Categoria: Fatti

  • Edgardo Greco, scovato a Saint-Étienne il “killer delle carceri”

    Edgardo Greco, scovato a Saint-Étienne il “killer delle carceri”

    Era partito dalle cucine nella sua Cosenza, Edgardo Greco, e nella cucina di una pizzeria di Saint-Étienne lo hanno trovato, 17 anni dopo che si era persa l’ultima traccia di lui. Da ex cuoco, d’altra parte, il latitante aveva scelto un coltello per farsi un nome nella mala bruzia in gioventù, quando in galera tentò di trafiggere il boss Franco Pino durante l’ora d’aria. Tentativo fallito, ma sufficiente a far ribattezzare “killer delle carceri” uno la cui specialità erano fino a quel momento le rapine.

    A Cosenza in quegli anni c’è la guerra tra clan ed Edgardo Greco ha già scelto di schierarsi con quello Perna-Pranno, proprio per un pestaggio che uomini dei Pino-Sena hanno rifilato a lui e suo fratello Riccardo. Ma è per un altro delitto, duplice e riuscito, e un ulteriore tentato omicidio che l’antimafia lo inseguiva ormai dal 2006. Nel primo caso, in qualche modo, c’entra ancora il cibo.

    Edgardo Greco, i fratelli Bartolomeo e Mosciaro

    L’esecuzione arriva, infatti, il 5 gennaio del 1991 dentro  una pescheria cosentina riconducibile ai Pranno. I fratelli Stefano e Pino Bartolomeo bramano maggiore autonomia criminale, un tentativo di secessione da soffocare nel sangue. Li attirano lì con l’inganno poi li uccidono a suon di botte, percuotendoli a sprangate. I corpi? Irreperibili ancora oggi. Pochi mesi dopo, il 21 luglio, Greco tenterà di eliminare anche Emiliano Mosciaro. La morte dei Bartolomeo gli costerà una condanna all’ergastolo, tanto’è che proprio a seguito di essa, su Greco pendeva un mandato di cattura internazionale dal 2014.

    Latitante per 17 anni

    Greco nel tempo era stato collaboratore di giustizia, per poi fare marcia indietro e darsi alla macchia quando – era il 2006 – la legge gli aveva presentato il conto per quei delitti di quindici anni prima. Un fantasma per 17 anni, Edgardo Greco, ma gli inquirenti non hanno mai smesso di dargli la caccia.

    Sembra che per un periodo abbia vissuto in Germania, senza disdegnare però qualche saltuaria capatina dalle parti di casa. Poi lo hanno cercato in Spagna, Andalusia, nel 2008. Ma quando la polizia si è presentata per acciuffarlo ha trovato suo fratello Riccardo e non lui.
    Oggi i carabinieri, insieme a personale delle unità catturandi (Fast) italiana e francese e dell’Unità I-Can dello Scip del Ministero dell’Interno, invece hanno fatto centro. Seppure sotto falso nome, quel pizzaiolo a Saint-Étienne era proprio Edgardo Greco.

  • Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    Pietro Buffone e Argo 16: un tragico mistero dei nostri 007

    «Ma è sicuro di quel che dice?», chiede Remo Smitti, pm della Procura di Venezia.
    «Sicurissimo dottore, sono ottant’anni che faccio la guerra al mio cognome», risponde il teste.
    L’interrogato è Pietro Buffone, vecchia gloria della Democrazia cristiana, non solo calabrese. È il 23 novembre 1999. Siamo sempre a Venezia, in Corte d’Assise, dove si svolge un dibattimento delicatissimo, su un mistero “minore”, ma non per questo meno tragico della storia repubblicana.
    Tra gli incriminati, c’è una figura eccellente: Zvika Zarzevsky, più conosciuto come Zvi Zamir, ex capo del Mossad. Sullo sfondo, un disastro areo: il caso Argo 16.

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    L’aereo Argo 16 sulla pista

    Argo 16: uno schianto a Marghera

    È l’alba del 24 novembre 1973. L’Argo 16, un bimotore Douglas C47-Dakota in dotazione al 306° gruppo del 31° stormo dell’Aeronautica Militare.
    L’aereo è decollato da poco dall’Aeroporto “Marco Polo” di Venezia per raggiungere la base Nato di Aviano. Ma poco sopra Porto Marghera, a Mestre, succede qualcosa.
    Il velivolo perde quota, urta un lampione e precipita verso le strutture della Montedison.
    Evita per un soffio gli enormi serbatoi di combustibile dello stabilimento petrolchimico e si schianta sull’ingresso del Centro elaborazione dati della Montedison: il muso dell’aereo sfonda l’atrio e devasta gli uffici. Un pezzo della fusoliera si stacca nell’impatto e finisce nel cortile, dove demolisce venti auto parcheggiate.

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    L’ex capo degli 007 israeliani Zvi Zamir

    Lo strano incidente di Argo 16

    In quest’incidente terribile perdono la vita i quattro membri dell’equipaggio: il colonnello Anano Borreo, capo-equipaggio, il tenente colonnello Mario Grande, secondo pilota, e i marescialli Aldo Schiavone e Francesco Bernardini rispettivamente motorista e marconista.
    Ma è davvero un incidente? Secondo l’Aeronautica Militare, che ordina un’inchiesta frettolosa, sì. Ma c’è chi nutre seri dubbi: il deputato missino Beppe Niccolai, che deposita un’interrogazione scritta al Ministero della difesa il 10 agosto 1974.
    Seconda domanda: cosa c’entra Pietro Buffone in questa vicenda?

    Pietro Buffone: il sottosegretario dei segreti

    In quel periodo terribile, Buffone è sottosegretario alla Difesa nel quarto governo di Mariano Rumor, che gli conferma l’incarico rivestito nel precedente governo Andreotti.
    Il deputato calabrese non è un sottosegretario qualsiasi, ma vanta un piccolo record: è il primo a gestire la delega ai Servizi segreti, fino ad allora riservata ai presidenti del Consiglio.
    Sull’argomento, Buffone è un esperto, visto che ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sul Sifar, il Servizio militare, che in quegli anni si chiama Sid, e sa vita, morte e miracoli dei nostri 007. Soprattutto, ne conosce i peccati.

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    Pietro Buffone, ex sottosegretario alla Difesa

    L’antefatto: terroristi palestinesi in Italia

    Il 5 settembre 1973 emerge una strana notizia: i nostri Servizi segreti sventano un attentato contro un areo di linea della El Al, la compagnia di bandiera israeliana.
    Il bersaglio reale degli attentatori sarebbe Golda Meir, la premier israeliana in visita in Italia.
    Grazie a una soffiata del Mossad, gli agenti segreti ammanettano cinque arabi, legati a Settembre Nero, l’organizzazione terroristica palestinese interna all’Olp di Yasser Arafat. Due di loro hanno il passaporto algerino e, su pressione di Gheddafi, vengono messi in libertà provvisoria il 30 ottobre.
    Il giorno successivo vengono “esfiltrati” in Libia. Li trasporta l’Argo 16, che fa un breve scalo a Malta, prima di portarli a destinazione.
    Oltre ai due libici, a bordo ci sono quattro funzionari del Sid, tra cui il capitano Antonio Labruna e il colonnello Stefano Giovannone.

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    Il generale Gianadelio Maletti

    Intermezzo: rivalità nei Servizi

    Tra i peccati delle nostre barbe finte uno è particolarmente grave. Anzi mortale: la rivalità interna.
    Il capo del Sid, nella prima metà degli anni ’70, è il generale dei Bersaglieri Vito Miceli, che si distingue per uno spiccato filoarabismo e per la vicinanza a Gheddafi.
    Il numero due del Sid è il generale Gianadelio Maletti, capo dell’Ufficio D e acerrimo rivale di Miceli.
    Maletti è il collegamento tra gli israeliani e il Sid. Questa schizofrenia dei nostri servizi trova un equilibrio nel 1973, grazie a una spregiudicata operazione condotta da Aldo Moro.

