Categoria: Fatti

  • Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Cutro, non c’è pace per le famiglie delle vittime

    Pare che non ci sia fine alle ingiustizie per le vittime del naufragio di Steccato di Cutro.
    In tanti hanno denunciato gravi carenze istituzionali. Soprattutto riguardo i ritardi nel soccorso in mare (su cui si attende che la Procura faccia presto chiarezza) e l’assenza di risposte per molti giorni sul trasferimento delle salme. Ne è nata una protesta e l’occupazione della strada da parte dei familiari dei naufraghi. La situazione si è sbloccata solo, mercoledì scorso, 8 marzo, dopo che gli stessi hanno manifestato sedendosi in mezzo alla strada.
    A tutto ciò si aggiunge un’altra faccenda assai allarmante. Riguarda il DNA dei familiari delle vittime disperse, ancora in mare.

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    Cutro: niente prelievi del Dna ai familiari

    Più di 60 dei 74 cadaveri – ieri a poche centinaia di metri dalla spiaggia del relitto è stato ritrovato il corpicino di un bimbo di 6 anni, stamattina quello di una bimba – sono stati riconosciuti dai familiari giunti a Crotone, che hanno almeno una salma su cui piangere. Decine di corpi, ancora dispersi tra le onde, rischiano però di restare per sempre negli abissi dell’anonimato sui fondali dello Jonio crotonese.
    Questo perché – è la denuncia del Progetto Mem.Med. Memoria Mediterrneanessuno ha prelevato il DNA dai familiari che attendono e sperano nel ritrovamento dei loro cari se le correnti li restituiranno mai.

    L’istanza alla Procura di Cotrone

    Il 7 marzo, infatti, gli avvocati di Mem.Med. hanno presentato un’istanza alla Procura di Crotone sottoscritta da una decina di familiari delle vittime. Chiedevano che venissero prelevati, il prima possibile, i loro campioni salivari, fondamentali per l’identificazione dopo eventuali nuovi ritrovamenti. Ma dalla Procura, che dovrebbe dare a sua volta disposizioni alla Polizia scientifica, pare non sia arrivata alcuna risposta. «I familiari sono qui adesso a Crotone – avvertono Silvia Di Meo e Yasmine Accardo – e questa operazione necessaria doveva essere già stata fatta. Non si perda altro tempo, perché alcuni di loro sono già ripartiti. Non sappiamo se sarà offerta loro la possibilità di prelevare il DNA in un secondo momento nelle città dove risiedono».

    Un database sulle persone a bordo del caicco

    Le attiviste di Mem.Med si sono precipitate a Crotone, subito dopo la tragedia. Da lunedì, al Palamilone, stanno collaborando a stretto contatto con alcune realtà locali, come l’associazione Sabir. Provano a dare supporto legale a tutti i parenti dei morti di Steccato di Cutro.
    Un lavoro fondamentale perché, prestando ascolto ai superstiti e ai familiari delle vittime sono riuscite a creare un database con la maggior parte dei dati delle persone che erano a bordo della Summer Love. Ogni volta che il mare restituisce un altro corpo, le procedure di identificazioni risultano così meno complesse. Anche ieri erano sulla spiaggia di Steccato di Cutro a confrontarsi con i soccorritori e la Polizia Scientifica al momento del ritrovamento del corpo, ormai esanime, del bambino di 6 anni. 

    La spiaggia di Cutro e le indagini

    Ed è proprio su quel tratto di litorale, dove Mem.Med accompagna spesso i familiari dei defunti e dei dispersi a cercare oggetti dei propri cari, c’è un altro problema serio. Denuncia Accardo: «Quella spiaggia della morte è alla mercé di chiunque, non è stata ancora sequestrata dall’autorità giudiziaria. Si tratta di un luogo sensibile e di vitale importanza. Tutto ciò che giace lì in mezzo alla sabbia appartiene a persone morte e disperse dopo un grave incidente, oggetti e che potrebbero essere anche utili alle indagini in corso». 

     

  • Dieci anni senza Alessandro Bozzo: due giornate  per non dimenticarlo

    Dieci anni senza Alessandro Bozzo: due giornate per non dimenticarlo

    Dieci anni senza Alessandro Bozzo. Cosenza ricorda il giornalista scomparso tragicamente il 15 marzo 2013: due giornate e tre momenti di riflessione sulle difficoltà di fare il cronista in Calabria (ma non solo) e, più in generale, sul precariato imperante non soltanto nelle redazioni.

    Un reading a Marano Principato

    Si parte domenica 12 marzo a Marano Principato, luogo in cui il giornalista si tolse la vita: alle 18 nell’auditorium del centro di aggregazione giovanile “Cesare Baccelli”, l’attore Salvo Piparo e il musicista Michele Piccione metteranno in scena la pièce Volevo solo fare il giornalista – La storia di Alessandro Bozzo tratta dal libro Quattro centesimi a riga (ed. Zolfo, 2022) di Lucio Luca, giornalista de La Repubblica che da anni segue il caso Bozzo, al quale aveva già dedicato un primo libro, L’altro giorno ho fatto quarant’anni (Laurana editore, 2018).

    Il reading era stato presentato in una versione embrionale al festival Trame di Lamezia Terme nel 2019: ora il monologo – nella versione arricchita dall’apporto di un polistrumentista – assume una forma più strutturata, e vanta già repliche in tutta Italia, dal Festival delle Idee di Venezia al congresso nazionale della Fnsi, la Federazione nazionale della stampa, a Riccione: qui il monologo dedicato ad Alessandro Bozzo viene scelto come storia paradigmatica, nella speranza che il suo esempio «non rimanga confinato in Calabria ma diventi il simbolo del futuro sempre più a rischio dell’informazione».
    A inizio 2023 lo spettacolo è stato replicato alla Camera del Lavoro di Milano.

    Gli appuntamenti di Cosenza

    Mercoledì 15 marzo ci si sposterà a Cosenza per un’intera giornata che prenderà il via alle 10 a Villa Rendano con le scuole superiori cittadine, mentre alle 17 il Museo dei Brettii e degli Enotri ospiterà un dibattito a più voci sulla libertà di stampa e su temi che, dopo un decennio, restano ancora attualissimi: dal precariato alle ingerenze della politica nel lavoro delle redazioni, dalle querele temerarie al futuro dell’informazione.

    La mattina, dopo i saluti di Walter Pellegrini, presidente della Fondazione Attilio e Elena Giuliani, e di Franco Mollo in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”, con l’autore Lucio Luca dialogheranno la consigliera comunale di Cosenza con delega alla Cultura, Antonietta Cozza, e l’assessore alla Cultura di Marano Principato, Lia Molinaro: con loro Marianna Bozzo, sorella di Alessandro, e i giornalisti Rosamaria Aquino ed Eugenio Furia. In platea gli studenti del liceo scientifico “E. Fermi” di Cosenza, del Polo scientifico Brutium, delle scuole secondarie di Marano Principato e dell’istituto comprensivo di Cerisano che hanno letto e avviato una riflessione sul libro Quattro centesimi a riga (le copie sono state donate da Paolo Tucci di Gap Life srl).

