a cura delle scuole. Il Comune fa la sua parte, direttamente o tramite accreditamento, coi servizi alla persona. La strada è lunga ma proprio dalla Calabria è partita l’ennesima battaglia per il pieno riconoscimento di tutti i diritti già previsti dalla normativa per i disabili e per i loro familiari.
Niente da fare: il Tar ha bocciato il secondo ricorso con cui Amantea voleva bloccare il referendum che chiede agli abitanti di Campora San Giovanni se vogliono staccarsi per creare un nuovo Comune assieme alla vicina Serra d’Aiello.
I giochi sono fatti e l’esito della consultazione è scontato, visto che voteranno solo i camporesi e i serresi,
La “nuova” Amantea sarà mutilata, perché i suoi confini si fermeranno alla foce del fiume Oliva. Sull’altra sponda nascerà Temesa, un nuovo Comune in cui si fonderanno Serra e Campora.
Scorcio del centro storico di Amantea (foto di Camillo Giuliani)
Campora e Amantea, una scissione mascherata
Non è la prima volta che Campora vuole divorziare da Amantea. Al riguardo, i promotori dell’attuale referendum ricordano che già negli anni ’70 i camporesi avevano tentato il distacco con una raccolta di firme che finì in niente.
Stavolta, invece, la manovra è riuscita meglio, perché gli organizzatori hanno presentato la scissione sotto le mentite spoglie di un’annessione.
Ovvero: non è Campora che vuole andar via, ma la vicina Serra d’Aiello che vuole annettersela per creare un nuovo Comune.
L’operazione, a prima vista, sembra ineccepibile, perché Campora è abitata essenzialmente da serresi e da persone provenienti da Aiello Calabro.
In più, c’è la presunta eredità dell’antica città greca, Temesa appunto, a nobilitare il tutto.
Reperti del Museo di Temesa
I numeri non mentono
Ma se si guarda ai numeri, le cose non stanno proprio come le hanno presentate il Comune di Serra e il comitato promotore. Serra d’Aiello, nota nel recente passato per lo scandalo dell’Istituto Papa Giovanni XXIII, ha appena 516 abitanti ed è prossima all’irrilevanza demografica.
Campora, al contrario, è il boccone grosso, grazie ai suoi 3.047 abitanti. Temesa, quindi, sarebbe un Comune di 3.516 abitanti, in cui i camporesi farebbero la parte del leone.
Tuttavia, secondo i bene informati, Temesa non si fermerebbe qui, ma dovrebbe, nei prossimi anni, inglobare anche Aiello Calabro (1.388 abitanti) e Cleto (1.176 abitanti).
I numeri, in questo caso cambiano, perché il nuovo Comune arriverebbe a 6.127. Non cambia, però, il problema giuridico: il Testo unico degli Enti locali vieta la costituzione di nuovi Comuni al di sotto di 10mila abitanti.
Ma la perla vera di questa storia è un’altra.
Il Tirreno come i Balcani
La delibera del Consiglio Regionale 82 del 6 giugno 2022, che approva il referendum consultivo con cui i serresi e i camporesi dovranno dar vita a Temesa, contiene dei passaggi strani. Inquietanti, nella peggiore delle ipotesi, o involontariamente comici nella migliore.
A pagina 4 del documento, infatti, si apprende che amanteani e camporesi apparterrebbero quasi a etnie diverse: arabi gli uni e magnogreci gli altri.
Leggere per credere: «la diversa terminologia e la cadenza della lingua dialettale comunemente parlata dai Camporesi, è quasi identica a quella parlata dai Serresi e simile al dialetto parlato dai cittadini di Aiello Calabro».
Perciò «palese è la netta diversità dal vernacolo amanteano che identifica innegabilmente la propria etnia, che a tutt’oggi fa risaltare l’influenza araba degli invasori».
Ustascia croati durante la guerra civile jugoslava
L’argomentazione ricorda alcuni ragionamenti deliranti degli etnonazionalisti balcanici durante la guerra civile della ex Jugoslavia. Solo che allora si confrontavano per davvero popoli diversi, con culture e lingue diverse (serbi, croati, sloveni, albanesi ecc).
Non è il caso dell’attuale basso Tirreno. Fermiamoci qui, perché anche al trash c’è un limite. Con tutto il rispetto per storia e archeologia.
Amantea: una città in ginocchio
Il referendum per l’accorpamento di Campora e Serra è l’ennesima pugnalata ad Amantea, che oggi non se la passa bene, ma che la scorsa primavera, quando tutto è iniziato, era addirittura in ginocchio.
La cittadina tirrenica, infatti, era priva di sindaco perché commissariata per mafia (la seconda volta in poco più di dieci anni). Ma Amantea ha un problema peggiore della ’ndrangheta: le casse, oberate da un debito difficile da quantificare e comunque enorme.
Secondo i bene informati, il “buco” oscillerebbe tra quaranta e cinquanta milioni. Se si considera che il bilancio cittadino dovrebbe pareggiare attorno ai 15 milioni, la situazione è border line. E ricorda assai da vicino quella di Cosenza, fatte le debite proporzioni tra popolazione, gettito fiscale e territorio.
I manovratori del Referendum: Graziano il “legislatore”
Diamo un nome ai protagonisti di questa storia. Il primo è Giuseppe Graziano, consigliere regionale già in quota Forza Italia e tornato a Palazzo Campanella in quota Udc. Graziano è famoso per aver presentato la legge regionale 2 del 2018, che fondeva i Comuni di Rossano e Corigliano.
Graziano, la scorsa primavera, è stato autore della proposta di legge 54-112 che promuove la nascita di Temesa.
Domanda: come mai il “ginecologo” della nascita del più grande Comune del Cosentino, oggi promuove la mutilazione di una città?
Giuseppe Graziano
Cuglietta: il sindaco frontman
La proposta non è farina del sacco di Graziano. Ma proviene dall’amministrazione di Serra d’Aiello, guidata da Antonio Cuglietta, diventato sindaco in seguito a un ricorso andato a segno contro la ex prima cittadina Giovanna Caruso. Cuglietta è il frontman dell’operazione, che tuttavia lascerebbe piuttosto tiepidi i suoi concittadini.
Già: Serra, travolta dal crack del Papa Giovanni, è uscita da poco dal dissesto finanziario. Se si fondesse con Campora, rischierebbe di ripiombarci, perché forse erediterebbe la parte del debito amanteano che la frazione porterebbe con sé.
Iacucci: l’utente finale
I bene informati, ancora, riferiscono della presenza di Franco Iacucci nella Commissione affari costituzionali della Regione durante i lavori preparatori del referendum.
Una presenza curiosa, visto che Iacucci non fa parte di questa commissione. Tuttavia, l’ex presidente della Provincia di Cosenza sarebbe il beneficiario principale della nascita di Temesa e della sua ulteriore espansione.
Già storico sindaco di Aiello, Iacucci è molto radicato nella zona. Non è da escludersi perciò un suo interesse politico diretto. Il quale motiva anche il ruolo defilato tenuto dal consigliere.
Franco Iacucci guarda con interesse alla separazione di Campora da Amantea
Campora via, Amantea sulle barricate
Ciò ha causato qualche imbarazzo al Pd di Amantea, in particolare al consigliere comunale Enzo Giacco, che ha chiesto al suo partito di intervenire in maniera energica.