    Il lodo Moro

    Stefano Giovannone, uomo di fiducia di Moro e capocentro del Sid a Beirut, è l’uomo chiave del lodo Moro, un accordo di diplomazia parallela (cioè fuori dai canali diplomatici ufficiali) e asimmetrica (cioè tra uno stato e organizzazioni non statali).
    Il contenuto dell’accordo è semplice ed efficace: l’Italia avrebbe tutelato gli uomini dell’Olp e questi si sarebbero astenuti dal fare attentati sul nostro territorio. Come, ad esempio, quello del 17 dicembre del 1973.

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    Aldo Moro

    L’attentato di Fiumicino

    Sono quasi le 13 del 17 dicembre 1973. Cinque palestinesi entrano nel terminal di Fiumicino e si mettono a sparare all’impazzata.
    Uccidono due uomini e raggiungono un Boeing 707 della Pan Am. Vi gettano dentro una bomba al fosforo e due granate. L’esplosione uccide trenta passeggeri, tra cui quattro italiani.
    Poi, gli attentatori salgono a bordo di un altro aereo: un Boeing 737 della Lufthansa diretto a Monaco. Prendono sei ostaggi e lo dirottano. Dopo un volo rocambolesco, l’aero atterra a Kuwait City, dove i cinque tornano in libertà.

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    L’attentato di Fiumicino

    Argo 16: il processo

    L’Argo 16 è un areo che scotta: non trasporta solo agenti segreti e presunti terroristi arabi. Ma si occupa soprattutto dei membri di Gladio, l’organizzazione Stay Behind italiana: li porta periodicamente a Poglina in Sardegna, dove c’è il loro centro d’addestramento.
    Anche per questo particolare utilizzo dell’Argo 16, l’“incidente” di Porto Marghera è al centro di dietrologie dure a morire. Soprattutto perché su questa vicenda non ci sono chiare verità giudiziarie.
    Il primo magistrato a occuparsene è il giudice istruttore Carlo Mastelloni, che mette sotto inchiesta Zvi Zamir, il suo braccio destro Asa Leven e 22 ufficiali della nostra Aeronautica.
    Il teorema di Mastelloni è inquietante: sono stati gli Israeliani.

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    Il magistrato Carlo Mastelloni

    Buffone il superteste

    Illuminante, al riguardo la testimonianza di Buffone, che conferma le dichiarazioni del generale della Guardia di Finanza Vittorio Emanuele Borsi.
    L’ex sottosegretario traccia un nesso inquietante tra il fallito attentato di Ostia, il disastro dell’Argo 16 e la strage di Fiumicino.
    Secondo quanto gli avrebbe confidato Maletti, il responsabile di questo intrigo sarebbe stato Miceli.
    Miceli avrebbe liberato i due libici, nonostante il contrario avviso di Maletti. E l’Argo 16 sarebbe stato sabotato dagli israeliani per ritorsione.
    Sempre Miceli avrebbe dato l’assenso all’attentato di Fiumicino, come risposta agli israeliani.

    Il processo finisce in niente

    Alla fine, il processo naufraga dietro la classica sequenza di insufficienze di prove, che per il codice di Procedura penale, entrato in vigore poco prima di Tangentopoli, equivale alla formula piena.
    Zamir e gli altri imputati la fanno franca, anche perché il segreto di Stato massacra l’istruttoria di Mastelloni. Tutto questo sebbene Maletti e Cossiga confermino, l’anno successivo le dichiarazioni di Buffone.

    Argo 16 e i documenti distrutti

    Il 29 gennaio scorso si è celebrato in sordina il decimo anniversario di Buffone, spentosi ultranovantenne nella sua Rogliano.
    Il caso Argo 16 è solo uno dei dossier su cui l’ex big ha messo le mani. Di molti altri non si sa nulla perché, una volta ritiratosi a vita privata, Buffone ha distrutto ogni documento.
    Nulla da nascondere a livello personale, ci mancherebbe. Solo il senso dello Stato di cui ha dato prova una persona in guerra perenne col proprio cognome.
    Una guerra vinta.

  • Una rete per Cosenza: incontro tra associazioni a Villa Rendano

    Una rete per Cosenza: incontro tra associazioni a Villa Rendano

    Fare rete per il territorio.
    La Fondazione “Attilio e Elena Giuliani”, proprio nell’ottica di un lavoro di squadra per promuovere un’attività culturale ampia, diffusa e variegata, vuole condividere il proprio programma con le associazioni, i circoli e i club che operano in questo settore nella realtà cosentina, recependone istanze e proposte.

    Tale iniziativa, in linea con le finalità della Fondazione, punta a fare di Villa Rendano un presidio di cittadinanza attiva, un luogo permanente di intrattenimento, cooperazione e interdisciplinarietà, nonché di formazione attiva dei giovani nel comparto museale e culturale.
    Al fine di avviare questo importante e virtuoso processo di collaborazione, Associazioni, Circoli e Club culturali del territorio sono invitati a Villa Rendano, il 3 febbraio alle ore 17,30, per un primo confronto sulle iniziative da realizzare.

    Per eventuali comunicazioni, è possibile contattare i seguenti numeri: 329/8379111 (Walter Pellegrini), 333/5037160 (Anna Cipparrone), 339/2923179 (Francesco Kostner)

  • Un Tedesco di Calabria sulla panchina del Belgio?

    Un Tedesco di Calabria sulla panchina del Belgio?

    Si chiama Tedesco, Domenico Tedesco, ma è calabrese ed è in pole per diventare il nuovo ct della nazionale di calcio del Belgio. Tra i favoriti dell’ultimo Mondiale, i Diavoli rossi hanno rimediato una mezza figuraccia in Qatar. Troppo deludente la squadra, nonostante i tanti campioni, per non rispettare una delle regole principali del mondo del pallone: il primo a pagare è sempre l’allenatore.

    E così il Belgio ha virato su Domenico Tedesco, astro nascente della panchina grazie ai risultati degli ultimi anni tra Gelsenkirchen (Schalke 04), Mosca (Spartak) e Lipsia (Redbull). Perché lo avranno anche esonerato l’estate scorsa, ma il tecnico nato a Rossano nel 1985 ha già ottenuto due secondi e un quarto posto, una coppa di Germania e una semifinale di Eurolega in soli 5 anni di carriera ad alti livelli.

    Domenico Tedesco, dalla Calabria al Belgio

    Domenico Tedesco ha lasciato la Calabria quando aveva solo due anni. I genitori scelsero di emigrare nel Land del Baden-Wurttemberg, uno dei due Stati del Sud della Germania. Suo padre trovò lavoro come stampatore della Esslinger Zeitung, il quotidiano locale di Esslingen, a 15 chilometri dalla capitale Stoccarda. E nello stesso quotidiano il piccolo Domenico mosse i primi passi da giornalista sportivo da adolescente con uno stage in redazione. Niente carriera sui campi da gioco, però. Domenico Tedesco si laurea in ingegneria gestionale, prende anche un master in Innovation management.

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    Tedesco dirige un allenamento del Redbull Leipzig

    La passione per il calcio però lo porta presto in quel mondo. Inizia da vice allenatore nelle giovanili dell’Aichwald, paesino nei dintorini di Stoccarda, nel 2011 e quattro anni dopo e già alla guida dell’U-16 dell’Hoffenheim. L’U-19 è nelle mani, invece, di un altro enfant prodige: Julian Nagelsmann. I due spiccano presto il volo. Domenico Tedesco subentra sulla panchina dell’Aue a primavera del 2017 , dato per spacciato nella serie B tedesca, e lo porta a un’inaspettata salvezza a suon di vittorie. Da lì arriveranno il passaggio in Bundesliga allo Schalke e i risultati elencati qualche riga più su.
    Ora per questo figlio di calabresi che parla quattro lingue e ha il culto del gioco veloce potrebbe arrivare il turno del Belgio, terra di emigrati come lui.

