Roberto Fico a Cosenza va subito al dunque: «Il governatore Occhiuto indebolisce la Calabria e i calabresi» con il parere favorevole all’Autonomia differenziata. Quella di Calderoli, l’autore del ddl in questione. Ecco pronto l’altro affondo confezionato dall’ex presidente della Camera: «La Lega ha fallito al Sud e per questo li hanno ricacciati al Nord». Poi arriva il bersaglio grosso per il presidente del comitato di garanzia del Movimento 5 Stelle: «Dobbiamo attaccare FdI e il presidente del Consiglio». Perché in merito alla riforma che rischia di dividere l’Italia in due non avrebbe arginato il Carroccio.
E adesso che il Pd ha cambiato segretario con una (per ora solo annunciata) svolta a sinistra tutto sembra più facile? Fico sottolinea: «So che la Schlein ha delle sensibilità comuni su molti temi quindi vedremo come verranno declinati all’interno del partito democratico. Penso alla transizione ecologica, al salario minimo. Siamo all’inizio di un percorso e dobbiamo valutare».
La parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico con l’ex presidente della Camera, Roberto Fico (foto Alfonso Bombini)
Il tour di Fico contro l’Autonomia differenziata
“Verso Sud. La strada per crescere non è l’autonomia differenziata”. È questo il titolo dell’incontro di ieri a Villa Rendano, organizzato dal Movimento 5 stelle. Prima tappa del tour calabrese di uno degli esponenti di punta dei pentastellati.
A coordinare i lavori e intervenire per prima è stata la parlamentare Anna Laura Orrico: «Il centrodestra vuole un’Italietta di interessi particolari e regionalismo». Ribadisce i problemi dei piccoli comuni calabresi alle prese con le difficoltà tecniche del Pnrr: «Saranno costretti a rinunciare a 10 milioni di euro». Il Disegno di legge Calderoli «ingigantisce le disuguaglianze». Il rischio è pure la «differenziazione degli stipendi degli insegnanti».
Veronica Buffone, assessore al Welfare del Comune di Cosenza
Senza mezzi termini l’assessore al Welfare del Comune di Cosenza in quota 5 stelle, Veronica Buffone: «Avremo cittadini di serie A e serie B con la riforma Calderoli, che attacca le fasce più deboli e si basa sulla spesa storica». Giuseppe Giorno, consigliere comunale di Luzzi, tuona: «La Regione Calabria è disastrosa in merito a questa vicenda».
Per il consigliere regionale del M5S, Davide Tavernise «la chiamano autonomia differenziata ma in realtà è secessione» e intanto «Occhiuto segue i comandi del suo partito».
Tra gli interventi spicca quello di Umberto Calabrone, segretario regionale della Fiom Cgil. Che sottolinea l’inadeguatezza e la poca lungimiranza della classe politica rispetto al Ddl Calderoli. Hanno preso la parola anche i parlamentari grillini Antonio Caso e Carmela Auriemma. Fino alla chiosa di Roberto Fico: «Nessuno vuole l’autonomia differenziata se gliela spighi bene».
Nicola Calipari. Un eroico funzionario dello Stato. Oppure la persona giusta nel luogo e momento sbagliati.
Morto nel compimento del proprio dovere oppure vittima di una tragica fatalità. Il calendario scorre e segna, oggi, diciotto anni dalla morte dello 007 originario di Reggio e cosentino adottivo. Ma anche poliziotto cosmopolita, con esperienze all’estero, iniziate nel 1988 in Australia presso la National Crime Authority alla quale fornì la propria collaborazione su un argomento che ogni sbirro calabrese sa a menadito: la ’ndrangheta.
Ma riavvolgiamo il nastro.
Il rapimento
L’Iraq non è una zona sicura. Non lo è, soprattutto, nei primi mesi del 2005, un anno e mezzo dopo la fine della fase principale della Seconda guerra del Golfo, che ha cancellato il regime di Saddam Hussein e destabilizzato il Paese. L’Iraq di quegli anni, insicuro per i militari, è addirittura pericolosissimo per i civili.
Funzionari, volontari o giornalisti.
Di questa pericolosità fa le speseGiuliana Sgrena, firma storica de Il Manifesto e collaboratrice di Die Zeit. La giornalista piemontese, nel febbraio 2005 è a Baghdad, per scrivere dei reportage sulla guerra. Il 7 febbraio 2005 viene rapita vicino alla zona universitaria.
Poco meno di un mese prima, il 5 gennaio 2005, viene rapita un’altra giornalista: la francese Florence Aubenas, inviata e firma di primo piano di Liberation.
La giornalista Giuliana Sgrena
Terra pericolosa
Calipari è l’uomo giusto al momento e nel posto sbagliati. Lo 007 calabrese si trova in Iraq alle dipendenze del Sismi, il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare, di cui fa parte dal 2002, dopo una brillante carriera in Polizia.
E c’è da dire che opera bene: gestisce alla grande le trattative per la liberazione di Simona Parri e Simona Torretta, due giovani cooperanti italiane. Fa altrettanto bene nei casi di Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio, tre vigilanti italiani, anch’essi sequestrati da sedicenti jihadisti.
Le cose, invece, vanno meno bene per il vigilante Fabrizio Quattrocchi, rapito il 13 aprile 2004 e ucciso in favore di telecamera il giorno successivo. E per il giornalista e blogger Enzo Baldoni, rapito il 21 agosto 2004 e ucciso presumibilmente cinque giorni dopo.
A tu per tu con la Jihad
Per Calipari l’affaire Sgrena è praticamente routine.
Con una variante: di tutti i rapiti, la giornalista piemontese è la figura più nota. Per lei, infatti, si mobilita una buona parte dell’Italia “che conta”, a partire dal Presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Non solo: anche una fetta dell’Islam sunnita scende in campo.
Ma cos’hanno in comune tutti questi rapimenti?
Un’immagine dell’Iraq post Saddam
Terroristi farlocchi
C’è un sospetto pesantissimo: tutte le sigle, più o meno “integraliste”, sarebbero in realtà gruppi criminali comuni.
