Categoria: Fatti

  • Il rivoluzionario e il Garofano: Lo Giudice, l’ultimo dei craxiani

    Il rivoluzionario e il Garofano: Lo Giudice, l’ultimo dei craxiani

    Enzo Lo Giudice, paolano doc scomparso nel 2014, fu l’avvocato di Bettino Craxi ai tempi di Tangentopoli.
    Infatti, era diventato noto, soprattutto negli ultimi anni, per la sua difesa a spada tratta nelle aule del Tribunale di Milano del leader del Garofano.
    Eppure Lo Giudice non fu solo il difensore del segretario del Psi.

    Lo Giudice marxista e rivoluzionario

    Nel 1968, l’avvocato fu tra i fondatori della rivistaServire il Popolo e dell’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti).
    Quest’ultima era una formazione extraparlamentare piccola e combattiva, molto critica nei confronti de Pci. E vi militò, come padre fondatore, anche Aldo Brandirali, diventato in seguito esponente di spicco di Comunione e Liberazione.
    Enzo Lo Giudice, così lo racconta Stefano Ferrante nel suo libro La Cina non era vicina, era un organizzatore di rivolte dei contadini calabresi e dei senza casa.

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    Enzo Lo Giudice

    Il Tirreno in rosso

    A quei tempi Paola e Cetraro erano diventati i centri principali delle “lotte proletarie” del Meridione. Lì erano di casa l’attore Lou Castel (interprete de I pugni in tasca) e il regista Marco Bellocchio, che proprio sul Tirreno cosentino girò il documentario Paola-Il popolo calabrese ha rialzato la testa. Queste vicende sono tornate da poco alla ribalta grazie al libro di Alfonso Perrotta, Maoisti in Calabria che ripercorre con notizie inedite quell’epoca avventurosa .

    Gli esordi: dalla sinistra alla rivoluzione

    Ma riavvolgiamo il nastro. Sin da giovanissimo Enzo Lo Giudice coltivò la passione per la politica.
    Figlio di ferroviere, aderì al Psi. Militò nella corrente di sinistra di Lelio Basso. Già collaboratore de La parola socialista, il periodico di Pietro Mancini, Lo Giudice passò nel Psiup. «Era un periodo – disse una volta – in cui rinnegavamo la linea revisionista di tipo elettorale che aveva corrotto il Pci dopo la svolta di Salerno di Togliatti nel 1944».

    Avvocato e scrittore

    Arrestato nel 1971 durante un comizio, Enzo Lo Giudice si alternò tra l’avvocatura (fu tra i difensori nel processo napoletano ai militanti dei Nuclei armati proletari), e la scrittura. Pubblicò il romanzo Donna del Sud e i saggi Sud e Rivoluzione, La questione cattolica, Processo penale e politica, Il diritto dell’ingiustizia, La democrazia impossibile o dell’utopia.
    Nel 1978 difese anche l’anarchico calabrese Lello Valitutti, testimone della morte di Giuseppe Pinelli ai tempi della strage di Piazza Fontana a Milano. Valitutti era finito in carcere perché accusato di appartenere al gruppo estremistico insurrezionale Azione rivoluzionaria.

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    L’anarchico Lello Valitutti

    In ricordo di Bettino

    Tra i promotori della Fondazione Craxi, Lo Giudice ha raccolto nel libro Le urne e le toghe (2002) alcuni contributi del segretario del Psi sui temi della giustizia e del ruolo della magistratura in Italia.
    Sull’argomento il nostro era ferratissimo: proprio Craxi gli aveva affidato le difese più ardue da tutte le accuse del pool di Mani pulite, in particolare quelle di Antonio di Pietro.
    Quello tra Lo Giudice e Craxi fu un incontro di storie diverse: il rivoluzionario e il riformista si trovarono uniti in una battaglia impossibile a garanzia della libertà politica, in una Italia che voleva sostituire il giustizialismo alla giustizia.

    Veleno su Tangentopoli

    Da qui il giudizio tranchant di Lo Giudice su Tangentopoli, ribadito nel 2003 in una intervista a Critica sociale.
    «Craxi – ha dichiarato l’avvocato – è stato giudicato colpevole in un processo senza contraddittorio sulla base di semi-prove precostituite fuori dal dibattimento, nel quale l’imputato è stato privato del principale diritto di difesa, quello di interrogare e fare interrogare i suoi accusatori».

    Un processo “rosso” a Craxi

    Più dura l’accusa politica: «La linea della sinistra è stata traslata nella giurisdizione che ha avuto come programma “la questione morale”, in forza della quale i giudici sono diventati sacerdoti ordinati dal popolo alla grande missione. Craxi era “un delinquente matricolato” e doveva essere condannato comunque».
    Per questo suo impegno più “politico” che “legale”, Craxi volle manifestargli in una notte di dialoghi ad Hammamet tutta la sua amicizia: «Lei non riesce a darmi del tu – gli disse una volta – eppure io finalmente ho trovato un amico. Che io lo sia per lei, già lo so».

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    Bettino Craxi ad Hammamet

    A tu per tu col leader in disgrazia

    In alcuni scritti, in parte inediti, Lo Giudice parla del suo rapporto intimo e allo stesso tempo rispettoso col segretario del Psi. Soprattutto dei lunghi dialoghi intercorsi nel residence-prigione della Tunisia.
    In particolare, sono illuminanti le parole sul “dispiacere” che Craxi provava in “esilio” a causa della diaspora in atto nel partito.
    Nei tanti momenti di sconforto, il pensiero che forse lo assillava di più era quello di non aver potuto compiere il “miracolo” dell’unità socialista – anche con il Pci che avrebbe dovuto “socialdemocratizzarsi” – per ricollocare l’antica famiglia della sinistra riformista nell’ambito della grande tradizione socialista italiana ed europea.

    La rivoluzione abortita dalle toghe

    «In una delle conversazioni notturne ad Hammamet – scrive Lo Giudice – Bettino Craxi mi confidò il suo cruccio: la falsa rivoluzione dei magistrati aveva interrotto l’impegno principale del suo lavoro politico, l’impresa storica della riunificazione di tutti i socialisti nel grande partito riformista, strumento di modernizzazione del paese». La prospettiva craxiana «era l’allargamento dello spazio in cui collocare la forza autonoma socialista che si liberava dalle regole rigide dell’economia capitalistica e dal massimalismo e dal dogmatismo della sinistra radicale».

    I pubblici ministeri Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo insieme al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli

    L’utopia umanitaria di Bettino

    Ancora: «Craxi era convinto che i grandi interessi generali del popolo lavoratore avrebbero alla fine sostenuto il primato degli ideali socialisti. Il sistema della libertà e la carta dei diritti umani avrebbero potuto battere il fronte degli opportunismi politici». Queste riflessioni trovavano riscontro nell’analisi a posteriori di Lo Giudice in uno dei suo scritti: «Il nostro paese soffre per il basso livello culturale della lotta politica, dalla quale provengono odi, risse e veleni».
    Perciò «nella confusione incestuosa di destra e sinistra si va aprendo uno spazio dove ha diritto di vivere l’autonomia socialista, unica alternativa valida, sia come teoria che come pratica politiche».

    L’alternativa socialista secondo Lo Giudice

    L’alternativa socialista, conclude l’avvocato, «ha un suo programma risolutivo di questa tenaglia economica che è grave perché non riduce ma amplia il divario ricchezza-povertà. Serve, dunque un soggetto politico che conti, capace di raccogliere l’esigenza del partito già manifesta e quella ancora potenziale ma che si avverte in ogni angolo del paese».
    Malato da tempo Enzo Lo Giudice si è spento a Paola. La sua città lo ha onorato dell’intitolazione di uno spazio antistante il Tribunale.

    Resta tuttavia ancora non “comprensibile” il motivo della celebrazione dei suoi funerali al Convento di San Francesco, per un ateo convinto come lui, che aveva sempre manifestato ostilità nei suoi scritti nei confronti della religione e dell’operato della Chiesa.

    Alessandro Pagliaro

  • Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Melia e le grotte di Trèmusa: se un disastro si trasforma in opportunità

    Quella di Melia è una storia di rigenerazione. Una rigenerazione che parte dal basso, da piccoli passi compiuti sui territori da cittadini che, da una parte, si battono contro l’abbandono e l’isolamento e, dall’altro, fanno squadra per valorizzare le proprie comunità ed i tesori che custodiscono. In altri termini trasformano un disastro in opportunità. Vediamo come.
    Melia, provincia di Reggio Calabria, è una borgata di Scilla abbarbicata sulle pendici dell’Aspromonte, appena fuori dall’area di competenza del Parco. Non si tratta di un dettaglio perché le grotte di Trèmusa, ad oggi ancora inaccessibili per la frana di cui parleremo, hanno fornito un contributo essenziale per i riconoscimenti guadagnati dal Parco Aspromonte in ambito Unesco.

    L’antefatto: Melia isolata

    A giugno 2021 si verifica una frana sulla strada interpoderale nel territorio della frazione scillese. Ne segue, il successivo dicembre, una seconda che lascia praticamente il territorio isolato. Si tratta dello smottamento della Strada Provinciale 15, Scilla-Melia. Qualche anno prima la Città Metropolitana aveva stanziato 300 mila euro per interventi di messa in sicurezza in un cantiere partito e abbandonato da tempo.