  • Solo tre operai nei dirigenti del PD al Sud: c’è il calabrese Wladimiro Parise

    Solo tre operai nei dirigenti del PD al Sud: c’è il calabrese Wladimiro Parise

    Wladimiro Parise è uno dei tre operai che fanno parte della classe dirigente del Partito democratico al Sud. Eugenio Marino (di Crotone), responsabile organizzazione dei democratici per il Sud e le isole lo ha scoperto dopo aver condotto uno studio in merito alla classe dirigente delle regioni meridionali.
    La notizia è a apparsa oggi sulla home page di Repubblica.it in un articolo a firma di Concetto Vecchio.
    Wladimiro Parise è stato segretario del Pd a Casali del Manco, più di diecimila persone a pochi chilometri da Cosenza. E, soprattutto, luogo simbolo della sinistra calabrese. Un territorio che ha espresso nomi del calibro di Fausto Gullo, costituente e “ministro dei contadini”. Qui il partigiano Cesare Curcio ha nascosto Pietro Ingrao e Rita Pisano è stata mai dimenticata sindaca comunista. Oggi anche questa ex roccaforte rossa è un po’ in crisi di identità.
    Si chiama Wladimiro perché il padre volle il nome di Lenin. Altri tempi, altre storie, altra politica. Quando le sezioni erano una scuola di partito per tutti: dalla classe operaia ai contadini, passando per gli intellettuali. Parise è uno di quelli che rompe la statistica di un partito che la geografia del voto individua nelle Ztl e composto in larga parte dal mondo delle professioni, avvocati in primis.
    Parise ha 50 anni, fa parte dell’assemblea regionale dei Dem ed è tra i membri della segreteria a Casali del manco. Uno che ha mangiato «pane e politica», dice a Repubblica.it.

  • Consiglio regionale, tre poltrone in attesa di giudizio

    Consiglio regionale, tre poltrone in attesa di giudizio

    All’inizio erano cinque, ora sono tre. Ma continuano a ballare.
    Sono le poltrone di Palazzo Campanella, tuttora oggetto di ricorsi giudiziari sulla base della stessa accusa: l’ineleggibilità dei titolari attuali durante le ultime elezioni che hanno portato all’attuale composizione del Consiglio regionale della Calabria. Parrebbe, suggeriscono i bene informati, che la Corte d’Appello di Catanzaro dovrebbe finire di decidere a brevissimo, forse in settimana, su questi duelli di Tribunale, iniziati tutti nella primavera del 2022 con risultati alterni.

    Dal Consiglio regionale a Roma: Loizzo lascia la Calabria

    Uno degli aspetti più eclatanti delle Regionali 2021 fu il “siluramento” del leghista cosentino Pietro Molinaro, che fece ricorso contro la ex capogruppo Simona Loizzo.
    Molinaro perse presso il Tribunale di Catanzaro lo scorso 9 marzo e, ovviamente, impugnò.
    Per fortuna sua, del suo partito e della sua collega, le Politiche dello scorso autunno si sono rivelate decisive: Simona Loizzo è diventata deputata e Molinaro le è subentrato in Consiglio regionale.
    Anche la Lega tira un sospiro di sollievo, visto che l’elezione della dentista cosentina ha fermato le diatribe interne al gruppo regionale.

    Simona Loizzo

    Fedele, l’unica perdente (finora…)

    L’azzurra Valeria Fedele risulta la più subissata (e danneggiata) dai ricorsi.
    Contro di lei si sono scatenati in Tribunale Antonello Talerico e Silvia Parente. E Talerico, difeso dagli avvocati Luisa e Anselmo Torchia e Jole Le Pera, l’ha spuntata in primo grado.
    Il Tribunale di Catanzaro ha ritenuto credibile con un’ordinanza la presunta ineleggibilità di Fedele, che al momento della campagna elettorale era direttrice generale della Provincia di Catanzaro e non si era dimessa.
    Il duello continua, perché la Fedele – già vicinissima a Mimmo Tallini e poi a Giuseppe Mangialavori – si è affidata a un esperto: l’avvocato cosentino Oreste Morcavallo, che si dice fiducioso per l’Appello.

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    Valeria Fedele

    Tutti contro Comito

    La Fedele non è l’unico bersaglio di Talerico e Parente. Il duo ha preso di mira anche l’attuale capogruppo azzurro Michele Comito.
    Comito è un pezzo grosso della Sanità vibonese: è, contemporaneamente direttore del Dipartimento emergenza-urgenza e accettazione e Direttore dell’Unità operativa complessa di Cardiologia-Utic dello “Jazzolino” di Vibo Valentia.
    Per lui il Tribunale di Catanzaro si è pronunciato con un’ordinanza a favore: Comito non è ineleggibile, sostengono i giudici, perché si era messo in aspettativa per tempo.
    Anche nel suo caso, si attende la sentenza d’Appello.

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    Michele Comito

    Faide azzurre e inciuci a Catanzaro

    Anche a livello regionale il centro della Calabria si rivela complessissimo, come se già non bastasse il caos delle ultime Amministrative di Catanzaro.
    Infatti, se il doppio appello di Talerico e Parente dovesse andare a segno, la mappa politica cambierebbe in maniera sensibile. Soprattutto, sarebbero due belle botte per Mangialavori.
    Infatti, Comito è vicino al coordinatore regionale azzurro ed è cognato dell’ex capogruppo regionale forzista e ora deputato Giovanni Arruzzolo.

    Antonello Talerico

    Il suo siluramento sarebbe una bella vendetta, innanzitutto per Talerico, in guerra con Mangialavori sin dalle ultime regionali e poi candidatosi a sindaco di Catanzaro dopo averne dette di tutti i colori.
    Dopo aver ricevuto il corteggiamento di Calenda, Tal         b v     vxerico si è sistemato in Noi con l’Italia di Maurizio Lupi. Con questa sigla, il dissidente forzista fa parte della maggioranza di centrosinistra che sostiene l’amministrazione di Nicola Fiorita a Catanzaro.
    Ma, oltre a Talerico, è approdato alla corte di Lupi anche Mimmo Tallini, che considera Mangialavori qualcosa di peggio del fumo negli occhi…

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    Silvia Parente

    Consiglio regionale: corsi e ricorsi in Calabria

    Giusto un dettaglio piccante per gli amanti delle curiosità: Silvia Parente è la figlia di Claudio Parente.
    Anche Parente padre non è un tifoso di Mangialavori: infatti, nel 2014 tentò contro di lui un ricorso elettorale che arrivò in Cassazione. E perse.
    Ora Silvia, prima dei non eletti, fa la stessa cosa. Quando si dice “corsi e ricorsi storici”…

    Giuseppe Mangialavori

    Gelardi salvo anche in Appello

    A nord della Calabria, le Politiche hanno evitato guai al Carroccio.
    Invece, nel Reggino la Corte d’Appello ha calato il sipario sul duello tra Stefano Princi, dipendente del Comune di Santo Stefano d’Aspromonte e già fedelissimo di Nino Spirlì, e l’attuale capogruppo leghista Giuseppe Gelardi.
    Quest’ultimo, difeso da Rosario Maria Infantino, aveva già ottenuto verdetto favorevole dal Tribunale lo scorso 9 marzo. Secondo i giudici di Catanzaro non costituiva motivo di ineleggibilità il fatto che Gelardi non si sia messo in aspettativa da dirigente scolastico.
    E Princi – difeso da Jole Le Pera, Anselmo Torchia e Maria Carmela Sgro – ha impugnato.
    Ma niente da fare: il secondo grado conferma Gelardi.