Cosa non avvenuta, visto che la delibera del Consiglio regionale è passata con 23 voti su 25 votanti e 6 assenti. Il Pd, evidentemente, o non si interessa troppo di Amantea o non vuole pestare i piedi a un suo big.
La resistenza amanteana, praticamente bipartisan in Consiglio comunale, è guidata dal sindaco Vincenzo Pellegrino, insediatosi lo scorso giugno. Pellegrino ha tentato due ricorsi al Tar.
Il primo, con cui chiedeva la sospensione del referendum, è stato rigettato con un’ordinanza. Col secondo, l’amministrazione è entrata nel merito e ha chiesto l’annullamento del referendum.
Vincenzo Pellegrino
Cala il sipario. Per ora
Ancora non è detta l’ultimissima parola, che potrebbe spettare al Consiglio di Stato.
Ma al momento Amantea subisce l’ennesima batosta.
Già: non bastavano le infiltrazioni criminali, non bastavano i debiti. Ora la sua frazione più grossa se ne va. E porta con sé molte attività commerciali e produttive. E, soprattutto, il porto e il Pip, i due asset strategici che forse sono il vero motivo di tutta l’operazione. Più povera e adesso mutilata, l’ex regina del Tirreno scende un altro gradino in direzione di un declino che sembra inesorabile.
A meno che non ci sia un giudice a Roma meglio disposto nei suoi confronti.
L’attuale crisi energetica legata alle tensioni tra Europa e Russia ha palesato i limiti del sistema energetico europeo e italiano, e accelerato la necessità di trovare fonti alternative per non dipendere solamente da quelle fossili. A rendere la situazione più incombente, recenti studi prevedono che per il 2050 l’Italia avrà bisogno annualmente di più del doppio dell’energia elettrica richiesta oggi per un valore stimato di circa 700TWh rispetto ai 300TWh odierni. Avere un piano energetico nazionale capace di affrontare e rispondere a questa sfida è quindi una priorità.
I rischi con eolico e solare
Negli ultimi anni, la proliferazione sul territorio nazionale di campi eolici e solari, non sempre realizzati rispettando l’ambiente e le normative, hanno contribuito a sostenere la domanda di energia, ma da soli non saranno sufficienti a soddisfarla nel lungo periodo. In questo contesto, come recentemente illustrato da Geppino De Rose sulle colonne di questo giornale, la Calabria produce più energia di quella necessaria alla sua autonomia energetica. Se non si vuole continuare ad installare campi solari ed eolici a spese di aree destinate all’agricoltura (soprattutto al Sud) con il rischio di stravolgere equilibri sociali e economici delle comunità locali, solitamente rappresentati da territori che già soffrono di mancanza di lavoro e spopolamento, compito del Governo è quello di sostenere la ricerca di fonti alternative e di processi che possano aiutare ad aumentare la produzione energetica e ridurre l’impatto climatico limitando le ricadute ambientali e sociali degli stessi.
Pale eoliche nel Crotonese
L’energia dalle maree
Bisogna quindi sostenere finanziariamente e promuovere delle politiche di transizione energetica che spazino su vari campi per massimizzare le potenzialità del nostro territorio. Un sistema per produrre energia verde, usato in altre nazioni (es. Canada, Cina, Francia, Galles, Giappone e Scozia) e che sta riscontrando negli ultimi anni un aumento dell’interesse da parte dei governi, ma poco investigato in Italia, è l’energia tidale legata ai flussi di marea.
Le maree sono lo spostamento di larghi volumi di acqua legati all’attrazione gravitazionale prodotti dalla Luna e dal Sole. Processo che produce due alte maree e due basse maree ogni giorno. Questo significa che in aree caratterizzate da forti flussi di marea, possiamo trasformare parte di questa energia usando turbine sottomarine che girano al passare dell’acqua, simili alle pale eoliche a cui siamo ormai abituati, generando elettricità.
Vantaggi e svantaggi
Contrariamente alle incertezze legate alla presenza di vento e sole necessari per far funzionare pale eoliche e pannelli solari, il vantaggio delle maree risiede nella previsione della loro forza e capacità di produrre energia basata sull’osservazione della rotazione della Terra e della Luna, permettendo di prevedere la produzione elettrica con un anticipo di giorni, settimane e perfino anni permettendo una pianificazione di medio-lungo periodo.
Ad oggi però, il principale limite dell’energia tidale è legato ai costi di produzione generalmente più alti rispetto all’eolico e al solare dovuti ai maggiori costi e rischi nel dover lavorare in un ambiente marino rispetto alla superfice. Esiste inoltre un problema ambientale legato alla possibile collisione di animali con le pale delle turbine o l’impatto delle stesse sulla circolazione delle acque, importante per la produzione dei nutrienti in ambienti marini.
Scelte mirate per rispettare l’ambiente
Sebbene studi scientifici indichino che questi problemi siano minori rispetto ai rischi legati ai cambiamenti climatici cui stiamo andando incontro che ci spingono ad investigare soluzioni alternative a quelle fossili, la scelta dei siti dove collocare le turbine richiede un accurato studio geologico, marino e ambientale per comprendere al meglio le caratteristiche geologiche dei siti, la circolazione delle acque ed evitare un impatto nell’equilibrio di ecosistemi marini. Questo significa che l’energia tidale non sarà in grado di sostituire le fonti energetiche correnti ma, in aree caratterizzate da forti correnti di marea, può sicuramente giocare la sua parte con potenzialità di crescita future.
Guardando ai nostri mari, l’area mediterranea è caratterizzata da escursioni di marea (differenza tra alta e bassa marea) di pochi centimetri, non comparabile con altre aree come il Mare del Nord dove si registrano variazioni dell’ordine metrico. Ma, in particolari contesti come lo Stretto di Messina, si possono creare le condizioni per correnti forti abbastanza da creare energia. La presenza nello Stretto di Messina di pericolosi vortici e forti e repentine correnti con direzioni che cambiano durante il giorno è un fenomeno ben conosciuto dai marinai e che ha ispirato il mito di Scilla e Cariddi come custodi dei due lati dello Stretto.
Questi processi sono legati alle forti condizioni mareali possibili grazie alla ridotta ampiezza dello Stretto di Messina che misura solo circa 3 km ed ha una profondità minima di circa 70 metri. In queste condizioni, si osserva l’amplificazione delle maree che coinvolge una larga massa di acqua il cui flusso è regolato da inversioni semi-giornaliere delle fasi di marea tra il lato Tirrenico a nord e quello Ionico a sud dello Stretto.
La fase di alta marea su di un lato coincide con la fase di bassa marea dall’altro che provoca una differenza nel livello del mare creando forti correnti. In particolare, nello Stretto di Messina si registrano correnti superiori ai 2 metri al secondo capaci di produrre 125 GW/h all’anno di energia elettrica, sufficiente per soddisfare la richiesta energetica di città come Reggio Calabria o Messina.
Le Bocche di Bonifacio tra Sardegna e Corsica e altre simili configurazioni morfologiche simili a ‘stretti’ presenti nei mari italiani capaci di amplificare e accelerare i flussi di marea potrebbero rappresentare altri possibili siti da investigare.
Investire nella Ricerca
Ci aspettano sfide importanti e tempi bui (sia metaforicamente che letteralmente legati alla probabile riduzione di energia elettrica disponibile) che richiedono decisioni tempestive, lungimiranza e investimenti nella Ricerca. In Italia abbiamo ricercatori eccellenti pronti ad offrire soluzioni e risposte alle domande correnti. Ricercatori che spesso si ritrovano a lavorare con limitati mezzi e risorse ma che, nonostante continui tagli ai fondi alla ricerca, continuano a produrre risultati eccellenti. Hanno solo bisogno di una classe dirigente capace di guardare al futuro che inizi ad investire nella ricerca, così come avviene in altre nazioni per ridurre la dipendenza energetica da partner stranieri e invertire la corrente tendenza.