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    VIlla Rendano, sede della Fondazione Attilio ed Elena Giuliani

    Nel pomeriggio, invece, il sindaco di Cosenza Franz Caruso aprirà facendo gli onori di casa, seguiranno i saluti del suo omologo principatese, Pino Salerno, e di Raffaele Zunino in rappresentanza del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa”. Moderati da Antonietta Cozza, accanto a Lucio Luca, Marianna Bozzo e Rosamaria Aquino interverranno Francesco Graziadio, consigliere comunale e giornalista, e Francesca Lena, presidente dell’Istituto Studi Storici.

    Alessandro Bozzo, un esempio da non dimenticare

    Con il sostegno dell’Istituto per gli Studi Storici, del Centro turistico Giovanile di Marano Principato, del Circolo della Stampa “Maria Rosaria Sessa” e della Fondazione Attilio e Elena Giuliani oltre che della libreria Raccontami, l’iniziativa segna anche un’importante sinergia istituzionale tra l’amministrazione comunale bruzia e il centro appena alle porte del capoluogo, interessato da una rinascita culturale nella quale si iscrive la recente inaugurazione della biblioteca intitolata al geo-archeologo Gioacchino Lena. Marano Principato è stato, peraltro, il primo soggetto a entrare nel patto intercomunale “Città che legge” approvato l’estate scorsa dalla giunta di Cosenza.
    Le due giornate ospitate tra Cosenza e Marano principato saranno un modo per celebrare i cinquant’anni di Alessandro e ribadire che il suo esempio non deve essere dimenticato.

  • I sommersi e i salvati di Steccato di Cutro

    I sommersi e i salvati di Steccato di Cutro

    Il 26 febbraio un’imbarcazione di migranti si è spezzata in mare davanti alla spiaggia di Steccato di Cutro, nel crotonese, in Calabria. Sono 72 i morti accertati, tra loro donne e bambini, e il bilancio non è ancora definitivo. Il numero di naufraghi dispersi è imprecisato. Alcuni scafisti sono stati arrestati e sono in corso le indagini per accertare la verità su quanto è accaduto. Soprattutto si cerca di appurare cosa non abbia funzionato nella catena dei soccorsi. Il 2 marzo il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, si è recato alla camera ardente per commemorare le vittime e all’ospedale per confortare alcuni superstiti.

    Steccato di Cutro e l’opinione pubblica

    La tragedia di Steccato di Cutro ha generato un’ondata di emozioni collettive contrastanti. Le accese discussioni sull’insuccesso dei soccorsi, le polemiche per le esternazioni del Ministro degli Interni Matteo Piantedosi e, per converso, la generosità degli abitanti del posto intervenuti in aiuto dei superstiti, hanno attirato l’attenzione di testate giornalistiche, dei social media e delle televisioni nazionali e internazionali. La commozione per la sequenza di piccole bare bianche, a ricordare la morte di bambini e bambine innocenti, continua ad alimentare la sofferenza e l’indignazione nell’opinione pubblica italiana, moltiplicando le domande e gli interrogativi sulle eventuali responsabilità giudiziarie.

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    La bara di una delle bambine morte

    Affinché queste tragedie non si ripetano è necessario comprendere che il fenomeno migratorio non riguarda una massa indistinta di flussi, ma persone in carne ed ossa, con le loro storie, sofferenze, paure, con i loro progetti di vita, le loro aspirazioni per una condizione di vita migliore. Serve cioè uno sguardo capace di comprendere la complessità sociologica della migrazione, dove le storie personali si intrecciano a vari livelli con i grandi fenomeni storici.

    Gli studi sulle migrazioni

    L’AIS come associazione scientifica di sociologi e sociologhe crede che solo uno studio rigoroso e scientifico del fenomeno possa aiutare la sua gestione e il suo governo. Molti colleghi e colleghe sociologhe studiano da decenni questi movimenti di popolazione e sono nella condizione di mettere a disposizione del nostro paese e dei suoi cittadini le competenze tratte dallo studio scientifico dei problemi interni ed internazionali collegati ai fenomeni migratori, presenti non solo nel Mediterraneo ma in tante altre parti del mondo.

    Molti hanno, ad esempio, indagato sul cammino doloroso che precede gli sbarchi (contrassegnato da una lunga odissea fatta di viaggi, privazioni, sfruttamento, violenze di ogni genere, a partire da quelle subite dai mercanti di esseri umani). Altri hanno studiato i meccanismi dell’accoglienza, i loro elementi positivi ed i loro limiti; altri ancora, su scala più vasta, hanno analizzato le politiche di integrazione sociale, politica e lavorativa dei migranti, documentando più volte le tante discriminazioni a cui essi vanno incontro, unitamente ai pregiudizi culturali o razziali che spesso tendono a stigmatizzare la loro presenza.ndrangheta-migranti-il-traffico-in-casa-che-taglia-fuori-le-ndrine

    Diversi sociologhe e sociologi hanno messo in luce le difficoltà che non pochi migranti incontrano a livello etico e politico-culturale, per la fatica del cambiamento richiesto dall’accettazione e condivisione delle regole e dei modelli di vita e di relazione propri di una democrazia, cioè da un contesto di vita e di relazione tanto lontano dalle loro precedenti esperienze socio-politiche. O ancora, hanno dedicato la loro attenzione all’analisi dei costi economici e dei vantaggi che l’arrivo e l’integrazione dei migranti comportano per paesi di accoglienza, il loro impatto sulle relazioni tra paesi di provenienza e di arrivo, così come tra i paesi dell’UE: in breve, si può dire che una gestione appropriata, non ideologica, ma attenta alle specificità del fenomeno migratorio riguarda il nostro futuro prossimo, insieme alla qualità della democrazia in Italia e in Europa.

    Steccato di Cutro e il momento della responsabilità

    Da tutte queste ricerche un altro aspetto appare evidente: la questione migratoria è così estesa da dover essere necessariamente affrontata in una prospettiva europea, superando la logica dell’emergenza e mostrando capacità di ascolto, memoria storica e lungimiranza culturale e politica. La solidarietà a favore di chi versa in condizioni di estremo bisogno, sebbene non disgiunta dalla fermezza verso ogni forma di illegalità o devianza, non può essere in nessuno caso un elemento di divisione interna dell’Italia.
    Viceversa, c’è bisogno, da parte di tutti e in primo luogo da parte delle classi dirigenti, di un’autentica e realistica assunzione di responsabilità, senza cedere alla paura o all’illusione di trovare soluzioni facili quanto ingannevoli.