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    Giuseppe Gelardi continuerà a sedere nel Consiglio regionale della Calabria

    In Calabria è guerra tra grillini per il Consiglio regionale

    L’unico duello non di destra è quello interno al Movimento 5stelle, tra la ex capolista grillina della Calabria centrale Alessia Bausone e il consigliere regionale Francesco Afflitto, medico in forze presso l’Asp di Crotone.
    Bausone, difesa da Giovanni Cilurzo, ha perso il primo grado lo scorso 14 marzo e si prepara all’Appello contro Afflitto, difeso da Eugenio Vitale e Antonio Amato.

    Un po’ di suspense

    Le sentenze dovrebbero arrivare a breve e, forse, alla spicciolata: la Corte d’Appello non ha unificato i ricorsi, che comunque riguardano casi e situazioni ambientali diversi.
    L’eventuale vittoria dei ricorrenti si risolverebbe in un maxi rimpasto nei due gruppi della maggioranza, dove risulterebbero ridimensionati i leader regionali.
    Tutto questo al netto di altrettanto eventuali (e non improbabili) ulteriori ricorsi in Cassazione.
    Una cosa alla volta…

  • Comuni al verde, sanità in rosso: conti in Calabria, la Regione glissa

    Comuni al verde, sanità in rosso: conti in Calabria, la Regione glissa

    L’unica notizia uscita dal convegno Bilancio regionale 2021 e Corte dei Conti: quello che i calabresi non sanno, tenutosi a Villa Rendano lo scorso 20 gennaio, è che il Consiglio regionale non ha detto una parola.
    Ed è gravissimo: i rilievi pesanti fatti a dicembre dalla magistratura contabile meritavano più di una riflessione politica in Calabria.
    Vi ha provveduto, in parte, la Fondazione Attilio e Elena Giuliani, che ha radunato attorno al classico tavolo un economista, Giuseppe Nicoletti, un veterano del sindacato, Roberto Castagna, e due sindaci, Stanislao Martire e Pietro Caracciolo, rispettivamente di Casali del Manco e Montalto Uffugo.
    Il tutto, sotto la moderazione del giornalista Antonlivio Perfetti.

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    Il tavolo dei relatori

    Corte dei Conti: la Calabria si confronta 

    Le affermazioni della Sezione regionale della Corte dei Conti sono piuttosto note.
    Ma l’analisi di Nicoletti mette a nudo i problemi con particolare crudezza, perché si basa sulla comparazione tra la Calabria e altre due regioni di media grandezza per rapporto abitanti-territorio: la Liguria e le Marche.
    In apparenza, i dati sembrano simili; tutte e tre le Regioni hanno difficoltà a riscuotere i tributi, e soffrono, inoltre, di forti vincoli ai bilanci, oscillanti in media sul 70%, dovuti alle spese sanitarie.
    Allora, dov’è l’inghippo?

    La povertà fa la differenza

    Quel che ci danneggia, prosegue Nicoletti, è la sostanziale povertà del sistema socio-economico: il reddito medio del calabrese (ci si riferisce solo ai contribuenti e non al “nero”) è di 13.837 euro annui, contro i 22.250 della Liguria e i 19.750 delle Marche.
    Quindi, non riuscire a recuperare un miliardo e mezzo sui sette e rotti di entrate tributarie accertate non è grave: è tragico.
    Soprattutto perché l’aspetto più debole è costituito dalle entrate “libere”, cioè utilizzabili senza vincoli, solo il 12%, dalla spesa per il finanziamento del debito sanitario, non ancora quantificato (155 milioni) e dall’emigrazione sanitaria (242 milioni). Manca poco all’asfissia.

    Le lacune del sindacato

    Roberto Castagna, il segretario generale dei pensionati della Uil, fa in parte un mea culpa: il sindacato è intervenuto tardi nel dibattito dopo aver latitato.
    Il che non è poco, in una Regione dove la tenuta sociale e il sistema dei diritti sono a forte rischio. E questo senza invocare il peso della criminalità organizzata.
    Si rende necessaria, a questo punto, una forte presenza delle sigle dei lavoratori, soprattutto nei settori “caldi”, dalla pubblica amministrazione alla Sanità, appunto.

    L’ira dei sindaci

    Sempre a proposito di Sanità, la provocazione più forte “volata” dal dibattito riguarda le frizioni campaniliste tra Catanzaro e Cosenza per il Corso di laurea in Medicina.
    La proposta, lanciata dal moderatore, di aprire un dibattito tra i rettori di Unical e Magna Graecia, ha punzecchiato a dovere i due sindaci.
    Parteciperemo senz’altro e in prima fila, affermano Martire e Caracciolo.
    La condizione finanziaria della Calabria pesa tantissimo sui Comuni, che restano spesso col classico cerino in mano.
    Così è per molte imposte, di cui sono i riscossori, così per i servizi.

    L’Università della Calabria

    Acqua e rifiuti

    I servizi idrici sono un punto dolente fortissimo, su cui Martire e Caracciolo hanno insistito tantissimo: con che risorse possiamo provvedere alla manutenzione della rete idrica se la maggior parte delle somme va alla società di gestione?
    Discorso simile per i rifiuti: i Comuni si accollano lo spazzamento e la gestione delle discariche. Per questo motivo l’ipotesi, avanzata da Roberto Occhiuto, di centralizzare a livello regionale la riscossione, più che perplessità desta allarmi. E via discorrendo.

    La grande malata: i conti della Sanità in Calabria

    Solo di recente la Calabria ha istituito i “tavoli” di confronto tra sindaci e Regione. E il coordinamento tardivo, ovviamente, non aiuta a lenire la situazione.
    Soprattutto se si pensa che i veri problemi sono altrove. E li rivela un acronimo sinistro: Lea, cioè livelli essenziali di assistenza, dove siamo gli ultimissimi, con un punteggio di 125 su un minimo di 160. Per la Sanità può bastare. O forse no: manca alla conta la quantificazione effettiva del debito. E i 500 milioni rilevati all’Asp di Reggio non fanno sperare bene.

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    L’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria

    Fondi europei e Calabria: i conti non tornano

    Altra nota dolente, i finanziamenti statali ed europei, che sono l’unica vera risorsa di cui disponiamo. La Calabria spende poco (circa 300 milioni l’anno) su un budget di 2 miliardi e rotti. Peggio ancora per le somme da recuperare per sospetta frode o irregolarità: 260 milioni.
    In una situazione così, i conti non bastano: occorrono gli scongiuri.

  • ChatGPT, Metaverso e la Calabria che può sorprendere

    ChatGPT, Metaverso e la Calabria che può sorprendere

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    Neanche il tempo di capire cosa fosse e a cosa potesse servire il Metaverso che dall’angolo sbuca ChatGPT. Praticamente una soluzione di intelligenza artificiale, creata dalla californiana OpenAI, capace di risolvere equazioni, comporre poesie, elaborare testi, addirittura superare, come già sperimentato, test di ammissione alle Graduate School. Basta fargli una domanda on line e lei/lui (dipende dalla fluidità di software) in pochi istanti elabora risposte.

    Secondo Christian Terwiesch, docente della prestigiosa Wharton Business School della Pennsylvania, «ChatGPT è in grado di surclassare alcuni dei suoi migliori studenti all’esame sul corso di operation management, nel Master in Business Administration».
    Avete voglia di verificarlo? Semplice: cliccate qui. Basterà solo avere la pazienza necessaria per aspettare il vostro turno visto che è assediato da richieste globali.