    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia
    La frana sulla Sp 15 Scilla-Melia

    La frana del giugno 2021 ha consentito di organizzare una ricognizione archeologica nell’area immediatamente adiacente alle grotte di Trèmusa. La ricognizione è stata promossa dall’associazione Famiglia Ventura, supportata dall’associazione La Voce dei Giovani e dalla parrocchia di Melia, finanziata dai Lions e diretta dall’archeologo Riccardo Consoli. Due i gruppi di lavoro: il primo coordinato dal topografo Antonio Gambino, che si è occupato di effettuare i rilievi e la pulitura paesaggistica nella zona delle gole; il secondo da Consoli, che ha effettuato una prima indagine stratigrafica del suolo.

    Risultati superiori alle aspettative

    Doveva trattarsi di una semplice attività didattica con gli studenti dell’Università di Messina e di Firenze, ma i risultati hanno superato le aspettative.
    Ne è emerso un quadro affascinante: sotto il manto stradale sono state individuate diverse stratificazioni, risalenti a diverse epoche che vanno dal periodo tardo ellenistico a quello borbonico. Riemersi parte del percorso di epoca romana e un ciottolato di età borbonica. Le ricerche hanno permesso di individuare il tracciato della vecchia Popilia proprio presso il valico del Vallone Favazzina su cui affacciano le gole di Trèmusa. Non era scontato che fosse così: non vi era certezza che la strada consolare romana passasse da quell’area.

    La Storia è passata da Melia

    Lo spiega Riccardo Consoli, archeologo dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Assieme a Lino Licari, guida paesaggistica e archeologo ante litteram, e a Gambino, Consoli ha compiuto i rilievi. Secondo il ricercatore quello delle grotte di Tremusa «è l’unico passaggio per attraversare il territorio venendo da Nord. Superati i piani di Corona, giunti e oltrepassati i piani di Solano, sorpassato il Vallone di Bagnara e arrivati a Favazzina, sarebbe stato difficoltoso dirigersi a Sud scendendo verso il mare per poi risalire. Dato che è accertato che il percorso della via Popilia passasse dai piani, l’unica via percorribile doveva passare per il Vallone di Tremusa che collega la via del Nord con l’altopiano di Melia per poi scendere da Campo Calabro fino a giungere a Reggio».

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    L’antica via Popilia

    «All’altezza del vallone di Tremusa – prosegue Consoli – insiste una lingua di terra che consente un attraversamento dolce tra le due sponde della vallata. Dai primi rilievi effettuati sull’area, abbiamo rinvenuto diverse tracce di questa strada, attraverso alcuni elementi visibili: fontane, canalette e una serie di dettagli che fanno riconoscere che si tratta di un percorso tracciato in epoca romana. Ed in effetti fino all’Ottocento, ossia fin quando non si è iniziato ad adottare il cemento armato, quel percorso è rimasto tale. Anche la strada regia passava da lì».

    «Melia, per la sua posizione, era il trait d’union tra la Sicilia e il varco per il Nord. Un crocevia. Questo – conclude l’archeologo – ci fa affermare senza ombra di dubbio, anche sulle tracce del passaggio di Sant’Antonio da Padova che risalì verso Nord dopo il naufragio a Milazzo, che la Storia è passata da Melia. Questi dati non sono solo importanti a livello archeologico, ma possono rappresentare l’avvio di nuovi percorsi turistici e di trekking per rivalutare un’area di indubbia importanza storica».

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    Devoti di Sant’Antonio da padova in pellegrinaggio a Milazzo

    L’importanza delle grotte di Trèmusa

    Si tratta dei primi rilievi effettuati dopo duecento anni. Nell’ambito della ricognizione, il gruppo di Gambino è riuscito a sviluppare un modello in 3D misurabile delle grotte, combinando la fotografia terrestre a un GPS. Le grotte, che fanno parte del bacino idrografico della fiumara Favazzina – in particolare del suo affluente, il Trèmusa – si sono rivelate molto più ampie e profonde di quello che possono apparire. L’area è molto vasta, scende nel ventre della montagna per diverse centinaia di metri con fenomeni carsici visibili e ben percepibili. All’ingresso c’è una sorta di arco, o semicerchio. Sulla destra, un grande spazio aperto, che affaccia sul Vallone Trèmusa, da dove iniziano i cunicoli che si tuffano nella montagna. A sinistra, invece, c’è una sala altrettanto ampia dove è più evidente la carsicità del luogo.

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    Conchiglie fossilizzate nelle viscere delle grotte di Trèmusa

    Proprio all’ingresso è stato rilevato un accumulo di terra non indifferente su cui effettuare analisi stratigrafiche più approfondite che potrebbero portare a scoprire nuovi elementi. La presenza dell’acqua, che in passato doveva essere molto più abbondante, e la possibilità di trovarvi riparo ha rafforzato l’ipotesi che potesse trattarsi di un luogo di passaggio battuto e utilizzato in passato, grazie anche alla presenza di numerosi terrazzamenti intorno. Si dovrà stabilire con studi più approfonditi se abbia avuto altre destinazioni d’uso, quale eventuale luogo di culto.

    Melia e il Parco dell’Aspromonte

    L’attività svolta, senza essere stata concordata preventivamente, si inserisce in modo naturale nel rinnovato impulso che l’Ente Parco Aspromonte dedica alla speleologia con una serie di progetti già in cantiere. Gli esiti della ricognizione collocano Melia sotto una lente di rinnovato interesse, sia dal punto di vista speleologico, sia da quello squisitamente storico-culturale. Motivo per cui è nata l’idea di inserire il borgo nella rosa di luoghi dove portare gli alunni delle scuole che aderiscono ai progetti di formazione del Parco dell’Aspromonte.

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    Uno scorcio del Parco dell’Aspromonte

    Qualche giorno fa la Città Metropolitana ha annunciato lo stanziamento di 600 mila euro per il recupero della SP 15: un provvedimento atteso da tempo e rafforzato anche dall’emergere di una valenza culturale del borgo ancora inaccessibile da Scilla. Valenza costituita dalle scoperte emerse dalla ricognizione archeologica e dalla presenza di quelle gole che hanno contribuito, pur se fuori Parco, al riconoscimento dell’Aspromonte come geoparco Unesco. L’attività ha permesso non solo di scoprire importanti tracce del passato, ma ha richiamato studiosi, esperti, istituzioni, associazioni locali a lavorare per la comunità. La stessa Soprintendenza per i Beni Culturali ha aperto uno specifico dossier.

    L’unione fa la forza

    Le forze si sono unite e in tutta Melia sono partite forme di collaborazione e compartecipazione. L’intera comunità ha aperto le proprie porte, un tam-tam che ha supportato le attività di ricognizione, lasciando gli studiosi liberi di passare tra i poderi per puntellare la loro ricerca. Elemento, anche questo, non scontato. La stessa associazione Voce dei Giovani ha fatto da megafono, ribadendo l’importanza di un progetto che mira a rendere Melia nuovo punto di attrazione turistico-culturale.

    La campagna di ricognizione ha fatto dunque da vero e proprio collante di comunità. A cascata, e grazie al rinnovato interesse, è stato ripubblicato su iniziativa dell’associazione Famiglia Ventura lo storico testo del 1908 Cenni storici dal borgo di Melia. Sembrava perduto ma una copia è stata ritrovata presso la biblioteca di Palmi, consentendo così l’uscita di una nuova edizione. E rinvigorendo quello che spesso manca in Calabria: la cura e la tutela della memoria storica, elemento essenziale per il recupero dell’identità del borgo. In questo solco va inserito anche il recupero di una cartolina raffigurante un melioto fatto prigioniero in Egitto nel 1941 che è stata consegnata agli eredi dell’uomo.

    Partire dai territori, restare sui territori

    L’operazione di Melia pare seguire lo stesso ragionamento fatto a Bova con il progetto Se mi parli, vivo. Lì, tramite l’azione dell’Associazione Jalo to Vua e, grazie alle competenze di alcuni ricercatori originari del luogo, il greco di Calabria è diventato un attrattore che ha richiamato linguisti da tutta Europa.
    Nel caso di Melia, il lavoro dell’associazione Famiglia Ventura è stato importante: dal 2011 l’organizzazione promuove la cultura attraverso la lettura e l’arte su tutto il territorio metropolitano, perseguendo la valorizzazione e il coinvolgimento delle comunità locali.

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    Scritte in grecanico su un portone a Bova

    «Melia è una borgata con cui si è creata una relazione speciale. Concentrare l’attenzione degli archeologi in un’area periferica come quella delle Grotte di Trèmusa è un modo sia per promuovere la ricerca in località poco studiate, sia per accendere un riflettore sulle problematiche e sulle opportunità di territori spesso dimenticati dalle istituzioni o dai grandi circuiti economici e turistici. Territori che possono rappresentare ulteriori nodi di sviluppo per il comprensorio di Reggio», ha spiegato Francesco Ventura, ex presidente dell’associazione e promotore dell’iniziativa.