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    Emigrati alla stazione di Milano

    Per fortuna, ad alleviare la fatica necessaria per affrontare questo fenomeno epocale, ci viene in soccorso la consapevolezza della nostra storia, visto che noi italiani siamo, fin dall’antichità, un paese di immigrati (come i greci o gli arabi nelle regioni meridionali) e di emigranti (come i veneti, i calabresi e i siciliani, che nel Novecento sono partiti verso tutto il mondo, affrontando tragedie e sacrifici enormi, analoghi a quelli dei migranti odierni). Quindi sappiamo che la grandezza dell’Italia è assai debitrice verso questa storia di migrazioni, una storia che ci ricorda che i migranti siamo stati e siamo tuttora (pensando ai giovani italiani che oggi vanno a cercare lavoro nel mondo) noi stessi, al pari di ogni essere vivente in cerca di accoglienza e soccorso nel bisogno, in una reciprocità senza fine che deve tradursi in scelte politiche conseguenti, se vogliamo davvero onorare la nostra identità.

    Muri e blocchi non funzionano

    Non possiamo nascondere l’evidenza: siamo in presenza di un fenomeno di portata globale che richiede cooperazione internazionale e che ci riguarda direttamente, in quanto la direzione dei flussi migratori provenienti da Est (Oriente) e da Sud (Africa), vista la collocazione geografia dell’Italia, rende il nostro paese un punto di attrazione privilegiato, oggi e negli anni a venire, per tanti disperati che fuggono da guerre, dittature, miseria, impoverimento e desertificazioni causate dal cambiamento climatico, o che cercano solo una vita più dignitosa per sé e i propri cari.

    Bloccare queste persone, impedendogli con la forza di partire, respingerli, rimpatriarli, è, prima ancora che una strada che si scontra con i valori fondativi della nostra convivenza civile e democratica, una soluzione irrealistica per il semplice fatto che nega la realtà: i processi storici globali non si possono fermare con i muri, bisogna lavorare per provare a regolarli, evitando che la ricerca di soluzioni velleitarie contribuisca ad avviare una catena di comportamenti che provochi altre vittime.

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    Liliana, l’ultima abitante di Cavallerizzo (foto Alfonso Bombini 2021)

    Peraltro, lo spopolamento in atto nel nostro paese, la cui drammatica gravità ogni giorno che passa viene ricordata dagli istituti di ricerca (denatalità, squilibrio demografico e invecchiamento diffuso, problemi a catena nel mondo del lavoro e in quello pensionistico come pure nelle aule scolastiche, svuotamento di paesi, aree e intere zone dell’interno, con un trend in netto peggioramento) rende urgente l’elaborazione di adeguate e realistiche politiche di integrazione regolata.

    Una nuova politica europea dopo Steccato di Cutro

    Non possiamo accogliere tutti, alcuni vanno respinti per motivi di sicurezza, altri vanno redistribuiti in Europa (dove molti di loro vogliono andare, guardandoci solo come paese di primo transito). Altri, tanti, abbiamo il dovere e l’interesse di accogliere. In questo quadro le politiche amichevoli verso l’immigrazione, concordate in chiave europea, costituiscono l’unica via d’uscita ed è auspicabile che il Parlamento sia concorde in tale prospettiva. Nell’attesa della piena attuazione di queste innovative politiche di accoglienza e integrazione, è necessario respingere non i migranti ma le scelte perniciose che rendono più difficili, incerte e pericolose le operazioni di salvataggio in mare.
    La nostra storia, la nostra identità, la nostra democrazia, i sentimenti del nostro popolo e i risultati delle ricerche sociologiche ce lo chiedono ad alta voce.

    Il Presidente e il Direttivo dell’Associazione Italiana di Sociologia

  • Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    Giorgia a Cutro: polemiche ed errori nel Cdm della tragedia

    A Cutro alcune cose erano scontate. Ad esempio, la protesta pittoresca e ben orchestrata delle sigle autonome e delle associazioni più o meno antagoniste.
    Il lancio dei peluche contro le auto blu e i cartelli esibiti nei pressi della sala comunale che ha ospitato il Consiglio dei ministri, sono stati più che eloquenti.
    Facciamo una sintesi prima di procedere: Giorgia Meloni ha dato la sua versione, anche se con qualche “stecca” di troppo, e i giornalisti l’hanno contestata.
    Ora riavvolgiamo il nastro.

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    Una contestazione a Cutro contro il governo Meloni

    Meloni a Cutro: lancio di peluche e cartelli di protesta

    Le immagini, riportate da tutti i media che contano con perfetto tempismo, sono chiare: lancio di peluche con chiara allusione ai dettagli più struggenti della tragedia, e slogan eloquenti.
    Ne citiamo due, uno più inflazionato dell’altro: «Basta morti in mare», «Non in nostro nome». Retorica a parte, entrambi esprimono l’indignazione di chi chiede una risposta.
    Ed esprimono una parafrasi di certo Sessantotto, in questo caso più addolorato che rabbioso. E ci sta.
    Soprattutto, esprimono l’ansia di territori marginali – e perciò trascurati – che si ritrovano in primo piano solo quando capitano vicende eccezionali per la loro bruttezza.

    Un’immagine simbolo della spiaggia della tragedia

    Cutro protagonista

    Cutro è protagonista e tutta la Calabria è Cutro: quella che si indigna, ma anche quella che vuole risposte. E le chiede in maniera dura.
    Non era, va da sé, risposta quella di Matteo Piantedosi, che ha esibito un’empatia inesistente. Non sono risposte i rimpalli e i balbettii dei vertici amministrativi di chi avrebbe dovuto agire con più efficienza e velocità, magari calpestando i vincoli burocratici e legali che partono dall’Europa (in questo caso, Frontex), continuano nei corridoi dei ministeri e finiscono nei Comandi e nelle Capitanerie più periferici.
    Sono risposte quelle della premier?

    Meloni e il Cdm a Cutro

    Il Cdm di Cutro è servito a due cose: diramare le prossime decisioni sulla questione migranti e difendere il proprio operato politico. Anzi, governativo.
    Il contenuto dei primi è noto: superpene agli scafisti (trent’anni quando i migranti ci rimettono la pelle), superpoteri e superdoveri alle autorità italiane (cioè la possibilità di indagare anche in acque internazionali) e allargamento dei flussi migratori, giusto per bilanciare un po’ a sinistra cose dette a destra ma pensate altrove: cioè ai piani alti dell’Ue.
    E l’autodifesa?

