“I trogloditi di Africo”: il titolo di un articolo pubblicato su “L’Europeo” nel 1948 è senza appello, come altrettanto impietose sono le foto di Tino Petrelli a corredo, che il tempo ha trasformato in icone neorealiste della miseria. Ce n’è una, oltre quella più famosa della classe con i bambini scalzi e la carta geografica della Calabria alle spalle, che mi è tornata alla memoria in questo momento, scattata all’interno di un ambiente che la famiglia condivide con un letto, un maiale ed una capra. So bene che a più di qualcuno il parallelo sembrerà eccessivo, ma l’associazione fra questa foto e quella del crollo della facciata di una palazzina di Lamezia Terme, avvenuto qualche giorno fa, ha un suo legame concettuale.
La casa di Lamezia: la frattura simbolica
La cronaca di eventi come terremoti, attentati, o fughe di gas ci ha abituati alla visione di interi palazzi sventrati che offrono la propria intimità al nostro sguardo come teatri dalle scenografie di vita interrotta. Cucine e letti disfatti, armadi aperti come confessionali forzati: gli interni più privati diventano scena pubblica, la rivelazione improvvisa di uno spazio intimo che insieme alla frattura dei muri porta con sé la frattura della distanza simbolica tra l’interno e l’esterno, ponendoci di fronte ad un intreccio complesso tra psicologia dello sguardo, estetica del disastro e tensione etica.
Se da un lato la visione delle rovine suscita empatia e compassione per la quotidianità interrotta, dall’altro la stessa visione può alimentare un piacere segreto, una fascinazione che rientra in quella che Susan Sontag ha descritto come “l’attrazione del disastro”, dove l’atto del guardare si situa in una zona ambigua, oscillante tra compassione e consumo estetico della sofferenza. Sintomo, quest’ultimo, della tensione moderna tra documentazione e spettacolarizzazione che rinnova ogni volta l’interrogativo sui limiti morali del nostro desiderio di vedere, assai vicino, talvolta, ad una sorta di voyeurismo.
Lamezia, la casa col punctum di Barthes
Ma pur volendo distogliere lo sguardo da intruso, c’è qualcosa di diverso nel crollo di Lamezia, un dettaglio da punctum barthesiano che mi tiene incatenato a quell’immagine. Un elemento perturbante che emerge da quello spaccato di quotidianità agendo come una frattura semantica: una vecchia Fiat 600, apparentemente partecipe della normalità dello spazio domestico come in quel tempo non troppo lontano documentato da Petrelli. In realtà si tratta sicuramente di uno spazio dedicato a rimessa ma non solo, condiviso probabilmente con damigiane, bottiglie di pomodori e suppressate appese a stagionare, ma comunque contiguo alla casa.
Epperò quell’accostamento tra casa e macchina, come in passato fra casa e animali, rimanda a una specificità culturale, soprattutto nel meridione d’Italia, dove in molti contesti la casa non era/è semplicemente un contenitore separato dalla vita economica e sociale, ma un organismo esteso, secondo una logica di prossimità e custodia: ciò che è prezioso, vitale o identitario viene collocato all’interno.
La 600, icona della motorizzazione di massa e della modernizzazione italiana del dopoguerra, rappresenta una traccia biografica e culturale fortemente connotata, e la sua collocazione in uno spazio a portata di sguardo, contiguo a quello domestico, la trasforma in reliquia, oggetto d’affezione e al tempo stesso testimonianza di una temporalità sospesa, quasi un fossile domestico investito di una nuova aura simbolica. Non più strumento di spostamento, poggiata sui cavalletti al posto delle ruote, ma deposito di memorie, feticcio familiare che abita lo spazio come un ospite ingombrante ma accettato.
La casa sventrata a Lamezia, vite e fragilità
Nel più ampio contesto della mise en scène forzata della palazzina messa a nudo, i cui interni appaiono espressione di una comunità socialmente omogenea, quell’auto si presta a incarnare un simbolo di identità e di memoria collettiva della piccola comunità che è un condominio, raccontando una storia più ampia di vita, di cura e di perdita che appartiene a tutti noi. Alla fine, quelle stanze aperte come vite esposte ci ricordano la nostra fragilità; guardarle è guardare noi stessi, e capire quanto sottile è il confine fra certezze e perdita.
A differenza di Salvini, io il Leonka non l’ho mai veramente frequentato. Forse per il mio moderatismo antropologico, se non politico, forse perché non era di zona o forse solo per snobismo. Comunque sia, è senz’altro un ammissione imbarazzante per un milanese della mia generazione e della mia collocazione. Questa mancanza non mi impedisce però di cogliere la gravità di quanto è successo nei giorni scorsi e queste righe valgano anche come tardiva riparazione.
Un momento dello sgombero dello spazio autogestito
Agosto, tempo di sgomberi
Lo sgombero agostano – una tradizione consolidata nel tormentato mezzo secolo di storia del centro sociale – rappresenta per Milano un secondo vulnus simbolico, dopo quello delle inchieste che a luglio hanno messo sotto i riflettori le opacità, per usare un eufemismo, della politica edilizia e urbanistica milanese. Tra i due episodi non vi è in apparenza alcun legame fattuale ma il loro combinato assume senza dubbio una forte valenza simbolica.
In fondo, a modo suo, anche il Leonka era parte di quel “modello Milano” oggi non poco ammaccato. Potremmo dire che se la presa in carico della politica urbanistica di Milano da parte della speculazione immobiliare costituisce la pars construens (è proprio il caso di dirlo) del “modello Milano” che si è imposto soprattutto nell’ultimo decennio, la chiusura brutale del Leoncavallo ne costituisce la pars destruens, con il provvisorio smantellamento di un luogo, di un istituzione, che aveva incarnato, da ormai molti anni un modo diverso di vivere e immaginare la città. Un ruolo simbolico che è andato ben oltre i confini dell’area metropolitana milanese, come dimostra il clamore nazionale che la decisione governativa ha sollevato.