  • Addio a Empio Malara, l’uomo che disegnò la Rende futura

    Addio a Empio Malara, l’uomo che disegnò la Rende futura

    L’anagrafe ha archiviato un pezzo importante della storia calabrese contemporanea: l’architetto e urbanista Empio Malara.
    Malara è scomparso la mattina del 19 gennaio alla non tenera – e, per molti, invidiabile – età di 90 anni, dopo averne passato molti a disegnare città, a valorizzarne altre e a sognarne altrettante.

    Un architetto per due città

    Vaga formazione anarchica e solida militanza socialista, il cosentino Empio Malara fece carriera nella Milano non ancora “da bere” degli anni ’70.
    C’è da dire che si trovò bene anche in quest’ultima, dato che, grazie a una solidità professionale quasi senza pari e a una concezione visionaria dell’urbanistica, riuscì a superare indenne gli anni ruggenti del craxismo e la loro fine tragica.
    Milanese d’adozione e cosentino legato alle origini, come i migranti vecchia maniera. E non a caso, i necrologi che lo ricordano sono usciti in contemporanea sulle testate calabresi (va da sé) e sul Corriere.

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    Empio Malara nel suo studio di Milano

    Empio Malara “polentone”

    L’urbanistica è questione di sensibilità ed empatia, coi territori e chi li vive.
    Non a caso, a Milano Malara si concentrò sui Navigli, che voleva pienamente navigabili, anche a scopi commerciali.
    Al riguardo, c’è da scommettere che dietro la rivalutazione dellecase di ringhiera, una volta sinonimo di povertà (di cui resta traccia nei racconti di Giorgio Scerbanenco) ma oggi molto “trendy”, ci sia il suo zampino.
    In ogni caso, Malara ha avuto molti riconoscimenti dalla Milano profonda, a partire da un attestato di benemerenza civica.

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    La zona dei Navigli a Milano

    Empio Malara “terrone”

    La parabola professionale di Malara in Calabria evoca il titolo di un film: Ritorno al futuro.
    L’urbanista, già archistar fu ingaggiato da Cecchino Principe per evitare che lo sviluppo di Rende, lanciatissima dall’Unical, diventasse caotico.
    Sensibilità ed empatia significavano una cosa nella Calabria degli anni ’70: immaginare i desideri di sviluppo e crescita economica degli abitanti della zona.

    La Rende avveniristica di Empio Malara

    Malara disegnò una Rende futuribile, in cui i palazzoni coesistevano col verde e, soprattutto, non evocavano certe immagini lugubri da socialismo reale (o, spesso fa lo stesso, da edilizia meridionale doc).
    Uno dei suoi fiori all’occhiello resta Villaggio Europa: un quartiere popolare all’avanguardia, che comprendeva, al suo interno, scuole e strutture sportive.

     

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    Villaggio Europa a Rende

    Nel suo caso, l’architettura diventava il forcipe dell’emancipazione sociale: la povertà non era sinonimo di degrado e la necessità di ricorrere all’edilizia popolare non obbligava ad accontentarsi.

    Un progetto tra due epoche

    Fin qui (e in estrema sintesi) i meriti. Purtroppo, il tempo denuda anche i limiti.
    La visione di Malara nacque in una fase storica in cui ancora non si parlava di “Grande Cosenza” né di città unica.
    Cosenza era ancora al massimo della sua capacità urbana e Rende aveva appena iniziato il suo sviluppo prodigioso. Quindi la Rende ideata dal vecchio Principe e disegnata da Malara era bella ma non ambiziosa: era la prosecuzione ad est di Cosenza, troppo intasata e bloccata dai suoi colli per sviluppare a ovest.

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    Cecchino e Sandro Principe

    Invece, a partire dagli anni ’80, la città del Campagnano si pose un altro obiettivo: far concorrenza al capoluogo per servizi e qualità della vita. Il disegno di Malara restava, ma i motivi ispiratori erano stravolti.

    Le ultime polemiche

    Offrono ancora parecchi spunti di riflessione le polemiche della scorsa primavera tra l’architetto e Sandro Principe.
    Malara, da un lato, rivendicava il suo “disegno” originale, che si basava su un ruolo di Rende importante ma comunque subalterno.
    Principe, dall’altro, ribadiva come la Rende di Malara fosse un sogno degli anni ’70 diventato “altro”, cioè una città autonoma e non “servente”.

    Il ricordo

    Non è questa la sede per approfondire certe dispute. Ma resta evidente che, in questo dibattito tra un amministratore col pallino dell’urbanistica e un urbanista che ha dato forma a un disegno politico, si è riflesso l’eterno dibattito tra tecnici e politici.
    Malara, milanese adottivo se n’è andato anche come cittadino onorario di Rende, reso tale dall’attuale amministrazione che vive un rapporto problematico col passato riformista.
    Di Malara rimane, al netto di polemiche evitabilissime (anche da parte sua), il ricordo di una visione legata al sogno di uno sviluppo mai realizzatosi per davvero.
    Una promessa tradita? Senz’altro. Ma anche una promessa grande.

  • Occhiuto s’è preso Crotone: sfiducia Ferrari, riesuma Sculco, Voce in scacco

    Occhiuto s’è preso Crotone: sfiducia Ferrari, riesuma Sculco, Voce in scacco

    Acque agitate a Crotone dopo le ultime nomine del presidente della Regione Roberto Occhiuto. Non sono andate giù a molti e c’è chi parla di un Sergio Ferrari (presidente della Provincia e sindaco di Cirò Marina) imbufalito.
    Già, perché Occhiuto due settimane fa ha scelto come propria consulente Flora Sculco, l’ex consigliera regionale dei “Democratici e Progressisti”, poi candidata non eletta tra le file dell’Udc.

    Dovrà occuparsi, riporta l’atto di incarico, di «azione di raccordo politico istituzionale con il sistema delle autonomia locali del territorio della Provincia di Crotone, sui temi riguardanti la verifica della appropriatezza ed efficacia dell’attuazione del programma di governo, con particolare riferimento alla definizione e realizzazione degli obiettivi strategici afferenti il territorio della Provincia di Crotone in materia di comunicazione del territorio». Una bella gatta da pelare per Ferrari: con gli Sculco è agli antipodi.

    Occhiuto, Ferrari e Crotone: le ultime parole famose

    Soltanto lo scorso settembre Occhiuto a Crotone dichiarava che era un «riferimento per il territorio e gli amministratori locali». Non solo: gli riconosceva – informalmente, è ovvio – il ruolo di «consigliere regionale aggiunto del territorio»
    All’indomani delle Provinciali del dicembre 2021, poi, il coordinamento regionale di Forza Italia (che ha a capo il presidente della commissione Bilancio della Camera, Giuseppe Mangialavori) aveva diramato una nota. Dal testo inequivocabile: «La vittoria di Sergio Ferrari segna un nuovo inizio per la Provincia di Crotone e, dopo il trionfo alle ultime elezioni regionali, conferma l’ottimo stato di salute del centrodestra in Calabria (…) è l’uomo giusto per imprimere una svolta e far rinascere la Provincia di Crotone».La nomina di Sculco, però, pare cambiare lo scenario. Tanto che Ferrari è pronto a rilanciare e presentare venerdì un “movimento dei sindaci” definito «apartitico».

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    Occhiuto e Mangialavori in campagna elettorale

    Il casus belli

    Alle Regionali che incoronarono Roberto Occhiuto, Sergio Ferrari si accreditò sostenendo i candidati di punta scelti da Mangialavori: Michele Comito e Valeria Fedele. Quest’ultima, senza aver mai messo piede a Cirò Marina, superò le 600 preferenze nel paese di Ferrari. Il sindaco lanciò così la propria candidatura alla presidenza della Provincia. E proprio in quella occasione emerse il forte contrasto con Enzo Sculco, fresco di mancata rielezione regionale della figlia tra le file dell’Udc. Uno smacco non da poco per lui, che del partito è responsabile organizzativo regionale (anche se oltre alla candidatura della prole non risulta abbia organizzato un bel niente in quasi due anni di incarico).

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    Flora ed Enzo Sculco

    Sculco vide fin da subito come fumo negli occhi la candidatura di Ferrari. La bollò come «una scelta esterna, fuori dai partiti della coalizione». E stilò lui stesso una lista provinciale, “Crotone protagonista”. Annoverava solo 5 candidati su 10, di cui tre consiglieri comunali di Melissa, comune guidato dal “cigiellino” Raffaele Falbo ma a maggioranza sculchiana. Basti pensare che tra i candidati c’era anche Maria Carmela Sculco, sorella dello stesso Enzo.

    Sfiducia di fatto

    Fiutata l’aria, a due giorni dal voto Sculco dichiarò di votare Ferrari. La sua lista ottenne comunque il 5,5%, ma non riuscì ad eleggere nemmeno il favorito Antonio Megna, consigliere comunale di Crotone. Un segnale di debolezza rispetto a Ferrari, che asfaltò il sindaco della città pitagorica Enzo Voce toccando il 63,7%.

    Ora Flora Sculco (con tanto di ufficio al decimo piano della Cittadella, si sussurra) dovrà occuparsi del “raccordo politico istituzionale con il sistema delle autonomie locali del territorio della Provincia di Crotone” con riferimento proprio all’attuazione del programma di governo regionale. Ferrari viene, di fatto, sfiduciato. Troppi gli imbarazzi causati dalla macchina amministrativa di Cirò Marina (dal “caso Padel” alle “parentopoli” su cui abbiamo scritto). Anche perché nelle ultime settimane se ne sono aggiunti altri: incarichi in municipio coi fondi Pnrr.