Le richieste, dopo i rapimenti, sono praticamente simili: via le truppe italiane. Ma tutto si sarebbe risolto col classico pagamento di un riscatto. Anche, secondo alcune fonti, per la Sgrena. Il problema si complica: come fa un Paese occupante a trattare senza perderci la faccia? Per questo la parola passa ai Servizi segreti.
E non si sarebbe saputo niente, se Nicola Calipari non ci avesse rimesso la pelle.
Ma riavvolgiamo ancora il nastro.
Il supersbirro odiato dalla ’ndrangheta
Classe ’53, formazione cattolica e laurea in Giurisprudenza, Nicola Calipari entra in Polizia nel 1979, dove fa una carriera fulminante, prima a Genova poi a Cosenza, dov’è capo della Squadra mobile negli anni terribili della guerra di mafia.
Di lui ha parlato il pentito Dario Notargiacomo, già “notabile” della cosca Perna-Pranno. A suo dire, proprio Franco Perna lo avrebbe voluto morto.
E forse la trasferta in Australia è dovuta alla necessità di sottrarre Calipari ai killer, che avevano fatto già fuori Sergio Cosmai, il direttore del carcere di Cosenza.
Tornato in Italia, il superpoliziotto riprende la carriera a Roma, dove scala di nuovo i gradini fino a lambire incarichi governativi. Resta un interrogativo: come mai un poliziotto diventa uno 007 per il Sismi anziché per il Sisde (i Servizi segreti civili)?
Mistero. O forse no. Forse aveva ragione Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati a dire che i militari sono pessimi agenti segreti. Ed ecco che i Calipari prestano aiuto. Anche a prezzo della vita.
Federico Umberto d’Amato, l’ex capo dell’Ufficio affari riservati
L’epilogo
La sera del 4 marzo 2005 Nicola Calipari è in auto. Siede sul sedile posteriore, vicino a Giuliana Sgrena, appena liberata. Alla guida c’è Andrea Carpani, maggiore dei carabinieri, anche lui in forza al Sismi. L’auto è diretta all’aeroporto di Baghdad e, per arrivarci, passa per la Route Irish, dove c’è un check point statunitense.
L’autista e i due passeggeri non hanno il tempo di capire cosa sta succedendo: prima li abbaglia un potente fascio di luce, poi diventano bersaglio di raffiche di proiettili.
Sgrena e Carpano restano feriti. A Calipari, che si getta addosso alla giornalista, va peggio: un proiettile lo colpisce alla nuca e muore sul colpo.
Il mistero della Seconda repubblica
La morte dello 007 apre un braccio di ferro militar-diplomatico tra Italia e Usa.
L’inchiesta appura che a sparare le pallottole fatali è Mario Lozano, un mitragliere dei marines, che finisce sotto processo nel suo Paese e in Italia. Americani e italiani litigano come possono, cioè nei limiti consentiti dal comune impegno militare che costa tante vite a entrambi. Secondo gli americani, l’auto su cui viaggiano Calipari e Sgrena era in eccesso di velocità e non si sarebbe fermata all’alt. Secondo gli italiani, invece, il veicolo viaggiava a velocità contenuta (circa 50 chilometri orari) e, ha aggiunto Sgrena, non ci sarebbe stato alcun check point visibile.
Mario Lozano, il marine che uccise Calipari
Il sospetto atroce
Tra le due versioni si insinua un sospetto: gli americani non gradiscono la facilità con cui l’Italia paga i riscatti alle sedicenti sigle jihadiste autrici dei rapimenti e dei relativi ricatti.
E non a caso si è ipotizzato il pagamento di 5 milioni di euro per la liberazione della giornalista. La vicenda giudiziaria, iniziata tra mille polemiche e coi riflettori puntati, si è risolta in nulla: gli Usa assolvono Lozano dall’accusa di omicidio, ma l’Italia non può procedere, perché la competenza giudiziaria sulla vicenda, verificatasi in Iraq, è americana.
Cosa resta dell’eroe
Il ruolo e l’attività di Nicola Calipari sarebbero dovute restare anonimi, come da tradizione dei Servizi segreti, non solo italiani.
E invece no: Calipari muore da eroe e, col suo sacrificio, riabilita i Servizi, bersaglio fino ad allora di una letteratura giornalistica a dir poco avversa e spesso a ragione.
Secondo Giuseppe De Lutiis, uno dei massimi esperti italiani di intelligence, la morte di Calipari segna uno spartiacque. E probabilmente accelera la riforma dei nostri Servizi. Ma questa è un’altra storia. Calipari ha lasciato due figli e una vedova, Rosa Villecco Calipari, diventata poi senatrice del Pd, cioè in quell’ambiente postcomunista che, tranne poche eccezioni, aveva preso di mira i Servizi. Anche questa è un’altra storia.
Dopo il tempo del dolore, che comunque non finisce, deve venire il tempo della mobilitazione e della denuncia politica. Per non rassegnarsi allo sgomento e far sì che quanto accaduto domenica sulla spiaggia di Cutro non si ripeta. Per spiegare che il naufragio e la morte dei migranti non sono state fatalità, ma potevano essere evitate, come sempre più chiaramente sta emergendo.
L’Italia si mobilita
Molte associazioni, così, si sono raccolte in rete e già il prossimo sabato si mobiliteranno in tutta Italia, tenendo manifestazioni in moltissime città. Questi eventi saranno raccontati da Radio Ciroma, emittente cosentina che organizzerà un ponte radio per tenere in contatto le molte piazze. In Calabria l’appuntamento è a Crotone davanti alla Prefettura, per dare un segno di solidarietà alle associazioni della città che hanno dovuto affrontare in prima linea la tragedia della morte dei migranti cercando di far convogliare lì il maggior numero di persone. Tuttavia, a causa di difficoltà logistiche, a Reggio e a Vibo si svolgeranno in contemporanea manifestazioni locali.