    ChatGPT e l’analfabetismo funzionale

    C’è da restare affascinati. Certo il sistema ha dei limiti, nel senso che genera testo incrociando la conoscenza che incontra nei miliardi di documenti presenti in rete. Non ha senso critico, non è capace di correggersi o di sviluppare idee nuove. Per il momento, ancora, non lo fa. Di sicuro con questa chatbox vanno in soffitta, da subito, compiti a casa, prove concorsuali, esami di stato e persino, forse, le lettere d’amore.

    chatgpt-aiFare i conti con l’intelligenza artificiale sarà la vera sfida educativa ed economica dei prossimi anni. Rischiamo di vedere intere generazioni condannate precocemente ad una sorta di subdolo analfabetismo funzionale. Non è proprio un caso se, già da tempo ormai, organismi internazionali del calibro del World Economic Forum, avvertono che già «dal 2025, addirittura il 50% di tutti i lavoratori avrà bisogno di reskilling (ristrutturazione delle competenze) e il 40% delle competenze base degli attuali lavoratori cambierà».

    Niente paura né facili entusiasmi

    Intelligenza artificiale, Internet dei Sensi e, da poco, Metaverso e ChatGPT, appaiono disegnare traiettorie tecnologiche destinate a rivoluzionare i processi produttivi, i modelli di consumo e la socialità.
    Si tratterà, come al solito, di governare l’innovazione senza arretrare spaventati dinanzi alle nuove opportunità. E anche, diciamocelo pure, di non esaltarci anzitempo rispetto ai miracoli promessi/minacciati dall’intelligenza artificiale.

    Delle due l’una: o si condanna la società all’analfabetismo tecnologico funzionale o si cambia il modello sociale di produzione. Immaginare, oggi, carriere lavorative e contributive di 40 anni prima di andare in pensione è, praticamente, fumettistico. In quarant’anni, con l’attuale velocità di trasformazione, si succedono almeno quattro generazioni tecnologiche.

    L’Università della Calabria e l’intelligenza artificiale

    In tutto ciò la bistrattata Calabria appare meno fragile e ultima, come da consolidato copione. L’Università della Calabria vanta infatti competenze e professionalità che la pongono ai primi posti nelle graduatorie mondiali dell’intelligenza artificiale. Roberto Occhiuto conosce bene questo primato e sembra sinceramente intenzionato a farne un vantaggio competitivo per le sue politiche di sviluppo. La recente istituzione del corso di laurea in Medicina e Tecnologie Digitali ne è la prima importante testimonianza.

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    L’Università della Calabria

    Ma i campi sono praticamente infiniti. Metaverso e promozione turistica, intelligenza artificiale nell’agricoltura di precisione, ChatGPT nell’assistenza sociale e tantissimi ancora.
    Paradossalmente, o quasi, la Calabria potrebbe diventare la regione leader nel Mediterraneo per lo sviluppo e l’implementazione di nuove catene di valore economico e sociale supportate da soluzioni di intelligenza artificiale. Vogliamo provarci?

  • San Francesco d’Assisi: la macchina del bene a Cosenza

    San Francesco d’Assisi: la macchina del bene a Cosenza

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    Una fredda domenica di gennaio non scoraggia Rosellina. Dalle 7:30 è già ai fornelli della mensa dei poveri della parrocchia di San Francesco d’Assisi a Cosenza. Da 35 anni trovano qui un piatto caldo, un sorriso ad accoglierli, una coperta o un indumento della taglia giusta. Con l’arrivo del Covid 19 le regole sono un po’ cambiate: i pasti non possono essere consumati all’interno. Ma solo consegnati al di fuori della struttura.

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    Pino Cristiano e sua moglie Rosellina, colonne portanti della mensa dei poveri nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)

    Rosellina e Pino

    Pino Cristiano è il marito di Rosellina. Immancabili baffi e un’abilità perfezionata nel tempo: accogliere e fare del bene ai tanti che hanno bisogno. Un particolare racconta perfettamente il suo attaccamento alla causa. Nel 2020 ha subìto una delicata operazione al cuore. Con un grosso cerotto sul petto, a due mesi dall’intervento chirurgico, è tornato in cucina.

    Catechista e responsabile della mensa, senza di lui tutto si era interrotto. Sorretto da una grande fede il 67enne ha deciso di andare avanti, nonostante il coronavirus potesse essere estremamente pericoloso, soprattutto nelle sue condizioni di allora. Non poteva mancare. Altrimenti tanti, troppi, non avrebbero avuto un pranzo o una cena completa almeno nel giorno del Signore. Pino e Rosellina sono due simboli di Cosenza capitale italiana del volontariato del 2023.

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    Elisa, Francesco e Damiano volontari nelle cucine della chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Non solo a Natale si fa del bene

    «Pochi ci danno una mano in cucina, siamo sempre gli stessi». Pino ne parla come un dato di fatto, senza lamentarsi, come si addice a chi si rimbocca le maniche e agisce. Comunque lui c’è. Sempre. Le uniche parrocchie a fare un turno al mese sono quella di Loreto e quella di Laurignano.

    Domenica a preparare le porzioni per i bisognosi sono arrivati di buon mattino tre ragazzi: Elisa da Spezzano Albanese, Francesco e Damiano abitano a Terranova da Sibari. Erano già stati in questa mensa dei poveri di Cosenza il 24 dicembre. Hanno deciso di tornare. Non sono tanti quelli che lo fanno lontano dal Natale o dalla Pasqua. Durante le feste religiose si sente il bisogno di donare tempo agli altri. Purtroppo l’indigenza e la fame non hanno un calendario prestabilito. Le trovi puntualmente a due passi da te. O nelle case diroccate della parte vecchia della città. Dove lingue, suoni e odori si mescolano in questo grande suk della sopravvivenza.

    Il francescano 

    Don Francesco Caloiero dal 1983 è parroco nella chiesa di San Francesco d’Assisi, tre anni fa ha superato il 50esimo di sacerdozio. Frate minimo e cappellano militare, ha partecipato a cinque missioni: Bosnia, Albania, Macedonia, Kosovo, Iraq. Non ha mai dimenticato le «colline piene di lapidi a Sarajevo». Era il 1996 e la guerra era finita da poco.

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    Don Francesco Caloiero, parroco della chiesa di San Francesco d’Assisi a Cosenza (foto Alfonso Bombini 2023)

    Prima di celebrare messa a I Calabresi affida una critica perentoria e senza appello: «Ci troviamo in un quartiere senza legalità e le istituzioni sono completamente assenti». Parole sostenute dal tempo passato nel tessuto sociale più problematico della comunità. Non solo mensa dei poveri nella sua parrocchia. «Martedì e giovedì – spiega – sono due giorni di consegna dei pacchi alimentari. Grazie alle donazioni private, gli aiuti del Rotary e del Banco alimentare. Purtroppo capita sempre più spesso di finire le scorte e non poter dare un sostegno a tutti».

    I poveri aumentano con il lockdown

    La situazione è peggiorata con il lockdown imposto per via della pandemia. Pino Cristiano ricorda perfettamente il baratro di tante famiglie italiane e straniere: «Consegnavamo 500 pacchi alimentari due volte a settimana. Alcuni li portavo io stesso a casa di persone che non avevano mai chiesto aiuto; gente che ha sempre lavorato. Piccoli impieghi precari e a nero, ma riuscivano a far quadrare in qualche modo i conti. Il Covid ha cambiato tutto in peggio».

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    Mario Parise allestisce da sempre il presepe della chiesa di San Francesco a Cosenza (foto Alfonso Bombini)

    Zio Mario

    Mario Parise è un’altra presenza quotidiana nelle attività della parrocchia. Tutti lo chiamano zio Mario. Noto in città per il suggestivo presepe che allestisce ogni anno. Si occupa della distribuzione dei pacchi alimentari. Ha stabilito un rapporto diretto con i meno abbienti, ha modi pacati e una grande sensibilità quando qualcuno bussa alla porta della solidarietà: «So che c’è imbarazzo e per questo sono io a chiedere di cosa hanno bisogno». Prima del 2020 «tanti venivano pure per fare una doccia e la barba, ne hanno tanto bisogno coloro che vivono in strada». Disposizioni, evidentemente applicate ai luoghi religiosi, impediscono di ripristinare questo servizio. Ma tra mille difficoltà la macchina del bene non si ferma mai a San Francesco d’Assisi.