    Le stecche di Giorgia 

    Una domanda di Virginia Piccolillo, tiratrice scelta del Corriere della Sera, scatena la polemica. Era una situazione di soccorso o di sicurezza?
    Il problema è tutto qui. La presidente del Consiglio dà la risposta più comoda: Frontex ha fatto una segnalazione di polizia. Cioè: il caicco non era in difficoltà, poi è rimasto fermo a quaranta metri dalla riva per ore (ma non erano cento, i metri?) perché gli scafisti non volevano farsi beccare.
    Alla fine è naufragato per colpa degli scafisti che volevano darsela a gambe.
    Meloni ha recitato come un mantra l’ordinanza del gip di Crotone e il verbale di fermo dei presunti nocchieri della morte.
    Peccato le stecche, non proprio leggere: la presidente prima dice che Frontex ha avvistato il caicco nelle acque costiere, poi si corregge, richiamata anche dal moderatore. Quaranta chilometri dalle acque costiere, il dato esatto, fa una bella differenza.

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    Il governo al completo durante la conferenza stampa

    La risposta che manca

    Ancora: ma voi credete che il governo non volesse intervenire? Chiede all’uditorio con la classica domanda difensiva. Già: solo che non riferisce quel che è successo tra la segnalazione di Frontex e le prime ore del 26 febbraio.
    Non è una lacuna piccola. Innanzitutto per la tempistica: l’avvistamento è avvenuto alle 22,40 del 25 febbraio, il naufragio tra le 3 e le 4 del mattino del 26. Più di tre ore di differenza.
    In seconda battuta, la lacuna è grossa proprio nei termini della sicurezza che sta tanto a cuore al governo: possibile che in tre ore nessuno si sia mosso di fronte all’ipotesi di uno “sbarco”, per dirla in burocratese?

    Un primo piano di Giorgia Meloni

    Una targa non basta

    Apporre sul municipio una targa commemorativa della tragedia non basta. E non basta trasformare Cutro in Capitale simbolica per poche ore.
    Andrò al PalaMilone, avrebbe promesso Giorgia alla fine della conferenza stampa. Poi la retromarcia: un invito a Palazzo Chigi ai familiari delle vittime.
    Il che tradisce qualcosa di troppo: la considerazione della Calabria come territorio marginale che, in fin dei conti, porta troppe rogne e, persino, un po’ sfiga.
    Infatti, hanno ribadito la premier e Salvini, «oggi abbiamo fatto venticinque salvataggi in mare». Solo in Calabria si muore, quindi.
    E, a proposito di considerazioni: che dire del moderatore che chiede “professionalità” ai giornalisti ma poi dice “Curto” anziché Cutro?

  • «Io, ergastolano con un dottorato all’Unical»

    «Io, ergastolano con un dottorato all’Unical»

    Il carcere spesso è l’anticamera del cimitero. Per chi è condannato alla pena dell’ergastolo significa essere seppellito vivo. Io sono uno di quelli. Sono entrato in carcere all’età di 19 anni e non sono più uscito. Sono trascorsi 33 anni, ma non mi sono arreso. Perché il carcere può essere anche un luogo di riscatto. La mia esperienza personale mi dice che molto dipende dalla propria volontà e dalle opportunità che ti offre la società, e che lo studio può essere un potente dispositivo di integrazione.

    Oggi vorrei scrivere proprio delle opportunità offerte dalla società, e sotto questo aspetto, di quale terra straordinaria sia la Calabria, nonostante i tanti problemi che ci sono: povertà, criminalità, mancanza di servizi, lavoro etc. di cui nessuno tace l’esistenza. Tuttavia la Calabria è soprattutto altro, se penso alle persone fuori dal comune che “abitano” esercitando una professione nell’ambito di istituzioni e comunità locali calabresi.
    Una storia “altra” rispetto alla “narrazione parziale” che si fa di questa bellissima regione.

    Bisogna conoscere e vedere prima di parlare, giudicare, se proprio si deve giudicare, come insegnava Piero Calamandrei, uno dei padri della Costituzione. Un po’ come accade con chi è in carcere, dove non ci sono “i detenuti” o “i condannati” ma persone, individui con storie diversissime e un passato che non è solo reato, soprattutto persone che nel tempo cambiano. Calabria e carcere in un certo senso subiscono il pregiudizio di chi non sa ma ritiene di sapere, dimenticando la lezione di Socrate.

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    Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio

    Vorrei cominciare ringraziando chi mi ha citato in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico del PUP dell’Università della Calabria che ha visto la partecipazione straordinaria della cara Fiammetta Borsellino su invito del rettore, professore Nicola Leone: il professore Raniolo che ho avuto il privilegio di conoscere (anche se da remoto) in occasione della mia presentazione sull’avanzamento della mia ricerca intrapresa nell’ambito del dottorato in “Politica, società e cultura” presso l’Università della Calabria, certamente la più alta forma di condivisione, di inclusione dei detenuti. Il coordinatore del dottorato ha voluto ricordare che ho uno status di dottorando di ricerca, una delle opportunità ed esperienze inclusive più straordinarie nel panorama accademico italiano. “Straordinario” sottolineo, per le vicende che voglio raccontare parlando della Calabria e dei calabresi.

    Sono entrato in carcere con il titolo di licenza media inferiore; ho iniziato a studiare mentre ero in regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario. A tale regime fui sottoposto a 21 anni d’età. Anticipo che sia la pesantissima condanna, sia le moltissime restrizioni detentive (e non solo) subite erano a mio parere giustificate nonostante la mia vicenda criminale è da ascriversi a una breve parentesi tardo adolescenziale. I fatti in cui ero rimasto coinvolto erano gravissimi, reati di cui oggi non mi capacito come proprio io sia riuscito a commettere.

    Il passato non si può cambiare ma si può fare qualcosa per riparare e per migliorare il futuro, contribuendo nei modi in cui ci è possibile, anche per non restare imprigionati in quel passato. Questo mi hanno fatto capire le persone a me più vicine, dalla famiglia a quelle che ho avuto la fortuna di incontrare in questo mio “viaggio senza fine” (giudici, avvocati, docenti, operatori penitenziari, volontari), quando hanno inteso che mi ero reso conto del male arrecato e della disperazione provata per l’impossibilità di tornare indietro.carcere-calabria-57-detenuti-in-attesa-laurea-superpasticciere-i-calabresi

    «Indietro non puoi tornare ma puoi ricominciare da dove hai lasciato» – mi dissero i miei familiari, gli unici che potevo vedere per un’ora al mese dietro un vetro. L’abbandono della scuola era stata una scelta che i miei avevano sempre avversato. Da ragazzo avevo fatto mio il detto che «saper fare è meglio che studiare» e così mi ero messo a lavorare nell’attività di famiglia.

