Forse la Calabria non è messa così male. parola di Roberto Burioni, secondo cui i Finlandesi starebbero peggio di noi. Anzi, la pitta ’mpigliata ci salva alla grande.
Lo scienziato superstar ha commentato a modo suo i risultati di un report sulla qualità della vita, in cui ai primi posti figurano la Finlandia Occidentale e le Isole Åland, provincia autonoma della Finlandia.
La Calabria, invece, è nei posti medio-bassi della classifica, davanti solo a varie zone dell’ex mondo comunista.
Burioni ha sparato un’arguzia su Twitter: «Qualcuno dovrebbe spiegarmi perché nella giojosissima Finlandia, pur percependo una qualità di vita così fantastica, si suicidano 14 persone all’anno (su 100.000 abitanti), mentre nella disagevole Calabria meno di 6. Sarà merito della pitta ’mpigliata?».
Il tweet pro pitta di Roberto Burioni
Roberto Burioni: la pitta è un rimedio erotico
Burioni non si ferma qui. Nei commenti al suo tweet specifica: «Se non sapete cosa è la pitta ’mpigliata non sapete cosa vi siete persi fino a ora».
E poi, risponde a un’amica: «È un equivalente erotico».
Dove non arrivano le statistiche, supplisce la gola. Noi calabresi non ci vogliamo bene. Ma forse certi sapori ci aiutano a resistere.
E contagiano gli altri. Che miele, noci e pasta frolla siano un antidepressivo?
L’arsenale di armi puntate contro le aree deboli del Paese, e quindi contro il Mezzogiorno e la Calabria, si arricchisce. Accanto all’autonomia differenziata e alle gabbie salariali applicate agli insegnanti, ecco la proposta per il “dimensionamento e la riorganizzazione” delle scuole, già licenziata dal Governo e attualmente all’esame della Conferenza Stato – Regioni.
Calabria: a rischio il 25% delle scuole
Secondo il piano, le istituzioni scolastiche dotate di autonomia passerebbero, su tutto il territorio nazionale, da 8.158 a 7.461: meno 697 unità. Ma da un esame più approfondito della tabella pubblicata dal Corriere della Sera emerge che le regioni più colpite dal provvedimento sarebbero la Sicilia, la Campania e, sul podio come spessissimo accade per le cose negative, la Calabria, rispettivamente con – 146, – 109, – 79.
Nella parte medio – bassa della classifica si piazzano Lombardia e Piemonte (-20), Liguria (-18), Emilia Romagna (-15). Il dato percentuale è ancora più indicativo: nella nostra regione le scuole autonome sarebbero alla fine il 25 % in meno. Di gran lunga il dato relativo più alto di tutti!
Un’aula deserta
La bassa demografia uccide le scuole in Calabria
Se il piano non dovesse essere approvato dalla Conferenza, lo Stato eserciterà il potere sostitutivo: perderanno l’autonomia gli Istituti con meno di 900 alunni. Mentre alcune Regioni si accingono ad impugnare la decisione davanti alla Consulta, è il caso di farsi qualche domanda. Se è vero che tali scelte sono la conseguenza diretta del calo demografico, che colpisce le regioni del Sud e con particolari virulenza e drammaticità la nostra, altrettanto lampante risulta la correlazione tra calo della popolazione e riduzione dei servizi, specie nelle aree interne.
Le Poste: un esempio in controtendenza
Queste azioni perpetuano un circolo vizioso: il cane si morde la coda perché nessuno gli offre la soluzione per smettere. Come, ad esempio, sta tentando di fare Poste italiane, che con il progetto “Polis” punta a promuovere la coesione economica nelle aree interne del Paese e a realizzare un nuovo punto di aggregazione per le persone. Si potranno ottenere i passaporti utilizzando l’Ufficio postale e sbrigare lì le pratiche burocratiche per il rilascio della carta d’identità. Un’applicazione da manuale del principio di sussidiarietà. Delle aree interne e dei piccoli agglomerati urbani, della necessità di preservarli, rilanciarli, tutelarli, si è molto scritto e detto. Lo spopolamento di interi pezzi di territorio è una delle ragioni del degrado, dal punto di vista geo morfologico, sociale, economico, civile, della lotta alla criminalità comune e organizzata.
La presentazione del progetto Polis di Poste Italiane
La parola agli esperti
Nel momento in cui si fanno scelte penalizzanti, come questa, si dà un segnale di assoluta incoerenza tra il predicato e il praticato. Salvo poi stracciarsi le vesti quando, anche a causa della mancata presenza dell’uomo, la nostra terra viene squassata, ad esempio, da incendi, alluvioni, immani fenomeni franosi. Abbiamo voluto coinvolgere nell’esame degli argomenti trattati in questo articolo il professor Vittorio Daniele, docente di Politica economica dell’Università di Catanzaro, e il professor Vito Teti, docente di Antropologia culturale dell’UniCal.
Daniele: a furia di tagliare si fa il deserto
«Il dimensionamento delle istituzioni scolastiche – esordisce il prof Daniele – riduce dirigenti e personale di segreteria. Il criterio è contrarre la spesa riorganizzando la rete degli istituti e il Sud ne è particolarmente colpito».
Alla base della scelta vi è un fatto oggettivo: «La riduzione del numero di alunni dovuta alla bassa natalità, aggravata nel Mezzogiorno dall’emigrazione che riguarda in particolare i centri interni. La Calabria è la regione col più elevato tasso migratorio verso il Nord del Paese». Questa profonda modificazione demografica «porta allo spopolamento dei comuni interni. Nella logica della razionalizzazione economica, esso si accompagna con la riorganizzazione dei servizi pubblici nel territorio: la chiusura, cioè, di uffici postali, reparti ospedalieri, scuole, sedi di tribunali e, per la stessa logica, sportelli bancari: desertificazione demografica ed economica».
L’economista Vittorio Daniele
Un circolo vizioso
E, invece di invertire la rotta, si continua a percorrere una strada che, oggettivamente, porta ad un inasprimento del problema. «La chiusura dei servizi – continua Daniele – alimenta il processo perché riduce i posti di lavoro diretti e indotti che essi creano nel fragile tessuto economico di quei centri e, privando quei luoghi di servizi, spinge i residenti, soprattutto i più giovani, a spostarsi altrove. La necessità di ridurre la spesa pubblica, considerata dal lato dei costi ma non dei benefici complessivi per la popolazione, peggiora i problemi sociali ed economici di molti territori già economicamente marginali. Non può essere solo la logica ragionieristica dei costi a guidare l’azione pubblica». La politica pubblica deve porsi l’obiettivo, più generale, del «benessere della popolazione e la creazione di condizioni di effettiva uguaglianza».