Ha sollevato un polverone a Cirò Marina a inizio estate il “caso padel” lanciato da I Calabresi. Tutto è nato da un permesso per costruire rilasciato alla ditta Signor Padel Srls. Il provvedimento era opera dell’Ufficio Tecnico del Comune di Cirò Marina, guidato dal presidente della Provincia di Crotone, Sergio Ferrari.
Galeotto fu il padel a Cirò Marina
Il terreno su cui costruire l’impianto appartiene ad Antonietta Garrubba, socia unica della srls in questione. Il catasto lo qualifica come uliveto con un reddito agrario di 5,86 euro, perciò non edificabile.
Una svista amministrativa da sanare in autotutela? Probabile. Ma la Garrubba è moglie dell’amministratore unico e legale rappresentante dell’impresa, Giuseppe Farao. E suo marito è stato condannato nel processo Stige in primo grado a 13 anni e 6 mesi per associazione mafiosa e trasferimento fraudolento di valori aggravato dall’agire mafioso.
La cattura di Silvio Farao
Inoltre, lo stesso si è visto infliggere alcune pene accessorie: incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per 5 anni, interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’interdizione legale durante l’espiazione della pena. Giuseppe è figlio di Silvio Farao, ritenuto uno dei boss della locale di Cirò, condannato in Stige a 30 anni di reclusione e attualmente detenuto. Padre e figlio, è doveroso aggiungere, sono tuttora sotto appello, quindi le loro condanne non sono definitive.
Una revoca tempestiva
A seguito della notizia de I Calabresi, il sindaco annunciò dopo poche ore (il primo giugno scorso) la revoca del provvedimento firmato il giorno prima dall’allora responsabile dell’ufficio tecnico, l’architetto Raffaele Cavallaro.
In effetti, il 3 giugno uscì un altro provvedimento, sempre a firma di Cavallaro. L’atto comunicava l’avvio della revoca del permesso di costruire “incriminato” e la sospensione di ogni effetto, sia per l’errata destinazione d’uso, sia per acquisire «la prescritta documentazione inerente i requisiti dei soggetti richiedenti, dell’impresa e del progettista».
Il ricorso di Farao
Non si è fatto attendere il ricorso al Tar Calabria di Giuseppe Farao, discusso in udienza pubblica lo scorso novembre. Dinanzi ai giudici amministrativi, Farao ha sostenuto che «l’attività amministrativa (del Comune di Cirò Marina, ndr) sarebbe stata sviata dal clamore mediatico verificatosi, in quanto non sarebbe stata altrimenti necessaria l’acquisizione della documentazione antimafia ai fini del rilascio del permesso di costruire» e che «in ogni caso, l’iter amministrativo seguito sarebbe evidentemente illegittimo, essendo stati contestuali la comunicazione dell’avvio del procedimento, la sospensione degli effetti del titolo edilizio e il suo annullamento». Al contrario, il Comune di Cirò Marina ha rivendicato la correttezza della revoca a firma di Cavallaro.
Risultato: Comune condannato (in persona del sindaco in carica) alla rifusione delle spese legali a Farao, pari a 4mila euro più oneri.
Condanna per il Comune di Cirò Marina
Secondo il Tar Calabria (sentenza 2222 dello scorso 7 dicembre, presidente Giovanni Iannini), «il Comune di Cirò Marina non avrebbe dovuto revocare sic et simpliciter il permesso di costruire in ragione della mancata acquisizione della comunicazione antimafia; piuttosto, avrebbe dovuto acquisire tale documentazione, provvedendo solo all’esito e in base alle risultanze di questa» e che «in ogni caso, la concentrazione in un solo giorno della comunicazione di avvio del procedimento, della sospensione cautelare degli effetti del provvedimento e la revoca del titolo costituiscono, come già sottolineato in sede cautelare, violazione del corretto sviluppo del procedimento amministrativo, da cui deriva l’illegittimità del provvedimento impugnato».
Sbaglia ma non paga?
Insomma, secondo il tribunale, il funzionario del Comune ha “toppato” sia nel concedere il permesso di costruire a Farao, sia nel revocarlo.
Lo stesso 3 giugno scorso, giorno del dietrofront con la Signor Padel Srls, il sindaco Ferrari aveva tolto a Cavallaro la titolarità della posizione organizzativa dell’Area urbanistica per «particolari inadempienze amministrative», pur mantenendolo nell’incarico di istruttore. Un incarico fiduciario, espressamente revocabile «per risultati inadeguati», come rilevato anche dall’ex deputato Francesco Sapiain una formale interrogazione parlamentare al Ministero dell’Interno sul caso padel.
Raffaele Cavallaro
Lo stesso Cavallaro, benché privato della posizione organizzativa (e, quindi, del potere di firma), è rimasto nel medesimo ufficio con le medesime incombenze. Né risulta aperto un procedimento disciplinare a suo carico.
Una vittoria di Pirro per Farao
Quella di Giuseppe Farao potrebbe essere, però, una vittoria di Pirro. La necessità della certificazione antimafia non è infatti il frutto improvviso del “clamore mediatico”.
Su questo rilevante punto, il Tar cita un precedente del Consiglio di Stato. E rileva che «il permesso di costruire di cui si tratta non è meramente riconnesso al godimento di un terreno di cui la società ricorrente abbia disponibilità, ma – evidentemente – legato all’esercizio di un’attività imprenditoriale relativa al gioco del padel».
La sede del Tar a Catanzaro
Allora, «la fattispecie ricade nell’ambito di applicazione della normativa antimafia che, ad ampio spettro, esige che l’attività economica sia espletata con il corredo della documentazione antimafiache, ove mancante, impone la paralisi dell’attività medesima e la rimozione dei suoi effetti».
In soldoni: la revoca è stata un gran pasticcio, ma la certificazione antimafia serviva prima e serve ancora adesso. Qualora non fosse rilasciata, il Comune di Cirò Marina dovrà fare una nuova revoca.
Cirò Marina, una famiglia in Comune
A Cirò Marina nel frattempo a tenere banco è un altro argomento. Niente a che vedere con i tribunali stavolta, ma c’entra sempre il municipio. È lì dentro, infatti, che si registra il rapido avanzamento di carriera di una dipendente comunale, Maria Natalina Ferrari, sorella del sindaco.
Con decreto 1 del 28 gennaio 2022, da dipendente di categoria C è diventata responsabile dell’Area servizi alla persona con relativa posizione organizzativa per una indennità di 8.246,11 euro. L’ha nominata il vicesindaco Pietro Francesco Mercuri, benché privo di delega al personale.
Né risulta dal decreto che Mercuri avesse avuto una delega dal sindaco per questo provvedimento. Insomma, sembrerebbe un altro pasticcio amministrativo. Che, però, non finisce qui.