    La mia condizione detentiva comportava una serie infinita di limitazioni ma non quella di poter leggere (si potevano detenere al massimo 3 libri, ma sostituibili). Trovai una frase di Aristotele: «Lo studio non ha bisogno d’altro che dell’intelligenza». Fu illuminante, realizzai che avrei potuto riprendere gli studi facendo la felicità dei miei genitori. L’inizio fu durissimo, non c’era nessuno a cui rivolgermi per le materie scientifiche. Ero un autodidatta, incontravo i docenti solo in occasione degli esami di ammissione, del diploma e poi per quelli universitari, sempre da dietro un vetro, fino a quando non mi hanno revocato definitivamente il regime ex art. 41-bis (durato circa 13 anni).

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    L’Università di Perugia

    Quando accadde ero nel carcere di Spoleto e iscritto all’Università di Perugia su “invito” del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP); pensavo alla facoltà di Lettere e Filosofia, «meglio Giurisprudenza» mi disse il mio avvocato dell’epoca, l’indimenticabile professor Fabio Dean: «È una materia umanistica e tecnica che potrà essere utile per aiutare te stesso e gli altri», aggiunse, e con queste parole mi convinse. Con la revoca sopraggiunse il trasferimento al penitenziario di Palmi, in Calabria. Era la prima volta che mettevo piede su questa terra, onestamente ci arrivai con i “pregiudizi” che la fanno conoscere nel mondo. E invece…

    Invece scoprii che la civiltà, l’umanità, l’efficienza (anche in carcere) sono in Calabria.
    La vulgata vuole che il Sud prenda ad esempio il Nord… Forse solo a livello di infrastrutture, perché a livello di umanità, funzionalità ed efficienza le realtà calabresi che ho conosciuto non hanno nulla da imparare da nessuno, anzi possono insegnare ed estendere le loro buone pratiche.
    Dopo un anno, da Palmi fui trasferito a Catanzaro invitato nuovamente dal DAP a iscrivermi all’università più vicina. Dovetti cedere.

    Il mondo accademico è stato molto attento nei miei confronti, i docenti dell’UniPG sempre disponibili, ma gli anni di isolamento mi avevano inibito nei rapporti interpersonali. L’iscrizione all’Università di Catanzaro non cambiò di molto le mie abitudini. I contatti li tenevano gli educatori del carcere (la dottoressa Arianna Mazza e poi il dottor Giuseppe Napoli), efficientissimi anche loro, i quali mi reperivano programmi e testi da studiare. Fissavano la data per gli esami che sostenevo in presenza dei docenti nel carcere di Catanzaro.

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    L’Università Magna Graecia di Catanzaro

    Ebbi modo di conoscere e partecipare ai corsi diretti dal professore Nicola Siciliani de Cumis, un gigante della pedagogia contemporanea, e di incontrare una delle direttrici penitenziarie più capaci che ho avuto modo di conoscere (la dottoressa Angela Paravati), pari solo al direttore del carcere di Spoleto (il dottor Ernesto Padovani) quanto a competenza, capacità organizzative e coraggio nell’assumersi le responsabilità nelle decisioni. Anche qui siamo di fronte allo “straordinario”.

    I contatti con l’UniCZ si intensificarono con la preparazione della tesi di laurea e l’esame finale. Seppi che il mio relatore sarebbe stato il professor Luigi Ventura, già preside del dipartimento di Scienze giuridiche, fuori dal comune anche lui come il suo staff di collaboratori.
    Con lui pensammo a una tesi multidisciplinare tra diritto costituzionale, europeo e penitenziario. Ne uscirà una tesi avanguardista sull’irretroattività dell’interpretazione sfavorevole in materia penitenziaria (in soldoni l’irretroattività dell’interpretazione dell’art. 4-bis OP che aveva creato l’ergastolo “ostativo giurisprudenziale”).

    Una tesi di laurea che vedrà la pubblicazione come Manuale sulla pena dell’ergastolo, e verrà premiata come migliore tesi di laurea dell’anno. Basterà dire che dopo 6 anni la Corte costituzionale (nn. 32/2020 e 17/2021) è arrivata ad affermare i principi ivi espressi come diritto applicabile nel nostro ordinamento, anche se non ancora in relazione all’ergastolo ostativo; per questo probabilmente bisognerà aspettare la Corte di Strasburgo, innanzi alla quale pende un ricorso, già dichiarato ammissibile, se lo accoglierà.

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    Il carcere di Parma

    Questo è il prodotto di una ricerca, uno studio realizzato in Calabria. È bene sottolinearlo.
    Dopo la mia laurea, come tutte le cose belle, la mia permanenza nella vostra straordinaria terra finisce. Vengo trasferito in Emilia Romagna, a Parma, dove in ambito penitenziario trovo ad attendermi il medioevo.
    Il carcere parmense era (oggi è cambiato) veramente indietro rispetto a quelli calabresi di mia conoscenza, solo che questa arretratezza mi permetterà di entrare in contatto con l’università. Con alcuni studenti detenuti, chiediamo di modernizzare culturalmente chi è detenuto e chi ci lavora.

    L’Università di Parma, o meglio una sua docente di punta, la professoressa Vincenza Pellegrino, organizza dei Laboratori di sociologia, e insieme investiamo nella creazione del Polo Universitario Penitenziario (PUP) reclamato dagli studenti detenuti già presenti. Partecipo ai Laboratori con studenti esterni e continuo nei miei studi. Sperimentiamo nuove forme di didattica mista verticale-orizzontale. È lei insieme alla professoressa Franca Garreffa dell’Università della Calabria, anche qui l’aggettivo “straordinarie” è d’obbligo, che mi guidano all’interno di questa nuova e indefinibile avventura del ‘dottorato’.

    Mi incontrano per preparare la mia candidatura e studiare nuove materie che mi aprono a nuovi mondi, nuovi modi di comprendere finanche il diritto, che illuminato da queste nuovi luci sociologiche mostra altre dimensioni, si arricchisce.
    Le professoresse Garreffa e Pellegrino sono le mie tutor del dottorato, insieme alla dottoressa Clizia Cantarelli, tutor del Pup di Parma. Sono loro i miei occhi, le mie orecchie, le mie gambe, le mie braccia: senza di loro non potrei “muovermi”, esisto per interposta persona.

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    Studenti sul ponte Bucci all’Università della Calabria prima della pandemia

    È grazie a loro se posso fare questa esperienza, un sostegno che passa dal reperimento del materiale a quello dei contatti con docenti di altre università e con i membri del Collegio del dottorato dell’UniCal e della CNUPP presieduta dal professore Franco Prina sempre presente alle varie manifestazioni ed eventi che riguardano i Pup in Calabria. L’esperienza del dottorato mi ha regalato, oltre a queste donne eccezionali, anche una “classe”.