Una manifestazione a Crotone per i morti di Cutro
A Cosenza nella sede della Base, si sono riuniti i rappresentati di alcune associazioni, Radio Ciroma, il sindacato Cobas, il Centro antiviolenza Lanzino, Emergency, l’Anpi P.Cappello, il Filo di Sophia e Gaia, fino all’Associazione studi giuridici sull’immigrazione. L’intento è quello di compiere gli sforzi necessari ovunque ci si trovi per concretizzare l’idea che sta maturando, cioè di realizzare una manifestazione nazionale da tenere sabato 11, proprio a Crotone.
La scelta della città calabrese non è solo legata, come è ovvio, al drammatico naufragio. Simbolicamente vuole rappresentare anche il luogo di partenza di una protesta non solo contro questo governo, ma pure per rivendicare attenzioni verso la Calabria, che come è stato detto «non vuole essere la tomba degli ultimi, né luogo di disperazione».
Difficile, ma non impossibile
I promotori sono consapevoli delle difficoltà organizzative che pesano sull’ipotesi di un incontro nazionale a Crotone, dove è difficile giungere da qualunque punto della regione, figuriamoci dal resto del Paese. Ma già sabato, nel corso delle manifestazioni che si terranno in tutta Italia, si misurerà la volontà di affrontare queste difficoltà, costruendo in rete un percorso che arrivi fino alla prefettura di Crotone.
Il presidente del Comitato di Garanzia del M5S ed ex presidente della Camera Roberto Fico domani, venerdì 3 marzo, sarà a Cosenza, a partire dalle 17:30 a Villa Rendano. Dove interverrà in occasione dell’incontro pubblico organizzato dal Movimento 5 Stelle: “Verso Sud. La strada per crescere non è l’autonomia differenziata”. A stimolare la discussione e moderare il dibattito sarà la parlamentare del M5S, Anna Laura Orrico. Interverranno: Veronica Buffone, assessore al Welfare del Comune di Cosenza; Giuseppe Giorno, consigliere comunale di Luzzi.
Il primo ciclo di appuntamenti, cui parteciperanno anche tutti gli eletti del Movimento 5 stelle in Calabria e gli attivisti, è in programma il 3 e 4 marzo, non solo a Cosenza, ma anche a Vibo Valentia e Roccella Jonica; il secondo, invece, arriverà a Corigliano Rossano, Crotone e Catanzaro il 14 ed il 15 aprile.
«Riteniamo che il percorso intrapreso dal governo Meloni con la forzatura di una riforma così complessa e così poco condivisa possa condurre verso condizioni di svantaggio per il meridione e non sia positiva per la coesione del Paese». È quanto si legge in una nota stampa a firma dei portavoce eletti del Movimento 5 stelle in Calabria.
«Ci confronteremo – continuano i parlamentari pentastellati – con cittadini, associazioni, sindacati, forze produttive e amministratori che vogliano dare un contributo di idee per rilanciare una controproposta rispetto al disegno di legge voluto dal ministro Calderoli e dalla sua maggioranza».
Nuova vita per gli uffici postali calabresi, specie per quelli periferici. Col progetto Polis, Poste Italiane sposa infatti il culto della restanza poggiando idealmente la matita sul foglio e ridisegnando la mappa dei servizi in un entroterra dove la bandiera bianca sventola ormai da troppo tempo.
Chiude tutto, meglio fuggire?
Sta nella chiusura dei servizi fondamentali la più lucida metafora di un mondo sulla via del tramonto. Ce lo dicono i numeri di una emigrazione che dopo le aree interne sta via via coinvolgendo anche quelle costiere in favore dei grandi agglomerati urbani e che nel periodo 2004/2020 ha fatto registrare centomila residenti in meno in una regione che, dati alla mano, non supera la soglia del milione e mezzo di abitanti realmente residenti. Razionalizzare è un verbo che nell’ultimo quarantennio, specie alle nostre latitudini ha perso la sua accezione positiva diventando quasi sempre anticamera al de profundis, sinonimo di smobilitazione, di resa. Chiudono le scuole, chiudono i principali servizi a testimoniare una rotta ben precisa, ed è in un contesto come questo che il valore di una governance di qualità diventa sempre più necessario per non abbandonarsi ai fatalismi diventati ormai quasi un patrimonio genetico, per non cadere in una retrotopia sempre a metà strada tra alibi e moto nostalgico.
Serve altroché la buona governance, servono esempi di buone pratiche che diventino nel tempo segnale di speranza, ciambella di salvataggio in un mare di rassegnazione. Servono uomini capaci di unire la ragione al sentimento. A volte per fortuna, ci sono però anche segnali in controtendenza che fotografano una situazione affatto irreversibile, come nel caso dei dati fornitici da Poste Italiane, relativi ad una presenza capillare che vuole andare oltre il valore pratico, consegnandoci un’inversione di tendenza in atto ormai dal 2018. Un trend finalmente positivo, frutto di scelte aziendali che sembrano aver anteposto la ragione alla fredda logica dei numeri.
Poste, gli uffici chiusi in Calabria
Non più tardi di dodici anni fa un ideale viaggio dal Pollino all’Aspromonte, passando per la Sila e le Serre ci consegnava un disarmante quadro di smobilitazione degli uffici postali di frontiera. Basti pensare che (dati 2011) nella sola provincia di Reggio Calabria, un piano di razionalizzazione basato sulle utenze, aveva sancito il funzionamento a singhiozzo degli uffici di
Si è passati poi nel giro di appena tre anni (dati ufficiali 2014) alla definitiva chiusura di
Anoia,
Campoli di Caulonia,
Plaesano di Feroleto della Chiesa,
Castellace,
Rosalì,
Barritteri di Seminara,
San Pantaleo,
Terreti,
Villa San Giuseppe,
Capo Spartivento,
Careri,
Piminoro,
Cirello di Rizziconi,
Condojanni,
Gambarie d’Aspromonte,
Pardesca di Bianco,
San Nicola di Ardore,
San Nicola di Caulonia,
Tresilico di Oppido Mamertina,
Villamesa di Calanna,
San Pier Fedele di San Pietro di Caridà
E questo sia ben chiaro, solo per citarne alcuni. Un colpo di scure trasversale che tagliava di netto la dorsale reggina dallo Ionio al Tirreno.
