Categoria: Fatti

  • Un dicembre che brucia troppo a Fuscaldo

    Un dicembre che brucia troppo a Fuscaldo

    Uno scuolabus in fiamme non è solo inquietante. Ricorda scenari di guerra. Al di là delle cause non ancora accertate, c’è un valore simbolico per l’uso quotidiano del mezzo: trasporta bambini. Gli stessi che ne hanno, probabilmente, visto lo scheletro fumante infine rimosso dalla strada. Solo poco tempo fa sempre uno scuolabus era stato preso di mira da vandali. Entrambi i mezzi sono in uso a una ditta privata. Lo conferma il sindaco Giacomo Middea a ICalabresi.

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    Il piccolo camion con gli aghi di pino andati in fiamme a Fuscaldo

    Mercoledì scorso l’ultimo e strano episodio: bruciano improvvisamente gli aghi di pino nel cassone di un piccolo furgone di proprietà del Comune. Era parcheggiato nel cortile di una scuola media. Mesi fa, invece, sono state squarciate le gomme di un mezzo destinato al servizio di raccolta dei rifiuti. Fatto già accaduto pochi anni fa. Una serie di eventi uniti dal fatto di essere tutti avvenuti a Fuscaldo, cittadina sul mar Tirreno tagliata a metà dalla Statale 18.

    Una “rompiscatole” a Fuscaldo

    Nel silenzio quasi generale spunta Annamaria De Luca. Dopo 20 anni vissuti a Roma, vince un concorso da dirigente scolastico e torna a Fuscaldo. Lavora proprio nella scuola primaria intitolata a sua zia, Angela Maria Aieta, desaparecida durante la dittatura della giunta militare di Videla in Argentina. Annamaria è una di quelle che tanti in paese considerano una “rompiscatole”. Perché non si gira dall’altra parte e fa dell’impegno civile un valore non negoziabile.
    E lei quando vede l’autobus in fiamme avvia subito una diretta su Facebook sollevando il caso. Da giornalista, collabora anche con La Repubblica e il Sole 24Ore, conosce bene la potenza di un messaggio lanciato sui social.

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    Annamaria De Luca, dirigente scolastica dell’Istituto comprensivo di Fuscaldo (foto Alfonso Bombini)

    «Nemmeno Libera parla»

    «I carabinieri indagano, ma una presa di posizione dei cittadini me l’aspettavo. A parte Italia Viva, nessuno ha inteso dire qualcosa, nemmeno Libera». La dirigente scolastica prova a spiegare cosa succede: «È veramente uno scenario non europeo, di un paese in guerra. Forse c’è una guerra che noi non vediamo, forse siamo in guerra. Di certo devono tenere fuori da questa merda i bambini, loro non c’entrano niente. Non posso permettere che vedano scene di questo tipo. Cerchiamo di dare speranza ai ragazzi, facciamo il giardino dei giusti e l’Aula natura, e poi si trovano di fronte a un’immagine del genere. È disarmante».
    Il Giardino dei giusti è stata una sua idea. Lo ha inaugurato il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri nel 2020. Anche questo presidio di legalità ha subito un attacco da parte di ignoti che hanno tagliato gli alberi.

    Le parole del sindaco

    Giacomo Middea viene da Alleanza nazionale. Un passaggio con il Pdl e poi il transito in Forza Italia. Avvocato penalista, da un anno e tre mesi è sindaco di Fuscaldo con una civica di centrodestra. Non si fa mancare un esponente del Pd in maggioranza.
    Sulla questione dello scuolabus in fiamme pronuncia delle parole chiare: «Al momento non abbiamo certezze sulla natura di questo atto. Ma dubito si tratti di autocombustione. Se fosse un gesto doloso sarebbe orribile perché colpisce studenti e ragazzi. Immagini terribili. Siamo pronti a costituirci parte civile se in futuro dovessero essere accertate eventuali responsabilità. Lo faremo immediatamente».

    Il sindaco di Fuscaldo, Giacomo Middea (foto Alfonso Bombini)

    «Intervenga la Direzione distrettuale antimafia»

    Middeo fa il suo mestiere: il primo cittadino. Sa che Fuscaldo è un territorio “caldo”, non più di molti altri paesi lungo la costa.
    Ma non ci sta quando qualcuno vuole dipingere la sua comunità come una terra in piena emergenza criminalità. Non nega la sua presenza. Anzi: «L’inchiesta Tela del Ragno più di dieci anni fa ha allungato i riflettori su questo comune perché c’erano alcune consorterie ritenute tali dalla Dda che operavano ed erano nate nel nostro territorio. Sono fenomeni ad oggi isolati. Mai, però, abbassare la guardia».

    In più circostanze dice di «avere chiesto pubblicamente che fosse implementato il numero di carabinieri a Fuscaldo» e invocato l’arrivo «della magistratura per impedire che determinati fenomeni di malavita organizzata che oggi sono isolati possano diventare consolidati». Le sue parole diventano ancora più perentorie: «Urge un intervento deciso della Direzione distrettuale antimafia». Basta solo questo per capire che il clima non è dei migliori a Fuscaldo. Malgrado i quasi 20 gradi di un dicembre molto caldo. Forse troppo.

    Un tratto del lungomare di Fuscaldo (foto Alfonso Bombini 2022)
  • Il sindaco del rione Santa Lucia

    Il sindaco del rione Santa Lucia

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    Nelle rughe di Faustino Olivito detto “il Caporale” sono scolpiti settant’anni di storia cosentina. I solchi sulla sua fronte sono un reticolato di strade e vinelle, personaggi e aneddoti, profumi, voci, panni stesi al sole e minestre fumanti sui fornelli: c’è dentro la vita di Santa Lucia, uno dei quartieri più suggestivi e chiacchierati della città vecchia.

    Lo chiamano “il sindaco” perché ha l’autorevolezza della memoria storica. E poi ha le chiavi. Faustino è il custode delle chiavi della piccola chiesa di origine medievale dedicata a Santa Lucia, la santa protettrice degli occhi e della vista da cui prende il nome il quartiere. Gliele consegnò anni addietro don Giacomo Tuoto quando era parroco e rettore del Duomo. Sapeva di metterle in mani sicure per garantire a chiunque di visitare quel luogo sacro così importante per i cosentini, nonostante durante la pandemia la statua della Santa sia stata portata nella cattedrale per evitare affollamenti e non sia ancora tornata nella sua casa.

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    Faustino ci pare le porte della chiesa di Santa Lucia (foto Benedetta Caira)

    Faustino con le sue chiavi è l’emblema della resistenza, di chi non scappa e resta aggrappato a ciò che rimane, tra cumuli di macerie e spazzatura, palazzi sventrati dai crolli, vicoli deserti, topaie spacciate per alloggi e date in affitto ai rom.

    Faustino e la festa di Santa Lucia

    Ogni 13 dicembre, giorno della festa di Santa Lucia, lui rinnova il rituale e apre il portone della chiesa ai fedeli che di anno in anno sono sempre meno. E invece ricorda quando la folla era così tanta che la gente doveva sostare sulla scalinata a fare la sua preghiera mentre la piccola navata della chiesa era gremita. A ogni ora a partire dall’alba, veniva celebrata una messa. C’erano i venditori di candele, se ne vendevano migliaia, «ce n’erano di vario tipo – ricorda Faustino – quelle più semplici costavano 50 lire. Tutti i fedeli accendevano i ceri in chiesa e le cassette delle offerte erano sempre piene».

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    Niente più candele accese all’interno della chiesa

    Era una festa solo religiosa, un momento di raccoglimento in cui la comunità si ritrovava, ma oltre ai canti risuonavano tra i vicoli zampogne e tamburi. «Gli zampognari arrivavano da Laino Borgo o da Serra San Bruno all’inizio di dicembre e restavano in città per un paio di settimane, proprio qui sopra – Faustino indica una viuzza – si affittavano letti e loro alloggiavano lì». Non camere ma letti, in quelli che erano B&B ante litteram.

    Il tempo si è fermato

    La piccola chiesa di Santa Lucia, con il suo rosone in pietra, resta un punto di riferimento, nonostante sia stata privata della statua tanto amata dai fedeli, un colpo che ha impoverito il quartiere e ridotto ulteriormente i momenti di socialità. «Spesso arrivano cosentini emigrati, che vivono lontano dalla Calabria e tornano qui per ritrovare la magia di questo luogo, l’atmosfera della loro infanzia. Io apro la porta della chiesa – dice Faustino – e per molti è una emozione grande rivivere il ricordo della festa».