    Per la prima volta faccio parte di una “classe”, i miei colleghi dottorandi mi hanno quasi adottato, seppur più piccoli d’età, con la loro disponibilità e facendomi sentire ben accetto. A farmi sentire parte dell’Università della Calabria ci pensano persone come il professore Paolo Jedlowsky, che scoprirò essere uno dei più grandi sociologi contemporanei, capace di rispondere in maniera convincente anche alle mie domande più assurde. È sempre lui a volermi presente (anche se da remoto) all’inaugurazione del nuovo anno del dottorato, per sostanziare quell’uguaglianza nelle opportunità di cui parla la Costituzione. Piccole grandi cose che trasformano il carcere e danno un’altra dimensione di chi è detenuto e di chi detiene.

    Col progetto di dottorato mi trovo a essere, allo stesso tempo, ricercatore e ricercato, immerso nel campo di ricerca che è il mio ambiente, ricercatore che studia sé stesso e i suoi simili, e attraverso sé stesso la società in cui vive. Mi trovo a osservare le interazioni e la produzione di sapere come dispositivi trasformativi individuali e delle “istituzioni totali”, dei “miti”, dei “luoghi comuni”, e svelare quegli “artefatti culturali” che come potenti sovrastrutture impediscono, invece di favorire, i cambiamenti sociali.

    Concludo riflettendo sul fatto che ancora una volta la Calabria, in particolare l’Università di Cosenza, mi ha aperto a una possibilità inimmaginabile per me, per chi è in carcere, realizzando qualcosa che va oltre la prima, la seconda e la Terza missione cui è chiamata l’università, ponendola, probabilmente, tra gli atenei con i programmi più avanzati al mondo devo pensare perché in questo modo realizza per i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, come previsto all’art. 34 della nostra Costituzione.
    La Calabria, appunto, che da Pitagora in poi ha sempre qualcosa da insegnare.

    Claudio Conte

  • Niente salme, c’è il Governo: la protesta dei parenti delle vittime

    Niente salme, c’è il Governo: la protesta dei parenti delle vittime

    Sono talmente stremati, arrabbiati e sfiduciati i familiari dei naufraghi che, poco fa, hanno provato a bloccare un camioncino di una nota azienda di acqua davanti ai cancelli del PalaMilone. Pensavano che nel retro del mezzo ci fossero le salme dei loro cari. Ma il Governo, nello specifico il Viminale, in un primo momento, ha deciso contro la loro volontà di trasferire i corpi dei migranti nel cimitero di Borgo Panigale (Bologna) e in altre città d’Italia che si sono rese disponibili a ospitarle. Da lì poi, forse, ricomincerà eventualmente la trafila dei trasferimenti. Tuttavia la vicenda è finita in stand by, grazie alla mediazione del Prefetto e del sindaco di Crotone: nessun “trasloco” l’assenso dei familiari. Bologna accoglierà ventiquattro salme, quattordici delle quali già partite. Per altre diciassette, che dovrebbero tornare in Afghanistan, si attende il completamento delle pratiche burocratiche.

    Salme dei migranti di Cutro trasferite per l’arrivo del Governo?

    La scelta originaria, si diceva, è del ministro Piantedosi. E, proprio come le sue parole all’indomani della tragedia di Steccato di Cutro, ha alimentato da subito le polemiche. Un vero capolavoro di ipocrisia del Governo, secondo molti: soltanto una settimana fa, dopo la visita del capo dello Stato, l’Italia aveva promesso di farsi carico di costi e trasferimenti nei Paesi d’origine, in accordo tra ambasciate e familiari.

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    Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte alle bare nel PalaMilone

    Invece, no, non si può più aspettare. Perché domani ci sarà il Consiglio dei ministri – dove pare che neanche il sindaco padrone di casa sia stato ammesso – e sarebbe un grande imbarazzo per la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, arrivare in un luogo che sa ancora di morte e disperazione. Così come potrebbe imbarazzare il confronto con l’omaggio silenzioso del Presidente Mattarella alle vittime. Rischierebbe di evidenziare, se possibile, ancor di più il ritardo dell’Esecutivo nel far sentire la propria presenza sul luogo della tragedia. Ma, a quanto pare, sono cambiate le carte in tavola.

    La protesta dei familiari

    Molti dei parenti delle vittime chiedono, pretendono, che, dopo 13 giorni di attesa, le bare vengano riportate da Crotone il prima possibile nei Paesi di origine. Lì dove è giusto che vengano pianti dalla loro comunità e celebrati riti funebri secondo il loro credo.
    Da stamattina hanno occupato il piazzale davanti al Palazzetto e promettono di andare avanti a oltranza.

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  • Disoccupazione: in Calabria cresce ovunque tranne a Vibo

    Disoccupazione: in Calabria cresce ovunque tranne a Vibo

    In Calabria rispetto al 2022 si prevedono 4mila disoccupati in più, di cui circa la metà – complice una popolazione maggiore – in provincia di Cosenza. A calcolarlo è uno studio della Cgia di Mestre, sulla base di una elaborazione dei dati Istat e delle previsioni Prometeia. Secondo l’analisi, in tutta Italia saranno circa 63mila in più le persone senza lavoro rispetto all’anno precedente. E poco importa che negli ultimi mesi lo stesso Istat abbia reso noto che lo scorso mese di ottobre l’occupazione ha toccato il record storico. Il dato in questione, infatti, è alterato in positivo dai rientri in massa di parecchi cassaintegrati il cui futuro resta tutto meno che roseo. Quanto ai nuovi contratti, tantissimi sono a tempo determinato.

    Disoccupazione: chi sale e chi scende

    Nel 2023 il tasso di disoccupazione è destinato a salire all’8,4%. Il dato torna ad allinearsi con quello del 2011, anno che ha anticipato la crisi del debito: il numero complessivo dei disoccupati, infatti, nel 2023 sfiorerà la quota di due milioni e 120mila persone. In termini assoluti, le situazioni più critiche si verificheranno nel Centro-Sud, ossia in quei territori dove il livello di fragilità occupazionale era già molto preoccupante. Le province più in sofferenza saranno quelle di Napoli, Roma, Caserta, Latina, Frosinone, Bari, Messina, Catania e Siracusa. Ma l’aumento della disoccupazione non sarà omogeneo: in una trentina di province italiane su 107, anzi, il numero di disoccupati dovrebbe, seppur di poco in molti casi, ridursi.disoccupazione-calabria-italia