    Capodanno col Pnrr

    Dopo i colloqui del 27 dicembre, il 31 sono arrivati i contratti di collaborazione per i professionisti. Ma chi sono i beneficiari? Tralasciando la nuova esperta del settore informatica Ramona De Simone – che dal suo profilo LinkedIn risulta commessa da Trony dal 2017 – ci si imbatte in una nuova sfilza di parenti.
    L’esperta in tematiche ambientali sarà – era l’unica candidata – Anna Lisa Filippelli. È la figlia dell’ex senatore e sindaco di Cirò Marina, oggi consigliere comunale, Nicodemo, esponente del partito “Italia del Meridione” di Orlandino Greco.
    Si resta ancora di più in famiglia con il settore giuridico. Lì gli esperti saranno, infatti, marito e moglie: Francesco Scarpelli e Maria De Mare. Lui solo esperto “junior” però, nonostante sia cugino della moglie del vicesindaco Pietro Mercuri.

    Ritorno al passato

    Come esperto in monitoraggio e controllo c’è Livio Zizza, marito di Caterina Fuscaldo. Che è figlia di Pino, responsabile ufficio segreteria del Comune, e nipote di Giancarlo, presidente del consiglio comunale durante la precedente amministrazione (sciolta per mafia) guidata da Nicodemo Parrilla. Quest’ultimo in Stige ha riportato una condanna in primo grado a 13 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. La Procura ne ha chiesto la conferma nell’appello tuttora pendente.
    L’esperta del settore geologia sarà invece Rosita Prato, nipote dell’ex dirigente comunale (dallo scorso marzo in pensione) Mario Patanisi e sorella dell’assessora – nel 2016 sempre con Parrilla – Assunta Prato.

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    Ferrari con Siciliani in un convegno di qualche anno fa

    Nessuna parentela, invece, per l’esperta in opere pubbliche. L’architetta Vittoria Giardino, comunque, non è nuova in municipio. Risulta, infatti, già beneficiaria di incarichi professionali dal comune di Cirò Marina anche durante la giunta guidata da Roberto Siciliani, che vedeva proprio Ferrari assessore.
    Siciliani, lo si ricorderà, è stato condannato sia in primo grado che in appello nel filone con rito abbreviato di Stige: 8 anni di carcere per concorso esterno.

    Occhiuto e il firma-gate di Crotone

    Il commissariamento (o quasi) di Ferrari non è l’unica mossa di Occhiuto a Crotone. Senza Forza Italia (o alcuni filoni di essa) probabilmente il sindaco pitagorico Enzo Voce, espressione del movimento “Tesoro Calabria” di Carlo Tansi, sarebbe già un vago ricordo politico.

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    Vincenzo Voce, sindaco di Crotone

    Subito dopo le Provinciali del dicembre 2021, spuntò fuori un documento nel quale 13 consiglieri richiedevano la convocazione di un consiglio comunale ad hoc preannunciando di voler sfiduciare Voce. Il sindaco “tansiano” replicò in una conferenza stampa che uno dei firmatari lo aveva chiamato per disconoscere la firma, motivo per cui si sarebbe recato in Procura a presentare un esposto per falso.
    Si trattava di Andrea Tesoriere, consigliere comunale di “Forza Azzurri”, il gruppo comunale di diretta espressione del governatore Occhiuto, che dopo il “firma-gate” ritirò espressamente la firma.

    Stampelle e rimborsi: “Forza Voce”

    Un anno dopo arrivò un’ulteriore stampella da parte di Fi, direttamente dall’ex parlamentare Sergio Torromino e dall’ormai ex coordinatore cittadino, Mario Megna, divenuto presidente del consiglio comunale.
    Megna, già portaborse della consigliera regionale azzurra Valeria Fedele, è stato recentemente condannato dalla Corte dei Conti (sentenza 235/2022 del 29 dicembre 2022) al pagamento di 13.800 euro per danno erariale al Comune di Crotone. Lo stesso, lo scorso giugno, aveva chiesto l’autorizzazione al settore affari generali del Comune (determinazione 1054 del 24 giugno), per partecipare ad incontri istituzionali a Reggio Calabria presso la sede del Consiglio regionale, chiedendo il rimborso spese per viaggio e vitto.

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    Megna e Torromino

    Piccolo particolare: da portaborse, la sua sede di lavoro, da contratto, è proprio il Consiglio regionale della Calabria. Insomma, Megna ha richiesto il rimborso dal Comune di Crotone per andare a quello che era il suo luogo di lavoro.
    Oggi, invece, grazie al sindaco, avrà un compenso da 4.806 euro lordi al mese. E se Mangialavori ha preso le distanze, Torromino ha difeso l’operazione.
    In ogni caso, “Forza Voce”.

  • Quel panino “ghiegghiu”: Mi ‘ndujo risponde a papàs Lanza

    Quel panino “ghiegghiu”: Mi ‘ndujo risponde a papàs Lanza

    Il panino della discordia continua a far parlare di sé. Dopo la “scomunica” di papas Pietro Lanza, arriva la nota stampa della rinomata catena di fast food. Che cita Checco Zalone e Kierkegaard per difendere il suo panino ghiegghiu.

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    Papàs Pietro Lanza ha scatenato le polemiche sul nome del panino

    Terroni di Calabria

    «E se non hanno offeso e scandalizzato nessuno le battute ed il gergo nazional-popolare di Zalone al quale non vogliamo minimamente paragonarci, toccando ed unendo tutti col e nel sorriso su temi di stringente attualità, così come nessun calabrese si è mai sentito offeso, anzi, dallo striscione con la scritta Terroni di Calabria col quale qualche anno fa abbiamo inaugurato le nostre sedi a Roma, onestamente non vediamo – fa sapere il management di Mi ‘Ndujo – come e perché possa e debba sentirsi addirittura offesa la grande e gloriosa comunità arbëreshe per un progetto di panino al quale, così come ci siamo da sempre caratterizzati, abbiamo proposto di dare un nome ironico, auto-ironico, divertente, incuriosente e che da oltre 7 secoli non offende nessuno, ma proprio nessuno».

    «U ghiegghiu, il panino senza intenti dispregiativi»

    «Non soltanto, non vi era – si legge nella nota stampa di Mi ‘Ndujo – e non vi è alcun intento offensivo e dispregiativo nella scelta di uno dei nomi più diffusi e riconosciuti per identificare, ripetiamo ironicamente, la comunità italo-albanese ma quel termine, depurato da qualsiasi strascico negativo di centinaia e centinaia di anni fa, unisce oggi in un sorriso e nel richiamo all’esistenza, in Calabria, di una minoranza linguistica che insieme alle altre arricchisce la stessa forza culturale e identitaria distintiva regionale».

    Il dibattito social

    «Prendiamo atto – continua la nota stampa di Mi ‘ndujo – dell’interessante dibattito che si è scatenato sui media e sui social, grazie al progetto del nostro panino, su quali siano le migliori strategie ed i migliori strumenti attraverso i quali recuperare eventuali ritardi ed errori del passato per investire meglio e diversamente sulla tutela linguistica e culturale della minoranza linguistica. Nutriamo rispetto e leggiamo con attenzione».

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    L’interno di uno dei locali della catena Mi ‘ndujo

    Restiamo imprenditori

    «Ma, attenzione, noi restiamo dei semplici e piccoli imprenditori, certo innamorati della nostra terra, di sicuro appassionati promotori della nostra identità più viscerale, senza dubbio convinti sostenitori del valore culturale, economico e di riscatto sociale della nostra biodiversità e della nostra enogastronomia di qualità, ma pur sempre – scandiscono – dei normali imprenditori».

    Alle istituzioni, laiche e religiose, compete e competerà occuparsi con sempre maggiore determinazione della valorizzazione del patrimonio culturale arbëreshe che sappiamo benissimo non coincidere con un panino, ci mancherebbe altro o con l’enogastronomia tipica che però apre porte e finestre culturali, sociali, turistiche ed economiche.

    La compagnia di Acri, Bisignano e Luzzi

    «Ma i panini nei quali – si legge ancora nella nota stampa – continuiamo a mettere prodotti e nomi dialettali e proverbiali di quella Calabria non oicofobica e che non si vergona di se stessa (come ad esempio i panini Acri, Bisignano e Luzzi tre panini cu i cazzi, proverbio antico che non ha mai offeso nessuno) sono stati e restano anche quegli strumenti con i quali stiamo restituendo tanta dignità e fierezza, anche lessicale e dialettale, fuori e dentro la regione ad intere generazioni di calabresi, terroni e ghiegghi, che con un semplice sorriso, senza pesantezza ed a testa alta sanno chi sono, lo dicono, ci scherzano e vogliono competere col mondo, senza pianti, mugugni, lamentele, divisioni, cliché e tabù di un’epoca che fortunatamente non appartiene loro».