Pietro Mercuri con Giorgia Meloni
La supersorella di Ferrari…
Con la determinazione n. 378 del 27 giugno scorso, il responsabile dell’Area Affari generali Giuseppe Fuscaldo ha indetto una selezione per una procedura comparativa per la progressione verticale di una unità di Categoria D, posizione economica D1, riservata al personale interno di Cirò Marina per il profilo di Istruttore direttivo. Una sola candidata ha partecipato alla selezione, come si evince dall’ulteriore determina di Fuscaldo n. 683 dello scorso 20 settembre. Indovinate chi? La sorella del sindaco Ferrari, Maria Natalina, contrattualizzata nel nuovo ruolo dal primo di ottobre.
Il sindaco Ferrari e sua sorella
Il presidente della Commissione valutatrice era Nicola Middonno, segretario generale della Provincia di Crotone (guidata, ricordiamo, da Sergio Ferrari). I componenti erano Giulio Cipriotti, nominato il 3 giugno 2022 responsabile dell’Area urbanistica dal sindaco al posto di Cavallaro, e Nicodemo Tavernese, vicesegretario comunale e cognato del consigliere comunale di Cirò Marina, Giuseppe Russo (ha sposato la sorella di Tavernese), che a sua volta è zio del sindaco per via materna.
… e la nipote del vicesindaco
C’è chi fa rilevare, ancora, che tra i vincitori del concorso per agente di Polizia locale di Cirò Marina (graduatoria finale approvata con determinazione n. 848 del 14 novembre scorso) vi sia anche Morena Pizino, la nipote del vicesindaco Pietro Mercuri.
Insomma, tra pasticci e promozioni il Comune di Cirò Marina torna a far parlare di sé. In paese e non solo.
Uno dei casati storici della ‘ndrangheta reggina. Di quelli capaci di sedersi al tavolo con l’élite della criminalità organizzata calabrese, per dirimere controversie, per determinare strategie della ‘ndrangheta unitaria. La cosca Bellocco di Rosarno non ha mai perso, però, la propria vena imprenditoriale, con la capacità di colonizzare territori diversi, allacciando alleanze con altre consorterie criminali. Alternando, inoltre, il volto “pulito” degli affari, con quello più violento dell’intimidazione tipicamente mafiosa. Una cosca capace di rigenerarsi, anche grazie alle nuove leve, succedute ai boss più anziani.
Gli affari della cosca Bellocco
Un quadro che emerge in tutta la sua completezza con gli arresti che hanno sconquassato non solo il territorio calabrese, ma anche quello lombardo e laziale. Un’operazione congiunta, tra la Dda di Reggio Calabria, che ha curato la sponda dell’inchiesta denominata “Blu notte” e quella di Brescia, la cui indagine è denominata “Ritorno”. Complessivamente 65 soggetti arrestati – 47 in carcere, 16 agli arresti domiciliari e 2 sottoposti all’obbligo di dimora – ritenuti responsabili – in particolare – di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, porto e detenzione di armi comuni e da guerra, estorsioni, usura e danneggiamenti aggravati dalle finalità mafiose, riciclaggio e autoriciclaggio, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Un settore di importanza strategica è risultato essere quello della spartizione dei proventi relativi allo sfruttamento delle risorse boschive. Stando a quanto sostenuto dagli inquirenti, i contratti per lo sfruttamento delle risorse montane venivano stabiliti proprio dal vertice della cosca Bellocco: «I contratti delle montagne o si fanno in questa casa o se li fanno a Laureana, siccome io sono delegato pure da quell’altri si fanno in questa casa». A pronunciare queste parole nel novembre 2019 è Francesco Benito Palaia, 49 anni, considerato uno degli uomini di fiducia di suo cognato, il boss Umberto Bellocco detto “Chiacchiera”, 39enne e nuovo capo del clan.
La successione
Gli accertamenti, infatti, avrebbero delineato i nuovi equilibri della cosca Bellocco e le proiezioni di questa cosca di ‘ndrangheta nel Nord Italia. Come le cosche più importanti, infatti, negli anni anche la famiglia Bellocco ha subito l’offensiva dello Stato. Ma ha saputo rimanere in piedi, retta sulle spalle dell’anziano patriarca Umberto Bellocco, classe 1937, deceduto alcuni mesi fa. Uomo dal carisma criminale indiscusso, cui viene persino ricondotta la nascita della Sacra Corona Unita pugliese – fatta risalire alla notte di Natale del 1981 all’interno del carcere di Bari.
Umberto Bellocco, patriarca dell’omonima cosca, morto di recente
Alla morte del boss, allora, la diretta prosecuzione del comando sarebbe finita al nipote omonimo, classe 1983. Un’ascesa naturale non frenata nemmeno dalla detenzione in carcere. Come documentato dagli accertamenti svolti dai carabinieri, Bellocco poteva godere, dietro le sbarre, di telefoni cellulari, grazie al supporto di altri detenuti e dei familiari di questi, per lo più semiliberi e/o ammessi ai colloqui.
Ancora una volta, da una maxi-inchiesta contro la ‘ndrangheta, emerge il ruolo crescente rivestito dalle donne. In questo caso, spicca la figura di Maria Serafina Nocera, 69enne madre del nuovo boss Umberto Bellocco. Sarebbe stata lei a tenere la chiave della “cassa comune” cui il clan attingeva. Un “tesoretto” che serviva per il sostentamento dei detenuti e per l’attuazione del programma criminale del figlio.
I brindisi per le nuove cariche
Il giovane Umberto Bellocco ha ereditato il potere da suo nonno
Anche dal carcere, Bellocco avrebbe potuto supervisionare le nuove cariche, deciso i nuovi assetti, arginato le frizioni. L’inchiesta coordinata dal pm antimafia Francesco Ponzetta ha documentato anche il brindisi con il quale un anziano della consorteria, davanti ai nuovi adepti ed agli alti ranghi della cosca, ha voluto esaltare quel momento di vita associativa pronunciando la frase: «È cadda… è fridda… e cala comu nenti, a saluti nostra e di novi componenti».
Moltissimi sono i summit di mafia che l’inchiesta sarebbe riuscita a ricostruire. Alcuni necessari all’attuazione del programma criminale della cosca, che generalmente avvenivano all’interno dell’abitazione della sorella di Umberto Bellocco, e quelli, ben più complessi, organizzati nelle aziende agrumicole di Rosarno, dove si regolavano le controversie con gli altri esponenti della ‘ndrangheta.
Ai summit era solito prendere parte, in diretta, anche il boss detenuto dal carcere, che con la propria presenza, “partecipata” a distanza, era naturalmente portato ad irretire le iniziative dei convenuti.
«Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro… sennò non è di nessuno»
Come detto, la famiglia Bellocco, da sempre, appartiene al gotha della ‘ndrangheta, dividendosi il controllo su Rosarno e San Ferdinando con l’altra potentissima cosca dei Pesce ed estendendo la propria influenza anche sul porto di Gioia Tauro, dove, comunque, un ruolo primario lo hanno da sempre i clan gioiesi Piromalli e Molè.
Diverse, negli anni, le inchieste che hanno colpito la cosca. A cominciare da quella “Tallone d’Achille”, con la coraggiosa denuncia dell’imprenditore Gaetano Saffioti, passando poi per le inchieste “Nasca” e “Timpano”. E, ancora, l’inchiesta “Pettirosso” curata dall’allora pm antimafia Roberto Di Palma, che ha permesso di ricostruire tutto il circuito criminale che ha favorito per anni la latitanza di Gregorio e Giuseppe Bellocco, esponenti di vertice della cosca rosarnese considerati fra i trenta ricercati più pericolosi d’Italia. In un’indagine di qualche tempo fa, proprio l’anziano patriarca Umberto Bellocco dirà: «Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro… sennò non è di nessuno».