Teti: giù le mani dalle scuole in Calabria
Il progetto di accorpamento scolastico, se portato a compimento, «causerà – secondo l’antropologo Vito Teti – difficoltà e disagi a ragazzi, studenti, cittadini, famiglie. Esso è ingiusto e contiene possibili profili di incostituzionalità perché comporterebbe una restrizione dei diritti in alcune aree del Paese». Verrebbero penalizzati i cittadini che vi abitano e che già hanno problemi di lavoro, di trasporti, di assenza o carenza di vie di comunicazione, di insufficienza dei servizi sanitari.
Fuga dalla Calabria senza servizi e scuole
«Essi – sostiene Teti – sono privati di qualcosa di essenziale per la vita dei centri abitati di piccole dimensioni. Rendere più difficile l’accesso all’istruzione scoraggia la tensione al miglioramento e restringe l’area dei diritti». La questione delle aree interne non è però limitata a quelle calabresi. «Investe tutto l’Appennino e le Alpi».
Non finisce qui. Infatti, continua l’antropologo originario di San Nicola da Crissa, in provincia di Vibo: «La Calabria ha perso circa 100mila abitanti nell’ultimo anno. A questo fenomeno epocale non viene data però la giusta rilevanza. Interi paesi, entro 10 o 20 anni, moriranno. Un danno per questi e per quelli delle coste, e anche per i centri urbani più grandi». Non è solo una questione culturale e demografica. «I paesi interni – spiega Teti – sono anche dei presidi ecologici: non devono destare meraviglia fenomeni estremi e disastrosi come quelli di Soverato o di Crotone, o i continui e micidiali movimenti franosi o gli incendi che distruggono interi boschi».
L’antropologo Vito Teti
Ci salverà il paesaggio?
«Bisogna investire sulla tutela del territorio, sui boschi, sulla pietra. Il paesaggio dovrebbe costituire, se opportunamente popolato e quindi manutenuto, una risorsa, non un problema. In questa direzione ho suggerito provocatoriamente anni fa che ogni paese dovrebbe avere un piccolo museo per raccogliere la memoria e le speranze dei suoi abitanti e per fungere da luogo di cultura e di aggregazione: per guardare la partita, giocare a carte, presentare libri. Se si chiude tutto, nessuno vorrà restare o tornare in un posto invivibile per l’assenza di ogni servizio alla persona e alla collettività».
La lotta ai terremoti crea lavoro
Cosa si può e si deve fare, allora? «Non ci si può illudere – commenta Teti – di risolvere il problema in 5 o 10 anni. Bisogna pensare a un progetto per creare posti di lavoro allettanti, utili, uno stimolo per i giovani a rimanere e, nel contempo, creatori di realtà dove essi abbiano voglia di rimanere. Occorre avviare un’opera di risanamento e quindi di tutela del paesaggio e dei centri storici. La Calabria è zona sismica, nella quale mettere in sicurezza edifici pubblici abitazioni private creerebbe lavoro produttivo, non assistenza, utilizzando manodopera locale e risorse materiali locali come legno e pietra. La nostra regione ha un’evidente vocazione turistica, ma se si svuota chi accoglierà i turisti?».
Reggio devastata dal terremoto del 1908
Intanto «la scelta ecologica è fondamentale, soprattutto se messa in relazione con la crisi climatica. La Calabria, nonostante scempi ed errori, ha tanto, e non ha bisogno di ulteriore cemento. È necessario tornare alla terra, certo non in forme e modalità arcaiche; valorizzare i prodotti tipici, che non solo non vengono valorizzati ma neanche coltivati. Prodotti provenienti da altre parti del mondo vengono spacciati per locali. Abbiamo il mare, la montagna, la collina, e i relativi frutti». Si tratta di un unicum nel Mediterraneo, non solo in Italia».
Storia di chi (non) torna
«All’inizio vi è stata l’impressione che molti volessero tornare. Ma chi è rientrato a lavorare da remoto ha trovato difficoltà a rimanere in posti che offrivano poco o nulla a livello di servizi. Il lavoro a distanza va calato in una comunità complessivamente funzionante, dove ci sono negozi, luoghi di ritrovo, servizi pubblici e privati. Non si possono chiedere atti di eroismo alle persone, cioè tornare in luoghi invivibili. Se chi viene rimane deluso non lo farà più definitivamente, e la fiammella della speranza si spegnerà.
E i musei come quello del mare a Reggio? Teti risponde: «Non conosco il progetto di Reggio. In linea di massima i musei sono un’ottima opportunità, ma se hanno certe caratteristiche. Ho proposto un museo per ogni paese. Musei che raccontino la storia e la memoria della collettività, che attivino forme di socialità e collaborazione culturale. La domanda da porsi è: quanti posti di lavoro crea una realizzazione? Se ne consegue la possibilità di rimanere per chi lo vuole, va bene. Ovviamente per chi vuole, non per chi desidera andare via ritenendo di poter migliorarsi altrove».
Il progetto del Museo del mare di Reggio Calabria
Scuole e non solo: rimedi peggio del male
Cosa resta da fare? «Da 40 anni – argomenta Teti – parlo di museo dell’identità calabrese e di contrasto allo spopolamento. Nessuno dava importanza a questi temi, a queste proposte. Ora che i buoi sono scappati si tenta di rimediare con risposte sbagliate o, come abbiamo visto, con provvedimenti peggiorativi. Abbiamo 800 km di costa. La crisi climatica può comportare grandi problemi, e già l’innalzamento del livello del mare ha generato spese enormi per la protezione delle vie di comunicazione e degli abitati costieri. Nonostante ciò, essa viene vissuta come una cosa lontana, che non ci riguarda. Se non si ha la consapevolezza necessaria, tutti i problemi sono irrisolvibili».
Questa la conclusione di Vito Teti, implicitamente rivolta a tutti, ai cittadini come ai decisori pubblici. La Calabria era “sfasciume pendulo sul mare”, secondo Giustino Fortunato. Nel futuro, se non s’inverte il trend, diventerà «sfasciume deserto pendulo sul mare».