  • Terzo polo bipolare: le giravolte di Azione e Iv

    Terzo polo bipolare: le giravolte di Azione e Iv

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    Lo chiamano Terzo polo: è la compagine nata dalla federazione del partito di Matteo Renzi con quello di Carlo Calenda. Qualche giorno ad un convegno di Renew Europe il primo ha annunciato che non vi è alternativa al “partito unico”. Il secondo ne ha tracciato l’orizzonte: entro primavera per un manifesto comune e a settembre una costituente del contenitore liberaldemocratico italiano. Con una postilla: «Se incominciamo a fare a chi più è liberale, i liberali rimangono un circolo di sfigati che fanno training autogeno tra di loro. Il circolo più è esclusivo meno persone ci sono dentro».

    Le ultime parole famose

    Insomma, al solito, l’ex europarlamentare del Pd e oggi senatore del Terzo Polo non le manda a dire. Così come è chiaro nel rapporto tra la sua forza politica ed il M5S.
    «Lo dico agli amici del Pd, c’è solo un modo per gestire i 5 Stelle: cancellarli!» twittava Calenda lo scorso luglio. «Penso che il M5s dovrebbe sparire» affermava ad agosto. Mentre lo scorso mese, alla domanda se andrebbe al governo con il M5S, ha risposto: «Manco morto». Un disamore politico corrisposto, questo. Il presidente del M5S, Giuseppe Conte, giusto qualche giorno fa ha dichiarato: «Dico al Pd che il M5S non starà mai con Renzi e Calenda».

    Con tutti tranne…

    Insomma, quello che ha dettato Calenda pareva un percorso lineare. Lo ha ribadito anche sui territori, tant’è che lo scorso marzo annunciò a Catanzaro: «Ci sarà anche una lista di Azione nella competizione elettorale per le amministrative di Catanzaro di tarda primavera (…) Siamo pronti a dialogare con tutti, salvo che con l’estrema destra e il Movimento Cinque Stelle (…) non ci alleiamo con i 5 stelle e con la destra estrema perché è contrario ai nostri valori e ai nostri principi. Non lo facciamo a livello nazionale, non lo faremo a livello locale».

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    Raffaele Serò

    Pochi mesi dopo alle Amministrative del capoluogo non vi fu traccia della lista di Azione. Divenne consigliere comunale, però, il segretario provinciale Raffaele Serò. Era nella lista Io scelgo Catanzaro della coalizione civica di Antonello Talerico, quest’ultimo poi approdato, invece, in Noi con l’Italia di Maurizio Lupi. Entrambi sostengono la maggioranza di Nicola Fiorita (esprimendo anche un assessore in Giunta, Antonio Borelli), così colorita e variegata che contempla anche il M5S, con buona pace dei niet di Calenda.

    Donato in Azione

    Non è l’unico grattacapo per Azione nel capoluogo, patria del trasformismo politico e della liquidità (se non liquefazione) dei partiti.
    Ad agosto, dopo la scoppola elettorale alle Amministrative catanzaresi di giugno, il candidato sostenuto dalla Lega e da Forza Italia (e al ballottaggio anche da Fdi), Valerio Donato, già dirigente cittadino del Partito Democratico, ha aderito ad Azione, specificando di aver avuto una lunga interlocuzione «con i dirigenti nazionali e regionali di Azione».
    A dicembre, poi, insieme ai consiglieri comunali Gianni Parisi e Stefano Veraldi, Donato ha annunciato la costituzione del gruppo consiliare “Azione-Italia Viva-Renew Europe” con egli stesso come capogruppo.

    Alle spalle del segretario

    Piccolo particolare: il collega consigliere-segretario provinciale di Azione, Serò (loro avversario elettorale fino a pochi mesi prima), non è stato nemmeno avvertito. Tant’è che ha sbottato: «Nella mia veste di coordinatore provinciale di Azione con Calenda comunico che alcun gruppo di Azione è stato costituito in Consiglio comunale da parte di terzi. Pertanto, non si comprende l’iniziativa dei consiglieri Valerio Donato, Giovanni Parisi e Stefano Veraldi, autori di una nota stampa con la quale danno atto di avere costituito il gruppo di Azione, addirittura estromettendo il sottoscritto e senza consultare lo scrivente».

    Niente più gruppo

    Risultato: nell’ultimo consiglio comunale Donato (che nelle more si è anche auto-candidato come membro del Csm) e i suoi hanno comunicato che non ci sarebbe stata la costituzione del gruppo di Azione. Insomma, un gran caos. Ad acuirlo, i continui punzecchiamenti stampa dell’ex esponente Udc, Vincenzo Speziali, vicino al terzo polo, per cui il “fascicolo Catanzaro” andrà certamente preso in carico. Non pervenuta politicamente e numericamente Italia Viva. Il coordinatore cittadino Francesco Viapiana alle amministrative ha ottenuto, nella lista Riformisti-Avanti!, poco più di cento voti.

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    Calenda con Donato e Veraldi

    L’asse a Vibo

    Se la maggioranza variegata a Catanzaro farà storcere il naso a Calenda e disinteressare Renzi, figuriamoci il rassemblement vibonese.
    Alle imminenti elezioni provinciali il candidato sarà il segretario provinciale di Italia Viva Giuseppe Condello (sindaco di San Nicola da Crissa). A suo sostegno anche Azione, che vede come leader locale l’ex candidato a sindaco del Pd e oggi consigliere comunale Stefano Luciano (membro anche della segreteria regionale dei renziani).
    Luciano nell’assise vibonese ha costituito il gruppo “Al centro”  con i consiglieri comunali Giuseppe Russo, ex Pd ed ex Fi, e Pietro Comito, vicino al consigliere regionale di Coraggio Italia Francesco De Nisi.

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    Giuseppe Condello

    A sostenere Condello ci saranno oltre al Pd (con critiche al segretario provinciale Giovanni Di Bartolo e canoniche spaccature) anche il M5S, che a Vibo esprime due consiglieri: Silvio Pisani e l’ex candidato sindaco e candidato regionale Domenico Santoro, politicamente silente dopo l’ultima disfatta elettorale.
    La liaison tra Azione e il M5S nel vibonese non è una gran novità: l’attuale responsabile organizzativo dei calendiani è Pino Tropeano, candidato regionale dei grillini nel non lontano 2020.

    Terzo polo in Calabria: i renziani senza bussola

    Una nota di colore: nel 2021 Giuseppe Condello, sfidò alle regionali, da candidato del Psi, il segretario provinciale di Iv a Catanzaro, Francesco Mauro, alfiere di Forza Azzurri.
    Già, perché il coordinatore regionale di Italia Viva, l’ex senatore Ernesto Magorno, prima dichiarò di aver sostenuto Jole Santelli e, quindi, il centrodestra nel 2020 e poi si lanciò a favore della causa occhiutiana. «Pronto a essere candidato a presidente della Provincia di Cosenza. Data la mia disponibilità al presidente Occhiuto» dichiarò a fine 2021.

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    Renzi e Magorno in Calabria durante le ultime Politiche

    L’anno successivo incontrò il presidente della Regione insieme al presidente di Italia Viva, Ettore Rosato. «Per confermare il sostegno di #ItaliaViva all’azione del governo», dichiararono. Qualche mese fa, nuovamente, Magorno ha aggiunto: «Italia Viva è il primo partito a essere stato ricevuto da quando è iniziata questa consiliatura regionale, un dato non da poco che ci pone come validi interlocutori della Giunta regionale».
    Insomma, l’Italia Viva di Magorno è (al pari del capogruppo regionale del M5S, Davide Tavernise) il maggiore spot politico permanente della giunta Occhiuto.

    C’è chi dice no

    Di diverso avviso l’ex parlamentare grillina Federica Dieni. Giusto l’altro giorno, in riferimento alla pista di pattinaggio a Milano voluta da Fausto Orsomarso, ha dichiarato: «Ma c’è una voce di opposizione in consiglio regionale? Qualcuno che presenti un’interrogazione sulla opportunità di questa scelta? Ecco, se c’è batta un colpo».
    Non è la prima volta che Dieni lancia stoccate alla giunta e a Roberto Occhiuto, come quando gli disse: «Occuparsi del territorio non è una concessione». Non proprio in linea con i dettami magorniani.

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    Federica Dieni

    Terzo polo in Calabria, gli strascichi delle politiche

    Alle elezioni politiche dello scorso settembre il terzo polo si è fermato in Calabria al 4%, non eleggendo alcun parlamentare. I capilista alla Camera erano Maria Elena Boschi e, a seguire (appunto…) Ernesto Magorno. Già con il deposito delle liste nacque una polemica proprio nell’establishment vibonese che, sentendo odore di disfatta, mise le mani avanti: «Ci è stato spiegato che l’accordo nazionale prevedeva postazioni utili in Calabria solo per il partito Italia Viva di Renzi e pertanto non abbiamo potuto fare altro se non accettare con serenità quanto deciso, rinnovando l’impegno a favore del nostro territorio con la determinazione di sempre ad ascoltare e tentare di risolvere i numerosi problemi dei cittadini vibonesi».

    Si salvi chi può

    L’affondo dei calendiani sa tanto di sassolino dalla scarpa: «Siamo però con i piedi per terra e dunque affronteremo questa tornata elettorale tentando di guardare oltre il 25 di settembre nella consapevolezza che oggi gli amici di Italia Viva hanno una maggiore responsabilità sul risultato elettorale, posto che hanno avuto il grande privilegio di essere favoriti da un accordo elettorale nazionale che ha penalizzato in Calabria il partito di Azione, riducendone al minimo l’agibilità anche in termini di richiesta del voto». Insomma, si salvi chi può.