     

    Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.

  • RITRATTI DI SANGUE | Milano, la capitale degli affari della ‘ndrangheta

    RITRATTI DI SANGUE | Milano, la capitale degli affari della ‘ndrangheta

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    Reggio Calabria e la sua provincia sono riconosciute, unanimemente, come le capitali “politiche” e “amministrative” delle ‘ndrine. Milano è invece la capitale economica della ‘ndrangheta. Il capoluogo lombardo e il suo hinterland, da sempre, sono terra di conquista per le cosche. E nulla conta la convinzione del profondo Nord di avere gli anticorpi per resistere al contagio del crimine organizzato su quei territori.

    Milano, l’altra capitale della ‘ndrangheta

    È proprio a Milano e dintorni che la ‘ndrangheta muove le masse di denaro più cospicue. E, come spesso accade, tra i primi a capire che quello è il canale giusto ci sono i De Stefano. Ossia la cosca che maggiormente ha modernizzato la ‘ndrangheta, facendola passare da una condizione agro-pastorale a una holding del crimine.

    La presenza capillare della ‘ndrangheta a Milano è ormai anche riconosciuta da sentenze definitive, quali quelle arrivate con le due maxi-inchieste “Crimine” e “Infinito”. Entrambe testimonieranno la fitta comunicazione, sempre attiva, sempre costante, tra chi opera al Nord e la “casa madre” calabrese. Partirà, per esempio, proprio dalla Calabria la decisione di “posare” Carmelo Novella, detto Nunzio, boss scissionista. Voleva fare le cose in grande, ma la sua voglia di indipendenza verrà soffocata sul nascere e nel sangue.

    Gli affari nella “Milano da bere”

    Già a partire dagli anni ’80, i De Stefano, insieme a Franco Coco Trovato, investono ingenti capitali nel Nord Italia, in particolare nel capoluogo meneghino. A Milano spartiscono il traffico degli stupefacenti con altre cosche della ‘ndrangheta e con i clan della camorra e della mafia. Nel 1990, Coco Trovato ingaggia per circa 6 mesi una sanguinosa faida con i Batti, camorristi, che decidevano di mettersi in proprio e contrattare direttamente la compravendita di eroina con i turchi. Il pretesto per scatenare la guerra era un diverbio tra Franco Coco Trovato e Salvatore Batti durante un incontro nell’appartamento dove Pepè Flachi si nascondeva durante la sua latitanza.

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    Pepè Flachi

    Negli anni ’90, dunque, la ‘ndrangheta capitalizza quello che ha costruito a partire dagli anni ’70. La forza della ‘ndrangheta sta anche nell’essere riuscita a colonizzare Milano e il ricco Nord, entrando con maggior forza nel traffico di stupefacenti e vedendo accrescere il proprio potere nel contesto delinquenziale anche a livello nazionale. Secondo alcune fonti, nel 1980 Giuseppe Piromalli entra a far parte della “commissione interprovinciale” di Cosa Nostra in rappresentanza di tutte le famiglie calabresi. Ruolo centrale quello rivestito, ancora una volta, dalla famiglia De Stefano, che riuscirà a comprendere prima di tutti l’importanza di colonizzare luoghi come la Lombardia, attraverso famiglie ad essa collegate.

    De Stefano a Milano: la ‘ndrangheta mette su famiglia

    Uno dei figli di don Paolino De Stefano, Carmine, dopo l’uccisione del padre si trasferisce per alcuni mesi, unitamente al fratello Giuseppe ed alla madre, nella residenza francese dei De Stefano e, precisamente, nella villa “Tacita Georgia” di Cap d’Antibes. Nel capoluogo meneghino, poi, la cosca De Stefano mette radici. E famiglia. Carmine De Stefano, infatti, diventa genero di Franco Coco Trovato, considerato uno degli esponenti più importanti della ‘ndrangheta in Lombardia.

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    L’arresto di Paolo De Stefano a Cap d’Antibes

    Quello, infatti, è un territorio fondamentale e assai fluido: personaggi come Coco Trovato, ma anche Pepè Flachi, i fratelli Papalia, il gruppo Sergi-Morabito, i fratelli Ferraro danno vita a fusioni, creano nuovi schieramenti, stringono nuove alleanze e mutano fronte.

    Basta la parola

    L’attività delle cosche sul territorio si svolge soprattutto nella commissione dei reati di estorsione, traffico di stupefacenti e di armi, di rapine, furti e truffe, nonché di fabbricazione e spaccio di banconote false. Ma i clan mettono le mani anche sui locali della “Milano da bere” e non solo: discoteche e night club anche nel Comasco e nel Varesotto.

    Spesso non sono necessari atti di violenza per riscuotere le tangenti. Ormai la situazione si era stabilizzata nel senso che i titolari degli esercizi pubblici taglieggiati erano in condizioni di sottoposizione e di impossibilità di reagire, che rendono palese l’efficacia minatoria dell’associazione indipendentemente dall’effettivo ricorso alla violenza, di cui bastava solo la prospettazione, anche implicita.

    Franco Coco Trovato, uno dei signori della ‘ndrangheta a Milano

    Uno dei gruppi più importanti nasce nel 1986 dalla fusione di due sodalizi distinti, quello dei Flachi e quello dei Coco Trovato. La “Milano da bere” necessita di droga. E la ‘ndrangheta gliela fornisce. Emblematico quanto dichiara in collaboratore di giustizia: «[…] In Comasina si smerciavano due chili di eroina ogni settimana, in Bruzzano altrettanti, alle “baracche” 7 kg ogni mese, ne smerciavano circa due al mese. Quindi alla fine del mese, si trattava di uno smercio di almeno 25 kg circa di eroina… Questo almeno dall’82 all’86 con incrementi progressivi… per la cocaina confermo quello che ho detto, e cioè che dai palermitani riuscivamo ad avere al massimo due kg al mese, quando loro l’avevano. Tanta ne smerciavamo. Naturalmente, i quantitativi che io ho prima indicato sono da riferire alla sostanza intesa come “pura” che, da me tagliata, si raddoppiava almeno».

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    Franco Coco Trovato

    Gli esordi di Franco Trovato (chiamato Franco Coco fino al 1991, anno in cui è intervenuto un riconoscimento di paternità), notoriamente caratterizzati dall’esecuzione di gravi rapine, sono stati narrati dal collaboratore Antonio Zagari nell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero di Milano l’11 novembre 1992.

    Dalle rapine e i sequestri al traffico di stupefacenti

    «Ho conosciuto Franco Coco … nel 1969 o 70. Io, all’epoca, ero giovanissimo ed avevo circa 15/16 anni. […] Ricordo che, trasferitosi al nord, entrò subito a far parte di un gruppo di persone dedito alla consumazione di rapine; di questo gruppo mio padre era il “basista” nella provincia di Varese e ne facevano parte varie persone, tra cui alcune molto importanti nella ‘ndrangheta… su un livello inferiore vi erano membri della ‘ndrangheta più giovani, quali Franco Coco (originario di Marcedusa e trasferitosi nel lecchese)», racconta Zangari.

    «Tutti costoro erano pacificamente e con certezza assoluta appartenenti alla ‘ndrangheta e come tali frequentanti la casa di mio padre… Rividi fuori dal carcere il Coco nell’82 e ’83… a questo punto era assolutamente noto tra di noi che il Coco aveva abbandonato le vecchie attività di rapine e di sequestri di persone e si era dato al traffico di stupefacenti che controllava e dirigeva nella zona di Lecco», prosegue.