    Faustino “il sindaco” arriva ogni mattina presto e apre le porte della sua piccola putica. Il negozio di alimentari ha oltre cento anni perché fu suo padre ad aprirlo. Qui – come in un incantesimo – il tempo sembra essersi fermato. Cristallizzato a quando – dove adesso non c’è più nessuno – arrivavano i bambini col grembiule a comprare il panino. «Ci mettevo dentro una fetta di mortadella o di salame e costava trenta lire». Le bottiglie di moscato di una marca che non esiste più, la grossa bilancia su cui si posavano gli occhi curiosi degli scolari in attesa della merenda avvolta nella carta oleata, vecchie lattine impolverate e gli adesivi con le réclame che oggi più nessuno conosce.

    Il quartiere che non c’è più

    In vendita sugli scaffali ci sono ormai solo detersivi e poco altro, in questo luogo del cuore Faustino torna ogni mattina non perché deve, ma perché non può farne a meno. «Ci hanno lavorato mio padre, mio zio, mio fratello che ora è in America. Io ci sono entrato quando ero un bambino, ora ho 81 anni: la mia vita l’ho fatta tutta qui dentro. A questo quartiere sento di appartenere nonostante oggi sia irriconoscibile: disabitato, abbandonato».

    Gli occhi di Faustino brillano, sembra quasi di vederle le immagini che scorrono nella sua memoria. Con il dito indica i palazzi, ricostruisce pezzi di storia a partire dai cognomi o dai soprannomi. Si ferma, ricorda meglio, aggiunge un dettaglio. «Ogni casa era abitata. Dove adesso le porte sono sbarrate o murate vivevano intere famiglie. Si festeggiavano continuamente nascite di bambini».

    Sacro e profano

    Santa Lucia ccu l’uacchi pizzuti, fammi truvari na cosa perduta era la preghiera dei fedeli davanti alla statua della Santa, lo ripetevano in coro i bambini scendendo dai gradini di pietra, senza comprenderne neanche bene il significato. «Era bello qui – racconta Faustino – perché era un posto pieno di vita. I negozi di alimentari non si contavano, poi c’erano calzolai, sarti, il quadararo, cinque cantine che vendevano vino. E poi – e i suoi occhi sorridono – c’erano le signorine».

    Vico IV Santa Lucia era luogo di perdizione e peccato. Le prostitute stavano sull’uscio delle loro case ad aspettare i clienti, spesso in abiti così dimessi che si faceva fatica a non confonderle con le massaie intente a scambiarsi confidenze e ricette poco più in là. Molte di loro avevano nomi d’arte e soprannomi fantasiosi e ammiccanti. Tanto bastava ad accendere l’immaginario dei ragazzini che le spiavano da lontano o contravvenivano al divieto di superare i confini imposti dai genitori.

    «Erano clienti del mio negozio – ricorda Faustino – e io le ho sempre rispettate. Sapevo, ma facevo finta di non sapere». La più bella? Franca, detta “la ballerina”, «mezza bionda, bellissima». Molte di quelle signore sono cresciute, diventate mamme e nonne, invecchiate sugli usci delle porte delle loro case, incipriando il viso e ossigenando i capelli nel tentativo di rimanere appetibili, osservando questa parte di città perdere pezzi, crollare, sparire insieme a loro.

    Faustino nel deserto di Santa Lucia

    Continuando arrampicarsi sui gradini, ci si spinge nel cuore del quartiere, si attraversano le sue stratificazioni. Un gruppo di bambini rom trascina un fascio di rami che serviranno per scaldare la notte gelida, montagne di rifiuti, scorci meravigliosi di pietre antiche, case senza tetto, stendipanni carichi di indumenti appena lavati. Da una finestra una signora ci invita a salire: «Ho ammelato mo’ mo’ i turdilli, venite a provarli!».

    Ci si perde tra le strettoie e si incontrano più gatti che esseri umani. Sparse qui e lì ci sono tracce di vite e di devozione: fiori finti e lumini spenti davanti a immaginette sacre ed edicole votive abbandonate. Da lontano si sente una strina, voci di bambini, murales, colore. Poi, d’improvviso, ancora deserto: edifici vuoti, macerie e spazzatura, un cane che abbaia sfinito. Solo il muschio a colorare il grigio dei mattoni, sui portoni i cognomi scritti a penna, sovrapposti a quelli di chi abitava qui quando tutto era integro.

    Un quartiere di paradossi

    Una bestemmia sul muro e una Madonnina afflitta in una teca di plastica: nichilismo e devozione. Perché il quartiere di Santa Lucia è da sempre un luogo di paradossi, ossimori, asimmetrie: sante e puttane, nobiltà e miseria, canti e silenzi profondi come abissi. Pieni e vuoti, memoria e rimozione. Ora per esempio, sta per arrivare una pioggia di fondi del Contratto Istituzionale di Sviluppo: 90 milioni di euro, 24 cantieri che in tre anni dovrebbero trasformare il centro storico e migliorare sensibilmente la qualità della vita di chi lo abita: accessibilità, cultura, turismo.

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    Gli abitanti del quartiere si lamentano della mancata raccolta dei rifiuti (foto Benedetta Caira)

    È il momento di tirare fuori le idee, assicurano gli amministratori, perché tutti i progetti validi saranno finanziati. L’ultima volta lo aveva promesso il Contratto di quartiere, non se ne fece praticamente nulla. Si può cautamente ricominciare a crederci. Non sarà facile ritrovare l’ottimismo, ma viene come sempre in soccorso la saggezza popolare: Santa Lucia ccu l’uacchi pizzuti, fammi truvari na cosa perduta.

  • Nessuno tocchi Gioacchino: a San Giovanni in Fiore è scontro tra Succurro e… Succurro

    Nessuno tocchi Gioacchino: a San Giovanni in Fiore è scontro tra Succurro e… Succurro

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    Di profeti, veri o falsi che siano, la Calabria ne ha avuti parecchi nei secoli. Il più famoso? Senza dubbio l’abate Gioacchino, personaggio simbolo della silana San Giovanni in Fiore. Il religioso si ritrova adesso al centro di un dibattito che nemmeno le sue tanto decantate doti divinatorie gli avrebbero potuto far prevedere. In città, infatti, sta andando in scena uno scontro tutto politico che lo riguarda. O, meglio, che vede coinvolto il Centro internazionale di studi gioachimiti a lui dedicato. A darsi battaglia sono la sindaca Succurro e… l’ex sindaco Succurro.

    I fondi tagliati dell’85%

    La prima, Rosaria, guida il Comune da un paio d’anni ed è anche presidente della Provincia di Cosenza. Il secondo, Riccardo, è l’attuale presidente – e tra i fondatori – dell’istituto culturale che dal 1982 si occupa di studiare e diffondere le opere e il pensiero di Gioacchino nel mondo con ottimi risultati. Il Cisg, infatti, negli anni ha ricevuto riconoscimenti dal Ministero della Cultura e dalla Presidenza della Repubblica per l’impegno profuso nelle ricerche sull’abate, ancora oggi uno degli autori italiani più studiati all’estero.

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    Rosaria Succurro

    La cosa, però, in municipio pare non interessare quanto in passato. Tant’è che la maggioranza che fa capo alla sindaca ha deliberato poco prima di Natale una drastica riduzione al contributo previsto per il Centro. Da quasi 10.500 euro si passa a 2.000 tondi tondi, un taglio di circa l’85%. Tutto mentre il Comune nello stesso periodo stanzia oltre 70mila euro – costo dell’elettricità escluso – per luci artistiche che illumineranno San Giovanni da qui fino a febbraio inoltrato.

    Una variazione di bilancio che fa discutere

    Il caso è scoppiato pochi giorni fa, il 20 dicembre, durante un consiglio comunale di indubbia teatralità, la cui visione si consiglia agli amanti del vernacolo. L’aula si è infiammata quando al centro del dibattito sono finite alcune variazioni di bilancio da ratificare dopo la relativa delibera di Giunta. Soldi spostati da un capitolo all’altro o all’interno dello stesso, col Centro internazionale studi gioachimiti a beneficiare di 8.426,53 euro meno del previsto per il 2022. E gli stanziamenti per la voce “Luminarie e addobbi natalizi” in aumento di 40mila euro.

    Quest’ultima somma, peraltro, coprirà le spese solo per dicembre. Perché, recita la determina 589 del primo dicembre scorso, «oltre al periodo natalizio, è prevista l’installazione delle luminarie artistiche anche in occasione del periodo dei saldi, San Valentino e Carnevale». Ergo, serviranno altri 33.200 euro, impegnati fin d’ora sul bilancio 2023.