    Giada Vrenna, ex renziana di Crotone

    Terzo polo ma non troppo a Reggio Calabria

    E se a Crotone il coordinatore cittadino Ugo Pugliese ha sfiduciato Giada Vrenna, ormai ex consigliera comunale di Italia Viva, non va meglio nel reggino. Il sindaco f.f. di Reggio Calabria, Paolo Brunetti, risulta in quota Iv, mentre quello metropolitano, Carmelo Versace è di Azione. «Brunetti e Versace sono i più capaci, è stata effettuata una scelta saggia. Da parte mia, sarei onorata e orgogliosa di rappresentare la Calabria» disse la Boschi in campagna elettorale. Invece, nessuno slancio in termini di percentuale è venuto dal territorio, con perfidi detrattori che sussurrano: «I due sindaci hanno sostenuto il Pd». Insomma, terzo polo, che pasticcio!

     

  • Matteo Messina Denaro: il filo rosso che lo lega alla ‘ndrangheta e alla Calabria

    Matteo Messina Denaro: il filo rosso che lo lega alla ‘ndrangheta e alla Calabria

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    Fine della corsa, trent’anni dopo. È finita in una clinica di Palermo la lunga, lunghissima, latitanza della “primula rossa” di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Esattamente trent’anni dopo. Non solo trent’anni dopo l’inizio della sua latitanza. Ma anche a trent’anni di distanza dalla cattura di un altro superboss della mafia siciliana Totò Riina. Oggi, come allora, la cattura è ad opera del Ros dei Carabinieri.

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    I carabinieri del Ros circondano la clinica che ospitata il latitante

    Trent’anni dopo: la cattura della “primula rossa”

    Il capomafia trapanese è stato condannato all’ergastolo per decine di omicidi, tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito strangolato e sciolto nell’acido dopo quasi due anni di prigionia, per le stragi del ’92, costate la vita ai giudici Falcone e Borsellino, e per gli attentati del ’93 a Milano, Firenze e Roma.

    L’inchiesta che ha portato alla cattura del capomafia di Castelvetrano è stata coordinata dal procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e dal procuratore aggiunto Paolo Guido. Figlio del vecchio capomafia di Castelvetrano, Ciccio, storico alleato dei corleonesi di Totò Riina, Messina Denaro era latitante dall’estate del 1993. Si trovava in una clinica palermitana, dove si curava da un anno circa con il finto cognome “Bonafede”.

    https://www.facebook.com/watch/?v=906861293654377

    Pochi mesi prima della sua scelta di rendersi irreperibile, proprio i carabinieri del Ros avevano catturato Totò ‘u curtu. Anche in quel caso, non troppo distante dai “suoi” luoghi. E come per Riina, anche per Messina Denaro non mancano i contatti con la ‘ndrangheta.

    Matteo Messina Denaro in Calabria?

    Addirittura, in un’inchiesta di qualche anno fa sulla rete di protezione di Messina Denaro, uno degli affiliati, inconsapevole di essere ascoltato dagli inquirenti, dirà del boss: «Era in Calabria ed è tornato». Una intercettazione che fa il paio con quanto dichiarato, in un’intervista concessa in quello stesso periodo a Klaus Davi, dall’allora procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato: «Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro. I rapporti fra la malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili. Contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina. Non c’è niente di nuovo. La leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati».

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    Luciano Liggio

    Non sarebbe la prima volta. Già nell’estate del 1974, secondo un’informativa della Guardia di Finanza, “Lucianeddu” Liggio avrebbe trascorso una parte della sua latitanza ad Africo. E sempre ad Africo “u zi Totò”, vestito da prete, si sarebbe recato spesso. Qui il boss corleonese sarebbe stato ospitato dal mammasantissima Giuseppe Morabito alias “U’ tiradrittu”. Fu durante una delle tante visite in Calabria che Riina stipulò l’alleanza con la ‘ndrangheta? È nella Locride che calabresi e siciliani decisero di dar vita alla stagione delle cosiddette stragi “continentali”?”.

    Tutti insieme appassionatamente

    I rapporti con la mafia siciliana, Cosa Nostra, sono indicativi del prestigio che le ‘ndrine acquistano col tempo: il vecchio patriarca Antonio Macrì, don ‘Ntoni, è amico di Luciano Leggio (Liggio per i nemici), dei fratelli La Barbera, intrattiene rapporti con i Greco di Ciaculli. Ancor prima, invece, conosce il dottor Michele Navarra, leader dei corleonesi negli anni ‘50, durante il soggiorno obbligato di quest’ultimo a Marina di Gioiosa Jonica, paese della Locride. Domenico, don Mico, Tripodo, figlioccio di Macrì, invece, è, addirittura, il compare d’anello di Totò Riina, che il 16 aprile del 1974 sposa Antonietta Bagarella.

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    Don Mico Tripodo

    «Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita, sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una “cosa sola”. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove, mi disse, che aveva messo insieme Massoni, Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile. In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/ 1981, mi trovai a parlare con Stefano Bontate. Nel corso di questo incontro Bontate mi disse che avrebbe avuto molto piacere se lo avessi aiutato a continuare “quel progetto di tuo zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Io con molta diplomazia riuscii a svicolare e a declinare l’invito. Non volevo assumere questo ruolo e non mi interessava farlo». Ad affermarlo è Gioacchino Pennino, medico palermitano, mafioso ed espressione dell’alta mafia, capace di dialogare con il mondo delle professioni e delle Istituzioni.

    Matteo Messina Denaro e il patto con le ‘ndrine

    Numerosi, peraltro, i riferimenti dei collaboratori di giustizia ai contatti e alle riunioni di inizio anni ’90 per concordare una strategia comune di attacco allo Stato. I primi anni ’90, infatti, saranno quelli che insanguineranno l’Italia, tanto con le uccisioni di Falcone e Borsellino, quanto con le stragi continentali. Il processo “Ndrangheta stragista”, che si celebra a Reggio Calabria, sta tentando proprio di ricostruire il presunto e comune disegno eversivo delle due organizzazioni criminali, di cui farebbe parte anche il duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo.

    «Nel 2015 Matteo Messina Denaro e altri capi di Cosa Nostra avevano stretto un patto con i capi della ‘ndrangheta per “lavorare insieme e diventare un’unica famiglia”». Recentissime, di fine 2022, le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia ascoltato dalla procura di Torino nell’ambito del maxiprocesso Carminius-Fenice sulla presenza della criminalità organizzata nella zona di Carmagnola.

    Il delitto del giudice Scopelliti

    Cosa Nostra avrebbe avuto anche un ruolo importante nella fine delle ostilità scoppiate nel 1985 in riva allo Stretto, tra il cartello dei De Stefano-Tegano e quello dei Condello-Imerti. Settecento o forse più morti ammazzati per le strade e la fine di tutto, dopo il delitto del giudice Antonino Scopelliti.

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    Il giudice Antonino Scopelliti, ucciso il 9 agosto del 1991

    Circa quattro anni fa, il ritrovamento nelle campagne catanesi di un’arma che sarebbe stata quella utilizzata per l’omicidio, avvenuto nell’estate del 1991. L’indagine della Dda di Reggio Calabria coinvolge ben diciassette tra boss della mafia siciliana e della ‘ndrangheta. Tra gli indagati figura anche Matteo Messina Denaro, primula rossa di Cosa Nostra. Oltre a lui, sono coinvolti altri sei siciliani, i catanesi Marcello D’Agata, Aldo Ercolano, Eugenio Galea, Vincenzo Salvatore Santapaola, Francesco Romeo e Maurizio Avola.
    Dieci gli indagati calabresi: Giuseppe Piromalli, Giovanni e Paquale Tegano, Antonino Pesce, Giorgio De Stefano, Vincenzo Zito, Pasquale e Vincenzo Bertuca, Santo Araniti e Gino Molinetti.

    Uno scambio di favori

    Lo scenario inquietante, da sempre paventato, è quello di un’alleanza mafia-‘ndrangheta. Scopelliti potrebbe essere stato ucciso dalle ‘ndrine per fare un favore a Totò Riina che temeva l’esito del giudizio della Cassazione sul maxiprocesso a Cosa nostra. In quel procedimento istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Scopelliti avrebbe dovuto rappresentare l’accusa. Cosa Nostra, quindi, avrebbe fatto da garante per la pace delle cosche calabresi dopo gli anni della mattanza, in cambio dell’eliminazione di Scopelliti, voluta, secondo l’ex braccio destro del boss siciliano Marcello D’Agata, quel Maurizio Avola oggi collaboratore di giustizia, anche da Matteo Messina Denaro.

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    Totò Riina dietro le sbarre

    Sarebbe stato proprio Avola a far ritrovare nelle campagne catanesi il fucile che sarebbe stato utilizzato per uccidere Scopelliti. Un fucile calibro 12, 50 cartucce Fiocchi, un borsone blu e due buste, una blu con la scritta “Mukuku casual wear” ed una grigia con scritto “Boutique Loris via R. Imbriani 137 – Catania”. Purtroppo, però, gli accertamenti tecnici non avrebbero dato alcun esito.