Molte sono le forme d’arte che hanno trovato spazio tra le attività del Leoka
L’arte è passata da quei luoghi
I murales del Leoncavallo non saranno forse “la Cappella Sistina della contemporaneità” secondo la definizione data a suo tempo da Vittorio Sharbi, e il centro sociale non è l’Accademia di Careggi ma dal Leonka sono passati artisti importanti. Gruppi come le 99 Posse, attori come Claudio Bisio, registi come Gabriele Salvatores e tanti altri. Da tempo il centro sociale aveva diluito il carattere radicalmente antagonista delle origini per acquistare quello di centro plurale di aggregazione, di socialità e di creatività ad ampio spettro rivolto alla città nel suo complesso ma in primo luogo a un quartiere, Greco, che ha da tempo smarrito la sua natura di quartiere operaio e, nell’attesa dell’inevitabile gentrificazione, appare in unancondizione di vita sospesa, fra senza tetto accampati lungo la Martesana, discariche semiabusivi, bar anonimi e pochi negozi di prossimità che resistono contro ogni
ragionevolezza economica.
Il Leonka era un luogo di vitalità e resistenza
In questo panorama se non proprio desolato, quanto meno melanconico, il Leonka era forse l’unico elemento di vitalità, oltre ad essere, checché ne dicano ministro e governo, un vero e proprio presidio di legalità. Si potrebbe dire che il Leoncavallo rappresenti un esempio riuscito di “istituzionalizzazione del carisma” del ’68.
Il ministro Piantedosi
Il perché dello sgombero
Perché dunque lo sgombero e perché ora? Apparentemente non c’era alcuna fretta. Lo sgombero ufficiale era previsto per il 9 settembre ed entro quella data probabilmente una soluzione consensuale sarebbe stata trovata. Come ricorda Mirko Mazzali, avvocato storico del Leoncavallo di altri centri sociali milanesi, “era in atto un percorso per trovare in maniera legittima un altro luogo dove il Leoncavallo avrebbe potuto proseguire la sua attività”.
Ma una soluzione pacifica e condivisa è appunto ciò che vi è voluto impedire. Il fatto che lo sgombero sia, ancora una volta avvenuto ad agosto, a “borse chiuse”, non ha avuto lo scopo di mettere la sordina a un’iniziativa controversa, approfittando della distrazione vacanziera dell’opinione pubblica, ma, al contrario, quello di precedere e rendere più difficile questa soluzione “incruenta”, con vantaggio aggiuntivo di cogliere di sorpresa attivisti e frequentatori del centro sociale che in effetti in quel momento era deserto, chiuso per ferie, rendendo sproporzionato e un po’ ridicolo l’imponente spiegamento di forze.
“Legge e ordine”, ma non solo
Dunque il clamore era previsto e voluto. Il ministro Piantedosi e la presidente del consiglio Meloni hanno infatti immediatamente rivendicato il significato politico dell’iniziativa, richiamandosi in prima battuta al dovere, primario per un governo di destra “law and order”, di ristabilire la legalità violata per decenni. Ma al di là di questo sono all’opera motivazioni e pulsioni più profonde. Chiudere il Leoncavallo significava che un’altra roccaforte dell’”egemonia culturale della sinistra” era stata finalmente espugnata.
Il revanscismo è infatti, fin dalle origini, un tratto caratterizzante della destra radicale italiana, più o meno esplicitamente erede del fascismo. Questa destra ha vissuto e vive la conquista del potere politico come l’occasione di una rivincita della sconfitta subita nella guerra civile del ’43-’45 e dell’emarginazione, politica e culturale, vissuta nei decenni della prima repubblica.
Dopo aver occupato quasi tutte le poltrone disponibili nei vari musei, società scientifiche, canali televisivi, mostre e, naturalmente, la scuola, si è voluto dimostrare che non esistono zone franche, santuari, “repubbliche partigiane” intoccabili.
La destra subisce il fascino di Gramsci, pur essendo erede di chi lo tenne in carcere fino alla morte,
“il gramscismo di destra”, ovvero l’egemonia politica che impone quella culturale
A ciò si aggiunge l’influenza più recente del “gramscismo di destra” e della volontà di dare consistenza e durata, e anche una certa presentabilità, alla conquista di questo stesso potere politico. Nella prospettiva originaria, l’egemonia culturale avrebbe dovuto essere la premessa per la conquista dell’egemonia politica. Oggi l’ordine dei fattori è invertito. È l’esercizio del potere politico che consente di imporre una “nuova narrazione” dell’identità culturale italiana. Non è stato forse abbastanza sottolineata la novità di un governo di uno stato democratico esplicitamente impegnato in uno sforzo di riorientamento culturale. Non si tratta dell’azione di promozione pluralistica della cultura, ponendo le condizioni – materiali innanzitutto – che favoriscano il lavoro di artisti e intellettuali, ma di un vero e proprio kulturkampf che intende promuovere contenuti specifici, riplasmare la cultura nazionale. Negli ultimi anni, a questi fattori “autoctoni” si è aggiunta la suggestione potente
di alcuni modelli di importazione.
La tentazione delle destra di spegnere le voci libere
Quello dell’ungherese Orban, e quello – ben più sostanzioso – trumpiano, con l’assalto lanciato a giornali, editori, università, musei e altre istituzioni culturali ma anche singole personalità, considerate ostili e infettate dal “wokismo” e dal “politically correct”. Certo, si parva licet… C’è chi dichiara guerra ad Harvard e alla Columbia, e chi maramaldeggia con il Leoncavallo. Il principio però resta il medesimo. Poiché produrre una egemonia culturale conservatrice e tradizionalista, in sostituzione non solo di quella “di sinistra” ma più ampiamente liberale-progressista, non è compiuto facile, data anche la qualità non sempre eccelsa del materiale umano a disposizione, si preferisce cominciare con il occupare, intimidire o smantellare luoghi e istituzioni avvertite come nemiche. Dunque la questione Leoncavallo è senza dubbio una questione in primo luogo nazionale e non semplicemente milanese. Credo però che un obbiettivo, forse secondario ma non trascurabile, del governo ci sia stato anche quello di mettere ulteriormente in difficoltà la giunta di centro-sinistra in un momento in cui già naviga in acque agitate. Il sindaco Sala, a quanto sembra, non era stato preavvertito dello sgombero imminente.
La giunta Sala non è innocente
La giunta Sala e la sinistra non sono innocenti
In questo senso, un legame fra le due vicende dell’estate milanese effettivamente c’è e se le responsabilità del governo in questa triste vicenda sono evidenti, una parte della colpa ricade anche sulla giunta di centro- sinistra e, più in generale, sulla sinistra, milanese e no. Come nel caso delle vicende edilizie e urbanistiche, giunta e partiti, hanno dato l’impressione di essere poco incisive, assenti. Una città con le risorse, non solo economiche, come Milano, una soluzione positiva, in tutti questi anni avrebbe potuto e dovuto trovarla.