    Déjà vu

    Il Comune ha optato, in questo caso, per un affidamento diretto, visto il Natale ormai alle porte. A beneficiarne, una ditta in grado di fornire «installazioni esclusive, originali e dal forte richiamo turistico»: la Med Labor. Più che nella San Giovanni in Fiore del 2022, sembrerebbe di essere nella Cosenza del decennio scorso. Qui si parla di Buone feste florensi, lì si parlava di Buone feste cosentine. Anche all’epoca Rosaria Succurro sedeva in giunta, ma come assessore a Palazzo dei Bruzi. E Med Labor infiammava il dibattito politico (e non solo) come e più di adesso.

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    Palazzo dei Bruzi illuminato dai cerchi luminosi a Natale di qualche anno fa

    L’azienda era, infatti, assisa ad esclusivista o quasi delle forniture di luminarie al municipio bruzio a botte di affidamenti diretti sotto la soglia dei 40mila euro (oltre la quale, per la normativa del tempo, sarebbero state necessarie gare d’appalto aperte a più concorrenti) fatturando somme mai guadagnate prima d’allora. La questione finì pure in un’inchiesta della Procura locale sui cosiddetti “appalti spezzatino”. Nemmeno sfiorata da sospetti Succurro; a giudizio invece, tra gli altri, il titolare dell’azienda insieme ad alcuni dirigenti comunali. La notizia finì al Tg1, ma gli inquirenti fecero un buco nell’acqua: imputati tutti assolti perché il fatto non sussiste.

    La rendicontazione c’è o no?

    Memore senz’altro della buona fattura delle luminarie cosentine, è probabile che la sindaca abbia suggerito Med Labor come «operatore economico con capacità tecniche ed organizzative, che possa fornire quanto richiesto in tempi brevi». Dimenticando, però, l’importanza per San Giovanni in Fiore del Centro studi. E, per di più, senza fornire una spiegazione plausibile al taglio dei fondi.
    Succurro, infatti, nel replicare in aula alle critiche dell’opposizione ha giustificato così la scelta di ridurre lo stanziamento: il Centro non avrebbe rendicontato le attività svolte nell’anno precedente, ragion per cui dargli più dei 2.000 euro rimasti avrebbe potuto creare anche problemi con la Corte dei Conti.

    Succurro vs Succurro

    E qui entra in scena l’altro Succurro, il professor Riccardo, che peraltro di Rosaria è zio. Udite le dichiarazioni della nipote, le ha definite in una nota «fortemente lesive della reputazione e del prestigio del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti». Il giudizio sulla cifra destinata al Cisg dopo la variazione di bilancio? Lapidario: «Mortificante». Non meno severo quello sul perché del taglio ai finanziamenti. «Il sindaco ha affermato che il Centro Studi non ha rendicontato le attività svolte nel 2021. È un’affermazione non vera. Il sindaco mente? Pensiamo non sia informata. Il Centro Studi ha invece rendicontato le attività svolte nel 2021 ed inviato il piano delle attività del 2022 con comunicazioni che gli uffici comunali hanno acquisito agli atti». E con il denaro decurtato prevedeva di realizzare materiale didattico sull’abate Gioacchino da Fiore per le scuole del territorio.

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    Riccardo Succurro

    E l’altro 15%?

    Ad alimentare i dubbi è arrivata un’ulteriore nota, stavolta del Psi locale. I socialisti riportano che «in data 20.07.2022 ed in data 19.08.2022, sono state notificate alla Responsabile del Settore Cultura del Comune due note, aventi per oggetto: “richiesta contributo finanziario per l’attività del CISG”. In entrambe  sono state allegati i seguenti documenti:

    1. Relazione sulle attività svolte dal CISG;
    2. Piano delle attività per l’anno 2022:
    3. Bilancio di previsione per l’anno finanziario 2022.

    Si precisa che i tre documenti inviati sono stati approvati dall’assemblea dei soci ad unanimità».

    Circolano anche immagini di una lettera protocollata che risalirebbe al 28 luglio. Date e protocolli a parte, c’è un dettaglio non da poco: uno dei soci è proprio il sindaco pro tempore di San Giovanni in Fiore. E se anche fossero il professor Succurro o il Psi a non raccontarla giusta resterebbe comunque un dubbio: in assenza delle rendicontazioni, perché dare i 2.000 euro rimasti e non eliminare del tutto il finanziamento, scongiurando così gli eventuali problemi con la magistratura contabile?

    Tressette

    Ma la querelle tra i Succurro non finisce qui. Rosaria nel suo intervento in aula ha aggiunto che la progettualità del Centro dev’essere adeguata alla linea di indirizzo politico dell’amministrazione comunale. Parole che Riccardo ha accolto così:«Il Centro Studi non è un circolo di tressette che dipende dal Comune. Il Centro Studi è un istituto culturale autonomo statutariamente, giuridicamente riconosciuto di valenza nazionale. Il piano delle attività del Centro viene approvato dall’assemblea dei soci dove il Comune è rappresentato. La programmazione pluriennale del Centro è di altissimo livello culturale ed è apprezzata in tutto il mondo».

    Pare che iniziative come il Premio Città di Gioacchino, istituito dalla sindaca e organizzato spendendo qualche decina di migliaia di euro nei mesi scorsi, non incontrino il gradimento del professore. Che alle passerelle di personaggi più o meno illustri continua a preferire lo studio dei testi antichi come omaggio al fondatore della locale abbazia.

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    La tomba dell’abate Gioacchino all’interno dell’Abbazia florense

    Tra zio, nipote e rispettivi enti, insomma, le posizioni sembrano inconciliabili. Qualcuno si diverte a suggerire che per mediare tra le parti si potrebbe piazzare qualche luminaria pure nel Centro Studi. Ma non serve essere «il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato» collocato da Dante nel suo Paradiso per prevedere come andrebbe a finire.

  • Sud chiama Sud: con Filippo Cogliandro il ponte sullo Stretto arriva fino in Gambia

    Sud chiama Sud: con Filippo Cogliandro il ponte sullo Stretto arriva fino in Gambia

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    «Ci tornerò presto. Voglio tornarci. Devo. Ci penso da quando sono rientrato. È una strana sensazione: col corpo sono qui, ma la mia mente è sempre lì». È una soleggiata domenica di dicembre quando incontro lo chef Filippo Cogliandro, Ambasciatore dei Sapori, dei Colori e della Creatività della Calabria nel mondo, un lungo impegno insieme a Don Ciotti, patron del Ristorante L’Accademia, che aderisce all’Alleanza Slow Food dei cuochi, la rete di oltre 700 professionisti della ristorazione che sostengono i piccoli produttori custodi della biodiversità, impiegando i prodotti dei Presìdi. «Sono i prodotti della mia terra a raccontare il mio amore per la Calabria e per le sue tradizioni. Far incontrare eccellenze di diversi presìdi Slow Food serve a innovare la tradizione, costruendo una rete di scambio, di tutela, di opportunità».

     

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    Filippo Cogliandro

    Di lui si conosce la storia della sua lotta contro il pizzo. Ma quello che racconto oggi è il suo impegno per i Sud. Perché il luogo dove Filippo vuole tornare è il Gambia, il più piccolo dei Paesi africani continentali. «Poco dopo il mio rientro sono arrivate le foto dei banchi che abbiamo acquistato per aiutare la scuola islamica del villaggio di Jiffarong nel distretto di Kiang West. È stata una grande emozione. Tubabo (uomo bianco in wolof, nda) – il sottoscritto! – ha fatto un buon lavoro».

    Filippo è l’emblema di ciò che significa fare rete: contattare e mettere in contatto persone, aziende territori e sviluppare nuove opportunità. Il suo viaggio alla scoperta del Gambia, assieme ai suoi cuochi gambiani, sponsorizzato da Olearia San Giorgio, presidio Slow Food del reggino, ne è prova.

    La Notte dello Chef Afro-solidale

    La sua storia inizia diversi anni fa: «Fui contattato dall’associazione Destino Benin, che mi propose di realizzare qualcosa assieme per raccogliere fondi a favore del Benin. Da quell’incontro nacque l’idea della Notte dello Chef Afro-solidale, una sorta di contest cui aderivano i cuochi di Reggio che avevo coinvolto. Organizzavamo un menù degustazione di dieci portate che comprendeva una quota di partecipazione per gli ospiti. Ogni cuoco era chiamato a presentare un proprio piatto. Io acquistavo la materia prima e la mettevo a disposizione di chi l’avrebbe trattata. Tutto l’incasso delle serate veniva devoluto a Destino Benin che lo utilizzava per portare avanti i propri progetti di solidarietà e cooperazione.

     

    Ogni anno veniva eletto lo chef afro-solidale dell’anno, i cui piatti erano stati scelti e/o preferiti agli altri. Poi la pandemia non solo ci ha bloccati, ma ha impedito che il residuo dei fondi donati all’associazione potesse essere speso. Quel residuo sono i soldi che poi sono stati utilizzati durante la mia missione per acquistare quei banchi per i 92 bambini della scuola di Jiffarong, il villaggio di Salihu, perché le scuole arabe non ricevono fondi statali e la loro attività si basa sulla possibilità delle famiglie di finanziarle. Cosa non sempre scontata».