I Bellocco al Nord
Già le inchieste degli scorsi anni “Vento del Nord”, “Blue call” e “Sant’Anna” avevano certificato la presenza e lo strapotere del clan su territori lontani dalla nativa Rosarno. L’Emilia Romagna, in particolare, era diventata una terra di conquista florida, dove poter far proliferare gli affari.
La sponda bresciana dell’inchiesta avrebbe invece confermato la presenza attiva dei Bellocco in Lombardia. Non solo nella provincia di Brescia, ma anche in quella di Bergamo. Anche su quei territori, senza mai perdere il contatto con la casa madre calabrese, i Bellocco avrebbero infiltrato la fiorente economia legale di quei luoghi.
Nell’operazione sono stati individuati «i terminali calabresi (stanziali a Rosarno) della struttura criminale lombarda i quali concorrevano nella gestione delle molteplici attività economiche di interesse del sodalizio realizzate prevalentemente tramite un imprenditore» attivo tra Brescia e Bergamo nei settori edile e immobiliare.
Il traffico internazionale di stupefacenti
Da tempo, peraltro, gli inquirenti, hanno messo nel mirino il ruolo crescente del clan nel traffico internazionale di stupefacenti. Il 18 giugno 2019 si conclude l’operazione “Balboa” della Guardia di Finanza di Reggio Calabria che arresta cinque persone. Lavoravano per conto della cosca Bellocco per l’importazione dal Sud America di eroina da far arrivare nel porto di Gioia Tauro. Pochi mesi dopo, a novembre, sono invece ben 45 gli arresti nell’ambito dell’inchiesta “Magma”, anche in questo caso con l’accusa di narcotraffico internazionale.
Quelle indagini già cristallizzavano l’importanza criminale della cosca in provincia di Roma. Ma sono gli arresti delle ultime ore a sancire ulteriormente i rapporti illeciti con quei territori. Uno dei dati di maggior interesse investigativo emerge con l’alleanza tra la cosca di Rosarno e il potente clan degli Spada, egemone a Ostia e sul litorale romano. Gli Spada sono emersi negli anni come clan violento e capace di esercitare un controllo oppressivo sulle attività economiche del Lazio, anche in combutta con l’altra nota famiglia Casamonica. Negli scorsi mesi, peraltro, la famiglia Spada è stata riconosciuta da alcune sentenze come organizzazione mafiosa.
Anzio vista dall’alto
Un’alleanza, soprattutto per quanto concerne il traffico di cocaina, che sarebbe nata proprio dietro le sbarre. In particolare, l’accordo stretto tra gli esponenti dei due clan, oltre a scandire le gerarchie criminali all’interno del penitenziario, ha riguardato i traffici di cocaina effettuati dalla Calabria verso il litorale romano e la risoluzione di situazioni conflittuali tra gli Spada e alcuni calabresi titolari di attività commerciali nelle aree urbane di Ostia ed Anzio.
Gioacchino Bonarrigo ad Amsterdam
«La verità fra’, la verità! Oggi io sono stato invitato ad un tavolo, eravamo diciassette persone, tutti… la ‘Ndrangheta!», dice in un’intercettazione uno degli indagati. Le cimici dei carabinieri hanno anche captato il tentativo di vendita di una consistente partita di cocaina da parte del clan Bellocco in favore di narcotrafficanti di Ostia esponenti degli Spada.
Per conto dei calabresi, a condurre le trattative con il clan romano sarebbe stato Gioacchino Bonarrigo, di 38 anni, che risulta tra le persone coinvolte nel blitz. Soggetto storicamente inserito non solo nella ‘ndrangheta, ma anche nel narcotraffico. Arrestato nel 2017 da latitante ad Amsterdam. Bonarrigo si sarebbe recato più volte a Ostia per incontrare esponenti degli Spada che voleva rifornire con la droga importata dall’estero.
Belmonte Calabro, la patria dei prestigiosi pomodori che si tagliano e si mangiano come se fossero bistecche, rivuole indietro le sue opere d’arte. Per ragioni sconosciute le hanno portate a Cosenza tra gli anni Ottanta e Novanta. Forse per avviarne i restauri, che poi si sono rivelati infiniti, forse per motivi di sicurezza, oppure per entrambe le cose. Fatto sta che le chiese di Belmonte Calabro sono state spogliate e chiuse, eccetto le parrocchie più grandi.
«L’idea è di far rientrare la cittadina negli itinerari artistico-religiosi», spiega Stefania Bosco, storica dell’arte e restauratrice diagnosta, che dirige il “progetto Belmonte”. «Speriamo di poter riaprire tutte le chiese e di poter restituire loro le opere sottratte». Dovrebbero essere una ventina in tutto, disseminate tra i magazzini della Soprintendenza e della Curia.
A giorni è attesa un’Annunciazione che recenti studi attribuiscono ad Antonello da Messina, mentre nel duomo sono stati appena recuperati due dipinti del Settecento a spese di un gruppo di belmontesi. A pilotare l’operazione dal basso, con una raccolta di fondi, è stata l’associazione Arte e bellezza, presieduta da Filippo Verre, a lungo medico di famiglia.
L’associazione Arte e bellezza festeggia il restauro dei due dipinti del ‘700
La tavola preziosa che torna dopo quarant’anni
Il ritorno del dipinto dell’Annunciazione è previsto proprio in questi giorni. Dopo quarant’anni, la tavola del Quattrocento sta per lasciare la Soprintendenza di Cosenza per rientrare a casa. Come Ulisse ad Itaca, come una parente amatissima partita tempo fa e attesa in patria. Un’opera di originale stile compositivo e ricca di simbolismi.
Quando è stata portata via dalla deliziosa chiesa della frazione dell’Annunziata, si pensava che il suo autore fosse Pietro Befulco. E invece no, non è più cosa certa. Potrebbe essere di Antonello da Messina, il maestro meridionale che ha fuso l’arte italiana con quella fiamminga e che ha creato dipinti mozzafiato reinventando spazio e luce, come la Crocifissione e San Girolamo nello studio conservati nella National Gallery di Londra.
L’Annunciazione di fine XV secolo a Belmonte Calabro
«È un’opera bellissima, una delle più importanti che abbiamo in Calabria, di una fattura molto raffinata. Il supporto è assai povero, una tavoletta di pessima qualità, ma la preparazione della stessa è straordinaria», spiega Stefania Bosco. E come se l’autore avesse raccolto un pezzo di legno qualsiasi per dipingerci sopra. Un supporto di fortuna che nel tempo è stato attaccato dai parassiti e che, per via della fragilità, ha messo a dura prova i tecnici durante le fasi di recupero. «Ma si è capito da subito – aggiunge, – che la scuola e il livello dell’artista erano molto alti».
I restauratori al lavoro. In primo piano, Stefania Bosco
Vuole questo regalo per Natale il sindacoRoberto Veltri. La Soprintendenza ha richiesto standard di qualità e sicurezza molto precisi per poter riconsegnare l’opera. Lui, con il suo staff, grazie a fondi comunali e alla donazione di un imprenditore locale, ha predisposto «una stanza del Comune, dotandola del sistema d’allarme richiesto e di un dispositivo di controllo di temperatura e umidità. Abbiamo reso adatto l’ambiente per la buona conservazione dell’opera al suo rientro».