Un progetto da 1,6 miliardi di euro sta per ridisegnare il destino della tratta Paola-Cosenza. Una nuova galleria a doppio binario, lunga 17 chilometri, sostituirà la storica Santomarco, inaugurata nel 1987, che per decenni ha spezzato l’isolamento della città dei Bruzi. Parte della linea ad alta velocità Salerno-Reggio Calabria, il nuovo tunnel, con una stazione a Montalto Uffugo vicina al polo universitario di Rende, promette di rivoluzionare la mobilità calabrese: più treni, tempi di percorrenza ridotti, un impulso al porto di Gioia Tauro.
I lavori, previsti per il 2025 e con conclusione entro il 2030, porteranno la vecchia Santomarco alla dismissione, lasciandola forse a nuovi usi locali. Ma il cammino non è privo di ostacoli. A Paola, gli espropri per il cantiere, nell’area di Pantani, hanno scatenato proteste. “Ci stanno togliendo la terra, e nessuno ci ascolta,” sbotta una donna di 60 anni. “La ferrovia ci ha dato tanto, ma ora rischia di lasciarci indietro.”
Il sogno di unire il mare alla montagna
Risaliamo il tempo. È il 1966, e le ruspe iniziano a mordere la montagna. L’idea è audace: un tunnel di poco più di 15 chilometri, il più lungo d’Italia all’epoca, per sostituire la vecchia linea a cremagliera Paola-Cosenza, un percorso tortuoso che, dal 1915, arrancava tra locomotive a vapore e automotrici Aln 56 FIAT. “Due ore per fare trenta chilometri, quando andava bene,” racconta Giuseppe, 78 anni, ex ferroviere in pensione, mentre sorseggia un caffè al bar della stazione di Paola. “La cremagliera era un’odissea: frane, smottamenti, ritardi. Ma era l’unica strada per il mondo.”
Il vecchio treno Cosenza-Paola
Il progetto della Santomarco nasce per cambiare tutto. Una linea elettrificata, con pendenze massime di 18 per mille, capace di portare Cosenza a meno di mezz’ora dal mare. I lavori, però, sono un calvario. Ventuno anni di scavi, dal 1966 al 1987, segnati da difficoltà tecniche e costi lievitati. Le cronache locali sussurrano di operai morti, schiacciati da crolli o travolti in incidenti mai del tutto documentati.
“Non c’era sicurezza allora,” confida Antonio, 65 anni, figlio di un operaio che lavorò al cantiere. “Mio padre tornava a casa con la polvere nei polmoni e la paura negli occhi. Diceva che ogni metro di quella galleria costava sangue.” Le cifre esatte delle vittime restano un mistero, inghiottite dalla reticenza di un’epoca che celebrava il progresso, ma taceva sui suoi costi umani.
Apre la Santomarco: il giorno della svolta
31 maggio 1987. La Santomarco viene inaugurata. Il primo treno elettrico taglia il nastro, e Cosenza si ritrova improvvisamente più vicina al mondo. I tempi di percorrenza crollano: da due ore a 25 minuti. “Fu come scoprire il mare,” ricorda Maria, 50 anni, insegnante, che da ragazza viaggiava con la vecchia cremagliera per studiare a Napoli. “All’improvviso, potevamo essere parte di qualcosa di più grande.”
La galleria non è solo un tunnel: è un’arteria che pompa vita. Studenti affollano l’Università della Calabria, appena fondata; i commercianti di Cosenza trovano nuovi mercati; i pendolari iniziano a sognare un futuro oltre le montagne.
Ma la Santomarco non è una panacea. Il binario unico, con un solo punto di incrocio a metà tunnel (oggi dismesso per normative di sicurezza), limita la capacità della linea. I treni regionali si accavallano, i ritardi si accumulano. E quando qualcosa va storto, il disastro è dietro l’angolo.
L’odissea dei pendolari
6 dicembre 2017. Un treno merci deraglia nella galleria. Nessuno muore, ma la linea resta chiusa per tre mesi. Autobus sostitutivi arrancano su strade tortuose, lasciando pendolari e studenti in balia di ritardi e disagi. “Un incubo,” sbotta Francesca, 28 anni, studentessa di ingegneria a Rende. “Arrivavo a lezione con due ore di ritardo, quando il bus non si rompeva.” Ancora nel 2024, un guasto elettrico blocca un treno nella galleria per ore. “C’era una donna con un bambino piccolo, un disabile senza assistenza,” racconta un macchinista di Trenitalia. “Siamo addestrati per le emergenze, ma in un tunnel così lungo, ogni minuto sembra eterno.”
I ferrovieri sono i guardiani silenziosi della Santomarco. “Lavorare qui è una missione,” dice il macchinista, che guida treni da vent’anni. “La galleria è sicura, ma non perdona errori. E quando si ferma, il mondo si ferma con lei.” Le esercitazioni di emergenza, come quella del 2024, sono un rito necessario: vigili del fuoco, protezione civile e personale FS si addestrano per evacuazioni che, si spera, non saranno mai necessarie. Ma il timore di un incidente grave aleggia sempre.
Santomarco, un tunnel di speranze e cicatrici
La Santomarco è più di un’opera ingegneristica. È il sogno di una Calabria che non vuole più essere periferia, il sacrificio di operai dimenticati, la fatica quotidiana di pendolari e ferrovieri. Ogni viaggio attraverso il suo buio è un atto di fede in un futuro migliore. Mentre il treno emerge dalla galleria e il profilo di Cosenza appare all’orizzonte, si avverte ancora l’eco di chi ha scavato, lottato e sperato per rendere possibile questo passaggio. La Santomarco non è solo un tunnel: è la storia di una terra che, metro dopo metro, cerca di conquistare il suo posto nel mondo. Con il nuovo progetto, quel sogno si prepara a un nuovo capitolo, ma le cicatrici del passato restano, incise nella roccia e nella memoria dei Bruzi.