I trapianti di organi sono in aumento del 10%, nell’ultimo anno monitorato dal ministero della Salute (2021) e i dati sono in leggera crescita anche nelle previsioni per il 2022, ma per queste tipologie di interventi chirurgici servono donatori. E per le donazioni di organi la Calabria, purtroppo, è l’ultima regione italiana per numero di persone che aderiscono a questa prassi.
Donazione organi: Rovito, Rose e Tiriolo i comuni più generosi in Calabria
La classifica vede al primo posto la Toscana, per quanto riguarda le regioni. Per i Comuni quelli più virtuosi sono Trento e Geraci Siculo (in provincia di Palermo) che condividono la prima posizione. Ad ogni modo, e a prescindere dalle motivazioni, invece, è il comune di Rovito, in provincia di Cosenza, quello più generoso della Calabria per quanto riguarda la donazione di organi. Al secondo posto c’è un altro comune cosentino, quello di Rose, mentre al terzo posto c’è Tiriolo in provincia di Catanzaro.
Rovito (CS)
Il dato arriva dall’ultima edizione dell’Indice del Dono, il rapporto realizzato dal Centro nazionale trapiantidell’Istituto superiore di sanità. Il documento mette in fila i numeri delle dichiarazioni di volontà alla donazione di organi e tessuti registrate nel 2021 all’atto dell’emissione della carta d’identità nelle anagrafi dei 6.845 Comuni italiani in cui il servizio è attivo. Il prossimo indice completo sarà diffuso in occasione della 26ma Giornata nazionale della donazione degli organi che dovrebbe svolgersi il 24 aprile.
I numeri del dossier del Centro nazionale trapianti
Il dossier è espresso in centesimi, elaborato tenendo conto di alcuni indicatori come la percentuale dei consensi, quella delle astensioni e il numero dei documenti emessi. Rovito ha raggiunto un indice di 75,69/100, grazie a un tasso di consensi dell’91,6% e a un’astensione ferma al 44%. Tra le province, Vibo Valentia è la migliore delle calabresi, 84° su 107 a livello nazionale, seguono Catanzaro (88°), Cosenza (91°), Reggio Calabria (103°)e Crotone (105°).
Complessivamente la Calabria è risultata 21° e ultima tra le regioni italiane, con un indice del dono di 51,19/100 (consensi alla donazione: 60,1%), sotto la media nazionale che nel 2021 si è attestata a quota 59,23/100 (consensi 68,9%).
I risultati sono in crescita rispetto allo scorso anno. Forse una campagna di sensibilizzazione e di pubblicità sull’argomento, però, potrebbe essere utile in Calabria per aumentare il numero di donatori.
Un intero castello svevo in affitto a meno di 500 euro al mese può sembrare roba da Totò Truffa ’62, eppure a Cosenza potrebbe andare davvero così. A Palazzo dei Bruzi, infatti, hanno deciso di cercare nuovi inquilini per il maniero ultrasecolare che domina la città dall’alto di colle Pancrazio. E il prezzo richiesto pare proprio di quelli da non lasciarsi sfuggire.
Castello Svevo: quante polemiche a Cosenza
La storia recente del Castello Svevo di Cosenza è costellata di polemiche. Dopo un periodo – erano gli anni ’90 del secolo scorso – in cui si alternano matrimoni a iniziative pubbliche, la struttura resta a lungo abbandonata a se stessa. I ragazzini si intrufolano arrampicandosi lungo una delle torri, a proprio rischio e pericolo, alla ricerca tra le cadenti mura secolari di un riparo da occhi indiscreti. Si va avanti così a lungo, finché – sindaco Salvatore Perugini – il Comune decide di restaurare quello che resta il più importante monumento cittadino insieme al Duomo.
Una delle sale del Castello dopo ill restauro
I lavori cominciano poco prima della fine del mandato del primo cittadino, nel 2008, ma per vederli completati tocca attendere parecchio. L’inaugurazione risale infatti al 2015, col nuovo sindaco Mario Occhiuto. A caratterizzarla, tanto entusiasmo e le immancabili lamentele. Fanno discutere gli infissi metallici utilizzati per le finestre del castello, ultramoderni rispetto alle mura circostanti. Poi, al ricordo degli osceni innesti in cemento armato realizzati negli anni ’80, di infissi non si parla quasi più.
Il mostro sulla collina
A tenere banco resta l’abominevole ascensore giallo paglierino realizzato su uno dei lati del cortile interno. Difficile immaginare qualcosa di più antiestetico in un contesto simile, tanto più alla luce delle giustificazioni date all’esplodere delle polemiche sull’impianto elevatore. Secondo il Comune, l’ascensore garantirebbe alle persone con disabilità motorie l’accesso ai piani superiori dell’edificio. Peccato che il tragitto da percorrere per raggiungere l’impianto sia impraticabile per qualcuno in sedia a rotelle. Hanno promesso di modificarlo, ipotizzato di abbatterlo, ma l’ascensore resta lì, come un esame proctologico a storia e panorama.
L’ascensore del Castello Svevo visto dall’esterno
Neanche mille euro al mese
Alle diatribe architettoniche i giornali di Cosenza aggiungono presto quelle sulla concessione del Castello Svevo. A occuparsi di valorizzare l’immobile dopo il restauro saranno, infatti, tre privati, dopo che la Regione ha messo a gara, cofinanziandola, la gestione della struttura. La Cittadella mette il 60%, circa 175mila euro; altri 155mila li sborsa la Svevo Srl, la società creata dagli imprenditori Sergio Aiello, Pietro Pietramala e Gianpaolo Calabreseper partecipare al bando regionale.
Per i tre, poi, c’è il canone da versare al Comune di Cosenza, proprietario del Castello Svevo da fine ‘800, per i successivi cinque anni (e ulteriori, eventuali, due in caso di proroghe). Ammonta a circa 960 euro al mese.
Palazzo dei Bruzi, sede del Comune di Cosenza
Un intero castello normanno svevo, già dimora dello stupor mundi Federico II, “in affitto” al prezzo di un magazzino in un quartiere popolare di Cosenza non può passare sotto silenzio. Tanto più se a riscuotere l’affitto è un ente indebitato fino al collo. L’accordo sembra a molti fin troppo vantaggioso per la Svevo. Questa, in pratica, versa il canone (e paga le bollette) solo per «l’utilizzo degli spazi posti al piano terra ed al primo piano dell’immobile denominato “Castello Normanno Svevo”, per mq 227,22».