    Superlatitanti: dopo Matteo Messina Denaro ne restano quattro

    Uno dei tanti misteri che avvolgono la figura di Messina Denaro e che lo legano alla ‘ndrangheta. Indecifrabile quanto potrebbe accadere ora, dopo 30 anni di latitanza, da quell’estate 1993, quando in una lettera scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l’inizio della sua vita da primula rossa. «Sentirai parlare di me – le scrisse, facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità».

    Messina Denaro era l’ultimo boss mafioso di “prima grandezza” ancora ricercato. Quattro i superlatitanti che restano ora nell’elenco del Ministero degli Interni.

    • Attilio Cubeddu, nato il 2 marzo 1947 a Arzana (Nuoro) e ricercato dal 1997 per non aver fatto rientro, al termine di un permesso, nella Casa Circondariale di Badu ‘e Carros (Nuoro), ove era ristretto, per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime.
    • Giovanni Motisi, esponente dell’Anonima Sequestri, ricercato dal 1998 per omicidi, dal 2001 per associazione di tipo mafioso ed altro, dal 2002 per strage ed altro.
    • Renato Cinquegranella, camorrista ricercato dal 2002 per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro.
    • Il vibonese Pasquale Bonavota, ricercato dal 2018 per la sua partecipazione alla ‘ndrangheta e per omicidio.
  • Il Consiglio di Stato boccia Temesa: Amantea è salva

    Il Consiglio di Stato boccia Temesa: Amantea è salva

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    Non è la prima volta che il Consiglio di Stato azzera decisioni amministrative che sembravano scontate.
    Così è avvenuto per l’affaire Temesa, cioè il divorzio tra Amantea e la sua popolosa frazione di Campora San Giovanni, che tiene banco da mesi nelle cronache regionali e ha incuriosito anche la stampa “che conta”.
    Alla fine, Palazzo Spada ha accolto le contestazioni del Comune di Amantea, che invece il Tar aveva rigettato per due volte. Il referendum previsto per il 22 gennaio è bloccato e la città tirrenica, al momento, è salva. La parola torna al Tribunale amministrativo, che dovrà pronunciarsi nel merito.

    Tre contro uno

    Ma cosa contesta il Comune tirrenico al comitato Ritorno alle origini di Temesa, al Comune di Serra d’Aiello e alla Regione Calabria?
    Il ricorso al Consiglio di Stato batte su quattro punti, che si riepilogano per sommi capi.
    Il primo è il debito che obera le casse amanteane. Al riguardo, c’è già un’istanza di dissesto del commissario prefettizio che risale al 2017. La cifra, tuttora, non è quantificata con certezza. Ma i “si dice” sono inquietanti: il debito monstre oscillerebbe tra quaranta e cinquanta milioni.

    Che fine farà questo buco? Resterà tutto ad Amantea oppure sarà diviso in proporzione agli abitanti? La legge regionale che indice il referendum tace.

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    Consiglieri di Stato in seduta

    Il rebus degli abitanti di Amantea

    Sul secondo punto, le cose si complicano. Innanzitutto, perché c’è un balletto di cifre sull’attuale demografia amanteana.
    Secondo i dati provvisori dell’Istat, i residenti sarebbero 13.850. Nell’ultimo ricorso al Consiglio di Stato, il Comune ne dichiara 13.272. Questa battaglia si gioca sulle decine: nel primo caso, in seguito alla secessione di Campora, Amantea si terrebbe di poco sopra i 10mila residenti, nel secondo rischierebbe di scendere sotto soglia.
    Ciò renderebbe inammissibile il referendum, perché il Tuel vieta la costituzione di Comuni sotto i 10mila abitanti.
    Ma il problema non riguarda solo le cifre lorde.

    Lo scoglio degli stranieri

    La difesa di Amantea contesta, al terzo punto, che si debbano calcolare gli stranieri residenti, cioè iscritti all’anagrafe.
    Questo perché la legge parla di “cittadini residenti”.
    La cifra che balla, in questo caso, si aggira attorno ai 400 abitanti. Non proprio bruscolini.

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    Campora San Giovanni, panorama notturno

    Il problema dei votanti

    Quarto punto: per creare il nuovo Comune di Temesa, sono chiamati al voto gli abitanti di Campora, circa 3.100, quelli di Coreca e Marinella e i residenti di Serra d’Aiello.
    Sul primo aspetto, emerge una contraddizione: se Campora si staccasse, Amantea si fermerebbe alla foce del fiume Olivo, quindi manterrebbe Coreca e Marinella.
    Ma gli abitanti di queste due frazioni, a differenza del resto di Amantea, sono chiamati comunque a votare.

    E non finisce qui: considerato che a Campora sono ubicati il porto e il Pip, due strutture strategiche che riguardano tutta la città, perché è esclusa dal referendum la maggioranza dei cittadini?

    La salvezza dal Consiglio di Stato

    Il Consiglio di Stato ha ribaltato le decisioni del Tribunale amministrativo di Catanzaro e risolto per via burocratica un problema politico.
    Certo, occorrerà aspettare la sentenza del Tar per dire l’ultima. Ma tutto lascia pensare che i confini di Amantea resteranno intatti.

    È vero, infatti, che Amantea ha tentato due ricorsi d’urgenza, cioè di bloccare il referendum finché non si fosse chiarita la situazione legale. Ma è altrettanto vero che i motivi inseriti nei ricorsi sono, per dirla in avvocatese, “di merito”. Cioè toccano la sostanza del problema e quindi anticipano la sentenza.

    Scorcio del centro storico di Amantea (foto di Camillo Giuliani)

    Campora e Amantea: ora tocca ricucire

    Amantea ha trovato a Roma il giudice che i tedeschi cercavano a Berlino.
    Ma ciò non vuol dire che la situazione resti rose e fiori, perché, giova ripeterlo, alla base dei malumori dei camporesi c’è un problema politico.
    Infatti, perché due big regionali come Franco Iacucci e Giuseppe Graziano hanno sposato la causa di Temesa?
    Le dietrologie, al riguardo, si sprecano in riva al Tirreno. Ma salvarsi in Tribunale non basta. Ora è il momento di ricucire i rapporti.
    E questo Enzo Pellegrino, l’attuale sindaco di Amantea, lo sa benissimo.

  • La “scomunica” del papas: «Quel panino offende gli arbëreshë»

    La “scomunica” del papas: «Quel panino offende gli arbëreshë»

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    Quel panino ghiegghiu è indigesto, il capo della comunità religiosa arbëreshe chiama a raccolta i fedeli e li invita a protestare. La questione riguarda il nome dato dalla catena di fast food calabrese Mi ‘Ndujo a un nuovo prodotto presentato alcuni giorni fa e che ha ricevuto formalmente il plauso degli amministratori di molti comuni dell’Arbëria. Il progetto nasce con la nobile premessa di voler valorizzare «questa preziosa e importantissima minoranza linguistica – spiegano i soci della catena – che arricchisce ancora di più la capacità attrattiva e l’immagine esperenziale della Calabria che l’Italia e il mondo non si aspettano».

    ‘U ghiegghiu

    Fin qui tutto bene, se non fosse per il nome che – «simbolicamente e scherzosamente», sottolineano gli ideatori – è stato dato al panino: ‘u ghiegghiu. Ossia il non sempre affettuoso nomignolo affibbiato da secoli agli arbëreshë dai litìri (letteralmente latini, nello specifico i calabresi non albanofoni).
    «Eleviamo la nostra protesta e chiediamo a chi ha avuto l’infelice idea di ritirarla» è il monito di Papàs Pietro Lanza. «La nostra identità non si può racchiudere in un panino e in un termine ancor oggi usato in modo dispregiativo».

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    “L’anatema” dal profilo Fb Papas Pietro Lanza contro il panino Ghiegghiu

    Ironia o “cattivo gusto”?

    Il religioso arbëresh, attraverso la sua pagina Facebook, condanna la scelta di un termine che ricondurrebbe a stereotipi che da sempre hanno un peso sull’immaginario legato al suo popolo e quindi chiede che il nome del panino venga modificato. «Non possiamo avere un panino denominato ‘u ghiegghiu che si prefigge di rappresentare il patrimonio identitario e la presenza Arbëreshe in Calabria. È semplicemente offensivo». Molti fedeli sono già pronti ad aderire alla protesta.

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    Papas Pietro Lanza chiama i fedeli alla protesta contro il panino ‘U ghiegghiu

    Ma c’è anche qualcuno che, in controtendenza, invita il papàs a cogliere l’ironia di questa scelta. Qualcun altro, addirittura, la vede come un’occasione da sfruttare anche per una sana autocritica: «Magari di fronte a un bel panino può nascere una discussione proficua. Chiediamoci piuttosto cosa stiamo facendo noi arbëreshë per preservare e promuovere il nostro patrimonio».

  • Lello Valitutti: un superteste calabrese nel caso Pinelli

    Lello Valitutti: un superteste calabrese nel caso Pinelli

    Adriano Sofri nel suo La notte che Pinelli (Sellerio, Palermo 2009) rievoca gli anni bui della strage di Piazza Fontana.
    Il 12 dicembre del 1969 le bombe piazzate nella Banca dell’Agricoltura di Milano fecero 17 morti e 88 feriti. La Polizia seguì subito la pista degli anarchici. E i sospettati furono fermati e tradotti in Questura nel giro di poche ore.
    Tra questi c’erano Giuseppe Pinelli, Pietro Valpreda e Pasquale “Lello” Valitutti.