La rumorata della raccolta del vetro, più o meno verso le cinque, lo aveva svegliato con i sintomi di chi sa già cosa l’aspetta. E tutto sommato un animo incazzuso è quello che serve per affrontare al meglio il giorno della Grande Battaglia di mezza estate. O dell’inizio dell’inverno, secondo quell’altra scuola di pensiero che inizia a tirare fuori le scatole del presepe. Entrato immediatamente nel clima “sennò non troviamo posto”, il pater familias inizia così ad andare su e giù per casa stile sergente Haartman (Full Metal Jacket, per gli smemorati) al grido di ‘jamu che è tardi’ (andiamo che è tardi), esortazione che nel brevissimo volgere della pazienza diventa un ‘maniatevi’ (sbrigatevi), la cui sfumatura di minacciosità è tutta nell’assenza sottintesa del ‘tardi’, e soprattutto in quel certo tono della voce appreso in anni di tappina (ciabatta) Montessori lanciata al grido di ‘chi te mu…!’ (bip). Occhi abbummati (gonfi di sonno) e cuffiette tattiche per non sentire il ripasso dei compiti una volta giunti a destinazione, alle 5e30 la famiglia è già in auto in assetto da guerra. Caricato tutto secondo ottimizzazione bestemmiante dello spazio che funziona solo nei tutorial YouTube, Haartman ha già lo sguardo da sorpasso alla Gassman; Mamma custodisce con sguardo a intermittenza ‘u frigoverre di polpette di melenzane, che sa già come va a finire, mentre i figli giacciono finto stravaccati alla stessa intermittenza, come ostaggi addormentati.
Superata con una botta di serendipity la fase parcheggio, almeno questa!, all’arrivo le tribù combattono già per la prima fila. A ciascuna il suo ombrellone come stendardo di famiglia, e via a piazzare il melone dintra mare, che senza di lui non è Ferragosto (che poi, vallo a riconoscere in epoca di overtourism, considerata la caratura media intorno ai 20kg…). Nel caso da noi abbastanza diffuso di famiglia numerosa, gli accampatori erigono prontamente cattedrali tendate di stoffe multicolor, difese al suono di racchette da padel come tamburi di guerra.
Bypassato dalla panzata dell’entusiasta di turno, segue momento dell’acclimatamento, sospesi a parlare tra acqua e sole, accompagnato da urla di bambini e grida di mamme che comunque, oltre a fracassare i marroni di quelli che si erano scordati che è ferragosto, allontanano i gabbiani in volo sulle vettovaglie.
In attesa del momento topico dell’apertura della stagnola d’a pasta china (pasta imbottita) o della lasagna, secondo localizzazione, le colonie di umani sciamate sulla spiaggia, attratte dalla sabbia bollente, preparano barbecue illegali per grigliate a seguire. I segnali di fumo che si innalzano dal litorale, visibili talvolta anche dalle Eolie, indicano che il momento è ormai prossimo. Alla litania del mangiatevela n’altro poco di pasta che non avete mangiato niente, calorie a miliardi intasano arterie fino allo stato di assenza post-prandiale, con le menti sospese tra coma e pace interiore.
Là, nella processione di auto a passo d’uomo sulla Paola-Cosenza et similia, si consuma infine l’ultima prova: la coda infinita da controesodo biblico. Finché la notte inghiotte i reduci, e insieme ad Instagram, incastrati nei sedili, bell’a papà, a testimoniare la grande impresa restano solo la sabbia e qualche chicco di insalata di riso fermentata.
“Ma c’era nu mare che era ‘na tavola!” (Ma c’era un mare piatto come una tavola).
È morto Padre Fedele Bisceglia, il frate cappuccino che ha segnato la storia della città dei bruzi con la sua fede incrollabile, il suo amore per i più deboli e la sua passione per il Cosenza Calcio. Francesco Bisceglia, nato a Dipignano il 6 novembre 1937, si è spento all’età di 87 anni, lasciando un vuoto incolmabile in Calabria e nei cuori di chi lo ha conosciuto.
MORTO PADRE FEDELE: UNA VITA PER GLI ULTIMI
È stato molto più di un religioso: medico, missionario, tifoso e, soprattutto, un uomo che ha dedicato ogni istante della sua esistenza agli ultimi. Orfano di madre a soli sei anni, entrò in seminario a tredici, ispirato da San Francesco d’Assisi. Laureato in Teologia, Lettere e Filosofia e Medicina, ha messo le sue competenze al servizio dei più bisognosi, in particolare in Africa, dove ha costruito scuole, pozzi e dispensari medici in Congo e Madagascar. La sua pensione, interamente devoluta ai bambini africani, era il simbolo di una vita votata alla carità.
IL CALVARIO E LA RINASCITA
A Cosenza, il suo nome è indissolubilmente legato all’Oasi Francescana, il rifugio che ha accolto migliaia di senzatetto e persone in difficoltà, offrendo pasti caldi e speranza. Successivamente, il “Paradiso dei Poveri” a Donnici è diventato un altro baluardo della sua missione. Ma Padre Fedele era anche il “monaco ultrà”, una figura iconica sugli spalti del Cosenza Calcio, dove accompagnava i tifosi con il suo saio, promuovendo il calcio come strumento di aggregazione e integrazione.
Memorabili i suoi viaggi in Africa con giovani tifosi, per mostrare loro la realtà della povertà e il valore della solidarietà.
Nel 2006 la drammatica accusa di violenza sessuale da parte di una suora lo travolse, portandolo all’arresto e alla sospensione a divinis. Dopo un calvario giudiziario durato oltre un decennio, la Cassazione lo assolse con formula piena nel 2016, dimostrando l’infondatezza delle accuse. Nonostante il trionfo in aula, la Chiesa non gli restituì mai il diritto di celebrare messa in pubblico, una ferita che Padre Fedele portò con sé fino alla fine, pur dichiarando di aver perdonato i suoi accusatori.
Una breve parentesi politica lo ha portato ad essere assessore nella giunta comunale guidata dal sindaco Mario Occhiuto.
IL SOGNO DI VEDERE IL COSENZA CALCIO IN A
Carismatico, ribelle, a tratti istrionico, Padre Fedele si definiva “un peccatore come gli altri”, ma il suo impegno ha lasciato un segno indelebile. Fino agli ultimi giorni, nonostante gli acciacchi e le ernie alla schiena, continuava a raccogliere fondi per i poveri, sedendo in strada con il suo saio, incurante delle intemperie. Nel 2023, un murale su viale Giacomo Mancini a Cosenza ha celebrato la sua eredità, un tributo a un uomo che ha vissuto per gli altri.