    Il Gambia e il sistema scolastico

    Il Gambia, a maggioranza musulmana, solo nel 2017 ha abbattuto la dittatura che lo opprimeva. Oggi è una Repubblica nuova e fragile che chiaramente ha bisogno di tutto. Il suo sistema scolastico è basato su quello inglese. Esistono asili statali laici, privati e islamici, ma solo i primi sono oggetto di finanziamento pubblico. Nonostante l’articolo 30 della Costituzione preveda un’istruzione libera, obbligatoria e accessibile a tutti, nella pratica il governo non è riuscito a renderla gratuita fino al 2013 per la scuola primaria, al 2014 per la scuola media e al 2015 per la scuola secondaria.

    Accanto al sistema scolastico laico statale ne esiste anche uno islamico con oltre 300 mandrasa dove, oltre alle normali materie scolastiche, vengono insegnati i valori islamici e le sure del Corano a memoria. Le statistiche riportano che, nel 2014, approssimativamente il 15% dei bambini ha completato lì i cicli scolastici obbligatori. Una percentuale importante che dà il polso di come avvenga l’istruzione nei villaggi rurali lontani dalla capitale Banjun.

    Filippo Cogliandro, Abdou Dibbasey e Salihu Barrow

    Il rapporto di Filippo Cogliandro con l’Africa e col Gambia è figlio di una storia precedente. Nel 2013 Abdou Dibbasey e Salihu Barrow sbarcano in Italia. Li attende la trafila di tutti i richiedenti asilo, dato che il Gambia è sotto la dittatura di Jammeh: la richiesta di protezione, l’audizione in Commissione Territoriale, il programma di accoglienza. I ragazzi iniziano il loro percorso di inserimento fin quando, su richiesta della struttura, Filippo attiva dei corsi professionalizzanti di cucina per gli utenti stranieri che di lì a poco sarebbero usciti dai programmi e avrebbero dovuto trovare lavoro. Saper cucinare li avrebbe facilitati.

    «L’obiettivo era dunque quello di trasmettere gli elementi basici della cucina italiana ed europea. Dalla pasta fresca alle salse base. Fu un’esperienza bellissima. Abdou e Salihu si erano dimostrati molto interessati. Poi, quel centro di accoglienza venne chiuso e gli utenti distribuiti in tutta la Regione. Saliou ed Abdou, che erano arrivati in Italia insieme, che avevano condiviso quel viaggio e che, fin dal Gambia, si sostenevano a vicenda, furono separati. Mi scrivevano dicendo che volevano rientrare a Reggio e volevano farlo insieme. Ma non esisteva altra possibilità che chiedere il loro affidamento. E questo feci. Iniziammo le procedure. Nel frattempo, Abdou divenne maggiorenne ed era sul punto di dover lasciare il centro dove risiedeva. La mia proposta fu quella di fargli un contratto di apprendistato. Salihu che, invece, era ancora minorenne, mi fu affidato per quattro mesi fino al compimento dei suoi diciotto anni. Anche lui mi chiese di poter diventare un cuoco e anche a lui proposi un contratto di apprendistato.

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    Abdou Dibbasey e Salihu Barrow

    Ancora oggi sono qui con me, sono i miei cuochi e non hanno solo imparato a cucinare, ma anche a gestire un’azienda di ristorazione: analizzare i costi di approvvigionamento, gestire la sala, occuparsi della parte finanziaria. È la dimostrazione di due cose importanti: la prima è che se vuoi, se ti impegni, ce la fai; la seconda è che stringere alleanze permette di raggiungere obiettivi importanti. Abdou e Salihu sono la ragione che mi ha portato in Gambia, sono stati i miei compagni di viaggio e sono i primi mattoni del ponte che sto costruendo».

    Un ponte tra la Reggio e il Gambia: Sud chiama Sud

    Si tratta del ponte tra Reggio e il Gambia. Abdou è il più giovane cuoco extracomunitario dell’Alleanza Slow Food in Italia; insieme lui e Salhiu, Filippo visita il Gambia in qualità di ambasciatore di Slow Food Calabria. L’idea è diffonderne i valori e l’attività ed entrare in relazione con il Convivium Slow Food Gambia. L’incontro con la referente, Ndeye Corr-Sarr, getta le basi per esplorare opportunità di scambio tra i prodotti calabresi e gambiani.

    Un momento del viaggio di Filippo Cogliandro in Gambia

    «Non mi aspettavo un’accoglienza tanto calorosa. Ho incontrato le massime autorità del Paese: il Presidente della Repubblica Barrow, il ministro degli Esteri, quello dell’Istruzione, il Presidente dell’Assemblea parlamentare e quello del partito di maggioranza. Proprio il Presidente Barrow mi ha detto: “Se volete davvero aiutarci, fate in modo che i nostri ragazzi non lascino il Gambia. Se vanno via i giovani, scompare il futuro“. Vorrei tornare lì e aprire un punto di ristorazione che sia attività imprenditoriale e centro di formazione per chi vuole fare cucina. E voglio che Abdou e Salihu, che desiderano fare ritorno, possano mettere a disposizione le competenze che ho trasmesso loro e fare ciò che io ho fatto con loro: formare e addestrare altri ragazzi. Per questo il viaggio è servito anche a prendere i primi contatti con le scuole alberghiere del luogo.

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    Filippo Cogliandro e Adama Barrow, Presidente della Repubblica del Gambia

    Lo stesso ministro degli Esteri ha accolto con grande piacere la mia proposta e sta valutando la possibilità di creare un consolato onorario a Reggio che sia punto di riferimento per i gambiani che risiedono in Calabria, Sicilia, Puglia. Un primo passo per aprire nuove opportunità di interscambio commerciale tra Reggio e Gambia, dove esiste un buon artigianato, ma manca la piccola industria e non vi sono processi di produzione moderni».
    Gli emigrati gambiani giocano un ruolo importante. Già con le loro rimesse e il loro sostegno dall’estero inviano aiuti in patria che spesso sono impiegati migliorare la vita dei loro villaggi. A Jiffarong, ad esempio, stanno realizzando la delimitazione dello spazio cimiteriale assediato dagli animali selvatici. Persone come Abdou e Salihu potrebbero portare, oltre al denaro, le competenze.

    Le prospettive future

    «Proseguiremo con la realizzazione del tetto della scuola di Jiffarong, sostituendo il vecchio in lamiera con un nuovo coibentato. Noi compreremo i materiali e le famiglie degli studenti lo realizzeranno. Entro fine anno, prima dell’inizio della stagione delle piogge, doneremo i 2000 euro necessari che stiamo raccogliendo, cosicché i ragazzi possano frequentare la scuola in condizioni più dignitose. Tubabo tornerà per continuare a seminare. Perché questo primo viaggio mi ha cambiato la vita e mi ha insegnato la solidarietà. Una solidarietà che ho visto praticare da chi ha nulla o quasi.

    Considera questo: con i soldi che Abdou mandava a casa, il padre acquistava le batterie di alimentazione per gli impianti solari della sua casa. E, sapendo che i suoi vicini l’elettricità non ce l’avevano, inviava loro un suo cavo con la lampadina di modo che la luce arrivasse anche a loro. La bella storia di emigrazione del figlio era un dono di Dio e questa fortuna doveva essere condivisa. Oggi guardo le loro storie e rivedo, pur nella loro diversità, le storie di emigrazione italiana in Australia, America, Francia, Belgio, Svizzera. Lasciare il proprio paese è sempre dura, anche se oggi Internet ci consente di mantenere un contatto stabile».

  • Ecco Medicina all’Unical: la parte clinica sarà all’ospedale di Cosenza

    Ecco Medicina all’Unical: la parte clinica sarà all’ospedale di Cosenza

    «Parte Medicina all’Unical». È questo il titolo della nota stampa diramata dall’Università della Calabria e postata dal rettore Nicola Leone sulla sua pagina Facebook.
    «Medicina e Chirurgia TD (con cliniche all’Annunziata) – Il corso appartiene alla classe delle lauree magistrali LM-41 (Medicina e Chirurgia) e consente allo studente, al termine dei 6 anni e con il superamento di pochi esami aggiuntivi di ottenere un doppio titolo: sarà infatti dottore in Medicina e Chirurgia, con accesso quindi alla professione di medico, e in Ingegneria informatica, curriculum bioinformatico (laurea triennale)». Sono informazioni contenute nella nota stampa dell’Ateneo di Arcavacata.