Castello: gli obblighi della Svevo e quelli del Comune di Cosenza
Il resto (enorme) resta a carico dello stesso municipio che lo ha fatto andare in malora nei decenni precedenti. E che ora, da contratto, dovrebbe pure scontare dal canone i costi per sorveglianza e pulizia degli altri spazi, apertura e chiusura, guardaroba, personale, attività promozionale in occasione di eventuali iniziative organizzate o autorizzate dal Comune stesso. Gli incassi, invece, vanno tutti alla Svevo, che gestisce le visite e organizza parecchie iniziative con biglietti che vanno dai 2 euro del ridotto per minorenni ai 20 per gli spettacoli teatrali o i concerti. E per i soliti 960 euro ha diritto, sulla carta, ad avere gratis anche la Villa Vecchia e il Cinema Italia qualora voglia organizzare qualcosa anche lì.
Il cinema Italia-Tieri
Sembra un affare, eppure si scopre che di quattrini in municipio ne arrivano ben pochi. Se ne accorge… Gianpaolo Calabrese, che nel frattempo ha lasciato la società con Aiello e Pietramala per accomodarsi sulla poltrona da dirigente del Settore Cultura proprio a Palazzo dei Bruzi. Anche la (si suppone, non troppo difficile) scoperta di Calabrese interessa i cosentini per poco però. Il chiacchiericcio si concentra sulle sue illustri parentele – è nipote del Procuratore capo della città – e quanto abbiano influito sull’incarico ottenuto, più che altro. Del castello svevo si parla soprattutto per mostre, sfilate, concerti e festival, salvo sporadiche diatribe sui social in occasione di eventi con degustazioni enogastronomiche che gli accordi col Comune di Cosenza parrebbero invece vietare.
Una degustazione all’interno del Castello
Un accordo per estinguere il debito
Nonostante la Svevo presenti un malloppo di fatture da scomputare dal canone che supera di poco i 160mila euro, l’equivalente di 14 anni e mezzo di canone, Palazzo dei Bruzi batte ancora cassa agli “inquilini morosi” però. Si arriva così, con l’attuale amministrazione, a un nuovo accordo: la Svevo, che avrebbe dovuto lasciare a giugno 2022, gestirà ancora il castello fino a marzo 2023; in cambio verserà al municipio 14.400 euro di arretrati, l’equivalente di una quindicina di mensilità.
Con marzo ormai alle porte, però, è tempo di trovare un nuovo gestore per il maniero tornato a nuova vita dopo il restauro. Così il Comune si è messo ufficialmente alla ricerca di un nuovo concessionario. Sebbene il municipio continui a non navigare nell’oro, questa volta rischia di incassare ogni mese ancora meno di quello che si prevedeva pagasse il vecchio gestore. La base (al rialzo) da cui si partirà per le offerte è meno della metà della cifra stabilita all’epoca per la Svevo. Se prima il canone annuo era di 11.523,60 adesso «l’importo a base di rialzo è il seguente: euro 5.000,00 (tremila,00)» (sic). La concessione, invece, dura sei anni.
I Bocs Art all’epoca in cui venivano ancora utilizzati come residenze artistiche temporanee
Cosenza, punto e a capo: il castello svevo a metà prezzo
C’è di nuovo che stavolta bollette e pulizie (anche degli spazi esterni) toccherà pagarle a chi si aggiudicherà la gestione della struttura. E niente Villa Vecchia o Cinema Italia per il vincitore: in compenso, potrà realizzare «almeno due eventi annuali, dalla durata di due giorni l’uno» ai Bocs Art sul Lungofiume, oggi moribondi a pochi anni dalla loro nascita. Basterà tenere aperto il castello almeno 250 giorni l’anno per un minimo di 6 ore al giorno e blindare l’accordo col Comune, in caso di vittoria, con una fideiussione pari al 10% dell’importo contrattuale. Che, salvo poco probabili rialzi monstre dei contendenti, potrebbe essere pari a poche centinaia di euro al mese. E poi dicono che i prezzi degli immobili sono alle stelle…
Prima le bombe poi l’abbandono. E nessuna soluzione in vista per il castello di Amantea, un rudere maestoso che domina la collina a strapiombo sul mare.
Il castello e la torre – o meglio, i resti di entrambi – sono solo una parte, la più vistosa, di un problema più ampio: il pianoro su cui sorge l’antica roccaforte, circa 36mila metri quadri di terreno agricolo.
L’insieme è un’unica proprietà privata, divisa tra tre eredi: Giuseppe, Giovanni e Giacinto Folino, che ne hanno quote diseguali.
Dov’è il problema?
Il rudere della torre sullo sfondo del mare
I problemi del castello di Amantea
Ricapitoliamo: una grossa proprietà limitata da due vincoli pesanti. Il primo è lasua natura agricola, che consente un’edificabilità molto limitata. Il secondo è dovuto alla presenza dei ruderi, che ovviamente sono classificati come beni d’interesse storico-culturale.
Mantenere questo popò di roba senza metterla a frutto è un problema per chiunque.
A tacere dei costi di manutenzione, effettuata poco o nulla nell’ultimo ventennio e non per responsabilità dei proprietari. Cosa si aspetta ad acquisirla nel patrimonio pubblico?
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto, un po’ di storia.
Il castello e l’assedio di Amantea
Il castello è legato a una vicenda storica importante: l’eroica resistenza dei manteoti, guidati dal capitano Rodolfo (o, secondo alcune fonti, Ridolfo) Mirabelli, alle truppe napoleoniche.
L’assedio dura poco più di un anno tra alterne vicende.
Alla fine i francesi, comandati dal generale Jean Reynier, espugnano il castello in maniera spettacolare.
Dapprima, a fine gennaio 1807, bombardano a tappeto le mura e la cittadella interna con due cannoni pesanti e un obice, posizionati nelle colline circostanti.
Poi, il 5 febbraio, arriva il colpo di grazia: una mina da 1.900 libbre (633 kg) di polvere da sparo esplode sotto una parete del castello, che crolla. A questo punto, chi può scappa e Mirabelli tratta con gli assedianti. Amantea capitola due giorni dopo. Tuttora la zona di questa prima breccia si chiama ‘a Mina.