Padre Fedele sognava di morire aiutando i bisognosi, magari in Africa, e di vedere il Cosenza Calcio in Serie A. Se il primo desiderio lo ha accompagnato fino all’ultimo respiro, il secondo resta un auspicio per i tifosi rossoblù, che porteranno avanti il suo spirito. La città di Cosenza, l’Africa e tutti coloro che hanno incrociato il suo cammino lo ricorderanno come un gigante della carità, un uomo che, tra luci e ombre, ha vissuto con il cuore rivolto agli ultimi.
Addio, Padre Fedele. La tua voce continua a risuonare nei vicoli di Cosenza e nei villaggi africani che hai illuminato con la tua fede.
Per chi non le ha vissute da vicino, le persone diventano un collage disordinato di ricordi altrui, a volte solo impressioni. Specie in questa epoca social in cui la memoria sembra non appartenere più alla sfera privata della ‘bonanima’, ma essere un rito collettivo da performare. Difficile sottrarsi alla celebrazione planetaria del ricordo, al c’ero anch’io di un selfie o di un aneddoto.
Per noi che siamo lontani da tutto, Calabria Saudita ci chiamano, Berengo Gardin è stato una di quelle meraviglie da toccare, alla San Tommaso. Un’incredulità che per trasformarsi in realtà trattenuta ha avuto bisogno di una cittadinanza onoraria e di un libro, edito nientemeno che da Contrasto. Un libro dal titolo che la dice lunga su quella distanza, Viaggio a Corigliano.
Già, Corigliano, città del Festival che 22 anni fa ha regalato alla nostra terra un tocco di internazionalità, fra l’affetto dei tanti che ogni anno tornano numerosi sui luoghi di questo pellegrinaggio del cuore. Il Festival che ha unito la Calabria in un sentimento misto di orgoglio e riconoscenza.
Addio Berengo, e grazie per i ricordi che ci hai lasciato da raccontare all’infinito.
Nel cuore pulsante del Mezzogiorno, dove il sole brucia la terra e il mare sussurra antiche storie, Gianni Berengo Gardin ha posato il suo sguardo, un occhio che non si limita a vedere, ma a narrare. È vissuto 94 anni, il maestro della fotografia italiana ci ha lasciato un’eredità che si lega profondamente col Sud, e in particolare con la Calabria, terra di contrasti e di verità nude, che egli ha saputo cogliere con la sua Leica, strumento di un artigiano che si definiva tale, rifuggendo l’etichetta di artista. “La foto migliore è quella che ha più cose da dire”, diceva, e nel Mezzogiorno ha trovato un universo di parole silenziose, di gesti quotidiani, di paesaggi che parlano di resistenza e di bellezza ferita.
Berengo Gardin, veneziano d’adozione ma nato a Santa Margherita Ligure, era un antropologo dell’immagine, un poeta della realtà che, con il suo bianco e nero, ha dato voce a chi non l’aveva. Il suo rapporto col Sud è stato un dialogo costante, un viaggio d’amore e di impegno civile, come testimoniano i suoi scatti a Capocolonna, Pentedattilo, Stilo e il suo legame speciale con il festival di Corigliano Calabro Fotografia. La Calabria, con le sue rughe di storia e le sue cicatrici di modernità, è stata per lui non solo un soggetto, ma un interlocutore, un “luogo” dove il suo obiettivo si è fatto specchio di un’umanità viva e complessa.
A Capocolonna, nel crotonese, Berengo Gardin ha fotografato l’anima di una terra che si aggrappa alla sua eredità greca, alla sua identità sospesa tra mito e abbandono. Qui, il suo sguardo ha colto il silenzio di un paesaggio che racconta millenni, ma anche la fatica di chi lo abita, di chi vive ai margini di un Sud spesso dimenticato. A Pentedattilo, il borgo fantasma aggrappato alle rocce della costa jonica, ha immortalato le pietre che sembrano parlare, le case abbandonate che custodiscono memorie di vite passate, in un bianco e nero che rende eterno il tempo sospeso. E a Stilo”, culla della Cattolica e di un Medioevo che ancora respira, ha catturato la spiritualità austera di una Calabria che si erge fiera, nonostante le sue ferite.
Il suo legame con la Calabria si è consolidato attraverso il Festival di Corigliano Calabro Fotografia, che ha contribuito a fondare nel 2003 e dove tornava ogni anno, come un pellegrino della luce, per “respirare fotografia”, come lui stesso diceva. A Corigliano, non solo ha lasciato il suo segno con il progetto “Viaggio a Corigliano” (2004), un racconto visivo della città e dei suoi abitanti, ma ha anche incarnato un esempio per generazioni di fotografi, condividendo la sua visione etica e il suo rifiuto di un’estetica fine a sé stessa. “Non voglio interpretare, voglio raccontare”, ripeteva, e in Calabria ha raccontato una terra che non si arrende, che vive nei volti dei pescatori, nei mercati, nelle strade polverose, nei gesti semplici che diventano epici sotto il suo obiettivo.
Il Sud di Berengo Gardin non è mai stato un cliché, né una cartolina pittoresca. È un Meridione vivo, fatto di contraddizioni, di lotte, di dignità. La sua fotografia sociale, ispirata dai maestri della Farm Security Administration come Dorothea Lange e dai grandi della Magnum come Henri Cartier-Bresson, ha trovato da noi un terreno fertile per esprimere la sua missione: documentare l’uomo, la sua fatica, il suo ambiente. Le sue immagini del marchesato crotonese e della Locride sono frammenti di un’antropologia visiva che restituisce al Sud la sua complessità, lontano dagli stereotipi di arretratezza o folklore. Sono immagini che parlano di un Meridione che resiste, che si trasforma, che porta sulle spalle il peso della storia e la speranza del futuro. Berengo Gardin ha fotografato il Sud con la stessa passione con cui ha immortalato Venezia, i manicomi di “Morire di classe” o gli zingari di Palermo.
Ma in Calabria, forse, ha trovato qualcosa di unico: una terra che, come lui, rifiuta di piegarsi alla superficialità, che chiede di essere guardata con attenzione, con rispetto. Le sue foto di questa regione sono un canto d’amore e di denuncia, un invito a non distogliere lo sguardo da un Sud che, come lui diceva, “ha più cose da dire”. E oggi, mentre piangiamo la sua perdita, quelle immagini continuano a parlarci, a ricordarci che la fotografia, quando è vera, è un atto di giustizia, un abbraccio all’umanità.