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    L’Università della Calabria

    Medicina, Unical verso una svolta storica

    «Si tratta di una svolta storica – ha commentato il rettore Nicola Leone – che segue la riforma della proposta didattica di due anni fa. Un passaggio motivato principalmente da due necessità: dare risposta alla crescente domanda di formazione sanitaria che arriva dagli studenti calabresi, e andare in soccorso del territorio che vive da anni una profonda emergenza in campo sanitario, contribuendo allo sviluppo della sanità regionale e favorendo la crescita di competenza in settori strategici della medicina». I corsi di tutti i sei anni saranno quindi nel campus e i tirocini saranno svolti all’ospedale dell’Annunziata, che sarà interessato da un processo progressivo di clinicizzazione.

    «Il progetto – che è stato sostenuto anche dal governatore della Regione e commissario ad acta per la sanità, Roberto Occhiuto – porterà all’ospedale cosentino nuove risorse e valorizzerà i medici già presenti in ospedale, che potranno essere coinvolti nei processi formativi dell’università».

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    Il presidente della Regione Calabria, Roberto Occhiuto

    Medicina, Unical incassa via libera del Coruc

    L’Unical ha già stanziato un primo investimento per l’assunzione di otto ricercatori universitari che svolgeranno attività di didattica e di ricerca in ateneo e che – dopo la firma della convenzione con l’Azienda ospedaliera di Cosenza – potranno prestare servizio clinico in ospedale, unitamente a tre professori medici già nell’organico dell’Unical. I settori disciplinari degli otto ricercatori sono stati prescelti su specialità mediche ad alta migrazione sanitaria e relative a posti attualmente vacanti nell’organico ospedaliero.
    Il Coruc – Comitato regionale di coordinamento delle università calabresi – ha dato il via libera all’istituzione di quattro nuovi corsi di laurea proposti dall’Unical e che entreranno nell’offerta formativa a partire dall’anno accademico 2023-2024, subito dopo il via libera dell’Anvur (Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca) e del Ministero dell’Università e della ricerca, che dovrebbe arrivare nei prossimi mesi.

    Al via pure la laurea in Infermieristica

    L’offerta formativa d’area sanitaria dell’Unical si amplierà nel prossimo anno accademico con l’avvio del corso di laurea in Infermieristica (L/SNT1 – Lauree in professioni sanitarie infermieristiche e professione sanitaria ostetrica). Il corso, che abilita alla professione di infermeria, prevede che le attività di tirocinio si svolgano presso le strutture dell’Azienda Ospedaliera di Cosenza, dell’Asp e dell’Inrca, offrendo così un ulteriore contributo alla struttura con il rafforzamento delle risorse umane disponibili. Gli studenti di Infermieristica svolgono infatti, nel corso del triennio, 1800 ore di tirocinio in corsia e sul territorio. L’attivazione del corso viene incontro alla forte domanda di formazione che arriva degli studenti calabresi, molti dei quali sono costretti a lasciare la Calabria per frequentarlo, e alla richiesta di risorse umane che arriva dal territorio: si stima in regione una carenza di quasi 3mila infermieri.

  • Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

    Dal Colosseo a Cosenza vecchia: così Giorgio Pala vuol cambiare piazza Toscano

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    Un signore distinto si aggirava nei mesi scorsi tra i vicoli del centro storico di Cosenza, incuriosito e affascinato dalle pietre antiche di Corso Telesio. Quel signore si chiama Giorgio Pala, è un architetto di fama nazionale, che recentemente ha lavorato al restauro del parco archeologico del Colosseo. Cosa ci facesse da queste parti è presto detto: il suo studio romano si è aggiudicato i lavori di riqualificazione di piazzetta Toscano e per qualche mese ha frequentato la parte vecchia della città in cerca dell’idea migliore per ripensare questo luogo.

    I soldi del Cis per piazzetta Toscano

    Una partita da un milione e duecentomila euro (soldi previsti dal Piano Sviluppo e Coesione del Ministero della cultura) per mettere mano all’opera più controversa della città, con la sua spigolosa copertura di ferro e di vetro nata per “custodire” l’area archeologica sottostante (i resti di una domus romana tornati alla luce dopo i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale), ma da decenni oggetto di polemiche per lo stato di inesorabile degrado in cui versa. I fondi sono quelli del Contratto istituzionale di sviluppo (Cis) al cui iter per la destinazione alla città dei Bruzi aveva dato un forte impulso la Cinquestelle Anna Laura Orrico, in veste di sottosegretaria nel governo Conte bis.

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    La parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico

    Due giunte, altrettanti progetti

    La struttura attuale, progettata dall’architetto Marcello Guido e realizzata negli anni ’90, è danneggiata in più parti, la manutenzione è complicata e costosissima, i resti romani hanno finito per essere ricettacolo di sporcizia, coperti da erbaccia e buste di spazzatura. Nel 2018 l’allora sindaco Occhiuto annuncia un finanziamento per «una rivisitazione» dell’opera che – garantiva il primo cittadino – l’avrebbe resa «più funzionale, accessibile, visitabile anche nella parte archeologica». Nulla, però, è accaduto.

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    Le erbacce sotto la copertura che impedisce la piena fruizione dell’area

    A distanza di anni, con una nuova giunta in sella, riecco il Cis con un altro progetto. Anzi, due: Pala e il suo team, infatti, nell’aggiudicarsi i lavori hanno presentato due proposte (con una identica previsione di spesa) per la riqualificazione urbanistica e funzionale di piazzetta Toscano con la valorizzazione dei reperti. La prima opzione prevede di salvaguardare l’attuale copertura. La seconda, invece, propone di “smontare” l’opera realizzata in ferro e vetro e dare una nuova vita all’area lasciando la piazza aperta e il parco archeologico fruibile dai visitatori.

    La promessa di Alimena: lavori al via ai primi di gennaio

    Chi deciderà? A scegliere la migliore tra le due proposte presentate dal prestigioso studio romano dell’architetto Pala, aggiudicatario dell’appalto, sarà la Conferenza dei servizi che vedrà riuniti intorno allo stesso tavolo tutti gli enti che a vario titolo sono interessati al futuro di piazzetta Toscano. L’ultima parola sulla riqualificazione di quest’area dall’immenso valore storico e artistico, spetta però alla Sovrintendenza, che potrà porre il suo veto nel caso in cui non ritenga garantita la tutela dei reperti.

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    Il consigliere comunale con delega al centro storico Francesco Alimena (PD)

    Pare quindi che il 2023 sarà l’anno del restyling della vituperata piazzetta, l’apertura dei cantieri è prevista per i primi di gennaio, «la tempistica è chiara, già a metà del mese i lavori partiranno» garantisce Francesco Alimena, oggi consigliere comunale con delega alla città vecchia ma sostenitore dei Cis fin dalla prima ora. «Stiamo per cambiare il volto del centro storico – dice – e questa volta non si tratta di proclami ma di fatti».

  • Vecchie armi e petrolio fresco: come Buffone fregò Gheddafi

    Vecchie armi e petrolio fresco: come Buffone fregò Gheddafi

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    L’unica certezza nei rapporti tra l’Italia del dopoguerra e il mondo arabo è l’ambiguità.
    Di questa ambiguità, che fu un comportamento necessario, uno degli interpreti più abili è Pietro Buffone, storico esponente della Dc calabrese, che gli estimatori e gli amici chiamavano Pierino.
    Gli ispiratori di questa “ambiguità” sono essenzialmente due: Enrico Mattei e Aldo Moro.
    Tuttavia, non serve soffermarsi troppo su questi due giganti dell’Italia contemporanea, perché i protagonisti di questa storia sono altri: oltre Buffone, Roberto Jucci, ex generale dei carabinieri ed ex 007. E con loro, Mu’ammar Gheddafi, vittima di un “pacco” paragonabile alla vendita della Fontana di Trevi nel mitico Totòtruffa.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    Filoarabi e nazionalisti

    Grazie a Mattei e Moro, l’Italia riprende, nel dopoguerra, le linee di politica estera iniziate in età giolittiana ed esasperate dal fascismo: un’attenzione ammiccante verso il mondo arabo, declinata in chiave ora antibritannica, ora antifrancese.
    Con una differenza fondamentale, rispetto al ventennio: questi rapporti non sono più diretti né godono della grancassa della propaganda. Al contrario, sono gestiti dall’intelligence. E, in questo settore, ha un ruolo di primo piano Stefano Giovannone, ufficiale dei carabinieri e agente segreto di fiducia di Moro.
    Giovannone è l’uomo chiave della diplomazia parallela imbastita dal leader Dc, che culmina nel cosiddetto “Lodo Moro”, un accordo con l’Olp di Arafat che preserva l’Italia dagli attentati dei palestinesi.