C’è fermento nel centro storico di Belmonte
Anche don Giuseppe Belcastro, responsabile delle chiese della cittadina, si sta dando da fare per riportare l’arte sacra nel borgo. «Iniziamo a vedere qualche risultato con il restauro dei due dipinti e il ritorno della tavola. È un primo importante passo, poi bisognerà impegnarsi per riavere tutto il resto. Grazie all’impegno competente e appassionato di Stefania Bosco il progetto Belmonte ha avuto una accelerata». È candidata ad ospitare un piccolo museo la chiesa dell’Immacolata, all’ingresso del centro storico. Risale al 1622 e ha un affascinante portale tardo rinascimentale. È stata recuperata in parte, ma ha ancora bisogno di interventi.
L’Ultima Cena (Nicola Menzele), prima del restauro
L’opera di Menzele al termine del restauro
L’altare della chiesa con l’opera restaurata (foto Francesco Veltri)
«Siamo riusciti a restaurare tutti gli affreschi dell’abside e l’altare maggiore, grazie a una fusione di forze tra l’università, il Comune, la Curia, la Soprintendenza di Cosenza e le associazioni culturali San Martino e Barrueco», racconta ancora la Bosco, che lavora al progetto da un po’ di anni. Ha diretto i lavori di recupero dei due dipinti del Settecento del duomo e ha restaurato l’interno dell’Immacolata. Insieme a lei, la collega Donatella Barca e studenti dell’Università della Calabria. La chiesa è diventata un cantiere didattico prima della pandemia. Sette studenti del corso di laurea in Conservazione e restauro dei beni culturali dell’Università della Calabria, hanno pulito le superfici decorate, hanno stuccato, integrato la pittura, rifinito con gli strati di protezione.
Il duomo di Santa Maria Assunta è anche nel centro storico. Sta accogliendo gruppetti di viaggiatori dalla fine di novembre, da quando la pala d’altare e L’ultima cena sono tornati ad antico splendore. L’Assunzione, del 1795, è del pittore di Borgia Francesco Basile. L’ultima cena è un’opera del pugliese Nicola Menzele, formatosi nella bottega partenopea di Francesco De Mura.
«Siamo rimasti molto soddisfatti, non soltanto noi dell’associazione ma anche la cittadinanza», dice il dottore Verre, che è uno dei duemila abitanti del borgo, dove è rimasto a vivere dopo il pensionamento.
L’Assunzione, opera di Francesco Basile, dopo il restauro
L’opera di Francesco Basile prima dell’intervento dei restauratori
Il dipinto di Basile ritornato nella sua originaria collocazione al termine del restauro
Non solo Belmonte: la regione delle “invasioni” artistiche
Come tutta la Calabria, Belmonte ha ospitato artisti di diversa provenienza «Non esiste una scuola calabrese, i nostri artisti, come Mattia Preti, Pietro Negroni, Marco Cordisco, per formarsi sono andati in altre regioni», racconta ancora la direttrice del progetto. «La Calabria esprime un’arte contaminata da culture diverse, che abbiamo assorbito e fatto nostre. E questo può essere anche un punto di forza».
Non desta quindi meraviglia un’apparizione del grande Antonello da Messina a Belmonte. Alla Pinacoteca comunale di Reggio Calabria, lo scorso anno, sono rientrate due tavolette a lui attribuite e che raffigurano San Girolamo penitente e La visita dei tre angeli ad Abramo . Che Antonello è ad Amantea, a pochi chilometri da Belmonte, nel 1460, è attestato da un documento. Quell’anno il padre Giovanni affitta un brigantino e si dirige proprio sulla costa tirrenica cosentina. Sul piccolo veliero salgono l’artista, sua moglie, i figli, la servitù. Un trasloco dopo un periodo trascorso in Calabria?
La città di Belmonte non si pone domande. Aspetta la sua Annunciazione. Ci sarà tempo per i certificati di paternità, «l’importante – dice il primo cittadino – è che torni a casa».
Come ogni anno Il Sole 24 Ore ha pubblicato il suo report sulla qualità della vita nelle 107 province italiane. E come ogni anno quelle calabresi si ritrovano nei bassifondi della classifica. Fanalino di coda, 107esima su 107, è infatti Crotone. Ma le altre quattro rappresentanti della Calabria non vanno molto meglio. Vibo si piazza al 103esimo, Reggio una posizione più su, Catanzaro 96esima. Cosenza, la meglio piazzata, tiene alto il nomignolo della regione alla posizione numero 95.
Il quotidiano di Confindustria analizza la qualità della vita attraverso sei macrocategorie, suddivise a loro volta in molteplici indicatori. Ma da qualsiasi punto si analizzi la classifica è impossibile non notare come, invece di progredire, i nostri territori registrino un arretramento.
Qualità della vita a Cosenza
Prendiamo il caso di Cosenza, punta di diamante della regione alla luce dei risultati. La provincia bruzia peggiora in 5 categorie su 6. Rispetto all’anno precedente scende di due posizioni in classifica per quanto riguarda Ambiente e servizi (ora è 58esima), Cultura e tempo libero (posizione n°98). Si ritrova 103esima per Ricchezza e consumi, prima era cinque posti più su, e 80esima (da ex 71esima) nella categoria Demografia e società. Precipita di ben 44 posizioni in classifica (ora è 85esima) anche in quella Giustizia e Sicurezza anche per l’incapacità di riscuotere i tributi dei Comuni che la compongono. In questa specifica sottocategoria, infatti, è la terzultima in tutta Italia.
Si registra, al contrario, un bel balzo in avanti nella classifica che riguarda il settore Affari e lavoro. In questo caso la provincia di Cosenza guadagna 16 posizioni rispetto all’anno precedente, grazie anche a una percentuale sopra la media nazionale per quel che riguarda l’imprenditorialità giovanile. Ma anche qui c’è poco da esultare. Cosenza, infatti, anche nella sua performance migliore tra le 6 macrocategorie non va oltre l’80° posto in classifica.
I dati di Catanzaro
A Catanzaro, invece, si può festeggiare per i pochi furti negli appartamenti: solo in altre tre province italiane ne denunciano meno. Va molto peggio nei tribunali però, con la provincia che si piazza al penultimo posto nazionale per durata delle cause civili e i reati legati a stupefacenti; quartultima invece per la quota cause pendenti ultratriennali, con una durata media che è due volte e mezza quella del resto d’Italia. La provincia del capoluogo regionale comunque può essere soddisfatta rispetto al recente passato. Migliora infatti in tre macrocategorie: Affari e lavoro (50°; + 20 rispetto al 2021), Ambiente e servizi (41°; + 10) e, seppur di poco, Cultura e tempo libero (95°; + 2). Sarà, in quest’ultimo caso, per le 8,8 librerie ogni 100mila abitanti, contro le 7,7 della media nazionale.
(foto Antonio Capria)
Reggio Calabria, la più lenta nei pagamenti
A Reggio Calabria invece le fatture si pagano più tardi che in tutto il Paese: se altrove la media è di 10 giorni oltre i canonici 30 usati come indicatore, sullo Stretto il tempo extra sale a tre settimane. Certo, la provincia reggina è tra quelle più soleggiate (15°), ma l’apporto al clima di Madre Natura contrasta con il terzultimo posto nella categoria Ambiente Servizi (l’anno scorso era 25 posti più su in classifica). Reggio è terzultima anche per quel che riguarda Cultura e tempo libero, addirittura un gradino più giù se si parla di Ricchezza e consumi.