Non andava certo meglio risalendo verso la Sila e verso il Pollino dove il quadro si completava con cifre allarmanti che ridisegnavano la geografia antropica in un entroterra evidentemente sempre più povero.
Piccoli comuni, si cambia
Da cinque anni, la musica sembra essere cambiata grazie ad un percorso intrapreso da Poste in collaborazione con i piccoli Comuni. Oggi lo scenario tracciato ci parla di nuovi investimenti, di aperture, di potenziamenti di servizi già esistenti e creazione di nuovi nelle aree carenti. Uffici Postali rinnovati in molte comunità tra le più piccole della regione, iniziative che si inquadrano nel più ampio piano strategico Environmental, Social and Governance. L’obiettivo complessivo di Poste, di assumere un ruolo chiave nello sviluppo dell’intero sistema Paese, riveste nel caso della Calabria e nello specifico del suo entroterra una valenza eccezionale per quelle che sono le ricadute dirette in termini di servizi ma ancor prima per quelle indirette, per quel possibile effetto domino che molti si augurano.
Matteo Del Fante
È stato chiaro già nel 2018 l’amministratore delegato di Poste Italiane Matteo Del Fante che nel presentare ai sindaci 10 impegni per i piccoli Comuni volle ribadire l’importanza strategica di mantenere aperti tutti gli Uffici Postali situati nei centri con meno di 5.000 abitanti. Un impegno, quello di Del Fante e dell’azienda, andato ben oltre le aspettative in premessa, prendendo corpo, come anticipato in apertura, nel progetto Polis, presentato qualche mese fa a Roma alla presenza di circa cinquemila sindaci.
Poste: il progetto Polis e i nuovi uffici in Calabria
Nello specifico il progetto Polis prevede una collaborazione tra enti comunali e uffici postali. In questi ultimi potranno essere erogati diversi sevizi della Pubblica amministrazione resi disponibili presso lo Sportello Unico nei piccoli centri. Si tratta di un intervento massiccio che si focalizza sui piccoli comuni, quasi esclusivamente al di sotto dei di 5.000 abitanti. Una attività di potenziamento che suona come riconoscimento ai tanti calabresi ostinati ed agli amministratori illuminati che negli anni sono rimasti come ultimi baluardi della tutela di territori sempre più marginali.
Cittadini protestano contro la chiusura di un ufficio postale in un piccolo comune
Si rintracciano sensibilità comuni che si incrociano sulle strade calabresi, quelle a pettine che salgono dallo Ionio e dal Tirreno verso i monti o quelle che semplicemente tracciano i contorni di una regione lunga e assai variegata, per morfologia e cultura, accomunata per contro da analoghi problemi, mali cronici a cui ogni tanto qualcuno cerca di porre rimedio. Oggi la sensibilità di Poste Italiane, incrocia il cammino dei tanti scrittori, studiosi, camminatori, artisti, che ormai da anni sembrano aver riscoperto l’amore per i luoghi periferici, la consapevolezza di quanto sia necessario un esercizio di sensibilità e lungimiranza per regalarsi un orizzonte, per accantonare il retrogusto amaro che accompagna una terra dove sogni e speranze rimangono spesso incompiuti.
Alla riscoperta delle radici
Sono tanti, molti di più di quanto non si pensi, i calabresi che hanno capito come e quanto l’ideale sogno di riportare la vita in luoghi dove da tempo domina il silenzio, o di conservarla laddove ancora ne rimane traccia, non sia in realtà impresa impossibile. Riattribuire un ruolo centrale alla vita che torna o semplicemente a quella che resta non è utopia, è qualcosa di reale che passa dall’impegno e dall’assunzione di responsabilità.
L’antropologo Vito Teti
Serve ripartire da un ritrovato senso dei luoghi, dal culto della restanza, non fosse altro che per il gusto di provare a mettere l’accento su un nuovo modo di concepire la pratica del rimanere, come mi suggerisce l’amico Vito Teti, che con grande gioia ho riabbracciato qualche giorno fa a distanza di qualche anno. Al contrario di quanto avveniva un secolo addietro – continua a ripetere Teti con l’amore e la determinazione che lo contraddistinguono – «oggi la più forte forma di sradicamento non la vive più chi parte, quanto invece chi decide di restare».
Oggi possiamo affermare che chi resta, ha certamente qualche strumento in più, per continuare a vivere la quotidianità. Ma, ancor prima, per sperare in un futuro che non sia lontano dai luoghi della propria personale storia.
Una manovra sbagliata e poi lo schianto. Il mare non perdona, specie quando è molto agitato. A forza 7, come abbiamo appreso dai primi lanci di agenzia, subito rimbalzati sui tg. Foce è una spiaggia di Steccato, a sua volta frazione di Cutro, poco meno di 10mila anime in provincia di Crotone. Uno di quei luoghi che qualcuno ogni tanto ricorda come meta turistica e qualcun altro associa a un campione di scacchi del XVI secolo.
Ma dal terribile 26 febbraio questa zona sarà ricordata anche come teatro di una strage di migranti. Di cui emergono alcuni dettagli inquietanti: sessantaquattro persone sono morte non per un incidente, ma per “presunta” colpa degli scafisti. E, ciò che è peggio, vicino a quella meta pagata cara: ottomila euro per migrante.
Soccorritori e forze dell’ordine in azione
Strage di Cutro: gli indagati
Tre turchi, due pakistani di cui un minorenne, e un siriano: sarebbero loro gli scafisti responsabili del viaggio della speranza finito in tragedia.
E questa tragedia sarebbe dovuta al panico scatenato non dalla tempesta ma da alcune luci a riva: pensavano che fosse la polizia e avrebbero tentato una folle inversione di rotta. Proprio questa manovra avrebbe causato l’incidente.
Usiamo i condizionali per mero garantismo. E per lo stesso garantismo non facciamo nomi: queste cose spettano all’autorità giudiziaria.
Ma quattro superstiti, interrogati dalla polizia il 27 febbraio, non hanno dubbi. Identificano gli scafisti e ricostruiscono nel dettaglio quei minuti concitati.