I resti delle mura difensive
Un lungo declino
Tutto questo spiega perché il castello è un rudere. Ma non aiuta a capire come mai sia finito in mani private.
Il motivo è semplice: già c’era. Infatti, i terreni protetti dalla rocca sono in origine proprietà, in larga parte, dei Frati Minimi che li coltivano addirittura a grano.
Le successive espropriazioni favoriscono il passaggio di mano in mano del pianoro, ruderi inclusi, fino alla famiglia Folino. Ed eccoci di nuovo al XXI secolo.
L’esproprio infelice del castello di Amantea
Il primo che prova a espropriare è Franco La Rupa. Il votatissimo (e poi discusso e infine plurinquisito) ex sindaco di Amantea, ordina l’occupazione dell’area del castello il due ottobre del 2000.
Per il Comune, l’occupazione è il primo step di un processo più complesso, che dovrebbe finire con l’espropriazione, per realizzare il rifacimento del centro storico della cittadina. Peccato solo che la procedura non sia a prova di bomba.
Infatti, la famiglia Folino impugna il provvedimento e stravince.
La prima volta al Tar di Catanzaro, nel 2001, e la seconda al Consiglio di Stato, nel 2006.
Dalla duplice vittoria emerge un dato: il Comune ha occupato illegittimamente una proprietà privata.
Il rudere della torre in primo piano
Il duro negoziato
Questa vittoria non comporta l’automatica restituzione del bene.
L’era La Rupa è finita. Al suo posto c’è Franco Tonnara, che tenta un negoziato con la proprietà attraverso il proprio assessore ai Lavori pubblici: Sante Mazzei, che tra l’altro conosce bene il problema, perché è stato sindaco poco prima di La Rupa. Il Comune propone non l’acquisto, bensì l’acquisizione del castello ai proprietari.
La differenza tra questi due concetti non è proprio leggera: l’acquisto è una normale compravendita, l’acquisizione, invece, è un esproprio soft. In parole povere: il Comune prende il bene con un decreto, ma lo paga secondo una stima effettuata da uno o più esperti. L’esperto ingaggiato dal municipio è Gabrio Celani, che valuta tutto. Ma, pare, in maniera insoddisfacente per i proprietari.
Riprende il duello sul castello
A questo punto, la faccenda, già non semplice di suo, si complica di brutto.
Innanzitutto, per le vicissitudini politiche della giunta Tonnara, che subisce un commissariamento per mafia e torna in carica dopo un lungo duello giudiziario. Il quale, tuttavia, non serve granché: gravemente malato, il sindaco muore e si torna a una gestione provvisoria.
Anche l’aspetto giuridico non è da meno, perché i Folino propongono un compromesso: il Comune acquisisca pure, loro faranno un ricorso solo per il prezzo.
Ma anche quest’ipotesi salta.
Le erbacce infestano il pianoro del castello
La vittoria inutile
Si arriva al 2021, un anno decisivo nella storia contemporanea del castello. Il 10 marzo 2021, la famiglia Folino, difesa dall’avvocato Stanislao De Santis, ottiene la sua terza vittoria contro il Comune, difeso dall’avvocato Gregorio Barba.
Stavolta il Tribunale amministrativo mette nero su bianco che l’occupazione iniziata nel 2000 è illegittima.
E mette il municipio con le spalle al muro: o acquisisce il bene oppure lo restituisce e paga i danni, che verranno quantizzati dal giudice, e i canoni, stimati nel 5% del valore commerciale del pianoro, del castello e della torre. Il risarcimento non si annuncia leggero, perché il valore commerciale non è piccolo.
Nel frattempo, il rudere perde qualche pezzo e il terreno stesso denuncia un immediato bisogno di manutenzione. Che però i proprietari non possono assicurare, perché il bene risulta tuttora occupato.
Altri resti del bastione
I nuovi negoziati
I bene informati riferiscono di una ripresa dei contatti tra i proprietari e il Comune, che nel frattempo è uscito dal recente commissariamento per mafia ed è amministrato da Vincenzo Pellegrino, eletto lo scorso giugno.
Non si sa a che punto sia l’abboccamento. Quel che è certo è che c’è un bene di grande valore culturale che dev’essere messo in sicurezza e – magari attraverso un restauro conservativo – potrebbe essere messo a frutto e restituito alla comunità.
Certo, la situazione finanziaria di Amantea non è florida e i problemi politici sono all’ordine del giorno, come dimostra il recente tentativo di “secessione” di Campora, la frazione ricca e popolosa che confina con Falerna. Ma si apprende pure che i proprietari sarebbero disposti ad accontentarsi.
La parola, a questo punto, dovrebbe passare al buonsenso.
(Le foto dei ruderi del castello sono opera di Giuliano Guido. Le pubblichiamo su sua gentile concessione)
«Le Misericordie sono le associazioni di volontariato più antiche nel mondoe sono ottocento in Italia, di cui 25 in Calabria». A raccontarlo è Valentino Pace, che è responsabile area emergenza delle Misericordie della Calabria e vice presidente della Misericordia di Trebisacce. Non solo: è anche a capo della Consulta regionale delle associazioni di volontariato.
Il suo dunque è uno sguardo duplice, in grado di raccontare il volontariato partendo dall’esperienza quotidiana di una delle associazioni, ma anche fare il punto sull’organizzazione e sulla capacità di risposta che è caratterizzano il volontariato impegnato nel soccorso.
Misericordie, dalle fragilità sociali alla Protezione civile
«Noi proveniamo dal mondo cattolico» dice subito Pace, rivendicando una appartenenza e una radice culturale che stanno alla base del loro impegno «e che fornisce a ogni volontario motivazione e forza». I campi d’intervento delle Misericordie sono diversi e attraversano trasversalmente tutte le fragilità sociali, fino all’impegno nella Protezione civile.
Volontari della Misericordia di Trebisacce caricano un paziente su un’ambulanza
«La giornata del volontario è scandita dai compiti cui l’associazione è chiamata, per esempio il trasporto dei dializzati o dei disabili. Operiamo in convenzione con il 118 e con le Asp e mettiamo a disposizione del territorio ambulanze operative 24 ore con personale addestrato al soccorso in emergenza».