    Filoisraeliani ma non troppo

    Grazie a questo modo di fare, l’Italia è riuscita a conciliare l’inconciliabile. Cioè l’appoggio ufficiale agli israeliani, imposto dalla Nato, con una simpatia verso il nascente nazionalismo arabo, neppure troppo dissimulata.
    E c’è da dire che questa è l’unica politica mediterranea possibile per l’Italia dell’epoca: un Paese in sviluppo vertiginoso e affamato di energia. Di petrolio in particolare.

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    Il generale Roberto Jucci (a sinistra) con l’ex presidente Francesco Cossiga

    Gheddafi e noi

    Gheddafi è un leader sui generis: antitaliano e panarabista nella forma, è italianissimo nella sua cultura militare, perché si è formato nella Scuola di Guerra di Civitavecchia e in quella di artiglieria contraerea di Brecciano.
    Quando spodesta re Idris, cavalca i malumori contro l’Italia, espelle molti lavoratori italiani, nazionalizza i giacimenti petroliferi, ma si tiene l’Eni, a cui lascia tutte le concessioni e gliene dà qualcuna di più.
    Il tutto a danno della Gran Bretagna, l’ex protettrice della monarchia libica.

    L’amante necessaria

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    Il generale Ambrogio Viviani

    L’Italia lascia fare, perché la Libia di Gheddafi è un’amante necessaria. Quel tipo di amante di cui si dice male in pubblico ma di cui non si può fare a meno.
    Di questo rapporto c’è una testimonianza significativa. Proviene da Ambrogio Viviani, l’ex capo del controspionaggio.
    Viviani rilascia delle dichiarazioni inequivocabili: «Dal ‘70 al ‘74, nel periodo in cui diressi il controspionaggio italiano, la parola d’ordine fu “salvare i nostri interessi in Libia” e impedire che l’Eni fosse buttato fuori. Fu così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime, a rifornirlo di armi, a organizzargli un servizio di intelligence, a circondarlo di consiglieri per l’ammodernamento delle forze armate».

    Lo shock petrolifero

    Negli anni in cui opera Viviani il boom economico subisce un arresto fisiologico e il centrosinistra, che ha accompagnato la crescita degli anni ’60, entra in agonia.
    Il problema energetico, affrontato brillantemente da Mattei e comunque gestito dal suo successore Eugenio Cefis, torna a farsi sentire.
    In seguito alla guerra dello Yom Kippur, combattuta da Egitto e Siria contro Israele (1973), i Paesi arabi produttori di petrolio alzano i prezzi di botto. È il cosiddetto shock petrolifero, che spinge le economie occidentali nella stagnazione.
    L’Italia gioca l’unica carta possibile per sfuggire alla morsa: Gheddafi.

    Petrolio contro armi

    L’uomo chiave della delicata trattativa col leader libico è Jucci, che tiene i contatti. Dietro di lui c’è Pietro Buffone, che in quel frangente delicatissimo è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo Rumor.
    Grazie ai buoni uffici dello 007, il politico calabrese incontra Gheddafi in pieno deserto. E i tre stringono un accordo: l’Italia avrebbe fornito carri armati alla Libia e questa, a dispetto dell’embargo occidentale, avrebbe aumentato le forniture di greggio.

    Enrico Mattei, il papà dell’Eni

    Armi e tangenti

    Affare fatto? Mica tanto, perché mentre l’Italia diventa il principale importatore di petrolio libico, a Gheddafi non arriva neppure un temperino.
    Ma la Dc preme perché l’affare vada in porto, per un motivo in cui opportunismo e patriottismo vanno a braccetto. Come rivela il generale Michele Correra, ex capo delle relazioni industriali del Sid, l’Eni in quegli anni paga alla Balena Bianca una tangente che va dallo 0,5 allo 0,6% su ogni singola fornitura.
    Tuttavia, nella Dc ci sono al riguardo differenze di vedute, che risalgono al ’72. C’è chi, come Aldo Moro, all’epoca ministro degli Esteri, vorrebbe fornire armi italiane, tra l’altro nuove di zecca. E chi, al contrario, teme reazioni americane.

    Aldo Moro negli anni del potere

    La patacca italiana

    Buffone riesce a trovare la quadra: niente carri armati, ma autoblindo corazzate vecchio tipo.
    Per la precisione, uno stock di M113, mezzi blindati risalenti agli anni ’50 e prodotti in Italia su concessione americana.
    Queste blindo, ormai vecchiotte, sono praticamente dismesse dall’Esercito, che le ha cedute ai carabinieri. L’idea di Buffone è semplice ed efficace: requisire i mezzi, riverniciarli e cederli ai libici.
    La trovata riesce e tutti sono contenti: le industrie italiane, che fanno il pieno di petrolio, la Dc, che si rimpinza di tangenti, e i libici, che comunque ottengono dei mezzi di trasporto truppe meno antiquati delle reliquie italiane e britanniche della Seconda guerra mondiale.

    Una vecchia blindo M113

    Buffone? Solo un cognome

    Niente male per un politico poco vistoso e, in apparenza, non troppo brillante. Pietro Buffone non è un militare di carriera né un grande accademico come Moro.
    Ha sì e no la scuola dell’obbligo, ma riesce a trovarsi a suo agio sia nei corridoi di Montecitorio sia in quelli del Comune di Rogliano, di cui è sindaco a lungo.
    Su di lui, resta un giudizio significativo di Jucci: «Nei governi i politici si dividono in due categorie: c’è chi appare e chi, invece, produce risultati nell’ombra».
    A riprova, nel suo caso, che Buffone è solo un cognome.

  • Pubblicità alla Calabria, la Regione salda dopo 11 anni

    Pubblicità alla Calabria, la Regione salda dopo 11 anni

    Quando i calabresi (e non solo) hanno appreso degli oltre due milioni e mezzo di euro spesi dalla Regione per far pubblicità alla Calabria dentro (e di fronte a) la stazione di Milano Centrale non sono stati pochi a storcere il naso, Tra questi, lo stesso governatore Roberto Occhiuto, che già nei mesi precedenti aveva battibeccato indirettamente con l’assessore al Turismo (oggi senatore) Fausto Orsomarso per altre iniziative promozionali. Troppo calda ancora la figuraccia fatta col mitico corto di Muccino, costato l’ira di Dio tra realizzazione e messa in onda, per permettersi nuovi passi falsi nel campo del marketing territoriale e del turismo.

    A volte ritornano

    Una soluzione per evitare – o, quantomeno, posticipare – nuovi esborsi monstre dai risultati imprevedibili, però, alla Cittadella la conoscono già. Basta fare come con mamma Rai, che per farsi pagare quanto le spettava dopo aver promosso la Calabria in tv ha dovuto aspettare un’eternità. Risale infatti al 2011 una pratica riemersa dai cassetti e riapparsa in queste ore sul Burc. Cosa c’è scritto? Che i contribuenti calabresi si troveranno a spendere nei prossimi giorni oltre 800mila euro destinati a pubblicizzare il nostro territorio oltre un decennio fa.

    Miss Italia a Reggio Calabria, pubblicità per la regione

    All’epoca dei fatti a regnare sulla Cittadella è Peppe Scopelliti, ex sindaco di Reggio. Ed è proprio in riva allo Stretto che si terrà la finale di “Miss Italia nel mondo”. La Rai ha 180mila buone ragioni per far svolgere l’evento lì, tante quanto gli euro (Iva esclusa) che la Regione sborserà per la copertura dell’evento e la celebrazione dei luoghi che lo ospiteranno. Ed ecco i vertici di Germaneto e Saxa Rubra stipulare una prima convenzione il 5 agosto 2011. Ne seguirà, quattro mesi dopo, una seconda. La cifra, stavolta, è più alta, il doppio della precedente. Per 360mila euro più Iva la Calabria troverà spazio in alcune trasmissioni della Tv di Stato nel corso del 2012: Uno Mattina, Linea Blu, Sereno Variabile e la Giostra sul Due.

    Impegni

    Gli italiani vedono la Calabria sulla Rai, ma la Rai non vede un centesimo dalla Calabria. Gli anni passano e in viale Mazzini iniziano a lamentarsi del ritardo. Email e telefonate alla Cittadella si susseguono, le risposte però non sono quelle che ci si aspetterebbe. Soldi, infatti, a Roma non ne arrivano. Dal Bilancio provano a saldare parte del debito con i quattrini impegnati per la promozione turistica illo tempore, ma la somma basterebbe a versare più o meno la metà del dovuto. Del resto del denaro (e dei relativi impegni di spesa) non c’è traccia. Ci si mettono pure di mezzo problemi informatici alla piattaforma dei pagamenti. E così dalle casse regionali finisce per non uscire neanche un centesimo.