Strage di Cutro: il caicco marcio
I primi testimoni sono tre stranieri: due bielorussi e un romeno. Pescatori che si trovavano sulla spiaggia alle 4 del mattino e hanno visto tutto: gli sos lanciati con le luci dei cellulari, la barca che si rovescia e si spacca e le persone che finiscono in mare.
Nel gergo nautico si chiama caicco: è un’imbarcazione di medie dimensioni, nata come peschereccio e poi usata per le crociere.
Ma il caicco, piuttosto comodo per un numero di passeggeri ridotto, può diventare una trappola quando a bordo ci sono dalle 140 alle 180 persone, a seconda delle ricostruzioni. Ed è pericoloso quando è in pessime condizioni. E quello naufragato a Crotone era addirittura marcio, come ha riportato qualche media.
Il relitto visto dall’alto
Strage di Cutro: la partenza
Non si scappa solo dai drammi epocali, come le guerre. Ma anche dai drammi quotidiani, come la miseria e la mancanza di prospettive. Le storie di questi migranti sono simili: partenza dal paese di origine. Arrivo e permanenza in Turchia con un solo desiderio: raggiungere l’Italia, il primo approdo in quell’Europa considerata da molti la salvezza. Uno di loro è rimasto a Teheran un anno. Vi ha lavorato alla meno peggio e poi ha tentato la sorte in Turchia. La prima volta gli va male: le autorità lo arrestano e lo costringono a restare in un campo. Poi, dopo il terremoto, i controlli saltano, lui riesce a scappare e si imbarca. Un altro proviene dall’Afghanistan, altro teatro tragico. Resta in Turchia un anno, dove lavora come può. Poi si imbarca.
I soldi del “biglietto” sono versati, di solito, a qualche agenzia compiacente che attiva l’organizzazione.
Una tutina da neonato: l’immagine simbolo della tragedia
La parte finale dell’imbarco è uguale per tutti: permanenza in una “safe house”, un covo lontano da occhi indiscreti, in questo caso nei pressi di Istanbul. Poi un viaggio via terra a bordo di pick up e finalmente l’imbarco a Cesme: è il 22 febbraio.
Strage di Cutro: il contrattempo
La nave, racconta uno dei testimoni, sembra bella: è rivestita di vetroresina di color bianco. E sarebbe persino confortevole.
Peccato solo che il motore sia andato. Infatti, dopo poche ore, gli scafisti sono costretti a chiedere aiuto. Arriva la seconda imbarcazione, il caicco, su cui salgono lo scafista siriano e i migranti. E il viaggio riprende, da una bagnarola all’altra.
Ma queste bagnarole sono preziose, per gli scafisti e per chi li manovra. Infatti, racconta un testimone, i quattro accompagnatori si sarebbero impegnati solo a “sbarcare in sicurezza” i migranti. Quindi non a chiedere soccorso se le cose si fossero messe male.
Di più: gli scafisti avrebbero dovuto portare indietro la barca. Questi dettagli, se confermati, spiegherebbero tanto. Troppo, forse.
Strage di Cutro: vietato comunicare
Gli scafisti, per fortuna, non sono violenti. Ma rigidi sì: vietato fare filmati a bordo. Vietato, soprattutto, comunicare finché non si arriva a destinazione.
Per precauzione, l’equipaggio della bagnarola utilizza uno Jammer, un disturbatore di frequenze che blocca i segnali dei cellulari.
I migranti potranno telefonare solo per dire che tutto è andato bene e, quindi, per sbloccare le somme che finiranno nelle casse dell’organizzazione.
È successo anche questo, a cento metri dalle coste di Cutro: vocali lanciati dai migranti poco prima del naufragio. Una beffa nella beffa: la costa vicina ma impossibile da raggiungere e il messaggio rassicurante (ai parenti rimasti in patria e all’organizzazione) e, pochi minuti dopo, il disastro.
Un momento dei soccorsi
Strage di Cutro: il linciaggio
Sono le prime ore del mattino del 26 febbraio. Impossibile sbarcare in sicurezza. Ma impossibile anche restare in mare.
I passeggeri vedono la costa e protestano. Gli scafisti hanno paura e tentano di tornare al largo. Poi, quando si accorgono che la bagnarola imbarca acqua, gonfiano un gommone e mollano i migranti alla loro tragedia.
I carabinieri del Nucleo radiomobile arrivano alle 4,30, soccorrono i primi superstiti e portano a riva i primi cadaveri.
Un migrante li avvicina e identifica uno degli scafisti: un turco, che è il principale indiziato. Occhio agli orari: una pattuglia di terra della Guardia Costiera arriva alle 5,30, circa un’ora dopo. Giusto in tempo per consentire ai militari di sottrarre lo scafista al linciaggio dei superstiti.
Siamo garantisti, d’accordo: ma si può pretendere altrettanto da chi ha visto annegare i propri cari a pochi metri dalla costa? E cosa si può provare nei confronti di chi non ha lanciato l’allarme perché una bagnarola è più importante della vita dei passeggeri?
I detriti del caicco in spiaggia
Strage di Cutro: gli interrogatori
Tutti i testimoni concordano su quel che è avvenuto in quelle ore terribili. E tutti riconoscono gli scafisti dalle foto.
Già: i migranti non potevano scattare foto a bordo. Ma loro, gli scafisti, si riprendevano con la massima tranquillità.
Ancora: i carabinieri hanno trovato addosso al primo indiziato – quello sottratto al linciaggio – passaporto, carta d’identità, patente, cinquecento dollari in banconote e quattro carte di credito. Bastano a distinguerlo dal resto dei passeggeri?
Per tre persone gli inquirenti hanno emesso il fermo. Gli altri sono ricercati. E il resto è cronaca e polemica. E lacrime.
Gli stipendi in Calabria sono in media circa la metà del resto del Paese. E c’è di peggio: tutte e cinque le province della nostra regione sono al di sotto della soglia del reddito di cittadinanza (9.360 euro all’anno), a dispetto di una piccola crescita.