    Un locale ufficiale nel lecchese

    La rapida ascesa di Coco Trovato nel panorama della criminalità organizzata di matrice calabrese trova riscontro nei racconti di tutti i collaboratori di rilievo. Anche Saverio Morabito ha riferito che Coco si era rapidamente radicato nella zona di Lecco, intrattenendo rapporti di buon vicinato con altre cosche (egli per esempio, al pari di Flachi e Schettini, si recava a Corsico per intrattenere pubbliche relazioni con la famiglia Sergi e con lo stesso Morabito).

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    Un panorama di Lecco, sul lago di Como

    D’altra parte, grazie ai rapporti sempre più stretti instaurati con la famiglia De Stefano di Reggio Calabria, e dopo alcuni insuccessi, Coco era riuscito ad ottenere il riconoscimento ufficiale dell’esistenza di un “locale” della ‘ndrangheta nel lecchese, struttura della quale era ovviamente il capo riconosciuto.

    Vacanze, Jaguar e colletti bianchi

    Racconta ancora Zagari: «Rammento anche che De Stefano, durante la comune carcerazione a Lecco, offrì ai figli di Coco un soggiorno gratuito a Reggio Calabria per le ferie dell’estate dell’83. Anche noi Zagari, come avevo detto, eravamo all’epoca molto legati al Coco tanto che, sempre nell’83, quando si sposò la sorella del Coco, su richiesta di quest’ultimo formulatami in carcere, io dissi a mio fratello Andrea e a mio cugino Sergi Franco di mettere a disposizione della sorella di Coco, per il matrimonio, una Jaguar nera adatta per le cerimonie, che servì agli spostamenti della sposa».

    Personaggio da Romanzo Criminale, Franco Coco Trovato assurge ben presto a soggetto di estrema rilevanza nell’ambito criminale della Lombardia. Anche perché, come da ampia tradizione della ‘ndrangheta, può contare su una serie ampia di “colletti bianchi”, piegati alle esigenze dei clan. Tra questi, l’avvocato Franco Mandalari (coinvolto in indagini proprio in Lombardia), che secondo alcune fonti giudiziarie poteva ungere gli ingranaggi giusti per ottenere benefici nelle sentenze, qualora gli uomini di Coco Trovato fossero stati arrestati.

    ‘Ndrangheta a Milano: l’unione fa la forza

    L’alleanza tra Pepè Flachi e Franco Coco Trovato, dalla quale nacque l’organizzazione unitaria, fu definitivamente sancita durante l’estate del 1986. Flachi aveva liquidato la sua vecchia società, ed era rimasto con pochi uomini di elevato livello al proprio fianco. Coco, d’altra parte, estendeva sul milanese, per via dell’alleanza, il dominio già esercitato nella zona nord occidentale della Lombardia. E la comune appartenenza dei due uomini alla ‘ndrangheta, che certamente aveva favorito i rapporti tra i due gruppi anche in anni precedenti, aveva di fatto contribuito, dopo uno sviluppo graduale delle relazioni, alla creazione di un’unica struttura delinquenziale retta da un patto di “società”.eroina-cocaina-ndrangheta-milano

    Un altro collaboratore di giustizia, Emilio Bandiera, per anni uomo inserito nella ‘ndrangheta milanese, specifica: «Furono fatti, naturalmente, vari discorsi ed alla fine fu deciso che i due gruppi si mettevano insieme: i proventi del traffico di stupefacenti e di altre attività delittuose (tra cui estorsioni) sarebbero stati divisi al 50%, mentre Coco e Flachi avrebbero unito le forze mettendo insieme le rispettive bande e i propri fornitori di stupefacenti e i clienti».

    «Da quel momento – prosegue Bandiera – presero a controllare un vasto territorio comprendente la Comasina, le baracche di via Novate, Bruzzano e tutto il territorio di Lecco e di parte della Brianza (controllato da Franco Coco). La società determinò subito un vero e proprio salto di qualità nella misura dei profitti che da parte loro si conseguivano. Non esito ad affermare che i due sono proprietari di un patrimonio immobiliare e liquido che è valutabile in decine di miliardi».

    Ci sono anche gli Arena-Colacchio

    Così, il gruppo Flachi-Coco Trovato diviene una validissima articolazione milanese sia del gruppo reggino dei De Stefano-Tegano, sia degli Arena-Colacchio di Isola Capo Rizzuto. Le attività criminali, esercitate dal clan, spaziavano dai delitti contro il patrimonio (in specie estorsione, usura, furti, ricettazioni), a quelli relativi a traffici di stupefacenti, di armi, omicidi di appartenenti ad organizzazioni avversarie per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche.

    In particolare mettono le mani su ristoranti, bar, pizzerie, esercizi commerciali operanti nel campo dell’abbigliamento, dell’arredamento, del movimento terra, distributori di benzina ed autolavaggi, palestre, società finanziarie ed immobiliari, imprese di costruzione e/o di gestione immobili, imprese di demolizione auto e commercio rottami, imprese di trasporto. Tutto, riportano gli atti, per acquisire la proprietà di beni immobili (edifici, appartamenti, terreni etc.) e di beni mobili di valore, e per procurare profitti ingiusti (anche derivanti dal controllo e dalla gestione di bische clandestine) a sé o ai propri familiari.

    I rapporti con la mafia siciliana e le stragi

    La Lombardia, da sempre, è una sorta di camera di compensazione. Lì le consorterie criminali dei vari territori d’Italia si incontrano e si spartiscono gli affari. Quasi sempre in maniera piuttosto lineare e senza bisogno di spargimento di sangue.
    Sul punto riferisce, tra gli altri, il collaboratore Franco Pino, uomo forte della ‘ndrangheta del Cosentino in contatto con i Piromalli, i Mancuso, i Pesce, ma anche con i casati del capoluogo reggino, e quindi i De Stefano, i Tegano, i Condello e i Fontana. Pino ricorda traffici di armi con la Sicilia e in particolare un carico di kalashnikov proveniente da Palermo arrivato a Cosenza.

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    Il boss, poi pentito, Franco Pino

    Pino racconta anche dell’ormai celeberrima riunione di Nicotera, dove Cosa Nostra, in quel periodo impegnata nella sua strategia stragista, avrebbe chiesto il coinvolgimento della ‘ndrangheta. In quell’occasione Coco Trovato e Pesce illustrano una proposta portata dai Brusca per conto di Totò Riina.
    I siciliani avevano già iniziato a commettere le stragi. E dicevano di volere un appoggio sull’attività stragista da parte della ‘ndrangheta, anche perché le eventuali conseguenze negative della legislazione sarebbero ricadute sulla criminalità calabrese.

    Il racconto di Franco Pino

    «In particolare chiedevano se noi fossimo disposti a commettere, da parte di chi ne aveva la maggiore possibilità, attentati ad obiettivi istituzionali, non per forza rivolti ad uccidere un numero indeterminato di persone ma certamente finalizzati a far capire che si trattava di attentati veri, in modo da procurare più terrore possibile e più danni possibile, ed eventualmente anche vittime; ad esempio obiettivi idonei potevano essere caserme o piccole stazioni dei Carabinieri site nei paesi, o simili. La contropartita consisteva, come fu detto espressamente, nel cercare di ottenere vantaggi dallo Stato, come una sorta di trattativa», afferma Pino.

    ‘Ndrangheta a Milano: Paolo Martino e gli anni 2000

    Ruolo importante, nel Milanese, quello svolto dai De Stefano. Non solo attraverso Coco Trovato. Un nome di grande peso è quello di Paolo Martino, cugino dei De Stefano. Martino viene indicato dai collaboratori di giustizia come uomo forte già negli anni ’90 con riferimento alle riunioni tenute per prendere le decisioni sulla strategia stragista. Negli anni 2000, invece, Martino torna prepotentemente alla ribalta sotto altra veste. Sarebbe lui, infatti, il contatto tra la Giunta Comunale di Reggio Calabria, del sindaco Giuseppe Scopelliti, e l’impresario dei vip, Lele Mora. Il Comune del sindaco Scopelliti, infatti, spenderà oltre 100mila euro per la realizzazione della “Notte Bianca” in riva allo Stretto.