Da quando ho sentito per la prima volta la storia del pilota che, dopo aver sganciato la bomba atomica su Hiroshima, si sarebbe ritirato nella Certosa di Serra San Bruno, sono stato catturato da un fascino irresistibile.
Proprio pochi giorni fa col mio amico documentarista Antonio Martino avevamo pensato di ragionare su questo argomento.
È una narrazione che intreccia guerra, colpa, redenzione e spiritualità, ambientata in un luogo mistico e isolato come la Certosa, un monastero certosino immerso nelle silenziose foreste calabresi del vibonese. Questo racconto, che oscilla tra realtà e leggenda, ha il potere di evocare immagini potenti: un uomo tormentato dal peso delle sue azioni, in cerca di pace tra le mura di un convento antico, lontano dal clamore del mondo. Ma quanto c’è di vero in questa storia? E perché continua ad affascinarmi così tanto?
L’esplosione della bomba e le sue conseguenze
Le origini di una leggenda
La storia ha radici negli anni ’60, quando lo scrittore calabrese Sharo Gambino pubblicò un racconto che accese l’immaginazione di molti. Secondo la sua versione, un pilota americano, pentito per il ruolo avuto nel bombardamento atomico di Hiroshima del 6 agosto 1945, avrebbe scelto la vita monastica nella Certosa di Serra San Bruno per espiare le sue colpe. Il racconto, ripreso da un servizio RAI del 1962, si diffuse rapidamente, trasformandosi in una vera e propria leggenda urbana. La notizia attirò l’attenzione di giornalisti e curiosi, al punto che i monaci della Certosa, disturbati dalle continue visite di chi cercava il misterioso pilota, affissero un cartello con un messaggio chiaro: «Nella Certosa non c’è il pilota di Hiroshima. Non disturbate la quiete del convento».
La certosa di Serra San Bruno, tra le cui mura avrebbe cercato espiazione il pilota americano
Eppure, nonostante la smentita, la storia non ha mai smesso di esercitare il suo fascino su di me. C’è qualcosa di profondamente umano nel pensiero di un uomo che, dopo aver contribuito a uno degli eventi più devastanti della storia, cerca redenzione in un luogo di silenzio e contemplazione. La Certosa di Serra San Bruno, fondata nel 1090 da San Bruno, è un luogo che sembra fatto apposta per accogliere anime in cerca di pace: le sue mura austere, il rigore della vita monastica e il profumo dei boschi calabresi creano un’atmosfera che invita alla riflessione. È facile immaginare un uomo tormentato, avvolto dal silenzio di quel luogo, intento a confrontarsi con il proprio passato.
La ricerca della verità
Ma chi era questo pilota? La storia, per quanto affascinante, si scontra con i fatti storici. Il pilota dell’Enola Gay, il bombardiere B-29 che sganciò la bomba atomica “Little Boy” su Hiroshima, era il colonnello Paul Tibbets. Tibbets, un uomo pragmatico e convinto della necessità della sua missione, non mostrò mai rimorsi pubblici per il suo ruolo e visse una vita lontana da monasteri, morendo nel 2007 senza mai visitare la Calabria. La sua figura non si adatta al profilo del “pilota pentito” della leggenda.
Paul Tibbets, il comandante dell’Enola gay
Dietro la leggenda una storia vera
Tuttavia, scavando più a fondo, emerge un altro personaggio che potrebbe aver ispirato il racconto: Tony Lehmann, un soldato americano che, pur non essendo un pilota, visitò Hiroshima poco dopo il bombardamento come parte del suo servizio militare. Lehmann, sconvolto dalla devastazione causata dalla bomba, decise di lasciare l’esercito, si laureò in filosofia e divenne sacerdote gesuita. Successivamente, trascorse periodi di ritiro nei monasteri certosini di Pisa e Serra San Bruno. È possibile che, durante il suo soggiorno in Calabria, abbia condiviso con i confratelli le sue riflessioni sulla tragedia di Hiroshima, alimentando così la leggenda. Lehmann non era il pilota dell’Enola Gay, ma la sua storia di trasformazione spirituale e il suo legame con la Certosa potrebbero aver dato origine al mito.
L’altro protagonista
Un altro nome che spesso emerge in questa vicenda è quello di Claude Eatherly un pilota meteorologo che partecipò alla missione di Hiroshima come membro dell’equipaggio del “Straight Flush”, un aereo di supporto. A differenza di Tibbets, Eatherly fu profondamente segnato dal suo ruolo, pur indiretto, nel bombardamento. Tormentato dai sensi di colpa, cadde in una spirale di disturbi psichici, commettendo piccoli crimini nel tentativo di espiare il suo passato. Il suo carteggio con il filosofo Günther Anders, pubblicato in Italia come “L’ultima vittima di Hiroshima”, dipinge il ritratto di un uomo in lotta con la propria coscienza. Tuttavia, non ci sono prove che Eatherly abbia mai visitato Serra San Bruno o che si sia ritirato in un monastero.
Il fascino di una storia universale
Perché questa storia continua ad affascinarmi tanto? Forse perché tocca corde profonde dell’animo umano: il senso di colpa, la ricerca di redenzione, il desiderio di lasciare alle spalle un passato doloroso. L’idea di un pilota che abbandona tutto per rifugiarsi in un monastero calabrese è quasi cinematografica, un’immagine che sembra uscita da un romanzo di Graham Greene. La Certosa di Serra San Bruno, con la sua storia millenaria e il suo isolamento, amplifica questo fascino. È un luogo che sembra sospeso nel tempo, dove il silenzio diventa un interlocutore e ogni passo tra le sue mura invita alla riflessione.
L’errore giornalistico
La leggenda, inoltre, si nutre di un errore giornalistico che ha contribuito a consolidarla. Nel 1962, un articolo di Gianfranco Poggi sulla rivista “Oggi” identificò erroneamente Tony Lehmann come “Lehman Leroy” e lo descrisse come il pilota di Hiroshima, alimentando il mito. Questo fraintendimento, unito al racconto di Sharo Gambino, ha trasformato una storia di trasformazione personale in una narrazione epica di espiazione.