    Disoccupazione: i dati della Calabria per il 2023

    E così, accanto alle criticità di gran parte del territorio calabrese, si scopre che la provincia di Vibo rientra invece tra quelle virtuose. Ma entriamo nei dettagli: in regione, secondo lo studio i disoccupati passeranno da 88.226 e 92.247. Aumenterà, dunque, di 4.021 unità il numero di persone che perderanno il lavoro, il 4,6% in più rispetto al 2022.
    La maglia nera della disoccupazione in Calabria se l’aggiudica Cosenza. La Cgia prevede che lì saranno 1883 (+5,3%) i disoccupati in più, undicesima provincia in Italia per aumento di persone che si ritroveranno senza un impiego nell’anno in corso. Sembrerebbe andar meglio a Catanzaro, Reggio Calabria e Crotone, dove i nuovi disoccupati saranno, nell’ordine, 1.019, 445 e 712. In realtà, rispetto alla popolazione di quei territori, in due casi la percentuale di disoccupati crescerà più che nel cosentino: a Catanzaro del 5,9% e a Crotone addirittura del 7,8%. A Reggio, invece, l’aumento si limita a un +2,2%. Le proiezioni della Cgia sembrerebbero, al contrario, fare di Vibo e provincia una micro isola felice, con 38 persone in più a lavorare rispetto a dodici mesi prima. Disoccupazione, quindi, in calo dello 0,6%, in controtendenza rispetto al resto della Calabria.disoccupazione-regioni-2023

    I settori più in difficoltà

    Non è facile stabilire in questo momento i settori che nel 2023 registreranno le maggiori riduzioni di lavoratori. Con ogni probabilità, su scala nazionale a soffrire di più saranno i comparti manifatturieri, specie quelli energivori e più legati alla domanda interna. Al contrario, dovrebbero subire meno contraccolpi occupazionali le imprese più attive nei mercati globali. Tra di esse, quelle che operano nella metalmeccanica, nei macchinari, nell’alimentare-bevande e nell’alta moda. La sensazione tra addetti ai lavori ed esperti è che altre difficoltà interesseranno i trasporti e la filiera automobilistica. Senza dimenticare l’edilizia, che rischia di trascinare tantissimi nel caos figlio delle modifiche legislative al superbonus.

    Le conclusioni dello studio sulla disoccupazione

    Fatta eccezione per i dipendenti pubblici, la crisi colpirà a 360 gradi. A farne le spese, in particolare, il popolo delle partite IVA, lavoratori che non beneficiano nemmeno di strumenti di tutela quali la CIG o la Naspi in caso di stop delle loro attività. Il tutto in un contesto come quello calabrese, dove anche chi uno stipendio lo ha deve fare i salti mortali per arrivare a fine mese.
    Tra negozi che chiudono ovunque, «il rischio di mettere a repentaglio la coesione sociale del Paese è molto forte», si legge nel report. Centri storici e periferie continuano a svuotarsi, la qualità della vita in questi quartieri peggiora. Ma non c’è solo il commercio a piangere, secondo la Cgia: «Meno visibili, ma altrettanto preoccupanti, sono le chiusure che hanno interessato anche i liberi professionisti, gli avvocati, i commercialisti e i consulenti che svolgevano la propria attività in uffici/studi ubicati all’interno di un condominio». E la moria di attività non dà scampo nemmeno ai centri commerciali e alla grande distribuzione organizzata (Gdo): «Non sono poche le aree commerciali al chiuso che presentano intere sezioni dell’immobile precluse al pubblico, perché le attività presenti precedentemente hanno abbassato definitivamente le saracinesche».

  • «Tre migranti sopravvissuti a Cutro accolti in Arbëria»

    «Tre migranti sopravvissuti a Cutro accolti in Arbëria»

    Tre migranti pakistani, sopravvissuti alla tragedia di Cutro, arriveranno tra martedì e mercoledì a San Benedetto Ullano, paese arbëresh in provincia di Cosenza. Sono stati affidati all’associazione don Vincenzo Matrangolo di Acquaformosa. Il presidente è Giovanni Manoccio, sempre in prima linea sul tema dell’accoglienza e della difesa di chi fugge da guerre e povertà. A ICalabresi spiega il senso del suo impegno decennale.

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    Soccorritori portano a riva i corpi senza vita dei migranti a Steccato di Cutro
    Dal 2010 opera l’associazione don Vincenzo Matrangolo…

    «Abbiamo iniziato questa avventura di accoglienza nel 2010 ad Acquaformosa. Era come nuotare in mare aperto. Non c’erano figure professionali. Ma c’era la consapevolezza che potevamo farcela. Ragazzi molto motivati e alcuni professionisti disponibili. Erano anni di grande esposizione mediatica del Comune. Tanti giovani lavoravano in questa impresa sociale. L’associazione poi si è allargata in 5-6 comuni poi diventati 10. Con una caratteristica fondamentale: l’accoglienza dei paesi arbëresh. Cinquecento anni prima i nostri avi avevano vissuto la drammaticità di questi momenti. Noi abbiamo ridato ai territori quello che abbiamo avuto dalla Calabria. Siamo stati vecchi ospiti di questa terra. Il progetto ha accolto nel corso degli anni oltre 1600 persone, provenienti da 70 nazioni, 140 etnie. Poi ancora vulnerabili, vittime di tratta. Davvero un campionario incredibile di esperienze. Oggi l’associazione ha 110 dipendenti. Questa economia sociale ha fatto sì che tanti nostri giovani laureati siano rimasti nei loro paesi. E tanti ragazzi che non lo sono hanno avuto una possibilità. Un modello di vita per loro, perché lavorare nell’immigrazione non è facile».

    Studenti stranieri per uno stage ad Acquaformosa dialogano con la mediatrice culturale dell’associazione “Matrangolo”
    Come inizia la sua storia di accoglienza?

    «Il giorno dello sbarco della Vlora  io ero a Bari. Ricordo ancora una madre che partoriva nel porto. I cittadini pugliesi che donavano cibo e vestiti. Ero un giovane assessore. Andammo alla prefettura di Cosenza e facemmo in modo che molti di loro restassero nei nostri paesi. Molti hanno messo famiglia e radici qui da noi. Quel giorno del 1991 a Bari non lo dimenticherò mai. Gente in fuga per la libertà. Da lì nasce la mia volontà di accogliere».

    Cosa c’è dietro quelle parole di Piantedosi sui migranti a Cutro?

    «È la loro cultura. La conseguenza di ciò che avevano fatto poco prima, iniziando la battaglia contro le Ong. Diventano sempre più inumani per dimostrare al loro elettorato razzista e xenofobo che loro non sono come quelli di prima. Una logica conseguenza di un non politico che utilizza un linguaggio meramente burocratico».

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    Quel che resta di una tutina da neonato sulla spiaggia della tragedia a Cutro
    Il centrosinistra ha pure le sue responsabilità

    «Molti sindaci del centrosinistra hanno fatto tanto nelle loro comunità accettando la sfida dell’accoglienza. Ma se penso a Minniti e agli scellerati accordi con la Libia… Ha affrontato l’immigrazione con un approccio securitario.
    Mi auguro che i nostri politici, destra e sinistra, cancellino la Bossi-Fini. Poi serve diversificare tra progetti di accoglienza pubblici e privati. I secondi sono la negazione dell’accoglienza. Su questo il mio partito, il Pd, ha fatto pochissimo. La sinistra ha perso un’occasione».