    Lello Valitutti, il supertestimone calabrese

    Quest’ultimo fu testimone di ciò che accadde nelle concitate ore della notte del 15 dicembre, quando il ferroviere Pinelli, dopo tre giorni di interrogatori stressanti, precipitò dalla finestra dall’ufficio – in cui si sostenne fosse presente il commissario Luigi Calabresi – e si schiantò dal quarto piano.
    Sulla dinamica di quel “volo” sono state condotte numerose inchieste da cui sono emerse altrettante “verità”.
    I poliziotti presenti parlano di suicidio. Al contrario, gli anarchici e tanta parte dell’opinione pubblica sostengono l’ipotesi dell’assassinio.
    A distanza di 53 anni, resta il mistero: tra i “testimoni” di allora, infatti, qualcuno ha abiurato e qualcun altro ha revisionato la propria storia.

    Una versione che non cambia

    Chi, invece, ripete la stessa versione dei fatti, è Lello Valitutti di origine calabrese, citato più volte nel libro di Sofri. Suo padre Francesco è stato per tantissimi anni leader storico della Democrazia cristiana a Paola. La madre, Anna Maria Del Trono, apparteneva a una famiglia bene di Cetraro.
    Lello racconta, il 18 marzo 2004, durante l’iniziativa Verità e giustizia promossa dal circolo anarchico milanese Ponte della Ghisolfa e dal Centro Sociale Leoncavallo, la sua verità su quella tragica notte.
    Lo fa con espressioni misurate ma suggestive: «Da questo corridoio passano, portando Pino, Calabresi e gli altri, e vanno nella stanza vicino. Chi dice che Calabresi non era in quella stanza sta mentendo, nel più spudorato dei modi. Calabresi è entrato in quella stanza, è entrato insieme agli altri, nessuno è più uscito».

    E ancora: «Ve l’assicuro, era notte fonda, c’era un silenzio incredibile, qualunque passo, qualunque rumore rimbombava, era impossibile sbagliarsi, lui era in quella stanza. Dopo circa un’ora che lui era in quella stanza, che c’era Pino in quella stanza, che non avevo sentito nulla, quindi saranno state le 11 e mezzo, grosso modo, in quella stanza succede qualcosa che io ho sempre descritto nel modo più oggettivo, più serio, scrupoloso, dei rumori, un trambusto, come una rissa, come se si rovesciassero dei mobili, delle sedie, delle voci concitate».

    La strage di Stato

    Questo racconto di Lello Valitutti è apparso per la prima volta nel celebre libro La strage di Stato, la controinchiesta che fece scalpore quando uscì nel 1970, perché puntava il dito sui neofascisti di allora.
    La storia, dopo l’assoluzione del ballerino anarchico Pietro Valpreda e i processi di Catanzaro, ha dato ragione a Eduardo Di Giovanni e Marco Ligini, gli autori dell’opuscolo, che nel frattempo si erano dovuti difendere dalle accuse di diffamazione.

     

    Lello Valitutti e Gerardo D’Ambrosio: botta e risposta

    Un’altra volta, e precisamente nel 2002, Valitutti fu chiamato in ballo in modo errato dal giudice Gerardo D’Ambrosio, all’epoca dei fatti titolare dell’inchiesta, che in un’intervista al settimanale del Corriere della Sera, Sette, dichiarò: «Poi, ottenni un’altra prova sull’innocenza di Calabresi». «Quale?», domanda il giornalista. «La testimonianza di uno degli anarchici fermati, Pasquale Valitutti: aveva visto Calabresi uscire dalla stanza prima che Pinelli cadesse».

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    Gerardo D’Ambrosio all’epoca delle indagini sulla morte di Pinelli

    Valitutti rispose all’istante. In una lettera scritta all’allora direttore diLiberazione, Sandro Curzi, pubblicata il 17 Maggio 2002 dichiarò: «Vedo, ancora una volta, distorta la verità. Io sono l’anarchico Pasquale Valitutti e ho sempre sostenuto il contrario. Lo ripeto a lei oggi: Calabresi era nella stanza al momento della caduta di Pinelli. Se tutto è ormai chiaro, come dicono, perché continuare a mentire in questo modo vergognoso sulla mia testimonianza? Io sono ormai stanco, malato e fuori da qualsiasi gioco. Ma alla verità non sono disposto a rinunciare».

    Le vecchie lotte

    Per comprendere ancora meglio il carattere di Valitutti, il suo rigore e l’inossidabile fede negli ideali anarchici, basta consultare il carteggio intercorso, durante la sua detenzione a Lucca, con Franca Rame e Dario Fo, che si battevano per la sua liberazione.
    Lello era accusato di appartenere ad un gruppo denominato Azione rivoluzionaria. «Compagni – scrive – adesso vogliono farmi pagare le vecchie lotte per Pinelli e Valpreda, le carceri che ho combattuto insieme a tanti di voi. Gli elementi che hanno contro di me sono: la conoscenza con uno dei colpevoli del tentativo di sequestro Neri a Livorno e alcuni miei spostamenti che ritengono sospetti».

    Lello Valitutti, Dario Fo e Franca Rame

    Anche in quelle circostanze, non rinunciò a un rapporto franco con i propri interlocutori, manifestando disappunto, perché a suo dire, la Rame, non si stava impegnando troppo per sostenere la causa dei detenuti politici come lui.
    Dario Fo gli rispose in una lettera del 27 gennaio 1978: «Ti rispondo a nome di Franca perché, come saprai è ricoverata in ospedale a causa dell’incidente che ha avuto a Genova. È stata investita da una macchina e ha subito la frattura del braccio sinistro. Sinceramente non capisco il termine delusione che usi nella lettera che indirizzi anche a Franca. Lo sai benissimo che non si è tirata mai indietro. Quindi nel tuo caso è solo perché è bloccata all’ospedale e sta proprio male se non ha potuto far niente. Hai ricevuto il vaglia che ti è stato spedito il 18? Faccelo sapere per favore».

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    Dario Fo sul palco nel suo Morte accidentale di un anarchico

    Parla la mamma

    Tra i documenti custoditi nell’archivio storico della coppia di attori, c’è anche un appello della madre di Valitutti, indirizzato «ai giornali, ai compagni, agli amici», che denuncia le gravi condizioni di detenzione del figlio in attesa di giudizio a Volterra. «Vive in una cella munita unicamente di letto e luogo di decenza – scrive Anna Maria Del Trono – senza un lavandino, senza una seggiola, senza alcun mezzo di informazione, continuamente ammanettato. È ovvio che tale stato di completo isolamento possa considerarsi un omicidio nei confronti di un giovane già così provato nella salute. Ritengo responsabili della sua salute coloro che permettono che mio figlio soffra ingiustamente un trattamento indegno non dico di un uomo, ma di una bestia».

    Malato in carcere

    Sempre nell’epistolario, Pasquale Valitutti, una volta chiariti i motivi del mancato impegno di Franca Rame e Dario Fo, descrive il peggioramento della sua salute: «Sono affetto da una grave depressione nervosa con gravi conseguenze fisiche, L’avv. Lo Giudice sta raccogliendo un’ampia documentazione medica e al più presto presenterà una domanda di libertà provvisoria».

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    Enzo Lo Giudice e Antonio Di Pietro negli anni di Tangentopoli

    Il Lo Giudice, citato nella lettera, è Enzo, avvocato con lo studio a Paola e dirigente allora di primo piano del Partito marxista-leninista d’Italia, che diventerà in seguito il legale di Bettino Craxi in molti processi di Tangentopoli.

    Solidarietà tra carcerati

    Ma Lello in cella non pensa solo sé. Si preoccupa anche degli altri compagni rinchiusi in tutte le carceri d’Italia che devono difendersi in Tribunale. Ed esorta tutti quelli che vogliono contribuire a «far avere dei soldi al mio avvocato. Vi prego di non mandare nulla a me: l’avvocato difende altri compagni ed è giusto che a lui vadano i soldi. Mandateli a tramite vaglia o assegno, specificando che siete miei amici».
    Il giornalista Toni Capuozzo, in collegamento dal Brasile, nel commentare le dichiarazioni del governo italiano circa la mancata estradizione di Cesare Battisti, elencava i nomi di una serie di latitanti italiani che abiterebbero ancora in Brasile, tra cui l’anarchico Pasquale Valitutti.

    Libero e combattente

    Capuozzo non sapeva che Lello Valitutti da molti anni vive libero a Roma e partecipa, nonostante le gravi condizioni di salute, insieme a Licia Rognini, la moglie di Pinelli, alle iniziative che si tengono in memoria del suo amico e compagno volato in cielo a testa in giù.

    Valitutti, malgrado sia costretto da diversi anni sulla sedia a rotelle, continua a partecipare a manifestazioni di piazza, anche alle più dure e pericolose. Una volta è stato immortalato con una bomboletta spray in mano mentre spruzzava vernice su una camionetta della Guardia di Finanza. Un’altra foto lo ritrae mentre fronteggia un plotone di celerini in assetto antisommossa, con il pugno chiuso nella sua continua lotta anarchica antisistema.

    Alessandro Pagliaro