Stipendi in Calabria: i dati del centro Tagliacarne
Il centro studi delle camere di commercio “Guglielmo Tagliacarne” di Novara ha analizzato gli stipendi da lavoro dipendente in tutte le 107 province italiane.
La media pro capite negli anni dal 2019 al 2021 è risultata 12.473 euro annui. Questi dati, ovviamente, riguardano solo i lavoratori, nel pubblico o nel privato. Non sono, quindi, considerate le partite iva e non si tiene conto del lavoro “nero”.
Le province calabresi sono tutte abbondantemente sotto la media.
La sede dell’Ispettorato del lavoro di Cosenza
La provincia messa meglio è quella di Catanzaro, al 68esimo posto con un reddito medio pro capite annuo di 8.445,54 euro.
Al 73esimo posto c’è la provincia di Crotone con 7.982,50 euro. Segue Cosenza all’88esimo posto con 6.708,28 euro. Subito dopo, all’89esimo posto, c’è Vibo Valentia con 6.696,23 euro e infine, al 95esimo posto, si piazza Reggio Calabria con 6.591,84 euro.
Una magra consolazione
C’è una sola nota positiva: le 5 province calabresi non rientrano tra le 22 che hanno avuto diminuzioni dei redditi. Al contrario, risultano piccoli aumenti,
Una magra consolazione per una situazione che resta molto critica.
Ma i numeri raccontano anche altro, oltre alle evidenti difficoltà. La classifica nazionale, infatti, ha Milano al primo posto con i suoi 30mila euro medi annui pro capite e chiude con Rieti con 3.317 euro. L’incremento medio è del 2,5% in totale.
La classifica nazionale
Gaetano Fausto Esposito, il direttore generale del centro “Tagliacarne”
Scrive Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del centro “Tagliacarne”: «L’analisi dimostra che la geografia delle retribuzioni è diversificata territorialmente, e sotto vari aspetti non rispetta la tradizionale dicotomia Nord-Sud».
E aggiunge: «Se confrontiamo la graduatoria del pil pro capite (che misura la produzione della ricchezza) con quella delle retribuzioni, vediamo che nel primo caso praticamente tutte le ultime trenta posizioni sono appannaggio di province meridionali (con la sola eccezione di Rieti), mentre in quella delle retribuzioni pro-capite troviamo ben 10 province del Centro-Nord, il che induce a riflettere sulle politiche dei redditi a livello locale».
I dati della Calabria: stipendi senza dignità
Le buste paga dei calabresi non solo sono “leggere” (circa la metà della media nazionale), ma sono al di sotto della dignità. Soprattutto, come già detto, inferiori al tetto massimo del reddito di cittadinanza.
C’è dell’altro: nel pubblico le buste paga sono più o meno uguali dappertutto, quindi è chiaro che ad abbassare la media sono i privati. E dato che la media pro capite mensile che emerge dalla classifica in Calabria va da 550 a 800 euro circa è più che evidente che esistono migliaia di persone che forse non riescono ad arrivare nemmeno a metà mese. Inoltre significa che, in tanti altri casi, potrebbero esserci quote di stipendio “in nero”.
La fotografia è chiara e impietosa.
Inutile aggiungere che tutto questo influisce molto anche sull’emigrazione incessante dalla Calabria verso il centro nord del Paese. Da noi bisognerebbe fornire risposte molto più forti e concrete: la situazione attuale è divenuta insostenibile e da tutti i punti di vista…
La crisi da Covid-19 ha accelerato il processo di digitalizzazione delle imprese femminili. Nel triennio 2017-2019, infatti, le imprese femminili che operano nel terziario che hanno investito nel digitale sono l’8,5% (percentuale simile nelle imprese maschili), ma salgono al 13,7% nel periodo del Covid-19 (contro 14,0% delle maschili) per poi diminuire leggermente al 13% nel triennio 2022-24 (contro 18,3% maschili).
Solo l’8% delle imprese femminili del terziario prevede di investire nel triennio 2022-24 nella duplice transizione (sia tecnologie digitali sia green) e un ulteriore 5% delle imprese investirà solo nelle tecnologie digitali. Ma c’è anche chi non effettuerà transizioni: il 48% delle imprese non investirà nel 2022-24 né in tecnologie digitali né in sostenibilità ambientale.
Per quasi la metà delle imprese femminili intervistate, la crisi da Covid-19 ha avuto effetti sulla decisione di investire in soluzioni digitali e sull’ammontare degli investimenti ad esse dedicate (contro il 38% delle maschili). Di contro, per poco più di un terzo delle imprese le decisioni in tema di investimenti digitali sono state prese a prescindere dalla crisi. Il 69% circa delle imprese femminili ha potenziato l’utilizzo dei social media e il 43% circa ha migliorato la propria “vetrina” digitale. Le imprese femminili rispetto a quelle maschili investono meno nel cloud per la gestione dei dati aziendali (20,4% vs 22,8%), nell’e-commerce (20,2% vs 20,8%) e in sicurezza informatica (15,3% vs 18,3%).
L’adozione di nuovi strumenti digitali comporta spesso la necessità di avviare specifiche iniziative di formazione all’interno dell’impresa. L’acquisizione di competenze digitali può riguardare la figura dell’imprenditore/imprenditrice (poco meno del 50% sia nelle imprese femminili che in quelle maschili) oppure i dipendenti rispetto ai quali le percentuali scendono considerevolmente (rispettivamente al 12,4% e al 14,2%).
Per più della metà delle imprenditrici sarebbe auspicabile semplificare le procedure amministrative per ottenere incentivi e agevolazioni a supporto degli investimenti in sostenibilità ambientale e tecnologie digitali. Elevata anche la percentuale delle imprenditrici che preferirebbero avere maggiori incentivi fiscali. Circa una imprenditrice su tre punterebbe alla formazione sia scolastica/universitaria che finalizzata ad incrementare le competenze in materia (green&digitale) all’interno delle imprese. L’accesso al credito rimane comunque una delle principali problematiche da risolvere (nel 31,8% dei casi).