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    L’ex presidente della Regione, sindaco di Reggio Calabria e commissario alla Sanità, Giuseppe Scopelliti

    All’impresario delle star, Scopelliti sarebbe arrivato infatti tramite quel Paolo Martino, legato da rapporti di parentela alla potentissima cosca De Stefano e della quale sarebbe la diretta proiezione in Lombardia. Così lo definiscono gli investigatori nelle carte d’indagine che lo conducono in carcere per i propri rapporti con il clan Flachi: «Martino è uno di quei personaggi che ha ampiamente superato la fase della delinquenza “nera” per passare al livello della mafia imprenditoriale, con contatti ad alto livello economico e politico».

    Scrive il Ros: «Non vi è dubbio che Martino Paolo, rispetto alla normalità dei soggetti attenzionati e gravitanti nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, rappresenti un livello qualitativo decisamente più elevato. Nato nel rione Archi del capoluogo calabrese, roccaforte destefaniana, è cugino del noto capomafia De Stefano Paolo e si è inserito, all’interno della cosca, con l’autorevolezza e la forza del mafioso di rango. Le sue vicende criminali, iniziate negli anni Settanta, lo hanno progressivamente qualificato come elemento di vertice di quell’aggregato mafioso».

    Il boss, il sindaco e il manager dei vip

    Oggi ultrasessantente, Martino comincia a sparare da minorenne e già a partire dai primi anni ’80 inizia a collezionare condanne su condanne, per associazione mafiosa e per droga, passando anche diversi periodi in latitanza. Sarà lui stesso a dichiarare al Gip di Milano, Giuseppe Gennari, il quale firma la maggior parte delle ordinanze contro la ‘ndrangheta in Lombardia, di aver messo in contatto Mora e Scopelliti: «Arriviamo lì e ci sediamo in ufficio. Io dico: “Lele, oltre a essere sindaco di Reggio Calabria è un amico mio. Però la cosa importante è che ti sto portando una persona che ti porta lavoro, cerca di fare qualche cosa interessante insieme”».

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    Lele Mora

    Al Gip Gennari, Martino racconterà inoltre di conoscere un po’ tutti i membri della famiglia Scopelliti: oltre a Giuseppe il politico, anche Consolato (detto Tino) e un altro fratello, anch’egli impegnato in politica, a Como. «Perché sono una persona perbene», dice. Affermazioni che, tuttavia, non hanno mai portato ad alcun coinvolgimento penale delle persone menzionate da Martino.

    Valle e Lampada: al servizio della cosca Condello

    Non ci sono solo i De Stefano, tuttavia. Anche la cosca Condello, soprattutto nei primi anni 2000, avrebbe avuto i propri importanti avamposti milanesi. In particolare nei membri delle famiglie Valle e Lampada. Secondo gli accertamenti svolti dal Ros, «i fratelli Lampada (Giulio e Francesco, ndr) rappresentano quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso, compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso investigato, riconducibile a Condello Pasquale». Non una cosca indipendente, dunque, ma una propaggine del più famoso clan Condello.

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    Franco Morelli ed Enzo Giglio

    Negli anni in cui gli uomini del Ros redigono l’informativa, i Lampada sono ancora degli “illustri sconosciuti”. Che, però, svolgerebbero già il ruolo di teste di ponte del “Supremo” in Lombardia «con il compito di reinvestire nell’economia pulita, gli enormi profitti illeciti». Lì a Milano, i Valle-Lampada avrebbero avuto relazioni privilegiate con diversi esponenti politici, tra cui l’allora consigliere regionale Franco Morelli. Ma anche con i magistrati Enzo Giglio e Giancarlo Giusti. Anche i rapporti con il mondo della politica, sarebbero, secondo il Ros, indicativi del legame, strettissimo, tra i Lampada e i Condello. Dati, quelli raccolti dai Carabinieri che darebbero la misura di «quanto fosse forte l’esistenza di un intreccio di affari criminali – economici tra gli appartenenti alla famiglia Lampada e lo stesso mondo politico calabrese, asserviti alle esigenze ed all’ottenimento di “favori” personali, comunque, riconducibili alla consorteria di Pasquale Condello».

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    Pasquale “Il Supremo” Condello tra due carabinieri

    I macellai e il Supremo

    I Lampada, dunque, anche attraverso il business delle slot machine, sarebbero riusciti, in poco tempo, a costruire un impero partendo praticamente da zero: quando vanno via da Reggio Calabria, infatti, sono proprietari solo di una macelleria nel rione Archi. A Milano, invece, avrebbero conquistato fette enormi di mercato nei settori più svariati: «Si tratterebbe e non potrebbe essere diversamente, di patrimonio riconducibile alla cosca Condello, reinvestito nella città di Milano dai suoi sodali. E qui emerge tutta la forza e la potenza della cosca indagata, capace di mimetizzare l’immenso capitale acquisito illecitamente, mediante nuove e più efficienti forme di riciclaggio e di reinvestimento dello stesso, sempre più tendente ad un’unificazione del mercato legale e di quello illegale».

    ‘Ndrangheta a Milano: i Piromalli

    Ma, come nei più classici cliché dei “corsi e ricorsi storici” di Giovambattista Vico, si parte dai Piromalli di Gioia Tauro, per ritornare, infine, proprio al grande casato di ‘ndrangheta. Una delle grandi inchieste degli ultimi anni, denominata “Provvidenza”, certificherà la presenza, ancora importante, ancora pervasiva dei Piromalli negli affari milanesi.

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    Giuseppe “Pino Facciazza” Piromalli

    Elemento centrale, Antonio Piromalli, figlio di Pino Piromalli, detto “Facciazza”. Proprio per volere del padre, Antonio Piromalli si era trasferito a Milano, nel tentativo di abbassare l’attenzione su di lui, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche delle altre famiglie mafiose. Pino Piromalli “Facciazza”, classe 1945, aveva infatti investito il figlio di pieni poteri, sebbene l’uomo avesse continuato a reggere le fila della cosca, prima dal 41bis dopo la condanna definitiva nel processo “Cent’anni di storia”, e poi da uomo libero, con la scarcerazione avvenuta nel 2014.

    «Hanno amici dappertutto»

    Lo storico casato gioiese, peraltro, muoveva ingenti somme di denaro con l’esportazione di prodotti ortofrutticoli verso i mercati del nord Italia, controllando alcune aziende inserite nel mercato ortofrutticolo milanese, a cui assicurava, per il tramite di un consorzio con sede nella Piana di Gioia Tauro, la fornitura dei prodotti, garantendo, con le note tecniche di intimidazione, prezzi di acquisto concorrenziali e il buon esito delle operazioni commerciali

    Per il pentito Furfaro, inchieste, arresti e decessi non hanno incrinato la leadership della cosca di Gioia Tauro: «Oggi i Piromalli sono la famiglia militarmente più forte d’Italia. Hanno “amici ” dappertutto. Questo tanto a Gioia Tauro quanto fuori. La Lombardia è nelle loro mani, ogni questione relativa ad appalti e quant’altro viene ripartita tra le famiglie più importanti. È quindi inevitabile che abbiano un peso specifico anche lì. Si diceva fosse Antonio Piromalli, classe 1972, occulto gestore del mercato ortofrutticolo a Milano e che questi avesse significativi interessi anche in questo settore; Gioacchino Piromalli andava spesso a Milano. Credo che lì avesse uno studio in comune con altro avvocato».