Un mistero che resiste
Nonostante le smentite, la storia del pilota pentito continua a vivere nell’immaginario collettivo. Forse perché, al di là della sua veridicità, parla di qualcosa di universale: il bisogno di trovare pace dopo aver affrontato l’orrore. Ogni volta che penso alla Certosa di Serra San Bruno, immagino un uomo senza nome, un’ombra tra i monaci, che prega in silenzio per le anime perdute di Hiroshima. È un’immagine che non ha bisogno di essere vera per essere potente.
Le mura della certosa che custodiscono la leggenda
La certosa e il suo spettro immaginario
La mia attrazione per questa storia non deriva solo dalla sua drammaticità, ma anche dal mistero che la avvolge. È una storia che si presta a mille interpretazioni, che invita a immaginare e a riflettere. Forse il vero pilota pentito non è mai esistito, ma la sua ombra continua a vagare tra le mura della Certosa, un simbolo della capacità umana di cercare luce anche nelle tenebre più profonde. E per questo, non smetterò mai di essere affascinato da questo racconto, che unisce la tragedia della guerra al silenzio di un monastero calabrese, in un connubio che parla direttamente al cuore.
Nel furore dei ritorni d’agosto che muovono fiumane da nord a sud, in una stagione estiva turistica che si vorrebbe allungare a primavera e autunno ma si riduce alle solite due settimane a cavallo di Ferragosto, restano sullo sfondo ma continuano silenziose altre correnti di mobilità al contrario, quelle della migrazione sanitaria che da sempre e da troppo tempo portano i e le calabresi a cercare diagnosi, cure e speranza a nord di Roma. Perché, talvolta, capita che andare nella capitale non sia sufficiente a migliorare la situazione di tante e tanti che si ritrovano in una ingarbugliata matassa diagnostica e clinica, intrappolati in liste d’attesa, caos organizzativo, insufficiente attenzione e comunicazione, e non ultime, come nel mio caso, arroganza e mancanza di umiltà dei medici.
Il costo umano ed economico della migrazione sanitaria è enorme
La battaglia (quasi perduta) tra sanità pubblica e privata
Questo perdurante stato di minorità della sanità pubblica calabrese, con il concomitante proliferare del privato che attira sempre più professionisti (non solo i neo formati ma anche quelli chiamati ad hoc dall’estero), disegna una carenza di diritti e un vulnus nella cittadinanza, ed è alla base di una mobilità coercitiva e obbligata, diseguale ed iniqua, in cui chi ha risorse personali (ed economiche, culturali, simboliche) ha più probabilità di riuscire nell’impresa di salvarsi la pelle e sopravvivere, specie di fronte a una malattia grave che può cambiare radicalmente la vita.
La diagnosi sbagliata e i medici privi di dubbi
Quando nel 2013 mi venne prospettato il sospetto di un linfoma non-Hodgkin (immediatamente intuito da un medico dell’Annunziata) non volli fermarmi qui, puntando ad un luogo di cura dove si facessero molte, moltissime diagnosi di questo tipo, nel timore neppure tanto inconscio di una diagnosi che non fosse corretta. Umanissima paura o percezione extra sensoriale, la diagnosi sbagliata me la ritrovai, dopo due anni di cure durissime ed inutili e due recidive a cadenza semestrale, in un Istituto nazionale tumori considerato di prima classe. Due anni di trasferimento quasi permanente, protocolli multipli, partite a scacchi con la morte, ma soprattutto medici incapaci di dubitare delle loro diagnosi e strategie terapeutiche. Persino di fronte ad una nuova diagnosi, sollecitata dalla mia buona stella e anche dalla familiarità, per forma mentis, interessi di ricerca e curiosità, con il linguaggio e le pratiche della scienza e della tecnologia (o, per dirla con Bruno Latour, della tecnoscienza), quei medici non hanno mai dubitato delle loro ipotesi.
Ambienti sanitari ancora poco sensibili all’innovazione che viene dalle tecnoscienze per la salute
La malattia diventa campo di ricerca
Della mia storia ho fatto un tema di ricerca e di studio da molti anni, con una biografia di migrazione sanitaria che oltre alla medicalizzazione pluriennale, porta nella mia routine spostamenti periodici e iterativi da sud a nord, da un po’ di tempo per fortuna meno frequenti. Non che non siano presenti, nella mia biografia e storia clinica, episodi di buona, anzi ottima sanità calabrese (sempre presa per i capelli dopo una mancata diagnosi vicino casa). Ma di fronte alla sollecitazione di un primario che mi invitava a trovare un riferimento locale in caso di emergenza, come è stato per una gravissima polmonite da Covid nel 2023, mi sono sentita smarrita e scettica.
La mia è una storia talmente complessa, che solo raccontarla richiede tempo, pazienza, raccapezzarsi tra decine di eventi critici, ospedalizzazioni e recidive multiple, e soprattutto un atto di fiducia e affidamento che già ricostruire nella mia fuga dal centro verso nord è stato doloroso e non scontato.
Il successo nelle cure c’è dove si fa ricerca
Uno dei leit motiv della mia storia di migrante sanitaria su scala nazionale e, in un episodio specifico, anche locale, è che la probabilità di successo delle cure è più alta laddove c’è ricerca prima e insieme alla cura, con la presenza delle infrastrutture del caso; ma anche dove c’è più ascolto, empatia e capacità di accogliere il/la paziente e le sue domande, dubbi, perché no intuizioni. Mi considero, e sono (stata) una paziente disobbediente, impaziente, non ingenua, per tante ragioni e anche contingenze, e questo ha fatto una differenza fondamentale, la differenza tra vita e morte.
Una sanità aziendalizzata è inevitabilmente disumana
Una sanità aziendalizzata che impone tempi e metodi ai medici della sanità pubblica, in uno scellerato scimmiottamento del capitalismo più becero e di una ricerca di qualità ed efficienza che sacrificano tutto ad una performance impossibile ed improponibile, non può dirsi né umana né efficace rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di cura e di autentico servizio.
La sanità calabrese destinata ai privati
La sanità privata in Calabria rappresenta una sconfitta
Tanti medici fuggono dalla costante disorganizzazione e insostenibile pressione dei ritmi di un sistema in cui il paziente è un file, un numero, una pallina di un flipper impazzito in cui i medici stessi sono intrappolati. Il sistema privato come rifugio, dovunque e a fortiori in Calabria, è una sconfitta per chi deve curarsi e chi è chiamato a curare, per chi crede nei diritti civili e sociali, per chi continua a doversi spostare verso istituti privati magari convenzionati che hanno instaurato un circolo virtuoso di ricerca e cura, per chi come me vorrebbe anche provare a interloquire in loco con strutture e medici che si spera possano presto rafforzarsi, ma che ad oggi non appaiono interlocutori possibili rispetto a una storia lunga e densa di ferite, la cui narrazione aspira ad essere fonte di senso e testimonianza.