Questi i dati principali di una ricerca, condotta da Terziario Donna Confcommercio in collaborazione all’Istituto Tagliacarne, presentata ieri a Cosenza nella sala Petraglia della Camera di Commercio, in occasione del convegno “Digitalizzate e connesse con il futuro”.
«In Italia il digitale è donna, o potrebbe esserlo se ci fossero condizioni di contesto migliori, perché anche nel digitale esiste un gender gap, che può essere colmato con la formazione, i finanziamenti, la semplificazione, il superamento di stereotipi». È quanto ha detto Anna Lapini, presidente di Terziario Donna Confcommercio. Che ha aggiunto: «Il nostro progetto “Imprenditrici digitali” promosso da Terziario Donna ed EDI – Confcommercio, mira a supportare le imprenditrici nel cammino della transizione digitale fornendo loro ascolto e soluzioni mirate. Nel giro di pochissimo abbiamo realizzato già 250 check up di posizionamento digitale gratuiti, dal Trentino alla Sicilia, a dimostrazione che le imprenditrici anche su questo sono in prima linea».
Per Klaus Algieri, presidente di Confcommercio Cosenza l’evento è una grande occasione per mostrare come l’imprenditoria femminile della provincia sia una realtà consolidata: «La provincia di Cosenza – ha detto il presidente Algieri – mostra una vocazione all’imprenditoria femminile più alta rispetto alla media nazionale. Un dato che restituisce il valore e la capacità delle nostre imprenditrici di conquistare spazio e mercato. Avere qui tra noi l’evento Impresa è Donna mostra come continuiamo ad essere centro propulsore di analisi, studi e condivisione di idee anche nell’ambito della digitalizzazione».
Sulla base dei dati Unioncamere-Infocamere, in Calabria operano nel 2022 quasi 45mila imprese femminili, pari a circa un quarto della base produttiva regionale (23,6%, settimo valore tra le regioni italiane). Di queste, oltre 16mila (più di un terzo del totale, il 36,6%) si concentrano nel territorio di Cosenza, seguita in valore assoluto da Reggio Calabria che ne conta poco più di 13mila e, a distanza, da Catanzaro con quasi 8mila unità. Se si guarda al tasso di femminilizzazione dell’imprenditoria è Reggio Calabria a registrare la quota più elevata (24,0%, 30-esima posizione in Italia), seguita a una certa distanza nella classifica regionale da Crotone (23,8%) e Cosenza (23,6%), Catanzaro (23,3%) e Vibo Valentia a chiudere la lista con 22,4% (superiore anch’essa, anche se di poco, alla media nazionale).
Ci sono appuntamenti sul calendario che sembrano somigliare al titolo di uno di quei film apocalittici di fantascienza, per esempio “31/12/9999”. Invece questa data che non esiste, è scritta nero su bianco sul documento penitenziario che accompagna la detenzione di F. e indica il termine della sua carcerazione, cioè mai.
F. sconta la sua pena in un carcere della Sardegna e sarebbe dovuto giungere lunedì 13 febbraio all’Unical per conseguire la laurea Magistrale in Sociologia e Ricerca sociale. Per ragioni che ancora non sono note, però, dalla sua cella non è mai uscito.
L’Università della Calabria
Laurea e dottorato al 41 bis
Sono i misteri dell’ergastolo ostativo, la forma di pena che esclude il detenuto che si è macchiato di particolari reati dal poter usufruire dei benefici penitenziari come permessi o forme di riduzione della pena stessa. Eppure F. aveva ottenuto un permesso «per necessità» e la sensibilità del magistrato di sorveglianza aveva autorizzato anche la scorta a viaggiare in borghese e senza utilizzare le manette.
C. invece è rinchiuso in un carcere di massima sicurezza del nord e anche per lui le porte del penitenziario non si apriranno più. Alcuni anni fa C. si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Catanzaro. Poi ha conseguito un dottorato di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Unical.
I due sono studenti del Polo universitario penitenziario e rappresentano gli esempi di come, pure nell’abisso della reclusione più severa, le cose possano cambiare. I mille chiavistelli che separano le loro celle dal mondo di fuori sono rimasti serrati, ma gli orizzonti si sono allargati portando nelle anguste mura del carcere saperi, conoscenze e consapevolezze che prima mancavano.
Il diritto allo studio per tutti
«L’esperienza del Polo universitario penitenziario dell’Unical nasce formalmente nel 2018», spiega Franca Garreffa, sociologa del Dipartimento di Scienze politiche e responsabile del Pup. Si tratta di un protocollo d’intesa attraverso cui l’Ateneo e il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria si impegnano a favorire il diritto allo studio delle persone detenute. In realtà le radici del rapporto tra l’Università e i luoghi di pena sono più antiche di almeno un decennio e risalgono a quando nel carcere di Rossano proprio F. e il suo compagno di cella G. espressero a una volontaria il desiderio di seguire gli studi universitari.
L’allora direttore del carcere, Giuseppe Carrà, contattò il sociologo Piero Fantozzi, che al tempo dirigeva il dipartimento di Sociologia e subito si avviò il percorso didattico. In quel cammino venne coinvolta Franca Garreffa, appena laureata con Renate Siebert discutendo una tesi sul carcere. I due detenuti conseguirono la laurea triennale nel giugno del 2015 sostenendo le loro tesi nell’aula dell’ateneo.
L’unica via di fuga
Proprio in quel periodo C. che intanto era recluso nel carcere di Catanzaro, chiese di potersi laureare anche lui recandosi in università e al diniego delle autorità decise di protestare iniziando uno sciopero della fame. Sarà a causa di questa protesta che dovrà rassegnarsi a discutere la tesi in carcere e poi al trasferimento al nord. Successivamente, a causa di imperscrutabili percorsi umani, l’estratto della tesi di laurea di C. che aveva come argomento l’ergastolo ostativo apparirà su una rivista il cui direttore era il figlio del giudice che gli aveva comminato proprio quella pena.
Ma se i libri diventano la sola via di fuga, allora tanto vale continuare a studiare ancora, fino al dottorato di ricerca, il più alto titolo di studio riconosciuto nel nostro Paese, traguardo che C. raggiunge proprio con Franca Garreffa.