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    La sede della Rai in viale Mazzini a Roma

    Il tribunale dà ragione alla Rai

    A essere scomparsi, oltre ai soldi che ci si aspettava già impegnati alla luce delle due convenzioni, sono anche quelli del Dipartimento Turismo, a cui toccherebbe gestire la vicenda. A nulla valgono le sollecitazioni dei colleghi che si occupano dei conti regionali. Nonostante la Rai chieda soldi ormai dal 2016, nonostante abbia fornito più volte negli anni ogni documento possibile (a partire dalle fatture), nonostante abbia pregato la Regione di non farsi portare in tribunale per farle sborsare il dovuto, nonostante in tribunale ci sia effettivamente andata e quest’ultimo abbia riconosciuto con un decreto ingiuntivo ormai esecutivo da maggio 2021 che quei soldi la Rai dovrà averli entro i successivi 40 giorni, non succede nulla fino a quest’estate.

    Regione Calabria, riecco i soldi per la pubblicità

    È il 28 giugno 2022 – qualcuno trova la formula più efficace per svegliare dal torpore anche il più inoperoso dei burocrati: se ci saranno ulteriori aggravi di spesa, a pagare di tasca propria saranno funzionari e dirigenti rimasti immobili fino a quel momento.
    Come per magia – ma senza troppa fretta, alle tradizioni non si rinuncia – riparte l’iter. Prima (siamo in autunno) arriva la copertura finanziaria per circa 400mila euro. Poi, con atto del 14 dicembre pubblicato sul Burc di ieri, si ufficializza come debito fuori bilancio da sentenza esecutiva il resto della somma. Che nel frattempo, tra interessi e spese legali è arrivata a poco più di 816mila euro. Se una parte dovrà essere a carico di qualche burocrate regionale è materia da Corte dei Conti. Ma una cosa è certa: se fossimo nei panni della concessionaria che si occupa della Calabria Straordinaria targata Orsomarso nella stazione Centrale, di fronte a precedenti come questo, qualche preoccupazione per il futuro l’avremmo.

    La cittadella regionale di Germaneto
  • Un Natale con Donna Pupetta (e nipoti)

    Un Natale con Donna Pupetta (e nipoti)

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    Me l’hanno chiesto e strachiesto, in questi mesi di silenzio del giornale: che fine ha fatto Donna Pupetta? Sta bene? Tornerà a fare sentire la sua voce rauca e i suoi colpi di tosse? Non c’è da preoccuparsi, Pupetta sta benissimo, chi l’ammazza? Però ora, dovete capirla, è alle prese con i nipoti venuti da Roma per Natale, i nipoti biondi. Perché poi – come ho già detto – ci sono i nipoti bruni, quelli che a Roma al massimo ci studiano ma che sono nati e cresciuti a Cosenza.

    Eleganza e sobrietà

    E le nipoti femmine? Quelle si distinguono in due categorie, un po’ più libere dai condizionamenti geografici. C’è la nipote copia conforme della nonna Pupa e c’è la nipote con un passato di trasgressioni che Pupa faticherebbe a riassumere in un proprio incubo. Tra le due nipoti, una tacita disapprovazione reciproca, mascherata dal legame di sangue. Da una parte potete osservare le Hogan d’ordinanza (vi prego, smettetela, ci siete rimaste solo voi e qualche estetista della più profonda provincia circumvesuviana, che ritenete erroneamente ai vostri antipodi). Dall’altra, potete ammirare una memorabile collezione di sbronze a suon di Negroni, innocenti cannette in non modica quantità, e molte strisce ben poco pedonali, sul servizio buono di piatti ben scaldati all’uopo.

    Donna Pupetta, in tutto ciò, supervisiona, forse ha fatto finta di non sapere: ormai sono grandi, ‘ste nipoti («Azzilio! – rivolgendosi al primogenito, referente per diritto antico – ma picchì ‘su piattu è vrusciatu ‘i sutta?» ha chiesto spesso, in passato, tornando dalla settimana bianca in Sila, anzi, in Zila, ignorando che la settimana era più bianca a casa sua).

    Roma vs Cosenza: nipoti a confronto

    Generalizziamo, su: la nipote con le Hogan ha studiato a Roma. Ma non ha vissuto a Roma. Ha vissuto solamente nel raggio di 100 metri da Piazza Bologna. Hic sunt leones, forse sarà scritto al di là di quella cortina. E il latino, innamorata di Roma, lei lo sa (ma lo ha imparato al Telesio, anzi, al tzelàsio). Per inciso: Roma non si è mai accorta di lei.

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    Roma, l’ingresso della metro a piazza Bologna

    La nipote (ex) sballata ha studiato a Roma, pure lei. Ma poi chissà perché – il richiamo della terra o delle entrature paterne? – è tornata alla base. In genere, dopo il picco della trasgressione e magari un paio di amori o un viaggio all’estero particolarmente catartico (crediamoci), fa finta di mettere senno e allora assume una posa da gattara chic, sorta di futura Donna Pupetta declinata in gauche caviar, e va ad abitare in una delle molteplici case sfitte rientranti nel cospicuo patrimonio paterno e materno (distinguere le due cose, sempre), possibilmente nel centro storico, che fa un po’ bohémien, purché la dimora sia inserita in un vecchio palazzo nobiliare e non certo in un rione subalterno.

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    Manifesto pubblicitario della ditta Mancuso & Ferro, inizi ‘900 (Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia)

    Sigaretta in bocca, cellulare tenuto a fatica tra l’orecchio e la spalla, capelli spettinati, l’altra mano ha finalmente ritrovato in camera da letto il posacenere-ricordo del bisnonno-bene, dopo aver perlustrato casa ciabattando in sandali etnici usati a mo’ di pantofola, proprio due guanti quando scivolano sulle cementine colorate (purché Mancuso&Ferro D.O.C.). Talvolta arriva anche a figliare. Altrimenti, come minimo, “e se nasce una bambina poi…“ la chiamerebbe Cosenza (il discorso vero, sentito con le mie orecchie, era leggermente diverso ma la sostanza non cambia). Di più simpatico, rispetto a sua cugina hoganifera, è che lei almeno parla senza vergogna il più sboccato dialetto. Vivaddio.

    A spasso con Donna Pupetta: Cintuzzu e i Bee Gees

    Faccio un giro con i nipoti e le nipoti di Pupetta e mi mostrano – come se non le conoscessi – certe “meraviglie” di Cosenza (questi esemplari sociali sono sempre fierissimi di questa città, non c’è niente da fare). E va bene, se non fosse che ogni due secondi tirano fuori Roma. Anzi, non Roma. Una certa Roma. Quella per me più orrenda, banale, vuota, rispetto a quell’altra Roma che si potrebbe conoscere e che spesso gli stessi romani conoscono poco. A Cosenza mi fanno rivedere la statua in onore di Cintuzzu, vicino alla Fontana di Giugno. Ma mi dicono che in verità sarebbe Giacomo Mancini, ora pro nobis. Boh, sarà, a me sembra Cintuzzu.

    Poi girano intorno alla rotonda alla fine di viale Cosmai, in tempo per non sporcarsi di Rende – dicono – e mi mostrano tre sagome in ferro arrugginito. Penso, ogni volta: sembra un monumento ai Bee Gees, vista la posa. E invece no, in ricordo della vittima – Sergio Cosmai, appunto – si è fatto un monumento al commando dei criminali. Stayin’ alive proprio per niente. E vabbé, de gustibus. Torniamo verso il centro e mi tocca sentire le lodi al ponte di Calatrava. Ponte? Avevo sempre creduto fosse un monumento alle disfunzioni erettili. Chiederemo all’andrologo dell’architetto (ma il suo Padiglione Quadracci, a Milwaukee, conferma e rafforza la mia idea, visto che ha tanto di controparte presente).

    Fallo!

    Certo non è un caso che il ponte sia stato messo simbolicamente lì, “tra Gemma a Felicetta”, ultimo di ben cinque ponti sul Crati nel giro di un chilometro. Poi niente fino a Castiglione (eccettuato quello della Silana-Crotonese): non sarebbe stato più utile altrove? Eureka: deve essere un’onta vendicativa da parte dell’architetto spagnolo nei confronti del machismo calabro, di cui dovrebbe risentirsi anzitutto il cosentino medio (maestro dell’I me mine harrisoniano, ma in salsa Laqualunque), e poi l’Accademia del Peperoncino di Diamante, che dovrebbe spalmare di piccante l’antenna del ponte o inviare creme all’architetto. Per uso esterno. Detto ciò, dopo il balanico Elmo di Paladino (ho scritto proprio balanico, non balcanico), cosa riserverà nel futuro il fallico arredo urbano cosentino? E se l’Elmo sta a metà tra il Comune e don Giacomo, allora cosa vorrebbe significare?