Il 31 Luglio è stata la Giornata Mondiale dell’Orgasmo, un modo alternativo per aprire altre discussioni su vari aspetti di questo argomento, “sensibilizzare” ed educare su una corretta e sana vita sessuale.
A “corretta e sana vita sessuale” avrei voluto lanciare il pc a terra e urlare “mi sono rotta le ovaie di questa etica commerciale sulla sessualità. Non ne posso più di video, contenuti social, sexy guru, educatrici sessuali, mediche ed influencer che ci urlano che il sesso non è una performance mentre ci vendono giocattoli per il piacere, creme, lubrificanti e candele”! E voi direte … “ma non sei tu forse quella che dal 2017 ci fracassi il fracassabile con questi argomenti?”
Facciamo il punto della situazione e capiamo come il capitalismo ci stia rubando pure il piacere, la scoperta, la lussuria e la cultura.
I NUMERI
Le ricerche online (tra il 2024 e il 2025) su termini come “cos’è un orgasmo” superano le 30.000 all’anno, mentre “Come raggiungere l’orgasmo” ne totalizza oltre 38.500. Le ricerche sull’orgasmo femminile sono circa quattro volte più frequenti di quelle sull’orgasmo maschile, riflettendo una maggiore difficoltà percepita e interesse a risolverla.
In verità sappiamo che la sessualità femminile, sia a livello culturale, sanitario e “pratico” è ancora un argomento tabù, riconducibile più alla sfera personale e privata, meno ad un discorso collettivo.
Insomma, per dirla in modo diretto “dimmi come e con chi scopi e ti dirò chi sei!”.
ORGASMO: PARLARNE FA ABBATTERE TABÙ
Parlare quindi di sessualità è un bene sempre, perché contribuisce almeno ad abbattere il primo tabù: se ne parlo, la mia sessualità esiste, a prescindere da chi sono, dalla mia età e dal mio status. Ma… c’è un ma… l’educazione alla sessualità – soprattutto femminile – è diventata un business, un tramite per vendere l’ultimo toy, divulgare il contenuto imperdibile dell’ennesim* content creator, un articolo acchiappa like con link nascosto di un prodotto da vendere.
Quindi… il sesso vende! Sdoganiamo la sessualità femminile, che è quella da sempre più volubile e discussa, insegniamo alle donne come essere più “libere e desiderabili” e poi creiamo loro anche problemi da risolvere: cattivo odore, maschere di bellezza per la vulva, creme sbiancanti per la vulva, profumi e unguenti.
Ma che ne sappiamo davvero di sesso? Che ci dice la letteratura e non la saggistica? Che ne sappiamo di rivoluzione sessuale? E perché in un mondo sempre così iperconnesso, con dati accessibili e sempre reperibili, le nuove generazioni fanno meno sesso e non lo sanno neppure praticare?
EROTISMO SVUOTATO
I giovani (non tutti, ma molti) sono cresciuti in un mondo dove il corpo è immagine da ottimizzare, non presenza da abitare. Dove l’erotismo è stato svuotato e sostituito da un’estetica ad alta prestazione, ma a bassa intensità emotiva. L’erotismo è diventato un’auto-sessualizzazione impersonale: il corpo è mostrato per piacere, non per desiderare.
È possibile che l’orgasmo oggi sia più una questione di marketing e meno un fatto erotico?
Sono fermamente convinta che il nostro cervello e i nostri corpi, non siano più erotici. Piegati ad un’estetica instagrammabile (uno stile visivo pensato per piacere, attrarre e performare bene su Instagram e altri social, più che per esprimere una visione artistica -o erotica in questo caso – un gusto personale autentico), abbiano perso non solo unicità, ma sapore, odore, sorpresa.
Un vero e proprio modo di costruire immagini: ambienti, outfit, piatti, corpi, oggetti diventano contenuti visivi curati per ottenere “like”, attenzione e riconoscibilità.
Sparisce così il desiderio inaspettato e imperfetto, la seduzione, la tensione sensuale (molto difficile trovarla nella rappresentazione dell’erotismo che “subiamo” io almeno la subisco) e che è molto più vicino alla sessualizzazione del sesso.
COSA C’È DI EROTICO IN TUTTO QUESTO?
La differenza tra erotismo e sessualizzazione è profonda, netta, riguarda l’intenzionalità, la percezione, il modo insomma, in cui si manifesta il desiderio. La sessualizzazione è un modo in cui una persona (o una parte del corpo) viene rappresentata solo o principalmente in funzione del desiderio sessuale altrui, spesso senza consenso o intenzione da parte del soggetto rappresentato.
Cosa c’è di erotico in questo? Dove sta la sensualità implicita, lo scambio emotivo e fisico che stimola l’immaginazione, produce una fantasia, un desiderio, un’attesa e spesso smuove un’azione – anche lenta – che non impone, ma allude.
Il nostro immaginario erotico instagrammabile oscilla tra un’inquadratura insistita sul seno o sui glutei di una donna, un fisico maschile palestrato e glabro o corpi queer forzatamente pensati per creare un corto circuito estetico, tutti questi corpi hanno una sola cosa in comune: sono una strategia di marketing chiamata anche “sex sells” (il sesso vende) e si basa sull’idea che l’attrazione sessuale attiri l’attenzione e aumenti il desiderio — non solo per il corpo, ma per l’oggetto associato.
Ma per quanto ci possa sembrare rivoluzionario mostrare liberamente un corpo, anche non conforme, farlo in determinati contesti pubblicitari, resta comunque oggettivazione, mal celati stereotipi e una rappresentazione distorta del corpo umano.
Lo slogan è: il sesso non deve essere performante, ma in verità quello che ti dice è “il sesso non deve essere performante, ma il tuo corpo sì”. Da sempre l’associazione tra bellezza e successo è pervasiva e si porta dietro una promessa: compra questo e sarai desiderabile.
E quindi… oggi… che orgasmo avrai?
Paola Sammarro
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