Oltre a ciò, le Misericordie si occupano del Banco alimentare e farmaceutico. E in Calabria ci sono tre Empori solidali (Trebisacce, Reggio Calabria e Papanice), dove le famiglie economicamente vulnerabili possono trovare un efficace presidio contro la condizione di povertà.
Un volontario è per sempre
Le risorse umane delle Misericordie sono composte da volontari, ma la lunga storia di queste associazioni ha premesso di precorrere i tempi. In passato accoglievano gli obiettori di coscienza contrari alla leva obbligatoria, adesso l’associazione è aperta ai giovano che vogliono svolgere il Servizio civile.
Qualcuno dopo aver concluso il suo anno di servizio resta come volontario. È il caso di Rachele, che svolge il suo compito sulle ambulanze e che conosce tutti i pazienti che periodicamente porta a fare la dialisi. «Familiarizzo con loro, cerco di rendere meno gravosa l’incombenza, ma mi è successo una volta di non aver riconosciuto un ragazzo con cui avevo condiviso gli anni del liceo. La malattia lo aveva reso irriconoscibile e quando la mamma mi ha spiegato chi fosse, sia pure con fatica abbiamo rievocato gli anni della scuola. In un certo modo l’averlo portato indietro nel tempo ha alleviato la sua sofferenza». Oggi Rachele ha trovato un lavoro che richiede la sua presenza dalle nove del mattino, «ma continuo il mio servizio sulle ambulanze, dalle sei e mezza, per il primo turno giornaliero del trasporto dializzati».
Fatti, non parole
La capacità organizzativa di cui sono in possesso le Misericordie è anche a disposizione della Regione per far fronte con uomini e mezzi ad eventuali emergenze che riguardassero l’ambito della Protezione civile. Proprio in questo contesto, di recente, l’associazione ha partecipato a una vasta esercitazione nell’area dello Stretto, simulando un intervento dopo un sisma, finalizzato al recupero e al trasporto in sicurezza di persone con disabilità.
Ma Pace è anche alla guida della consulta che raccoglie e rappresenta tutte le associazioni che sono riconosciute dalla Protezione civile della Calabria. Essa ha il compito di interagire con le istituzioni regionali deputate agli interventi in emergenza e a tenere aggiornata la mappa delle risorse disponibili e operativamente dispiegabili in caso di necessità sul territorio calabrese.
La Consulta è organo non solo di rappresentanza, ma significativamente operativo. Ha, infatti, il compito di offrire in tempi rapidissimi una efficace risposta a una qualunque emergenza dovesse verificarsi.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
Un pensiero gentile per iniziare, e non perché chi lo ha avuto è stata seguace dei Gentile: la riqualificazione a proprie spese dell’ala del Cimitero di Colle Mussano destinata a bimbi non nati.
È l’ultima notizia, in ordine cronologico, che riguarda Simona Loizzo.
I bambini mai nati
Non buttiamola in politica, perché alla fine dei conti non l’ha fatto Loizzo, la quale si è limitata a una proposta via pec al Comune. Che ha approvato.
Eppure, a prescindere da tante polemiche esplose un po’ dappertutto, resta un dato: il regolamento di polizia mortuaria prevede l’istituzione di aree per la sepoltura dei feti e di sicuro non è bello che quella del Cimitero di Cosenza sia non curata a dovere.
Niente pubblicità né comunicati stampa roboanti, ma solo una testimonianza: la delibera pubblicata sull’albo pretorio del Comune.
La carriera a zig zag di Simona Loizzo
Simona Loizzo ha avuto una parabola politica curiosa: emerge alle cronache come responsabile provinciale del Pdl lo scorso decennio.
E poi sembra inabissarsi con la creatura di Berlusconi. Torna alle cronache a inizio 2021 in seguito alla tragica morte del marito.
Questa visibilità la rimette al centro dell’arena politica. Tant’è che nel totosindaci per le ultime Comunali, che inaugurano il dopo Occhiuto, spunta il nome dell’odontoiatra cosentina. Col relativo corredo di dietrologie.
Simona Loizzo con Matteo Salvini
Loizzo: un cognome che pesa
Dirigente dell’Unità operativa complessa di Odontoiatria presso l’Annunziata di Cosenza, Loizzo ha una lunga storia, anche alle spalle.
Ci si riferisce alla tradizione familiare: Simona è figlia di Bruno Loizzo, storico primario di Pediatria nel medesimo ospedale, e nipote di Ettore, big della massoneria non solo calabrese. Inutile ripercorrere le tappe della militanza massonica dello scomparso gran maestro aggiunto del Goi, tra l’altro rimbalzata abbondantemente su tutte le cronache dell’epoca.
Però il fardello del cognome, che evoca sanità e politica, c’è e pesa. Soprattutto nel caso della Loizzo, che le fa entrambe.
Ettore Loizzo, ex gran maestro aggiunto del Goi
La meteora
Si può comparire e scomparire. E viceversa, come le meteore o le comete che seguono orbite tutte loro.
Quella di Simona Loizzo è tutta particolare e fatta di numeri importanti e inaspettati.
Nel 2021 non si candida a sindaca, forse anche perché nel centrodestra la lotta per Cosenza è considerata non proprio vincente.
Ma performa lo stesso, grazie a scelte intelligenti: aderisce alla Lega di Salvini e ne tampona la perdita di voti con una buona performance elettorale.
Con le sue 5.360 preferenze diventa capogruppo dei salviniani a Palazzo Campanella. In più gestisce direttamente la lista della Lega alle Amministrative di Cosenza, che prende 1.500 voti.
La prova delle urne è forte.
Simona Loizzo alla Camera
In nove mesi si fa un bambino. Nello stesso arco di tempo, Loizzo bissa e si candida alla Camera, dove entra sulla scia del successo del centrodestra.
La permanenza della Loizzo a Palazzo Campanellasi svolge tra qualche polemica ed è segnata da un’iniziativa forte: è suo il disegno di legge regionale per la città unica di Cosenza, su cui si dibatte in questo periodo.
Da deputata, invece, si è mossa a tutto campo: ha promosso l’istituzione di un gruppo inteparlamentare per la Sanità digitale e una Commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid. In più è autrice di un ddl per inserire la Magna Grecia nel patrimonio dell’Unesco. Difficile dire se sia vera gloria, ma quantomeno è proattiva.