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    L’Elmo in piazza dei Bruzi

    Boh, a Pupetta non piace tutta questa novità («era meglio la fontana di Giugno», appunto). Ai suoi figli piacevano le colombe rapaci di Piazza Kennedy. Nipoti maschi e femmine adorano il ponte (e ci si potrebbe fare due domande sui loro più reconditi desideri). Comunque sì, i nipoti e le nipoti di Donna Pupetta adorano Cosenza alla follia e se ne riempiono la bocca, sempre a vocali più sguaiate. E quant’è bèlla Cosènza e quant’è bèlla la Sila. E basta, cambiate disco!

    Donna Pupetta e la pasta alla Giancaleone

    Così anche le nuove e giovani pupette più o meno romane saltano da una vigilia di Natale ad una cena fuori con le amiche mai perse (benché ad ogni incontro sembra che non si vedano da una vita), ovviamente nella facile ricerca di una pasta alla Giancaleone, misteriosamente onnipresente in tutti i menù cosentini, addirittura presentata quale piatto tipico della città. Ma chi se ne frega della pasta alla Giancaleone, vogliamo dirlo? Lo dice Donna Pupetta: «Io, ai tempi miei, non l’ho mai sentita – cof cof – tutto diverso, tutto cambiato». E c’ha ragione, Donna Pupetta. A noi cosa resta? I settantenni con lo smanicato, le signore con la sigaretta elettronica e il tavolo del cenone con sopra il baccalà e sotto una selva di Hogan.

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    Le origini (e le virtù) della pasta alla Giancaleone restano avvolte nel mistero

    Forse dobbiamo quasi quasi tutelarla, Donna Pupetta, che resiste alle mode a salvaguardia della tradizione: il presepe barocco del suo bisnonno, ogni anno tirato fuori da qualche cassapanca, i torroncini di Renzelli (acciaio puro, delizia di miele e zucchero su ricetta – palesemente – di qualche dentista), la lotta eterna tra i fichi di Bertini e quelli di Garritano, oppure i cuddrurìaddri che nessuno fuori di qui sa pronunciare… ma smettiamola pure noi col tentativo di insegnarlo: anche noi abbiamo scocciato. E semmai cerchiamo di abbandonare certe pronunce raccapriccianti: ad esempio i profìtterol, il gattò di patate e le graffe.

    Auguri alla “Gloria” e zuppa a Santo Stefano

    Sono certo che una Pupetta mi chiamerà per farmi gli auguri. Il 24. E, da brava cosentina, da ferrea tradizione lo farà rigorosamente alle 21:00. E mi inviterà, e ne sarò onorato, per il 26. Giornata della zuppa santé o, meglio, sandè. Speriamo bene…
    Intanto: buon Natale di cuore a tutte le Pupette di Cosenza, consapevoli e non, attuali e future.

  • Costa tirrenica, fa più danni l’uomo o lo tsunami?

    Costa tirrenica, fa più danni l’uomo o lo tsunami?

    L’allarme tsunami diramato in tutta fretta dalla Protezione civile il 4 dicembre scorso ha mandato in fibrillazione tutti i comuni della costa tirrenica. Hanno chiuso scuole, uffici, bar e tutto ciò che si trova sul lungomare. Poi, cessato l’allarme, i residenti hanno cominciato a porsi domande. Basta la caduta di un costone dello Stromboli per diramare un allarme tsunami? Basta un’onda di un metro e mezzo per chiudere scuole e attività produttive? E le mareggiate invernali con onde fino a 9 metri, come quelle di qualche settimana fa, dove le mettiamo? È fin troppo logico e chiaro che qualcosa nelle nostre coste è cambiato, e di molto. Il problema sta tutto nell’erosione costiera che colpisce l’intera Calabria da almeno venti anni. Procede rapida, ma poco o nulla hanno fatto i nostri amministratori pubblici per cercare di fermarla o, almeno, arginarla.

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    Un’eruzione dello Stromboli ha destato allarme sulla costa tirrenica calabrese

    La speculazione edilizia sulla costa tirrenica

    Paghiamo il prezzo della speculazione edilizia degli anni ’80, quando la sabbia del mare servì per costruire villaggi e alberghi. E paghiamo anche il saccheggio dei fiumi. Milioni di metri cubi di sabbia trasportata per millenni dai corsi d’acqua servirono per costruire ogni sorta di edificio. Poi la prima grande mareggiata portò a gettare a mare migliaia e migliaia di massi di cemento. Sarebbero dovuti servire a difendere la linea ferroviaria e, naturalmente, tutto ciò che di abusivo si era realizzato lungo le coste. Ditte legate alla cosca di Cetraro bucarono montagne e colline per trasportare massi che non servirono a fermare la furia delle mareggiate che anno dopo anno divoravano decine di metri di spiaggia. Poi, in nome del turismo, ecco la nascita di chioschi e stabilimenti balneari che tolsero altra spiaggia. Un disastro annunciato.

    La febbre dei porti

    Come se non bastasse, arrivò la corsa ai porti. Negli anni ’90 la portualità ricevette dall’Europa e dai governi milioni a non finire. A lucrarci su furono tanti, i risultati positivi pressoché nulli. L’erosione continuava, ma bracci a mare distrutti poi dalle mareggiate nascevano comunque. Cittadella del Capo, Diamante, Belvedere, Scalea, Fuscaldo, Paola, Campora San Giovanni: ogni Comune presentò un progetto per avere il proprio porto. Alcuni ebbero anche qualche autorizzazione che li indusse a gettare massi per costruire i bracci, ma solo i comuni di Campora e di Cetraro riuscirono a costruirli. Peccato che non lo abbiano fatto nel migliore dei modi, tant’è che ogni anno si registrano insabbiamenti, con relativo esborso per liberare i pescherecci incagliati.

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    Una ruspa in azione all’imbocco del porto di Cetraro per evitare che le barche si incaglino

    Costa tirrenica, arrivano le dune

    Adesso arrivano le dune a difesa di caseggiati e lidi balneari, chissà se tutte autorizzate. I lidi, lasciati soli, fanno da sé. Ed ecco in azione decine di ruspe che per km, lungo tutte le spiagge, si mettono al lavoro per alzare dune di difesa. Questo vuol dire un grave danno alla vegetazione dunale, alle stesse dune naturali. Così facendo, paradossalmente, si favorisce ancora l’erosione costiera. Il mare non trova alcun ostacolo e avanza, inglobando pezzi interi di spiaggia.

    Franano le colline

    Il prolungarsi delle piogge rende i terreni collinari più fragili; massi e pietrame si staccano e ostruiscono la linea ferroviaria e le strade. La tragedia di Ischia ha portato a riflettere (speriamo) sulla speculazione edilizia su quell’isola, ma il problema riguarda l’intero Sud ed i cambiamenti climatici stanno mettendo in evidenza tutte le criticità. Due frane hanno interessato altrettanti paesi della costa nei giorni scorsi. Una si è verificata a San Lucido: è crollato un costone roccioso che sovrasta il tracciato ferroviario della galleria San Lucido-Paola e ha rischiato di interrompere il traffico ferroviario. L’altra è avvenuta a San Nicola, con Italia Nostra a organizzare un sit-in lungo la strada provinciale per smuovere le autorità.

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    La frana a San Nicola vista dall’alto

    L’associazione ambientalista, in un comunicato del 12 dicembre scorso, spiega che «la Provincia di Cosenza nella persona del dirigente Gianluca Morrone e del responsabile del Servizio tecnico viabilità, Settimio Gravina interviene sulla questione specificando che “l’evento franoso che ha causato l’interruzione della SP n.1 è dovuto allo smottamento di un gran quantitativo di materiale terroso di riporto ed usato come riempimento di un impluvio naturale per la realizzazione di un’area di parcheggio di proprietà della Società Immobiliare Mediterranea S.P.A”».

    Una goccia nel mare di cemento

    La cosa, si legge ancora nel comunicato, ha portato la stessa Provincia a diffidare l’azienda affinché provveda «ad eseguire con la massima urgenza i lavori di messa in sicurezza della scarpata sovrastanti la strada provinciale , mediante la realizzazione di tutte le opere necessarie al consolidamento del versante». In caso contrario, «qualora si dovessero prorogare i tempi di ripristino della viabilità la Provincia si determinerà ai fini giuridici per la richiesta di eventuali risarcimenti anche per il disservizio creato all’utenza», riporta ancora Italia Nostra.

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    La protesta a San Nicola dopo la frana

    Ma non basterà mettere una toppa a San Nicola, perché tutto il territorio collinare è stato devastato. Basta guardare le nostre colline per vedere a che livelli di cementificazione si è giunti. E lo capiremo meglio nei prossimi mesi se il maltempo non si fermerà.