Nubi minacciose sull’Arena dello Stretto a Reggio Calabria
Sale invece di ben 40 posizioni (ora è 58esima) nel settore Affari e Lavoro, nonostante sia 101esima per tasso di occupazione. Sale anche di 23 posizioni, piazzandosi 52esima, in Giustizia e Sicurezza. Anche qui pesa parecchio la lunghezza delle cause in tribunale, così come il numero altissimo di cause civili, circa il 40% in più che altrove.
Vibo Valentia non è una provincia per donne
Vibo invece è la migliore d’Italia per imprenditorialità giovanile sul totale delle imprese registrate, ma anche la peggiore di tutte quando si parla di qualità della vita per le donne. Paradossale, inoltre, che la provincia della Capitale del libro si piazzi nei bassifondi quando si parla di Indice di lettura (87°), Offerta culturale (105°) e librerie (7,3 ogni 100mila abitanti, in Italia la media è di 7,7). In più è la seconda provincia del Paese per numero di estorsioni, quella col maggior numero di cause pendenti ultratriennali e con le cause civili che durano di più. Il valore, in quest’ultimo caso, è di 1.453, in Italia si ferma a 561,9.
L’insegna sbagliata con cui Vibo si è celebrata “Città del libro”
Anche il Vibonese, nonostante tutto, può comunque festeggiare per la qualità dell’aria (19°), uno dei dati che gli permette di risalire 14 posizioni, piazzandosi 78° in Ambiente e servizi. E, anche se non esistono o quasi start up innovative sul territorio, anche in Affari e lavoro la classifica segna un sontuoso +49 nel settore Affari e lavoro: ora Vibo è 52esima, l’anno scorso era 101esima.
Qualità della vita, Crotone ancora nei bassifondi
Infine Crotone, che si conferma fanalino di coda nazionale. Da qui sono in tanti a scappare, il decuplo che dal resto d’Italia: la provincia pitagorica è 107esima per saldo migratorio totale. Ma Crotone è anche ultima per Depositi bancari delle famiglie consumatrici e Spesa delle famiglie per il consumo di beni durevoli. È anche il territorio con la percentuale più alta di beneficiari del reddito di cittadinanza.E poco importa che qui le case costino in media 1000 euro in meno al metro quadro rispetto al resto del Paese.
Crotone e la sua provincia sono anche il posto dove si studia meno: ultima per numero di laureati (o con altri titoli terziari), penultima per anni di studio tra la popolazione over 25, quart’ultima per persone con almeno un diploma. Chi non studia, però, ha poco da fare nel tempo libero: pochissime librerie (104°), palestre e piscine (106°), ancor meno spettacoli (107°). In compenso gli amministratori pubblici sono tra i più giovani del Paese (4°), nonostante da queste parti si registri la più bassa partecipazione elettorale d’Italia. Qui almeno, però, le cause civili durano meno della media (57°). E in mancanza di altri svaghi si passa il tempo tra le coperte: in sole tre province italiane le donne partoriscono prima che a Crotone, dove l’età media delle neo-mamme si attesta a 31 anni, contro i quasi 32 e mezzo del resto d’Italia.
Una bussola che segna il punto cardinale della salvezza di tante vite che affrontano le insidie del mare per fuggire da guerre, fame, dittature. È questo il senso della bussola di ResQ People Saving People. Ed è solo uno tra i tanti gadget natalizi acqustabili on line».
«ResQ People Saving People (persone che salvano altre persone) è una organizzazione non governativa, che nasce a Milano durante la pandemia. Prende il nome dalle operazioni di “Search and Rescue”, in inglese vuol dire “ricerca e soccorso”. Un gruppo di cittadine e cittadini, attivisti, giornalisti e sindacalisti sono riusciti, grazie al contributo di tante e tanti altri, a comprare dalla ONG tedesca Sea-Eye, la ex nave Alan Kurdi, e l’hanno trasformata nella ResQ People, appunto». È quanto si legge in un comunicato stampa diramato dalla stessa Ong.
«Finora – continua la nota stampa – ha svolto due missioni nel Mediterraneo centrale, di fronte alla zona SaR libica, e ha tratto in salvo più di 200 persone. Ma per poter operare la nave ha dei costi non indifferenti. Cifre importanti che hanno bisogno di un grande sostegno, a cui un contributo importante viene appunto dalla rete degli equipaggi di terra, che vanno da nord a sud».
«L’equipaggio di terra ResQ Calabria – riporta il comunicato stampa – è il gruppo territoriale nato, come gli altri, sia per raccogliere fondi, sia per fare opera di sensibilizzazione e divulgazione sul lavoro della nave, sulla difesa dei diritti umani, di donne, uomini e bambini in tutto il mondo. Abbiamo già organizzato delle iniziative, la prima è stata a Palmi e poi l’estate scorsa una “Tre giorni contro il naufragio dei diritti umani” tra Cosenza, San Ferdinando/Piana di Gioia Tauro e Villa San Giovanni, in collaborazione con realtà altrettanto attive sul territorio come Dambe So, Mediterranean Hope e il Centro socio-culturale “Nuvola Rossa”».
È il 1972. Siamo a Gorizia, uno dei confini caldi con l’ex Jugoslavia.
Come tutto il Friuli, anche questa provincia è militarizzata. Ma la vicinanza al regime titino è solo uno dei problemi di questa zona. L’altro, non secondario, è costituito dalla presenza massiccia dei movimenti extraparlamentari di destra, soprattutto Ordine Nuovo. Questi gruppi vivono un rapporto ambiguo con il Msi di Giorgio Almirante, che nello stesso periodo assorbe i monarchici e vara la Destra nazionale.
Infine, in Friuli opera Gladio, l’organizzazione paramilitare che gestisce la Stay Behind in Italia. Gladio non è solo un gruppo anticomunista, che agisce sotto le direttive (e la copertura) della Nato. È anche un ambiente potenzialmente esplosivo, in cui convivono ex partigiani bianchi, reduci di Salò e neofascisti.
I resti della Fiat 500 usata per la strage di Peteano
Antefatto: Trumper, un professore curioso
Negli stessi anni inizia la sua carriera un giovane linguista gallese, arrivato in Italia per studiarne l’incredibile varietà di dialetti e suoni. John Trumper, all’epoca non ha ancora trent’anni: è fresco di laurea e si alterna tra la neonata Università della Calabria e, quella, ben più antica, di Padova. Trumper, che si occupa di fonetica e linguistica, allora non immagina che grazie a queste sue specialità avrà un ruolo importante nelle tragedie giudiziarie degli anni’70, appena iniziati.
Il boato di Peteano
La sera del 31 maggio del ’72 i carabinieri di Gorizia ricevono una telefonata anonima.
Il “telefonista” segnala una strana presenza a Peteano, una frazione del piccolo Comune di Sagrado: una Fiat 500 abbandonata in una stradina. L’auto ha un particolare inquietante: dei fori di pallottola sul parabrezza.
Una pattuglia si reca subito sul luogo. La guida il sottotenente Angelo Tagliari, che, dopo aver ispezionato la zona, apre il cofano della vettura.
La serratura è collegata a una forte carica esplosiva, che si attiva in maniera devastante: il boato sbalza Tagliari di parecchi metri. L’ufficiale si salva solo perché la portiera gli fa da scudo, ma perde una mano e riporta ustioni e altre ferite gravissime.