Simona Loizzo durante il dibattito sulla città unica
Il camposanto
Il problema dei bambini mai nati potrebbe non essere il primo né l’unico del Cimitero di Colle Mussano. Il burocratese delle varie regolamentazioni di solito è crudo: non si parla di feti ma di “prodotti abortivi” e, solo nel caso dei parti, di “nati morti”.
Comunque sia, nulla può giustificare la trascuratezza nei confronti di un’area la cui presenza è un atto di pietà che ha uno scopo minimo: dare dignità ai piccoli resti per distinguerli dai rifiuti ospedalieri.
Una donazione privata per la riqualifica di quest’area, tra l’altro effettuata con molta riservatezza, resta meritoria. A prescindere da chi la faccia.
Per concludere una riflessione: Simona Loizzo ha raggiunto la massima visibilità. Ci sarà un riflusso, magari dovuto ai malumori suscitati in Calabria dal ddl sull’autonomia differenziata oppure la Loizzo politica resterà una presenza fissa del panorama calabrese?
In merito all’articolo da voi pubblicato il lo scorso 9 febbraio e titolato “Ripartire da Villa Rendano: Associazioni unite per la città”, si evidenzia che l’Archivio di Stato di Cosenza non è «smobilitato o in smantellamento» ma è attivo con una presenza costante sul territorio attraverso iniziative culturali di ampio spessore tra cui mostre documentarie e fotografiche, convegni, e laboratori didattici e visite guidate per le scuole di ogni ordine e grado.
Le citate manifestazioni sono state pubblicate sul sito dell’Istituto, pubblicizzate sui social e sui giornali. L’Archivio ha inoltre curato la partecipazione e condivisione degli eventi con associazioni del territorio con le quali è stato possibile realizzare molte delle iniziative proposte.
Unitamente a quanto sopra descritto, questo Istituto garantisce quotidianamente i servizi all’utenza tra cui l’accesso alla sala di studio per le ricerche storiche e culturali e la consultazione bibliografica. Nonostante l’Archivio di Stato di Cosenza, come altri Enti appartenenti al Ministero della Cultura, vive un momento di marcata carenza di personale è aperto e disponibile ad ogni forma di partecipazione con le associazioni del territorio garantendo il proprio ruolo Istituzionale.
Antonio Orsino Direttore Archivio di Stato di Cosenza
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Spettabile Direttore, Nell’articolo da Lei citato si riportano alcune impressioni emerse durante il dibattito tra associazioni ed enti culturali svoltosi a Villa Rendano. Prendiamo atto di quanto ci scrive. Ma prendiamo atto che anche Lei denuncia il sottodimensionamento del personale dell’Archivio di Stato. Restiamo a Sua disposizione per coadiuvare, nel nostro piccolo, tutte le iniziative opportune a valorizzare e difendere l’Istituzione da Lei diretta.
Dodici persone dovranno comparire davanti al giudice per le indagini preliminari di Firenze il prossimo 4 aprile. L’accusa, a vario livello e titolo, è di aver interrato rifiuti tossici provenienti dalle concerie del Pisano in alcune strade provinciali della Toscana. In particolare, nella Sp 429 che è di fatto stata ribattezzata “la strada dei fuochi” nel processo Calatruria.
Dei dodici sono nove quelli nati in Calabria: Domenico Vitale; Bruno Vitale; Nicola Chiefari; Ambrogio Chiefari; Antonio Chiefari; Nicola Verdiglione; Pasquale Barillaro; Rocco Bombardiere; Francesco Lerose. Gli altri tre sono Graziano Cantini (nato a Vicchio), Luca Capoccia (nato a Bagno a Ripoli) e Massimo Melucci (nato a Caserta).
Politici e ‘ndrine nel mirino della Dda
La Dda di Firenze ha chiuso le indagini, sempre a novembre scorso, e chiesto il rinvio a giudizio anche per altre 26 persone nel processo originario denominato Keu, dal nome del materiale di risulta delle concerie. I due procedimenti fanno parte di una maxi inchiesta unica, iniziata nel 2019 e terminata nel 2021 con arresti e denunce per politici, imprenditori, amministratori e referenti dei clan calabresi di ‘ndrangheta, in particolare Gallace e Grande Aracri.
Uno striscione di protesta dopo la scoperta dello smaltimento illecito dei rifiuti delle concerie
Calatruria: i conciatori e i calabresi
Alcune ditte di movimento terra, in mano ai calabresi, avevano ottenuto – secondo l’accusa – il mandato da alcune concerie toscane di smaltire i loro rifiuti, tossici e pericolosi, ma per risparmiare invece di seguire il normale iter si era deciso di sotterrarli, dopo averli trasformati in materiale per l’asfalto. Per gli inquirenti a organizzare il pactum sceleris sarebbero stati i conciatori, in accordo con alcuni politici e amministratori toscani, e grazie ad alcune ditte complici dei calabresi.
Le presunte minacce e l’azienda “amica”
I dodici del processo Calatruria dovranno difendersi, a vario titolo, dalle accuse di associazione per delinquere, illecita concorrenza ed estorsione aggravate dal metodo mafioso, corruzione, detenzione e spaccio di stupefacenti.
Il filone d’inchiesta che coordinano il pm Eligio Paolini e il giudice Luca Tescaroli (il magistrato che sta indagando sulle stragi di mafia del ’93 e sui mandanti esterni) riguarda la presunta estromissione di un imprenditore dai lavori di movimento terra nel cantiere del lotto V della strada provinciale toscana 429. Soggetti vicini alla cosca Gallace e ai “fratelli” Grande Aracri avrebbero minacciato l’uomo per far subentrare un’azienda “amica” dei clan.
Luca Tescaroli
Calatruria, cromo e arsenico
Successivamente, sempre secondo la Dda, i rifiuti sono finiti nell’asfalto di alcune strade provinciali della Toscana. A quel punto la Dda ha chiesto ad Arpat (l’Agenzia regionale per l’ambiente della Toscana) di mettere in sicurezza i siti coinvolti nell’inchiesta per poi stabilire cosa fosse successo all’ambiente. Ma non si tratta di una situazione definitiva perché potrebbero manifestarsi mutamenti nel medio e lungo periodo. Mutamenti che potrebbero essere determinati anche da carenze di manutenzione del manto stradale o da altri elementi.