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    Giovanni Manoccio e la neo-segretaria del Pd, Elly Schlein all’Università della Calabria
    E adesso con Elly Schlein cosa cambia?

    «Credo in un rovesciamento di posizioni. In questi giorni ho parlato con Elly Schlein, la neo-segretaria che, tra l’altro, ho sostenuto al congresso. Da europarlamentare mi invitò a Bruxelles. Si interessava di queste cose. Anche la sua visita a Crotone, privata e senza rilasciare interviste, dimostra un approccio diverso del Pd rispetto a tali problemi.
    La Schlein deve sostituire quelli della mia generazione. E muoversi sull’onda di un entusiasmo palpabile tra la gente. La conosco dai tempi di Occupy Pd. Io c’ero quel giorno a Roma, e ho rischiato di essere arrestato (ride ndr). Non volevano farci entrare nella sede del Partito democratico».

    Autonomia differenziata o secessione? 

    «Una condanna a morte per il Sud. Un processo lungo. Quando ero sindaco di Acquaformosa mi sono accorto che ogni anno arrivavano circa 240 euro per ogni cittadino. E in Lombardia ed Emilia c’erano invece punte di quasi 500 euro di trasferimenti statali pro capite. Quindi? Il welfare pubblico funzionava con questi soldi. Consentivano di gestire asili nido, scuole materne, le strutture del dopo di noi.
    Come fa il Sud a recuperare questo gap se passa la logica dell’autonomia differenziata? Colpirà il welfare, la salute delle persone, i servizi sociali, la scuola. Così si compie un delitto ai danni delle regioni del Sud».

    Roberto Occhiuto alla fine non ha opposto resistenza al ddl Calderoli

    «Un presidente calabrese che cerca di stravolgere la realtà non fa bene né a se stesso né alla regione. La classe dirigente locale è arroccata su stessa. Vive dei poteri logorati, che sono quelli regionali. I nostri ragazzi se ne vanno, i nostri ospedali chiudono, i nostri edifici scolastici non sono a norma».

    Sono finiti i tempi del Decalogo di Firmoza? Oppure lei vede similitudini con quello che accade oggi?

    «Quel decalogo era una provocazione. Ma a rileggerlo si intravede tutto quello che emerge con l’autonomia differenziata. Era anche una trovata mediatica per denunciare l’isolamento istituzionale e politico di paesi dell’Italia interna come Acquaformosa».

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    Il Decalogo di Firmoza
  • Consiglio dei ministri a Cutro il 9 marzo: la conferma di Palazzo Chigi

    Consiglio dei ministri a Cutro il 9 marzo: la conferma di Palazzo Chigi

    Si terrà tra tre giorni, giovedì 9 marzo, il Consiglio dei ministri a Steccato di Cutro. Che il summit dell’Esecutivo fosse prossimo era ormai cosa nota, dopo le dichiarazioni della presidente Giorgia Meloni a riguardo. La conferma ufficiale è arrivata, però, soltanto negli ultimi minuti, con una nota di Palazzo Chigi. Nessun dettaglio al momento su sede e orario dell’incontro. Né, tantomeno, sui temi all’ordine del giorno della riunione.

  • Cutro, una croce oltre ogni fede per ripartire

    Cutro, una croce oltre ogni fede per ripartire

    Le località che si affacciano sullo Jonio calabrese hanno caratteristiche spesso identiche. Per esempio le strade e le traverse interne portano i nomi delle capitali europee e il mare a tratti scompare tra “non finiti” e palazzine a tre piani. «Ma qui costruiscono come a Milano, però siamo sul mare», sussurra tra la meraviglia e l’indignazione una giornalista della Rai al suo cameraman.
    Steccato di Cutro una settimana dopo. Stracolma di gente. Accorrono dalle parrocchie vicine. Isola Capo Rizzuto, Cutro, Botricello per citarne solo alcune. È terra di confine anche questa, la provincia di Catanzaro termina per fare posto a quella di Crotone.

    Un popolo in cammino

    C’è un popolo in cammino dietro a una croce a Cutro. È una croce costruita sui resti del barcone. Li ha raccolti il parroco di Steccato di Cutro e affidati alle mani sapienti di un artigiano e artista locale, Maurizio Giglio. C’è silenzio. Un silenzio a tratti surreale, un ritorno in quei luoghi tragici come se fosse doveroso esserci per non dimenticare. Un atto che non è solo pietà e preghiera ma è indignazione per quello che è accaduto. La meditazione all’ultima stazione della Via Crucis esterna questo sentimento chiaramente e senza mezzi termini: «Mentre i governi discutono, chiusi nei palazzi del potere, il Sahara, le foreste balcaniche e i mari si riempiono di scheletri di persone che non hanno resistito alla fatica, alla fame, alla sete. Quanto dolore costano i nuovi esodi!».cutro-croce-2

    Non è l’unico monito lanciato, se ne rintracciano diversi nelle meditazioni lungo il percorso. Egoismo, indifferenza, maltrattamenti, sfruttamento le parole che più si rincorrono. Un campionario di brutalità e barbarie del nostro tempo. Sono atteggiamenti appesi a quella croce. Come a non voler dimenticare, come a voler fissare quanto accaduto. Ci sono i vescovi di Cosenza e Lamezia oltre a quello di Crotone. Con loro l’Imam della zona. C’è la preghiera finale sulla spiaggia di Steccato di Cutro. Una spiaggia affollata che si appresta ad accogliere una notte di luna piena. A largo le vedette dei Vigili del Fuoco e della Guardia Costiera continuano le ricerche. Zainetti, un paio di scarpe da tennis, una bottiglia d’acqua. Restano lì a memoria, ultimi resti della vita che si respirava su quel barcone.

    La croce di Cutro

    Sembra l’Africa questo pezzo di costa. Piccole dune raggiungono il mare. Più in là si intravede Isola Capo Rizzuto. La morfologia non lascia spazio all’interpretazione. Il Mediterraneo non può dividere quelle terre che prima erano unite, incastrate come un puzzle. Ci sono i pescatori di uomini, i primi ad aver prestato soccorso mischiati alla folla. Uno porta una piccola croce fatta con due canne incrociate. La gente lo ferma, i giornalisti pure. È generoso nel racconto, non è vanto il suo, non c’è protagonismo.cutro-via-crucis

    La spiaggia accoglie tutte e tutti in un silenzio, con lo sguardo verso l’orizzonte, alle terre altre, al di là del mare. Quelle terre sognate da generazioni di pescatori di Steccato. Lì ci fermiamo, attoniti a pensare e riflettere. Al centro una croce, simbolo oggi di credenti e non credenti. Ripartire dalla vergogna inchiodata a quei resti può sicuramente aiutarci. Ripartiamo da qui.

    Andrea Bevacqua
    Docente e attivista