«Ho incontrato C. quando era già al nord – racconta la sociologa del Dispes – e mi sono messa in contatto con lui tramite alcune redattrici della rivista Ristretti orizzonti». Da lì comincia un percorso umano e didattico che ancora è in corso.
Una laurea al 41 Bis per riscattarsi
Le storie di F. e C. sono per molti versi drammaticamente simili. Da giovanissimi, entrambi poco più che ventenni, vengono arrestati e accusati di reati molto gravi e per questo condannati all’ergastolo ostativo e al regime del 41 Bis. Viene da domandarsi come si possa consegnare due persone, praticamente ancora ragazzi, a una pena così priva di senso e ampiamente considerata anche incostituzionale. A quell’abisso infernale F. e C. hanno dato uno scopo attraverso lo studio.
Una scritta contro il 41-bis in un quartiere popolare
«Tramite l’impegno universitario F. e C. e tutti i detenuti impegnati nei vari Poli universitari penitenziari non hanno solo riempito di senso il loro tempo, ma hanno cercato un riscatto per se stessi e per le loro famiglie», spiega la professoressa Garreffa, che intanto resta in attesa che a F. venga consentito, come annunciato, di tornare nell’aula di Arcavacata per la sua laurea magistrale. Perché il sapere non fa svanire le sbarre, né apre le serrature, ma rende gli uomini migliori.
Cocaina: è l’ennesimo record di una certa Calabria. Se positivo o meno, dipende dai punti di vista. Le Forze dell’ordine hanno sequestrato, da noi, oltre una tonnellata di polvere bianca ogni 100mila abitanti di età tra i 15 e i 74 anni. In pratica, il 68% del mercato totale italiano. Questi, almeno sono i dati della Dcsa (Direzione centrale servizi antidroga).
Calabria vs Sardegna: una sfida tossica
Calabria e Sardegna si tallonano per il primato assoluto nelle varie classifiche nazionali sugli stupefacenti.
Infatti, la Sardegna è risultata prima per tonnellate di droga sequestrate in un anno e la Calabria seconda. Ma per la cocaina, evidentemente, il porto di Gioia Tauro fa la differenza, quindi le parti si invertono.
I dati dettagliatissimi emergono dall’ultima relazione al Parlamento (2022) sulle tossicodipendenze, che fotografa un fenomeno in continuo movimento.
Il porto di Gioia Tauro
Cocaina e Calabria: il dossier del Governo
Il dossier, a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri, prende spunto principalmente dal report annuale della Dcsa e ne integra i risultati con altri documenti che coinvolgono i principali Ministeri (interno, giustizia e salute), tutti gli enti locali, l’Istat, l’istituto superiore di sanità, il Cnr e altre organizzazioni.
È quindi il dossier italiano più completo in materia di droghe. La Direzione centrale per i servizi antidroga è l’ufficio nazionale del Viminale attraverso il quale il capo della polizia assicura, in base alle direttive del ministro dell’Interno, il coordinamento dei servizi di polizia per la prevenzione e repressione del traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope.
È un organo interforze, costituito in maniera paritetica dalla Polizia, dall’Arma dei carabinieri e dalla Guardia di finanza.
Droghe: tutti i numeri
Il 34,1% delle quantità di droghe sequestrate è nelle isole, prevalentemente in Sardegna (kg 23.676, pari al 28% del totale).
Il 26,8% e il 25,6%, invece, circola, rispettivamente al Sud e al Nord del Paese, in particolare in Calabria e Lombardia. Infine, il 13,4% gira nelle regioni centrali, soprattutto in Lazio. I quantitativi di stupefacenti sequestrati, corrispondono, in rapporto alla popolazione residente, a oltre 190 kg ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, con valori che in Calabria superano i 1.000 kg per 100.000 residenti di pari età e in Sardegna raggiungono quasi i 2.000 kg. In Calabria sono 15,7 le tonnellate di droghe sequestrate nell’ultimo anno monitorato, (2021), in Sardegna 23. Segue la Lombardia con 12 e il Lazio con 7.
La sede della Dsca
Cocaina: Calabria superstar
Se si analizzano solo i dati della cocaina il discorso cambia e la Calabria è prima assoluta.
Il 68% della polvere bianca sequestrata (circa 13,6 tonnellate) è stata intercettata in Calabria. Ma tutto lascia pensare che le Forze dell’ordine hanno trovato solo una parte della coca che circola, in Calabria come altrove.
I sequestri di cocaina, effettuati presso le frontiere marittime, si riferiscono agli interventi nelle aree portuali del versante occidentale.
Dal porto di Gioia Tauro, che incide per il 97,5% (13.364,94 kg), proviene la maggior quantità di cocaina. Seguono quelli di Vado Ligure (Savona) (138,29 kg) e di Livorno (kg 118,53).
Isole e Sud al top
Al Sud e nelle Isole sono state intercettate grandi quantità di cocaina. Al Nord, invece, le Forze dell’ordine hanno trovato quantità più contenute, legate prevalentemente al mercato dello spaccio.
In rapporto alla popolazione, in Italia sono stati sequestrati kg 45,3 di cocaina ogni 100.000 residenti di 15-74 anni, valore che in Calabria raggiunge quasi kg 1.000 ogni 100.000 residenti di pari età. Il dato calabrese è più che evidente, quindi, su 15 tonnellate di droga sequestrate, 13 sono di cocaina.
Un sequestro di droga
La cocaina dalla Calabria all’Europa
Il consumo di coca in Europa cresce costantemente, come ha affermato di recente l’Osservatorio europeo sulla droga.
Va da sé: quando si parla di cocaina si parla di ‘ndrangheta. Ovviamente e non esistono altri canali di approvvigionamento, a differenza delle altre droghe, se non quelli che passano attraverso la criminalità organizzata, soprattutto calabrese, che ha la capacità di trattare direttamente con i cartelli sudamericani rispetto alle altre organizzazioni. Repressione e prevenzione non bastano mai.
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