Per questo il dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa sta conducendo uno studio proprio su incarico di Arpat e Regione Toscana. Il problema sono le sostanze che vengono fuori dal Keu, in particolare cromo esavalente e arsenico, che sono tra i principali materiali di scarto di chi lavora il cuoio. Dopo la messa in sicurezza nei giorni scorsi sono partite anche le bonifiche delle strade toscane coinvolte.
Un’immagine dell’inchiesta toscana
La strada dei fuochi
Nei giorni scorsi sono partite le bonifiche delle strade mentre la messa in sicurezza di emergenza era stata effettuata già lo scorso anno nei tratti dove la Dda ha ritenuto potesse essere presente materiale di risulta contenente Keu. E si parla di centinaia di tonnellate. Il tratto di strada “incriminato” è lungo circa 300 metri, ma bisogna capire bene dove sia finito il Keu: sotto l’asfalto, inglobato nel cemento armato o anche in altri punti?
La Regione Toscana è già all’opera ma sarà lo studio scientifico dell’Università di Pisa i cui risultati dovrebbero arrivare a inizio estate prossima a fare luce sul tipo di inquinanti eventualmente presenti.
«Sono qui praticamente da sempre, ma da tre anni presto servizio tutti i giorni», spiega Sonia, ex capo scout. E prosegue: «Io non faccio servizio solo per dare, ma ricevo tantissimo a livello umano».
Sonia parla di una realtà seminascosta, di cui le istituzioni si accorgono ancora poco (e non sempre bene): l’Arca di Noè.
Natura e solidarietà ai disabili in Calabria
L’Arca di Noè si è sviluppata attorno al vecchio giardino botanico dell’Aias, alle spalle dell’ex Pastificio Lecce di Vadue di Carolei, una reliquia semidemolita delle vecchie promesse di sviluppo industriale.
Le due serre originarie si sono arricchite di un capannone, dove trenta persone in media al giorno socializzano e pranzano. Soprattutto, si riabilitano, attraverso il contatto con la natura e i lavori manuali.
L’interno di una serra dell’Arca
Sono disabili, i più. Ma non mancano soggetti con problemi più lievi, come i disturbi dell’attenzione. Qualcun altro, infine, si riabilita a livello legale: l’Arca accoglie anche persone che scontano le pene alternative.
La storia dell’Arca dei disabili
Aria un po’ hippie e modi molto semplici e diretti, Alessandro Scazziota è il Noè della situazione.
«La nostra piccola realtà esiste da circa trent’anni», racconta Alessandro, figura storica del volontariato cosentino.
«Abbiamo iniziato negli anni ’90 in una vecchia dimora del centro storico di Cosenza: eravamo solo quattro obiettori di coscienza». L’attività di accoglienza e integrazione promossa da Scazziota e dai suoi compagni di ventura ha avuto successo.
Da qui la decisione di spostarsi a Vadue, sia per motivi di spazio sia per darsi davvero all’agricoltura.
Una messa all’ingresso dell’Arca
L’Arca di oggi
Franca, come Sonia, proviene dal volontariato cattolico: «Presto servizio qui da dieci anni. Vi sono entrata in un momento di forte smarrimento e l’Arca mi ha abbracciato senza travolgermi».
L’Arca di Noè è una fattoria sociale e didattica. A livello legale è una cooperativa “a” e “b”, ovvero rivolta sia a soggetti svantaggiati sia a disabili.
Gli operatori sono dieci, tra loro Antonio, che da settembre vi svolge per sua scelta il servizio civile.
E c’è Leonard, un assistente sociale keniota, che presta la sua attività professionale su incarico del Moci, il Movimento della cooperazione internazionale.
L’interno di una serra dell’Arca
I mezzi dell’Arca
«Facciamo tutto da soli», prosegue Scazziota con un pizzico d’orgoglio.
Detto altrimenti, l’Arca si autofinanzia attraverso le donazioni delle famiglie degli ospiti e, soprattutto. attraverso la propria produzione: gli ortaggi e le verdure che provengono dalle serre.
Chi passa da Vadue ogni tanto nota i banchetti dove gli ospiti e gli operatori fanno i fruttivendoli. «Ma distribuiamo anche porta a porta», continua Alessandro.
Come se non bastasse, l’Arca ha anche alcune pecore e degli asinelli per consentire un po’ di pet therapy.
Il tutto, cosa assai importante, senza contributi pubblici. Segno che la solidarietà orizzontale e dal basso funziona anche da noi, dove generalmente si fa poco senza il gettone della Sanità o dell’ente locale.
Scazziota tra agli ospiti dell’Arca
Gli affezionati, operatori e disabili
C’è chi, grazie all’Arca, ha cambiato vita. È il caso di Gabriella che, prima di scommettere sull’avventura di Scazziota, era assicuratrice e opera in questa realtà piccola e solida dal ’97.
Oppure di Giovanni, che dal 2001 gestisce la parte amministrativa. O di Katia, ex docente. Anche alcuni ospiti sono storici: come Francesco, che frequenta la struttura da 15 anni, o Giuseppe, che da 5 partecipa al laboratorio di ceramica. O come Giacomo, legato da sempre all’Arca («Sono un fondatore», dice con un sorriso).
Gli ospiti e gli operatori dell’Arca
Le serre
Chi conosce la storia di Vadue, ricorderà senz’altro le vecchie serre, finite quasi in abbandono negli anni ’90.
Alessandro e i suoi le hanno ripulite e ammodernate, con l’aiuto di alcune macchine agricole. E con qualche innovazione: ad esempio, le strutture pensili che consentono di coltivare ortaggi su più livelli.
Fuori, poco dopo il vialetto sterrato a fianco dell’ex Pastificio, ci sono giostre e scivoli per bambini. Un segno di come le attività solidali possono contribuire a riqualificare il territorio.
Nessuno dei volontari, a quel che risulta, ha bussato alle istituzioni, se non per un riconoscimento. Ma nulla vieta alle istituzioni di valorizzare come si deve l’Arca di Noè, una realtà piccola, solida e indipendente. E sì, anche bella.
Questo articolo fa parte di un progetto socio-culturale finanziato dalla “Fondazione Attilio e Elena Giuliani ETS”. Cosenza sarà per tutto il 2023 Capitale italiana del volontariato. Attraverso I Calabresi la Fondazione intende promuovere e far conoscere una serie di realtà che hanno reso possibile questo importante riconoscimento.
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