Le vittime della strage: da sinistra, Antonio Ferraro, Donato Poveromo e Franco Dongiovanni
Invece, muoiono sul colpo tre carabinieri, tutti meridionali. Sono il brigadiere Antonio Ferraro, un 31enne siciliano, che lascia la moglie incinta, e i militari Donato Poveromo, un lucano di 33 anni, e il leccese Franco Dongiovanni, di appena 23 anni. Nessuno rivendica l’eccidio, che resterà avvolto nel mistero per oltre dieci anni: solo nel 1984 il neofascista Vincenzo Vinciguerra se ne assumerà la responsabilità dopo una lunga latitanza all’estero.
Una strage “minore”
La strage di Peteano vanta due sinistri primati. Innanzitutto, è l’unica strage su cui sia stata fatta piena chiarezza. Ed è l’unica strage fascista che ha per vittime dei militari.
Ma quella di Peteano è una strage “minore”, che passa quasi in secondo piano rispetto a quelle, mostruose, di piazza Fontana a Milano (1969) e piazza della Loggia a Brescia (1974).
Tuttavia, c’è un tratto sinistro che accomuna questi tre massacri: la difficoltà delle indagini, dovuta a una serie di depistaggi.
I funerali dei tre carabinieri caduti
Il dirottatore
È il 6 ottobre 1972. Siamo a Ronchi dei Legionari, una cittadina del Goriziano dove c’è l’aeroporto del Friuli Venezia Giulia. Un uomo sale a bordo di un piccolo aereo civile diretto a Bari. Questi, subito dopo il decollo, minaccia l’equipaggio con una pistola e lo costringe a tornare indietro. Il dirottatore chiede la liberazione di Franco Freda, leader veneto di Ordine Nuovo, in quel momento accusato per la strage di piazza Fontana.
Le forze dell’ordine tentano prima di trattare. Poi fanno l’irruzione, a cui segue una sparatoria. L’uomo resta ucciso.
È l’ex paracadutista Ivano Boccaccio, noto per la sua militanza in Ordine Nuovo e per lo stretto legame politico con Vinciguerra, ex militante missino di origine siciliana passato a On, e con l’udinese Carlo Cicuttini.
Quest’ultimo non è solo un ordonovista, ma è stato anche segretario della sezione missina del suo paese, San Giovanni al Natisone.
La pistola fumante
Vincenzo Vinciguerra durante il processo per la strage di Peteano
Se gli inquirenti avessero repertato subito i bossoli trovati vicino alla 500 di Petano, che avevano provocato i fori nel parabrezza, si sarebbero accorti che i colpi provenivano dalla pistola ritrovata addosso a Boccaccio.
E non ci avrebbero messo molto a fare il classico uno più uno, perché quella pistola apparteneva a Cicuttini. Cicuttini finisce sotto processo assieme a Vinciguerra per il dirottamento di Ronchi. Ma nessuno pensa ai due per Peteano.
I depistaggi
Le indagini su Peteano iniziano in maniera a dir poco strana. Non le coordina la Polizia giudiziaria di Gorizia, ma le gestisce il colonnello Dino Mingarelli, che guida la Legione carabinieri di Udine, su ordine diretto del generale Giovanni Battista Palumbo, comandante della Divisione Pastrengo di Milano e piduista.
La quasi totalità delle stragi fasciste è stata coperta da depistaggi sistematici, che funzionavano con lo stesso meccanismo: attribuire alla sinistra estrema i delitti della destra. Così per piazza Fontana, così per Peteano.
Infatti, gli inquirenti provano ad affibbiare a Lotta Continua la 500 esplosiva.
Ma la pista non regge e ne emerge un’altra, non più “rossa” ma “gialla”. Cioè non una pista politica ma indirizzata alla delinquenza (più o meno) comune.
Inizia così un’odissea giudiziaria per sei giovani goriziani, accusati di aver fatto saltare in aria i quattro carabinieri di Peteano per vendicarsi di torti subiti dall’Arma.
I sei scontano un anno di galera. Vengono prosciolti in primo grado, ma sono costretti a giocarsi la partita vera in Appello, dove interviene Trumper.
Trumper il superperito
Secondo la difesa degli imputati goriziani, è decisiva la telefonata anonima che aveva attirato i carabinieri a Peteano.
Trumper, che nel 1976 è già un’autorità nella fonetica, viene incaricato delle perizie e perlustra il Goriziano armato di registratore.
Il risultato è inequivocabile: la parlata del telefonista non è goriziana ma udinese. Per la precisione, il telefonista del ’72 parlava un dialetto tipico della bassa valle del Natisone. Manca solo il nome: Cicuttini.
Ma è quanto basta per scagionare i sei. Ma che fine aveva fatto Cicuttini?
Almirante: tra doppiopetto ed eversione
Finiti sotto processo per il dirottamento di Ronchi, Cicuttini e Vinciguerra sono assolti in primo grado nel 1974.
Ma scappano proprio mentre si prepara l’Appello e gli inquirenti stanno per incarcerarli. Cicuttini, in particolare, si rifugia nella Spagna franchista, grazie a un doppio canale: l’Aginter Press, l’organizzazione semiclandestina che gestiva gli estremisti di destra di tutt’Europa, e il Movimento sociale italiano. In particolare, finisce nei guai Giorgio Almirante, che copre la latitanza dell’ex segretario friulano, mentre i Servizi segreti e alcuni inquirenti depistano alla grande. Perché?
Sul ruolo ambiguo dei Servizi e di settori interi delle forze dell’ordine è inutile soffermarsi: al riguardo continuano a scorrere i classici fiumi d’inchiostro.
Giorgio Almirante nei primi anni ’70
Per il leader missino, invece, si può fare un’ipotesi minima. Cicuttini, infatti, era un personaggio a due facce: da un lato era un ordinovista, anche piuttosto pericoloso, dall’altro restava legato al Msi. Cioè a un partito che in quegli anni aveva sposato una linea di destra conservatrice e legalitaria.
Perciò Almirante lo avrebbe coperto per evitare che il suo partito finisse coinvolto in una strage, tra l’altro a danno dei carabinieri. Ma, come ha ricostruito alla perfezione Paolo Morando nel suo recente L’ergastolano (Laterza, Roma-Bari 2022), non sapremo mai la verità. Formalmente incriminato per favoreggiamento, Almirante si sottrae al processo grazie a un’amnistia. Tuttavia il cerchio attorno a Cicuttini e Vinciguerra si stringe lo stesso.
Trumper e Toni Negri
Grazie anche alla vicenda di Peteano, la reputazione di Trumper cresce a dismisura. Una fama meritata, di cui il glottologo gallese dà prova in un altro celebre processo: quello sul delitto Moro.
Anche in questo caso, la perizia di Trumper è fondamentale per scagionare un sospettato illustre: Toni Negri, accusato di essere il telefonista che aveva segnalato la Renault rossa col cadavere di Moro in via Caetani (in realtà, il “messaggero” era Valerio Morucci).
Toni Negri
L’intervento del prof di Arcavacata, in questo caso, è cruciale per confutare un teorema, accarezzato allora da non pochi inquirenti, secondo cui tra Potere Operaio– di cui Negri era stato leader assieme a Franco Piperno – e le Br ci fosse una continuità assoluta.
Scagionare Negri, come ha fatto Trumper, ha evitato una pista falsa anche se non ha chiarito tutti i dubbi.
Giusto una suggestione per concludere: Trumper è stato collega sia di Negri a Padova sia di Piperno all’Unical. Ma è inutile, al riguardo, aggiungere altro: sarebbe solo l’ennesima dietrologia.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.